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ORAZIO: l'aurea mediocritas
E' un altro grande della poesia latina, il cui ideale di vita e di comportamenti sociali potremmo intravedere in quella "aurea mediocritas", cioè quel vivere pacato, sereno e quasi anonimo in cui s'immerse e di cui fu gelosissimo, lontano dai clamori della celebrità che pure gli veniva profusa da amicizie importanti come quella di Mecenate e dello stesso Augusto; schivo da eccessive mondanità, apato dalla libertà e dalla pace della sua casa in camna.
Poeta aristocratico, Orazio non scrive per la folla, il vasto pubblico, non ricerca la popolarità come la intenderemmo oggi (milioni di dischi venduti, milioni di copie di un libro, un alto share di audience . ): scrive solo per pochi, per una élite che, per gusto e formazione, sappia capire e gustare le sottili finezze del suo stile. Poeta misurato, controllato nelle emozioni da cui non si fa mai coinvolgere o trascinare, paziente e puntiglioso nel continuo rivedere e correggere i propri lavori, fino a una stesura definitiva che aphi il suo gusto del bello e dell'eleganza di stile. E tuttavia - è questo il suo merito di grande poeta - la sua parola non appare artefatta o studiata, è facile, piana: quasi messa lì senza studio, con disinvolta trascuratezza.
Il potente collaboratore di Augusto, dopo un breve periodo di attesa e di prova, accolse Orazio nel suo circolo; una profonda amicizia, fondata su una affinità spirituale li unì per tutta la vita; con lui condivise gusti letterari e occupazioni di ogni giorno, scherzi e malinconie. Nel 37 accomnò con Virgilio il suo protettore in un viaggio a Brindisi, in seguito al quale fu stipulata un'effimera intesa tra Ottaviano e Antonio: il viaggio è descritto in una famosa satira. Da Mecenate il poeta ebbe in dono nel 33 una villa con un piccolo podere in Sabina, nella cui quiete spesso trovò rifugio, proteggendo la propria autonomia e le aspirazioni alla tranquillità, che lo indussero persino a rifiutare, pur con devota gratitudine, l'importante incarico di segretario personale offertogli da Augusto. Nel 17 Augusto gli conferì l'incarico di comporre l'inno a Diana e Apollo per i ludi saecolares di Roma (il Carmen saeculare). Nessun avvenimento degno di nota, a eccezione della pubblicazione delle sue varie raccolte poetiche, segnò il resto della sua vita, che si chiuse, come profeticamente aveva cantato il poeta stesso, il 27 novembre dell'8 a.C., due mesi dopo quella di Mecenate. Fu sepolto sull'Esquilino, vicino alla tomba del grande amico. Come Virgilio non si sposò e non ebbe li; era 'piccolo di statura, incanutito precocemente, abbronzato dal sole', scrisse di se stesso il poeta nella ventesima Epistola del I libro.
L'intesa con Augusto fu in contrasto con la tendenza epicureista di Orazio?
Il punto centrale nelle satire è la coscienza della fugacità della vita, che comporta la necessità di appropriarsi delle gioie del momento, senza perdersi nell'inutile gioco delle speranze, dei progetti o delle paure. Il saggio affronta gli eventi e sa accettarli: egli conta solo sul presente, che cerca di cogliere nella sua fugacità, e si comporta come se ogni giorno fosse l'ultimo. Il carpe diem non va quindi frainteso come un banale invito al godimento: in Orazio (come in Epicuro) l'invito al piacere non è separato dalla consapevolezza acuta che quel piacere stesso è momentaneo, come caduca è la vita dell'uomo. Saggezza, serenità, equilibrio, padronanza di sé, l'aurea mediocritas di chi sa fuggire tutti gli eccessi e adattarsi alla sorte, non sono un possesso sicuro, acquisito una volta per sempre. La saggezza si scontra così con la fugacità del tempo, la vecchiaia, la morte. Contro le angosce si può soltanto tentare di trasformare l'inquietudine e l'amarezza in accettazione del destino. In Orazio, la sfera privata aspira sempre a una validità generale, ad esprimere la condizione complessiva dell'uomo (a differenza della lirica neoterica).
La lirica civile di Orazio conosce la celebrazione, l'encomio, l'ufficialità, ma non è proanda in versi. Anzitutto perché, anche dove riflette con fedeltà i temi e le successive fasi dell'ideologia del principato, sa approfittare dell'ampiezza e della flessibilità di quella stessa ideologia per evitare chiusure categoriche e poi perché Orazio sa spesso farsi interprete delle incertezze e dei timori, dei sentimenti e delle aspirazioni profonde della società contemporanea. Dell'ideologia augustea, la lirica civile oraziana condivide l'impostazione moralistica: la crisi era derivata dalla decadenza dei costumi, dall'abbandono di quel coerente sistema di antichi valori etico-politici e [religione|religiosi]] che aveva fatto la grandezza di Roma, ma, nella poesia civile suona una nota meno vitale, irrigidita in qualche durezza stoica. Più facile è la conciliazione fra sfera 'pubblica' e sfera 'privata', quando la pubblica ricorrenza (una festa, una cerimonia, un evento lieto) può essere anche occasione di gioia privata.
Il IV quarto tratta dei sensi, della loro veridicità, di come possano essere turbati. I sensi, per Lucrezio, non fanno altro che captare dei flussi atomici particolari: sentiamo perché arrivano degli atomi alle nostre orecchie e vediamo perché ne arrivano altri ai nostri occhi. È dai sensi che hanno origine ogni forma di conoscenza e la ragione umana, non crollerebbe soltanto tutta la ragione, ma anche la vita stessa rovinerebbe di schianto, se tu non osassi fidare nei sensi. Dopo aver cercato di trasmette l'atarassia epicurea, Lucrezio si allontana dalla calma del suo maestro e descrive con profonda partecipazione quanto piú può turbare i sensi, le passioni amorose e carnali: "Brucia l'intima piaga (l'amore) a nutrirla e col tempo incarnisce, divampa nei giorni l'ardore, l'angoscia ti serra, se non confondi l'antico dolore con nuove ferite, e le recenti piaghe errabondo lenisca d'instabili amori, e ad altro tu possa rivolgere i moti dell'animo ". Infatti proprio nel momento del pieno possesso, fluttua in incerti ondeggiamenti l'ardore degli amanti che non sanno di cosa prima godere con gli occhi o con le mani. Premono stretta la creatura che desiderano, infliggono dolore al suo corpo, e spesso le mordono a sangue le tenere labbra, la inchiodano coi baci, perché il piacere non è puro, e vi sono oscuri impulsi che spingono a straziare l'oggetto, qualunque sia, da cui sorgono i germi di quella furia. Dopo aver condannato l'amore come sofferenza, furore, amarezza, rimorso, gelosia, cecità, miseria ed umiliazione, Lucrezio cambia tono: "È proprio lei che talvolta con l'onesto suo agire, l'equilibrio dei modi, la nitida eleganza della persona, ti rende consueta la gioia d'una vita comune. Nel tempo avvenire l'abitudine concilia l'amore; ciò che subisce colpi, per quanto lievi ma incessanti, a lungo andare cede, e infine vacilla". Appare diverso, teneramente malinconico, più paterno "E spesso alcuni trovarono fuori (di casa) una natura affine, così da poter adornare di prole la loro vecchiaia"
Seguendo gli insegnamenti del maestro Epicuro ('vivi al di fuori della sfera politica'), Lucrezio rifiuta la politica e vede in essa una fonte di affanni e di tormenti per l'anima umana. Il saggio deve, inoltre, abbandonare le inutili ricchezze e allontanarsi, poi, dalla vita politica, dedicandosi a coltivare lo studio della natura con gli amici più fidati, somma ricchezza della vita umana. Lucrezio sottolinea la vacuità e l'inutilità di ogni forma di potere: solo distanti dalla vita politica si può contemplare il mondo serenamente, e guardare tutto e tutti con occhio distaccato, così come è soave guardare dalla terraferma il mare in tempesta e gli uomini che vengono tormentati, compiacendosi dei mali da cui si è indenni.
Benché ci siano ottime giustificazioni, sia per le scelte stilistiche (la poesia disprezzata da Epicuro), sia per il la destinataria del proemio (Venere), Lucrezio fa emergere un palese contrasto interiore: il suo animo si dibatté continuamente tra imperturbabilità e furore. In primis, non ci sarebbe stato bisogno di giustificazioni per l'Inno a Epicuro se davvero il poeta fosse stato convinto della sua dottrina, e il fatto che la causa di tale giustificazione fosse Memmio ne è la conferma.
C'è poi una sorta di accanimento represso, che trasuda da numerosi passi del De rerum natura: è innegabile pertanto che l'animo Lucrezio, benché, si impegnasse a fondo di mantenere l'atarassia epicurea, non riuscì a mantenere la sua calma "olimpica" nemmeno in forma scritta.
Lo stile di vita e l'indole di Orazio, che trapelano in tutte le sue opere, dimostrano invece non una ricerca dell'epicureismo, bensì una spiccata tendenza personale ad abbracciare questi precetti. È anche che vero che Orazio non si professò mai come un seguace di Epicuro, quindi questa è la mia conclusione:
Il solo fatto di ricercare e di sforzarsi di seguire i precetti dell'Epicureismo è un segnale che non li si stanno seguendo: per questo motivo Orazio, a mio parere fu un epicureo molto più convinto (anche se inconsapevolmente e, anzi, proprio per questo) di Lucrezio.
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