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Sommario
Il codice Rocco prevedeva originariamente, sotto la dizione di 'abuso d'ufficio in casi non previsti dalla legge', la punibilità del pubblico ufficiale che, abusando dei poteri inerenti alle sue funzioni, commette, per recare ad altri un vantaggio o per procurargli un profitto, qualsiasi fatto non previsto come reato da una particolare disposizione di legge. La norma, rimasta in vigore fino al 1990, aveva dunque natura residuale, escludeva dalla condotta punibile le attività compiute dall'incaricato di pubblico servizio e non riguardava le ipotesi in cui il pubblico ufficiale avesse agito per un interesse personale: in tali casi infatti la condotta era sanzionata dall'art. 324 c.p. (interesse privato in atti d'ufficio). Il reato era connotato dal dolo specifico consistente nell'intenzione di arrecare ad altri un danno o un vantaggio, senza che si richiedesse che tale vantaggio o tale danno fossero ingiusti. Ciò comportava ad esempio che un Sindaco potesse essere ritenuto responsabile del reato per aver rilasciato una concessione edilizia in assenza dei prescritti pareri tecnici anche se quella concessione avrebbe potuto comunque essere rilasciata essendo il progetto conforme agli strumenti urbanistici, e si perseguì (fin quando la Cassazione non escluse la sussistenza del reato) un funzionario che aveva concesso dei sussidi a persone effettivamente bisognose di assistenza ma che non avevano presentato domanda come invece stabilito. La formulazione della norma era oggetto di aspre critiche per il suo contenuto estremamente indeterminato che in definitiva consentiva una forte ingerenza dell'autorità giudiziaria nelle scelte della P.A. Nel 1990 si arrivò, dopo un lungo e travagliato dibattito, alla organica modifica dei delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A. riformulando così anche l'art. 323 c.p. la cui rubrica divenne semplicemente 'Abuso d'ufficio'. La riforma del reato avrebbe dovuto mirare a dare concretezza alla condotta punita e a delineare più efficacemente le ipotesi rientranti nella previsione normativa, ma di fatto ciò non avvenne. Anzi, in definitiva, ci si ritrovò con una disposizione di portata per certi versi più ampia della precedente, tanto che da più parti si sottolineò come la riforma dell'abuso d'ufficio operata nel 1990 avesse fallito il suo scopo.
La riformulazione del reato comprendeva tra i soggetti attivi del reato anche gli incaricati di pubblico servizio, e sostituiva all'espressione 'abusando dei poteri inerenti alle sue funzioni' quella, assolutamente tautologica, di 'abusa del suo ufficio', concetto che innanzitutto 'comprende una gamma di comportamenti molto più vasta di quella compresa nella precedente previsione normativa, giacché riferisce la condotta dell'agente a qualsiasi abuso della pubblica funzione, e dunque a qualsiasi strumentalizzazione dell'ufficio, senza necessità che l'abuso si concretizzi nel porre in essere atti legislativi, giurisdizionali e amministrativi' (Sez. I, sent. n. 5340 del 26 maggio 1993 ). Inoltre il reato ricomprendeva 'tutti quei comportamenti che concretizzano un uso deviato o distorto dei poteri funzionali (o un cattivo esercizio dei compiti inerenti un pubblico servizio) e che di conseguenza mettono a repentaglio il buon funzionamento o l'imparzialità dell'azione amministrativa, nel senso che l'abuso deve sfociare in una strumentalizzazione oggettiva dell'ufficio tale da frustrare o alterare le finalità istituzionali perseguite.' (Sez. 5, sent. n. 7764 del 18 agosto 1993). L'abuso insomma veniva a conurarsi come un esercizio illegittimo del potere pubblico: commetteva abuso d'ufficio il pubblico funzionario che non rispettasse le regole che disciplinano il suo ufficio - regole che sono improntate ai principi di legalità, di buon andamento e imparzialità della P.A. - e che, conseguentemente, esercitasse il potere connesso alla funzione per un fine improprio rispetto alla funzione medesima, in modo da far conseguire all'atto uno scopo estraneo rispetto a quello previsto dalla legge .Sulla base dell'elaborazione giurisprudenziale si affermava ancora che, allorquando l'abuso si concretizzava in un atto amministrativo, gli eventuali vizi di violazione di legge o di incompetenza rilevati erano da considerare soltanto sintomi della condotta di abuso, che era sempre rappresentata dall'eccesso di potere, ovvero dall'esercizio del potere per finalità diverse da quelle funzionali all'esercizio del potere. Infatti il bene giuridico protetto era da identificare nel buon andamento e nell'imparzialità dell'azione amministrativa, e l'attentato a tale interesse non poteva che realizzarsi con le modalità di un abuso funzionale (Cass. Sez. 6, sent. n. 13321 dell'11 ottobre 1990).
Tale amplissima portata della norma doveva ricevere, nell'intenzione del legislatore dell'epoca, una significativa specificazione nell'elemento soggettivo del reato, costruito sempre come dolo specifico ma consistente nell'arrecare un danno o un vantaggio ingiusti. Si ritenne cioè di limitare interpretazioni estensive della norma introducendo il requisito dell'ingiustizia del danno o del vantaggio che avrebbe dovuto segnare il confine tra atto illegittimo e reato. Tale discrimine si rivelò però eccessivamente evanescente anche perché, come acutamente osservato (Catalano), 'la prova dell'elemento psicologico del reato, proprio perché si tratta di elemento interno al soggetto agente, è necessariamente affidata ad un processo induttivo'. Ed infatti benché in varie pronunce la Cassazione ebbe a precisare che il reato si conurava solo in presenza di una doppia ingiustizia, nel senso che l'ingiustizia del vantaggio o del danno doveva essere tale a prescindere dall'abuso perpetrato, nell'esperienza giurisprudenziale 'il dolo veniva per lo più desunto dalla illegittimità dell'atto amministrativo, il vantaggio o il danno venivano considerati ingiusti semplicemente perché derivavano da un atto adottato per finalità diverse da quelle che avrebbero dovuto ispirarlo' (Catalano). Così da un lato la giustizia penale veniva ad avere un sindacato amplissimo sull'azione della P.A. che finiva per sovrapporsi al controllo amministrativo, dall'altro la denuncia alla Procura diveniva un modo più rapido per impugnare un provvedimento rispetto al ricorso alla giustizia amministrativa. A ciò si aggiunga che l'elevato numero di episodi denunciati e la conseguente iscrizione nel registro degli indagati degli amministratori pubblici, spesso ampiamente pubblicizzata sugli organi di stampa, aveva prodotto quello che è stato definito 'il terrore della firma', paralizzando di fatto l'azione amministrativa o inducendo gli amministratori a richiedere - con grande dispendio di energie e grande dilazione dei tempi - pareri preventivi agli organi di controllo al solo fine di cautelarsi dalla temuta informazione di garanzia. Infine, alla considerazione che l'indeterminatezza della norma metteva gli amministratori in situazione di grande incertezza circa le condotte che potevano loro essere penalmente iscritte, faceva riscontro l'evidenza dell'altissimo numero di assoluzioni dispensate nei processi, derivanti soprattutto dalla difficoltà di dimostrare la sussistenza dell'elemento psicologico del reato.
La finalità che ha ispirato la nuova formulazione dell'abuso d'ufficio è stata indubbiamente quella di riportare la condotta punibile entro confini ben limitati, e di garantire ai pubblici amministratori che agissero nel rispetto delle norme la certezza di non incorrere in sanzioni penali. L'attuale formulazione sancisce la responsabilità penale per 'il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto'.È stato osservato che nella ridefinizione della norma si è puntato 'ad abbandonare qualsiasi riferimento, espresso o tacito, all'eccesso di potere limitando la condotta di abuso alla sola violazione di norme o alla omessa astensione nei casi prescritti' (Della Monica). Ed in effetti non vi è dubbio che gran parte del dibattito parlamentare è stato incentrato sulla scelta di escludere, dalle condotte che possono dar luogo all'ipotesi di reato, l'adozione di un atto viziato esclusivamente da eccesso di potere, i cui confini sono molto più labili rispetto agli altri vizi amministrativi. Dunque - secondo i primi commenti al nuovo reato - se il funzionario non ha violato una espressa e specifica previsione normativa, ovvero l'obbligo di astensione, non può conurarsi il reato. Anche in presenza di tale violazione poi il reato sussisterà solo ed unicamente nel caso in cui al provvedimento illegittimo sia conseguito un risultato ingiusto, ed infatti il reato è ora costruito come un reato di evento che si consuma soltanto in presenza della realizzazione del risultato perseguito. Ma va subito osservato che se il fine perseguito dal legislatore era appunto quello di escludere dalle condotte punibili gli atti viziati esclusivamente da eccesso di potere, la formulazione della norma è, a dir poco, equivoca: l'eccesso di potere è comunque un vizio di legittimità e, come tale, comporta necessariamente l'inosservanza di leggi. Ed infatti è indubitabile che tra le leggi che devono regolare la condotta dei pubblici funzionari debba ricomprendersi il precetto costituzionale dell'art. 97 Cost., che rappresenta anzi la costante linea di comportamento degli amministratori pubblici. In tale ottica tornerebbe ad avere autonoma rilevanza, allora, il vizio di eccesso di potere e potrebbe conurarsi l'abuso tutte le volte in cui il funzionario facesse un uso deviato o distorto dei poteri funzionali e dunque pregiudicasse l'imparzialità dell'azione amministrativa. A questa tesi si potrebbe obiettare che tale argomentazione non terrebbe conto della ratio sottesa all'intervento legislativo, ma va pure precisato che in sede di dibattito parlamentare vennero scartate altre scelte che avrebbero più esplicitamente estromesso il vizio di eccesso di potere dalle modalità esecutive della condotta. E così venne ad esempio scartata la proposta dell'on. Marotta di mantenere il testo approvato dalla Commissione Giustizia del Senato, che menzionava accanto alla violazione di legge anche l'incompetenza, per significare che inclusio unius est exclusio alterius, unica dizione che avrebbe chiarito l'intento di non voler più attribuire una rilevanza autonoma all'eccesso di potere.
È stato peraltro osservato (Della Monica) che 'il riferimento alla violazione di norme di leggi o di regolamento lascia intendere chiaramente che il presupposto necessario dell'abuso è costituito dall'inosservanza di previsioni specifiche durante il processo di formazione del provvedimento' e non dal generico obbligo di perseguire il buon andamento e l'imparzialità dell'azione amministrativa, e che 'il funzionario pubblico che agisce nel pieno rispetto delle regole deve avere la certezza di non incorrere in responsabilità penali'. Occorrerà naturalmente attendere l'evoluzione giurisprudenziale sull'argomento per definire se la formulazione letterale della norma consenta di aderire alle finalità avute di mira dal legislatore; resta comunque da osservare che se si aderirà a tale interpretazione molte condotte oggettivamente gravi verranno a conurare al più un illecito disciplinare. E così soprattutto in presenza di atti assolutamente discrezionali, quali ad esempio l'assegnazione di un appalto a trattativa privata, una volta riscontrata l'inesistenza di violazioni specifiche (in quanto ad esempio sussisteva il requisito di urgenza che ne legittimava l'adozione) non si conurerebbe alcuna ipotesi di reato a carico del funzionario che effettui l'aggiudicazione ad una ditta palesemente inidonea e magari gestita da persona a lui legata da vincoli di amicizia. Se questa sarà l'interpretazione della norma sfuggiranno quindi alla sanzione penale tutti quei comportamenti formalmente legittimi, ma adottati unicamente per interessi di natura privata e sovente altamente dannosi per l'amministrazione pubblica
È stato osservato (Chiavario, Padovani) che si è così creato un vuoto di tutela della collettività di fronte a comportamenti anche altamente scorretti e si è sottolineato (Catalano) che sarebbe stato auspicabile almeno accomnare la modifica dell'abuso d'ufficio, ad una effettiva riforma dei criteri e dei sistemi di controllo dell'attività amministrativa.
Già sotto il vigore della precedente disposizione la Cassazione (Sez. VI, sent. n. 2733 del 4 marzo 1994 ) aveva più volte affermato che 'la condotta di abuso d'ufficio risulta compatibile con un comportamento meramente omissivo del pubblico ufficiale o dell'incaricato di un pubblico servizio.'. Ed anche nella nuova formulazione non vi è dubbio che la condotta prevista dal reato può essere attuata anche mediante omissione, sempreché l'atto che avrebbe dovuto essere emanato o il comportamento che avrebbe dovuto essere tenuto siano dovuti, cosicché l'omissione o il ritardo abbiano comportato la violazione di una disposizione di legge.
Del resto la violazione dell'obbligo di astensione, esplicitamente previsto dal nuovo testo, rappresenta una modalità della condotta mediante omissione. Tanto premesso, va evidenziato il rapporto tra l'abuso d'ufficio realizzatosi attraverso l'inerzia del pubblico funzionario in relazione ad un atto dovuto, e il delitto previsto dall'art. 328 c.p. Sembra potersi affermare che quando l'omissione o il rifiuto di comportamenti dovuti sono strumentalizzati dal funzionario per un fine privato e da essi deriva un danno o un vantaggio ingiusto, si conurerà il delitto di abuso in atti d'ufficio (sempreché si tratti di vantaggio patrimoniale). Se invece l'omissione è fine a se stessa, o se è finalizzata a procurare a terzi un vantaggio non patrimoniale, sarà conurabile il delitto di cui all'art. 328 c.p. Va ancora sottolineato che, come già enunciato sotto il vigore della precedente disciplina, anche le attività materiali possono essere forme di manifestazione della condotta di abuso. Ed infatti 'la nozione di atti di ufficio è più ampia di quella di provvedimento amministrativo, poiché comprende in sé, a prescindere dalla forma, qualunque specie di atto posto in essere dal pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni, sia esso interno o esterno, decisionale o anche meramente consultivo, preparatorio e non vincolante, fino alle semplici operazioni, alle condotte materiali, alle attività tecniche' (Cass., Sez. 6, sent. n. 10896 del 12 novembre 1992). Anche nell'attuale formulazione normativa, poiché l'abuso non deve necessariamente estrinsecarsi in un tipico atto amministrativo, né avere contenuto necessariamente decisorio, esso può consistere in qualsiasi illegittima attività del pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni dalla quale derivi un ingiusto danno o vantaggio patrimoniale. La nuova formulazione ha innovato sul punto solo in quanto ha legato l'attività abusiva allo svolgimento delle funzioni o del servizio. Infine l'abuso è conurabile - ora come pure nella precedente formulazione - anche in relazione ad attività soggette al diritto privato nel cui svolgimento il pubblico ufficiale persegue comunque finalità pubbliche che, secondo la legge, possono essere realizzate più agevolmente mediante l'impiego di strumenti propri del diritto privato (Cass., Sez. 6, sent. n. 5086 del 7 maggio1991).
Si è già detto che la riforma è stata ispirata alla necessità di limitare il potere di ingerenza del giudice penale alle sole ipotesi di illiceità collegate a specifiche violazioni di legge e di regolamenti. La violazione di legge, che è dunque elemento della condotta del reato, è la violazione delle disposizioni che regolano l'esercizio dei pubblici poteri.Si richiamano le osservazioni sopra formulate circa la considerazione che anche l'eccesso di potere non rappresenta altro che una violazione di norme giuridiche. Comunque sia, va sottolineato che le prime interpretazioni della norma accolgono le finalità perseguite dal Parlamento ancorando la sussistenza del reato a precisi vizi di legittimità, e cioè:
alla violazione di leggi o regolamenti;
all'incompetenza che è un'ipotesi di violazione di legge;
alla violazione dell'obbligo di astensione.
Rimane
comunque la difficoltà, per l'interprete, di individuare tutte le
disposizioni vincolanti per
La violazione dell'obbligo di astenersi non è altro che una violazione di legge: ed infatti è stato osservato (Russo) come l'espressione 'omettendo di astenersi' debba essere intesa come 'omettendo di osservare l'obbligo di astenersi' non essendovi posto per alcuna valutazione discrezionale sul se astenersi o meno, in conformità del resto ai criteri che hanno ispirato questa riforma la cui finalità è stata quella di dare certezza al pubblico funzionario di non incorrere in responsabilità penali nel momento in cui presta osservanza alla legge. L'obbligo di astensione che può fondare la responsabilità per abuso d'ufficio deve essere ricercato dunque nella legge, e così possono richiamarsi, a titolo di esempio, l'art. 279 del R.D. 383/1934 per gli amministratori comunali e provinciali che devono astenersi dal prendere parte alle deliberazioni riguardanti liti o contabilità loro proprie verso i corpi cui appartengono; come pure liti o contabilità dei loro parenti o affini sino al quarto grado, o del coniuge, o di conferire impieghi ai medesimi. Il divieto di cui sopra importa anche l'obbligo di allontanarsi dalla sala delle adunanze durante la trattazione di detti affari. Non dovrebbe avere alcuna considerazione il possibile conflitto di interessi che potrà fondare al più una responsabilità disciplinare ma non certo penale. Nell'attuale impostazione legislativa la mancata astensione, costituirà abuso solo allorquando il soggetto abbia consapevolmente contravvenuto a tale obbligo ed abbia così intenzionalmente procurato, attraverso l'attività dalla quale avrebbe dovuto astenersi, un danno o un vantaggio patrimoniale ingiusto. Appare anche evidente che la sussistenza del reato può conurarsi anche in presenza dell'omessa astensione nell'ambito di un organismo collegiale giacché 'anche la partecipazione ad un atto collegiale è esercizio dell'attività del pubblico ufficiale (Cass. Sez. 6, sent. n. 1467 dell'1 febbraio 1990) e anche se l'astensione era stata formalmente esercitata ma in unione ad concreta ingerenza nell'adozione del provvedimento, sempreché dallo stesso derivi un danno o un vantaggio patrimoniale ingiusto. Occorre infine rammentare che nel corso dei lavori preparatori è stato sottolineato come nei provvedimenti a carattere generale (si pensi all'adozione di un piano regolatore), poiché i soggetti interessati sono moltissimi, sussisterebbe spessissimo un dovere di astensione essendo ipotizzabile per quasi tutti i consiglieri un interesse proprio o di un prossimo congiunto alla formulazione in un modo o in un altro del provvedimento. Peraltro non occorre dimenticare che la mancata astensione deve essere connotata, per conurare il reato, dal dolo intenzionale (v. oltre), cosicché sussisterà abuso solo se l'amministratore omette intenzionalmente di astenersi per arrecare a se o ad un congiunto un vantaggio patrimoniale ingiusto.Del resto la giurisprudenza amministrativa ha da tempo sottolineato che: 'Il dovere di astensione grava sul pubblico amministratore il quale debba prendere parte a deliberazioni concernenti propri parenti, riguarda i provvedimenti suscettibili di incidere in via immediata sulle sfere soggettive dei destinatari, non anche gli atti a contenuto generale o normativo che siano presupposti da quelli' (Consiglio di Stato, Sez. VI, sent. n. 385 del 23 maggio 1986).
È largamente riconosciuto che l'incompetenza non rappresenta altro che una violazione di legge, ed in particolare delle norme che disciplinano la ripartizione dei compiti e delle funzioni tra i vari organi dell'Amministrazione. In sostanza allorquando un funzionario pubblico adotta un provvedimento che, secondo i criteri di ripartizione della competenza, avrebbe dovuto essere adottato da un funzionario appartenente ad un ufficio diverso (ad es. in tema di contratti in quanto il valore eccede i limiti della sua delega), se lo sconfinamento è stato intenzionale ed è avvenuto al fine di arrecare un vantaggio o un danno ingiusto, si conura l'ipotesi di reato. La giurisprudenza ha costantemente affermato che solo l'incompetenza relativa può essere valutata penalmente, essendo il provvedimento emesso annullabile e dunque produttivo di effetti. Al contrario l'incompetenza assoluta (provvedimento adottato in una materia totalmente estranea alle attribuzioni del funzionario) comporta la nullità dell'atto che è dunque inidoneo a procurare un vantaggio o un danno (Cass., sent del 10 marzo 1989, Papale) cosicché il reato non può conurarsi per inidoneità della condotta. Tale argomentazione è tanto più valida in relazione alla nuova formulazione del reato, ormai costruito come reato di evento, cosicché perché il reato sia consumato deve effettivamente verificarsi il danno o il vantaggio patrimoniale ingiusto, mentre l'inidoneità della condotta impedisce anche la conurazione del tentativo.
Si è già detto che la riforma ha costruito il reato di abuso d'ufficio in reato di evento. Il raggiungimento di un danno o di un vantaggio ingiusto non è più una finalità che l'agente deve perseguire perché sussista il reato (dolo specifico) ma rappresenta l'evento della condotta, ovvero la conseguenza che deve derivare dall'atto o dal comportamento adottato perché il reato possa definirsi consumato. Da ciò deriva che il dolo del delitto in questione non è più specifico (nel quale, secondo la definizione di Antolisei 'si esige che il soggetto abbia agito per un fine particolare la cui realizzazione non è necessaria per l'esistenza del reato e cioè per un fine che sta al di là e quindi fuori dal fatto che costituisce il reato') bensì generico in quanto è sufficiente che sia voluto il fatto descritto dalla norma incriminatrice. Occorrerà dunque 'riscontrare la coscienza e volontà di arrecare un ingiusto vantaggio patrimoniale o un ingiusto danno attraverso lo svolgimento illegittimo delle proprie funzioni o del servizio' (Ciccia). Va però sottolineato come la nuova formulazione dell'abuso d'ufficio precisa che l'evento - ovvero il danno o il vantaggio ingiusto - deve essere procurato intenzionalmente all'agente. L'introduzione di tale locuzione risponde ad una precisa esigenza, cioè quella di escludere dalla fattispecie il cosiddetto dolo eventuale, ovvero sia di escludere i casi in cui 'l'agente non ha intenzionalmente voluto l'evento ma lo ha accettato come conseguenza eventuale della propria condotta' (Mantovani). Conseguentemente l'adozione di un provvedimento in violazione di esplicite disposizioni di legge potrà conurare il delitto di cui all'art. 323 c.p. solo se il funzionario abbia, in tal modo voluto procurare un danno o un vantaggio ingiusto. Se invece il funzionario si è solo prospettato che dall'adozione di tale provvedimento possa derivare, come conseguenza eventuale della condotta, un risultato di danno o di vantaggio ingiusto, ma non ha comunque agito per realizzare tale scopo, il reato non sussiste.È stato osservato (Macrillò) come l'introduzione del dolo intenzionale potrà esplicare effetti concreti in tema di responsabilità penale conseguente all'adozione di deliberazioni da parte di organi collegiali. In passato sono state infatti elevate incriminazioni, ad esempio, a tutti i componenti di un Consiglio Comunale sul presupposto che tutti avevano comunque votato ed adottato, con coscienza e volontà, la delibera concretizzante un uso strumentale del potere. Si è dunque osservato che 'l'intenzionalità oggi richiesta dalla norma incriminatrice esprime la necessità che la punizione per il fatto di cui all'art. 323 c.p. derivi da un acclarato e provato grado di partecipazione dell'agente al reato, commisurabile sia al quantum di volontà del fatto, sia al quantum di coscienza dello stesso'(Macrillò).
Qualsiasi atto adottato dal funzionario contrario a norme giuridiche (violazione di legge o mancata astensione) produce un risultato illegittimo. Tuttavia all'illegittimità dell'atto consegue anche l'illiceità penale a carico del soggetto agente solo quando il risultato causato è anche ingiusto. Si afferma così la distinzione tra illegittimità e illiceità penale: 'accertata la violazione di legge sarà proprio l'esatta considerazione del risultato raggiunto a sanzionare le modalità di intervento sanzionatorio, in sede penale, amministrativa o disciplinare' (Della Monica). Dunque 'se il risultato della condotta, sia pure adottata in contrasto con disposizioni di legge, è oggettivamente lecito, la violazione di legge compiuta dal pubblico ufficiale non rileverà penalmente, pur potendo l'atto rivestire i caratteri dell'illegittimità ed essere annullato nelle sedi competenti' (Scarpetta). Nella precedente formulazione della norma, ove il danno e il vantaggio ingiusto rappresentavano le connotazioni del dolo specifico, il vantaggio poteva essere patrimoniale o non patrimoniale, conurandosi due autonome ipotesi di reato (cosiddetta condotta affaristica e cosiddetta condotta favoritrice) sanzionate con pene ben diverse. Nell'attuale formulazione non conura più reato la condotta illegittima che cagioni un ingiusto vantaggio non patrimoniale. Pertanto se dalla condotta o dall'atto illegittimi deriva un evento di danno, la sanzione penale scatta sia che si tratti di un danno economico sia che se si tratti di un danno non patrimoniale; se invece dall'attività illegittima deriva, per il funzionario o per altri, un vantaggio ingiusto, il reato si conurerà solo se tale vantaggio ha un contenuto patrimoniale. La scelta di escludere dalla sanzione penale 'l'abuso non patrimoniale' discende, come specificato nel corso dell'acceso dibattito parlamentare sul punto, dalla volontà di separare nettamente, e disciplinare in modo difforme, gli abusi commessi per opprimere i cittadini (che cagionano cioè un danno ingiusto) e che conurano comunque reato, da quelli commessi al fine di favorirli (che cagionano cioè un vantaggio ingiusto), ritenuti meritevoli di una tutela attenuata. Tale conclusione non appare condivisibile se si pensa ad un magistrato che disponga arbitrariamente l'archiviazione di un procedimento a carico di un suo conoscente procurandogli così un vantaggio ingiusto: la condotta del magistrato non conura il delitto di cui all'art. 323 c.p. non essendo stato procurato al terzo un vantaggio patrimoniale; non conura il delitto di cui all'art.319-bis c.p. non essendosi il magistrato fatto dare alcun corrispettivo ma avendo agito per amicizia. L'unica forma di tutela riconosciuta dall'ordinamento, pur in presenza di un fatto così grave, è quella della responsabilità disciplinare. Dovendo ora definire il vantaggio patrimoniale - che può ricadere sia sul pubblico funzionario che su terzi - basta riportarsi alle precedenti indicazioni della Cassazione a proposito della condotta affaristica, e ribadire dunque che si ha vantaggio patrimoniale tutte le volte in cui lo stesso è valutabile in termini economici: deriverà perciò indubbiamente un ingiusto vantaggio patrimoniale da un concorso pubblico 'truccato', da un'assunzione arbitraria, dal riconoscimento dell'indennità di accomnamento a chi non presenta effettive invalidità, dall'assegnazione di un appartamento a canone calmierato a chi non ha i requisiti soggettivi richiesti e così via.Non cagionerà invece alcun vantaggio patrimoniale, e non commetterà perciò reato, il professore che favorisca un candidato all'esame di maturità o l'agente penitenziario che recapiti al detenuto lettere o pacchi al di fuori dei casi previsti dall'ordinamento penitenziario. Il danno ingiusto - che riguarda unicamente i terzi - consiste invece nel verificarsi di una situazione giuridica meno favorevole per il cittadino di quella che sarebbe scaturita da una condotta legittima del funzionario. Infine è stato osservato (Cutrupi) che l'aggravante prevista dall'ultimo comma - per il caso in cui il danno o il vantaggio procurato siano di rilevante gravità - debba comunque riferirsi all'aspetto patrimoniale e dunque, per quanto riguarda l'evento di danno, vada contestata solo in presenza di un danno patrimoniale di rilevante gravità. Ciò in quanto, in relazione al danno non patrimoniale, non si ravviserebbero parametri oggettivi di giudizio.
Si è già più volte ricordato che l'abuso d'ufficio è, nella nuova formulazione, un reato di evento e non più un reato di mera condotta. Evidentemente ne deriva che la consumazione del reato si verifica solo quando viene realizzato l'evento, e dunque quando il funzionario o altre persone ottengono l'ingiusto vantaggio patrimoniale o allorquando a qualcuno venga arrecato danno ingiusto. Peraltro è stato osservato (Della Monica) come la consumazione del reato non sia legata all'effettivo concretizzarsi del beneficio in termini economici ma semplicemente al prodursi di effetti favorevoli nella sfera dell'interessato. Pertanto nel caso in cui per giungere all'effettivo conseguimento del vantaggio sia necessaria un'attività da parte del beneficiario, e costui non la ponga in essere, il reato sarà ugualmente consumato. E così se ad un appalto truccato, concluso con l'aggiudicazione ad una determinata ditta, non segua poi l'esecuzione dei lavori, il reato sarà ugualmente consumato nel momento in cui si producono effetti favorevoli nella sfera giuridica dell'interessato (aggiudicazione dell'appalto) indipendentemente dalla effettiva concretizzazione in termini economici di tali effetti favorevoli, e dunque anche se poi la ditta rinunci ad eseguire i lavori e non percepisca perciò alcun compenso. In tale evenienza infatti il pubblico ufficiale ha comunque 'procurato' un vantaggio all'interessato, anche se poi costui non lo ha effettivamente 'conseguito' (Della Monica). Problema già posto sotto il vigore del precedente testo è quello della conurabilità del concorso nel reato per il terzo destinatario del vantaggio. Ove infatti il funzionario attui la sua illecita condotta non per trarne un utile personale, ma per favorire altri (ad es. un parente, un comno di partito), resta da stabilire se anche tale terzo debba essere incriminato nel reato proprio. La giurisprudenza, in conformità con i principi generali che regolano l'art. 110 c.p., ha ribadito che la semplice consapevolezza di ricevere un vantaggio ingiusto dall'attività illegittima non è sufficiente a conurare il concorso, che richiede - da parte dell'extraneus - almeno una condotta di istigazione o di agevolazione del pubblico ufficiale nella commissione del reato. Riguardo al concorso di persone nel reato deve anche osservarsi che, poiché l'abuso può essere integrato sia dall'adozione provvedimenti sia attraverso attività materiali che comunque costituiscono manifestazioni dell'attività dell'ufficio, il reato può essere commesso da più funzionari in concorso tra loro: l'uno che esercita ad esempio pressioni sui componenti dell'organo collegiale, l'altro che è così messo in condizioni di adottare il provvedimento formale (in questo senso Cass., Sez. 6, sent. n. 2797 del 16 marzo 1995). Dalla conurazione dell'abuso d'ufficio come reato di evento consegue la conurabilità del tentativo (prima negata in relazione ad un reato di mera condotta) allorquando la condotta abusiva non riesca a raggiungere lo scopo per circostanze indipendenti dalla volontà dell'agente. È stato osservato (Della Monica) come 'il tentativo di abuso potrebbe rappresentare lo strumento giuridico per arretrare la soglia di punibilità ben oltre i limiti fissati dalla norma previgente''essendo la responsabilità subordinata ad una valutazione prognostica sulla commissione del delitto'. In realtà allorquando la condotta illecita è stata portata a compimento e solo l'evento non si realizza per cause indipendenti dalla volontà dell'agente, i confini del tentativo sono abbastanza nitidi : l'ipotesi è quella del provvedimento illegittimo tempestivamente annullato dal superiore gerarchico (tentativo compiuto). Quando invece la condotta illegittima sia stata realizzata solo in parte e sia stata poi interrotta per cause indipendenti dalla volontà del pubblico ufficiale (tentativo incompiuto) 'il tentativo è conurabile solo se la condotta si conuri come un iter criminis frazionabile, così da potersi concepire l'interruzione dell'azione esecutiva, e solo se gli atti fino a quel momento compiuti integrino già una violazione di legge (non siano cioè meri atti preparatori) e siano univocamente diretti verso un fine illecito'(Della Monica).
Non vi è dubbio che tra la precedente e l'attuale formulazione vi è un nesso di continuità che non comporta una generalizzata abrogatio criminis bensì una successione di norme incriminatrici. Per quanto riguarda i processi in corso occorrerà dunque valutare, caso per caso, se nella condotta ascritta all'imputato siano presenti gli elementi del reato nella nuova formulazione e se siano stati enunciati chiaramente nell'imputazione. Da ciò consegue che se l'imputazione riguarda l'adozione di un atto illegittimo ma per arrecare un vantaggio non patrimoniale il reato non sarà più conurabile, come pure saremo fuori dalla previsione normativa (secondo le finalità della legge) se l'atto o il comportamento adottato non costituiscano inosservanza di una disposizione di legge, ma siano illegittimi in quanto adottati per una finalità diversa da quella prevista. Nel caso poi in cui l'atto illegittimo per violazione di legge non abbia in concreto procurato un vantaggio o un danno illecito, occorrerà verificare se sussistono almeno gli estremi per conurare il tentativo. Le sanzioni stabilite per il delitto sono state complessivamente ridimensionate: mentre infatti nella precedente formulazione era prevista la pena detentiva fino a due anni per l'abuso non patrimoniale (ora non più punibile se si tratta di una condotta 'favoritrice'), e da due a cinque anni per l'abuso patrimoniale, ora la pena va indistintamente da 6 mesi a tre anni. Occorrerà quindi individuare, nel caso concreto, la norma più favorevole da applicare ai sensi dell'art. 2, terzo comma, c.p. Dalle nuove sanzioni consegue: l'impossibilità di applicare, anche in presenza dell'aggravante, la custodia cautelare (prima consentita per l'abuso patrimoniale); l'impossibilità di procedere all'arresto in flagranza di reato (prima consentito per l'abuso patrimoniale); ma soprattutto termini di prescrizione molto più rapidi (sette anni e mezzo a fronte dei quindici anni prima previsti per l'abuso patrimoniale) conseguenza quest'ultima che rischia di rappresentare - considerato che sovente la notitia criminis perviene già a distanza di un notevole lasso di tempo dal fatto, e considerata la complessità dell'indagine nonché i tempi di svolgimento di tale tipo di dibattimento - un limite insufficiente per la definizione del processo.
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