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CESSAZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO

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CESSAZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO

Casi di estinzione del rapporto di lavoro

Le fattispecie estintive del rapporto di lavoro possono essere individuate:

  • nel recesso unilaterale del datore di lavoro (licenziamento), che rappresenta l'ipotesi più rilevante: di esso si dirà nei paragrafi seguenti;
  • nel recesso unilaterale del lavoratore (dimissioni), che si concreta in una dichiarazione di volontà, unilaterale, recettizia e a forma libera (salvo che sull'ultimo punto i contratti collettivi dispongano diversamente);
  • nel mutuo consenso, che ricorre quando le parti del rapporto siano concordi nel voler porre fine allo stesso;
  • nella scadenza del termine, che costituisce fattispecie estintiva per i soli rapporti a tempo determinato;
  • nella morte del lavoratore, che conduce all'estinzione del rapporto in ragione del carattere personale ed infungibile della prestazione lavorativa;
  • nelle altre ipotesi legislativamente previste.

Non costituiscono, al contrario, causa di estinzione del rapporto il fallimento e la liquidazione coatta amministrativa dell'impresa (art. 2119, ult. co., c.c.).



Il potere del datore di licenziare ed i suoi limiti sostanziali

Il potere del datore di licenziare il lavoratore trova la sua regolamentazione in una serie di fonti succedutesi nel tempo - Codice Civile, L. 604/1966, Statuto dei lavoratori, L. 108/1990, altre leggi speciali che lo assoggettano:

  • sia al limite sostanziale della sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo;
  • sia a limiti procedurali afferenti alla forma del negozio con cui detto potere deve essere esercitato.

Con riguardo al limite sostanziale, il primo problema che si pone è quello del significato da attribuire al concetto di giusta causa ed a quello di giustificato motivo, tenuto conto anche del fatto che, in relazione a quest'ultimo, dottrina e giurisprudenza distinguono il giustificato motivo soggettivo da quello oggettivo.

La giusta causa

La nozione di giusta causa si ricava anzitutto dall'art. 2119, c.c., che contempla la possibilità per ciascuna delle parti di recedere dal contratto prima della scadenza del termine se il contratto è a tempo determinato, ovvero senza preavviso se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, neanche provvisoria, del rapporto. Anteriormente all'emanazione della L. 15 luglio 1966, n. 604, recante 'Norme sui licenziamenti individuali', la dottrina e la giurisprudenza ritenevano giusta causa di licenziamento, oltre all'inadempimento del lavoratore, anche ogni altro fatto idoneo a menomare il rapporto di fiducia personale, considerato connotato essenziale del rapporto di lavoro. Tale orientamento muta dopo l'entrata in vigore della L. 604/1966, alla luce della quale si attribuisce alla giusta causa un significato più ristretto, riportando il concetto di fiducia entro i limiti oggettivi dell'affidamento del creditore nell'esattezza dei successivi adempimenti, generalmente rilevante in tutti i rapporti di durata. In tal modo, il concetto di giusta causa trova 'una puntuale definizione nella stessa nozione di giustificato motivo soggettivo, dal quale si differenzierebbe solo per la particolare gravità dell'inadempimento' (GHERA), e cioè solo da un punto di vista quantitativo, non anche qualitativo. Il comportamento del lavoratore deve essere valutato caso per caso dal giudice, anche quando - come di solito accade - esso sia espressamente previsto dai contratti collettivi come giusta causa di licenziamento. In altri termini, il giudice è chiamato a verificare la conformità delle disposizioni contrattuali alla nozione legale di giusta causa, e, dunque, in concreto, a verificare se le mancanze addebitate al prestatore siano così gravi da imporre la risoluzione del rapporto anziché l'irrogazione di sanzioni disciplinari.

Il giustificato motivo soggettivo

Il giustificato motivo soggettivo è analogo alla giusta causa, dalla quale si distingue, come si è detto, solo da un punto di vista quantitativo, per la minore gravità dell'inadempimento. Ai sensi dell'art. 3, L. 604/1966, l'ipotesi si verifica quando il lavoratore incorre in un 'notevole inadempimento degli obblighi contrattuali'; l'inadempimento è notevole, per l'art. 1455, c.c., quando è di non scarsa importanza, avuto riguardo all'interesse delle parti. Così come nell'ipotesi del licenziamento per giusta causa, la dottrina e la giurisprudenza ritengono non vincolanti per il giudice le tipizzazioni delle condotte legittimanti il licenziamento per giustificato motivo soggettivo contenute nei contratti collettivi.

Il giustificato motivo oggettivo

L'art. 3, L. 604/1966, contempla anche l'ipotesi di giustificato motivo oggettivo che si realizza in presenza di ragioni inerenti 'all'attività produttiva, alla organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa'. Tali ragioni - da intendersi come esigenze 'effettivamente rispondenti a criteri obiettivi di ordinato svolgimento dell'attività produttiva, desumibili da regole di comune esperienza' (GHERA) - prevalgono sull'interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro. Non esiste uniformità di vedute in dottrina ed in giurisprudenza in ordine alla sindacabilità o meno delle scelte imprenditoriali che conducono al licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Da un lato, infatti, vi è chi, richiamandosi all'art. 41, Cost., sostiene l'insindacabilità nel merito da parte del giudice di tali scelte, dal lato opposto vi è chi afferma la necessità di un controllo di merito circa la loro razionalità. In ogni caso, la giurisprudenza prevalente ritiene legittimo solo il licenziamento che costituisce per il datore l'extrema ratio: quello che interviene, cioè, in mancanza di ogni reale possibilità di recupero del lavoratore nell'organizzazione produttiva. Ancora la giurisprudenza, infine, riconduce nell'ambito del giustificato motivo oggettivo alcuni casi di licenziamento che, benché collegati alla persona del lavoratore, non possono rientrare nell'ipotesi del licenziamento per giustificato motivo soggettivo perché non integrano un inadempimento: così è a dire, ad esempio, per il licenziamento per superamento del periodo di comporto, giustificato dal perdurare dell'impossibilità temporanea del lavoratore di eseguire la prestazione lavorativa.

I limiti procedurali posti al potere di licenziamento: la forma del licenziamento

Oltre ai limiti sostanziali di cui si è appena detto, il potere di licenziamento del datore incontra anche limiti procedurali, attinenti alla forma del licenziamento, che deve essere, infatti, comunicato al lavoratore per iscritto. Sempre per iscritto, contestualmente ovvero entro 8 giorni dalla richiesta del prestatore, deve essere comunicata la motivazione, che, una volta enunciata, è immodificabile. La giurisprudenza richiede anche l'immediatezza e la tempestività dell'adozione e, quindi, della comunicazione del licenziamento intimato per giusta causa; sembra logico ritenere che tale requisito, in ossequio ai princìpi generali in tema di risoluzione per inadempimento, per i quali la gravità di quest'ultimo va valutata alla stregua dell'interesse del creditore, debba valere anche in presenza di un giustificato motivo soggettivo di licenziamento. L'onere della prova della sussistenza del giustificato motivo o della giusta causa grava sul datore.

L'impugnazione del licenziamento

L'impugnazione del licenziamento, da parte del lavoratore, deve avvenire, a pena di decadenza, entro 60 giorni dalla sua comunicazione o da quella dei motivi, se non contestuale. La previsione di un termine di decadenza induce a ritenere che il legislatore non si riferisca alle ipotesi in cui il licenziamento è espressamente dichiarato dalla legge nullo od inefficace. L'impugnazione può anche essere stragiudiziale, ossia effettuata per mezzo di qualsiasi atto scritto idoneo a rendere nota, anche attraverso l'organizzazione sindacale, la volontà del lavoratore di impugnare il licenziamento. In tal caso, il prestatore può ricorrere al pretore dopo aver esperito la procedura di conciliazione prevista dagli accordi sindacali o dai contratti collettivi ovvero quella disciplinata dall'art. 7, L. 108/1990 e dagli artt. 410 - 412, c.p.c.. In proposito, va rilevato che una delle principali innovazioni introdotte dalla L. 108/1990 consiste nell'obbligo, imposto ad entrambe le parti del rapporto, di esperire il tentativo di conciliazione stragiudiziale se il licenziamento è intimato in difetto di giusta causa o giustificato motivo da datore soggetto alle regole della tutela obbligatoria; la comunicazione della richiesta di conciliazione equivale ad impugnazione del licenziamento ed impedisce la decadenza. In caso di esito positivo, tanto della conciliazione obbligatoria quanto di quella facoltativa, il verbale è reso esecutivo con decreto del pretore; in caso di esito negativo, le parti possono definire la controversia mediante arbitrato irrituale.

Il D.Lgs. 387/98, disciplinante la riforma del pubblico impiego, ha introdotto anche norme di modifica al processo del lavoro: attualmente l'art. 410 c.p.c. prevede il tentativo obbligatorio di conciliazione che deve essere promosso, anche tramite associazione sindacale, da chi intenda impugnare giudizialmente l'atto di licenziamento. L'esperimento del tentativo di conciliazione costituisce condizione di procedibilità della domanda volta all'impugnazione giudiziale del licenziamento.

Le sanzioni contro il licenziamento illegittimo

Il licenziamento illegittimo perché non sorretto da giusta causa o da giustificato motivo è annullabile; quello illegittimo per ragioni formali (cioè intimato senza il rispetto della forma scritta, senza l'indicazione dei motivi ovvero senza il rispetto delle formalità previste dall'art. 2, L. 604/1966) è inefficace; infine, quello 'discriminatorio', quello delle lavoratrici madri e quello intimato per causa di matrimonio sono nulli. Ai fini dell'individuazione delle conseguenze della declaratoria di illegittimità del licenziamento, occorre distinguere:

  • la c.d. tutela reale, consistente nella condanna del datore alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno da questi subito, pari ad un'indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto e comunque non inferiore a 5 mensilità; il lavoratore ha, comunque, facoltà di risolvere il rapporto e pretendere, in alternativa alla reintegrazione effettiva, la corresponsione di un'indennità pari a 15 mensilità da sommarsi all'indennità risarcitoria;
  • la c.d. tutela obbligatoria, che consiste nella condanna del datore alla riassunzione del lavoratore entro 3 giorni ovvero al amento di una indennità determinata dal giudice tra un minimo ed un massimo legislativamente previsti; la scelta tra le due soluzioni spetta allo stesso datore.

Ora per stabilire se la tutela accordata al prestatore sia quella reale oppure quella obbligatoria occorre far riferimento alle dimensioni dell'impresa, sotto il profilo del numero dei dipendenti, tenendo presente che nel computo vanno compresi anche i lavoratori a tempo indeterminato parziale in proporzione all'orario effettivamente svolto ed i lavoratori assunti con contratto di formazione e lavoro, mentre non vanno computati il coniuge ed i parenti entro il 2deg. grado del datore. Dunque, l'art. 18, St. lav., modificato dall'art. 1, L. 108/1990, che disciplina la c.d. tutela reale, stabilisce che essa si applica nei confronti dei datori, imprenditori e non imprenditori, che occupano più di 15 dipendenti in ciascuna unità produttiva o ufficio in cui svolge la propria attività il lavoratore licenziato o più di 5 se si tratta di impresa agricola o più di 15 (o 5 se impresa agricola) nello stesso comune sebbene in più unità produttive od uffici, ovvero nei confronti dei datori che abbiano complessivamente alle proprie dipendenze più di 60 prestatori di lavoro. Come osserva GHERA, l'innovazione più importante introdotta dalla L. 108/1990 è costituita dal riferimento alla complessiva dimensione organizzativa del datore: pertanto, risultano oggi garantiti dalla tutela reale i lavoratori dipendenti da datori che comunque abbiano alle proprie dipendenze più di 60 prestatori, indipendentemente dal frazionamento organizzativo in unità produttive. La tutela obbligatoria, invece, spetta ai sensi dell'art. 8, L. 604/1966, come modificato dall'art. 2, L. 108/1990, nei confronti dei datori che occupano fino a 15 dipendenti per ogni unità produttiva (fino a 5 se impresa agricola) o fino a 60 dipendenti ovunque essi si trovino. In conclusione, un chiarimento merita il concetto di 'unità produttiva' che la giurisprudenza, anche anteriore alla L. 108/1990, definisce come quella porzione della più vasta organizzazione imprenditoriale dotata di autonomia in senso tecnico-produttivo. Dalla interpretazione giurisprudenziale non si discosta la dottrina dominante, che valorizza l'aspetto funzionale dell'unità produttiva caratterizzata dal fatto di realizzare un risultato autonomo, che tuttavia si inserisce in quelli perseguiti dalla più ampia organizzazione anche non imprenditoriale (DE LUCA TAMAJO, D'ANTONA, PISANI).

Il recesso ad nutum

La disciplina limitativa del potere di licenziamento, finora esaminata, non si applica nelle ipotesi in cui è ammesso il recesso ad nutum, cioè la possibilità per il datore di licenziare senza alcun vincolo di giustificazione. Essa ricorre solo in alcune ipotesi espressamente previste, e cioè nei confronti:

  • dei dirigenti, salvo che i contratti collettivi od individuali contengano clausole limitative al riguardo;
  • dei lavoratori a tempo determinato;
  • dei lavoratori domestici;
  • degli atleti professionisti;
  • dei lavoratori ultrasessantenni, in possesso dei requisiti pensionistici;
  • dei lavoratori in prova (ma sul punto cfr. cap. III, par. VI.1);
  • dei lavoratori licenziati per riduzione di personale;
  • dei lavoratori dipendenti da organizzazioni di tendenza;
  • del coniuge e dei parenti entro il 2deg. grado del datore.

Divieto di licenziamento

Sussiste, invece, un vero e proprio divieto di licenziamento nei casi di:

  • sospensione del rapporto di lavoro dipendente da fatto del lavoratore (malattia, infortunio, gravidanza e puerperio, servizio militare);
  • matrimonio della lavoratrice;

e nei confronti dei:

  • dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali e dei candidati e membri della commissione interna, per un anno dalla cessazione dell'incarico;
  • lavoratori che partecipano ad azioni di sciopero;
  • lavoratori chiamati a svolgere funzioni pubbliche.

Il licenziamento discriminatorio

L'art. 3, L. 108/1990, sancisce esplicitamente la nullità del licenziamento intimato per ragioni discriminatorie (politiche, sindacali, religiose, razziali, di lingua e di sesso), a prescindere dall'applicabilità o meno della normativa limitativa dei licenziamenti e, quindi, anche nelle aree in cui è ammesso il recesso 'ad nutum'. Il licenziamento discriminatorio dà in ogni caso diritto, al lavoratore che ne sia vittima alla tutela reale, quali che siano le dimensioni dell'impresa.

Il licenziamento disciplinare

Il licenziamento disciplinare, intimato come misura sanzionatoria, ha dato luogo in passato a contrasti giurisprudenziali sia in ordine alla sua legittimità sia in ordine alla sua riconducibilità nell'area di applicazione dell'art. 7, St. lav.. I dubbi interpretativi sono sorti perché l'art. 7, co. 4, St. lav., statuisce che 'fermo restando quanto disposto dalla L. 15 luglio 1966, n. 604, non possono essere disposte sanzioni disciplinari che comportino mutamenti definitivi del rapporto di lavoro'. Secondo un orientamento giurisprudenziale ormai superato (Cass. S.U., 20 marzo 1981, n. 1781), al licenziamento doveva riconoscersi natura disciplinare quando il contratto collettivo lo contemplava tra le sanzioni disciplinari e rinviava esplicitamente alla procedura di contestazione di cui all'art. 7, St. lav.. Oggi, in seguito alla sentenza n. 204/82 della Corte costituzionale, i commi 1, 2 e 3 dell'art. 7, St. lav., si applicano anche 'alla sanzione disciplinare del licenziamento, per la quale la normativa si limiti ad includere il licenziamento medesimo tra le sanzioni disciplinari e non richiami espressamente il regime per questo previsto dall'art. 7, L. 300/1970'. Anche il licenziamento disciplinare è dunque sottoposto ai vincoli di carattere procedurale contemplati dall'art. 7, St. lav.: così, il datore ha l'obbligo di portare il codice disciplinare a conoscenza del lavoratore, di contestare preventivamente l'addebito a quest'ultimo e di sentirlo a sua difesa. La mancata osservanza della procedura disciplinare determina la nullità del licenziamento, con conseguente applicazione dell'art. 18, St. lav..

I licenziamenti collettivi

La L. 23 luglio 1991, n. 223, recante 'Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro', disciplina anche i licenziamenti collettivi per riduzione di personale. Essa dispone che quando un'impresa che occupa più di 15 dipendenti decide di effettuare almeno 5 licenziamenti nell'arco di 120 giorni, in conseguenza di una riduzione o trasformazione dell'attività o del lavoro, nell'ambito di ciascuna unità produttiva o di più unità produttive presenti sul territorio della stessa provincia, è tenuta a darne comunicazione preventiva per iscritto alle rappresentanze sindacali aziendali nonché alle rispettive associazioni di categoria. In mancanza di tali rappresentanze, la comunicazione deve essere effettuata alle associazioni di categoria aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale. In ogni caso, la comunicazione deve contenere l'indicazione:

  • dei motivi che determinano la situazione di eccedenza;
  • dei motivi tecnici, organizzativi, produttivi, per i quali si ritiene di non poter adottare misure idonee a porre rimedio alla predetta situazione;
  • del numero, della collocazione aziendale e dei profili professionali del personale eccedente.

Entro 7 giorni dalla data di ricevimento della comunicazione, a richiesta delle rappresentanze sindacali aziendali e delle rispettive associazioni, si procede ad un esame congiunto tra le parti, che ha il fine di esaminare le cause che determinano l'eccedenza del personale e di evitare i licenziamenti. Qualora la consultazione abbia esito negativo, il direttore dell'Ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione convoca le parti al fine di un ulteriore esame della situazione, anche formulando proposte per la realizzazione di un accordo. Esaurita questa fase senza che un accordo sia raggiunto, l'impresa ha facoltà di licenziare i lavoratori eccedenti, individuati secondo i criteri di scelta indicati dai contratti collettivi o, in difetto, nel rispetto dei seguenti criteri, in concorso tra loro: carichi di famiglia; anzianità; esigenze tecnico-produttive ed organizzative. Il licenziamento collettivo per riduzione di personale è:

  • annullabile, se non vengono rispettati i criteri di cui si è appena detto;
  • inefficace, se la sua intimazione o le comunicazioni sindacali non siano effettuate per iscritto ovvero se non venga rispettata la procedura di cui alla L. 223/1991.

L'impugnazione deve avvenire nel termine di 60 giorni dalla comunicazione del licenziamento, con qualsiasi atto scritto idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore di impugnazione. Se l'illegittimità del licenziamento è riconosciuta dal giudice, si applica l'art. 18, St. lav..

La mobilità

La L. 223/1991 prevede anche che i prestatori di lavoro, in caso di licenziamenti collettivi per riduzione o trasformazione di attività o lavoro, siano posti in mobilità, mediante l'iscrizione in una lista di collocamento preferenziale, che dovrebbe consentire di accedere con più facilità a nuove occasioni di lavoro; ad essi spetta anche la c.d. indennità di mobilità, ossia un trattamento economico variabile in base all'età del lavoratore. La mobilità è prevista anche per l'ipotesi in cui l'impresa ammessa al trattamento straordinario d'integrazione guadagni non sia in grado di garantire il reimpiego a tutti i lavoratori sospesi né di ricorrere a misure alternative.

Il preavviso

Nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato, il lavoratore che si dimette è tenuto a dare al datore preavviso del recesso stesso nel termine e nei modi stabiliti dai contratti collettivi, dagli usi o secondo equità; lo stesso deve fare il datore che intende avvalersi del potere di licenziare ad nutum o per giustificato motivo (art. 2118, co. 1, c.c.). L'obbligo del preavviso è volto ad evitare che l'interruzione ex abrupto del rapporto possa comportare conseguenze dannose per la controparte. In mancanza di preavviso, il recedente è tenuto a corrispondere all'altra parte un'indennità (la c.d. indennità di mancato preavviso) equivalente all'importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso. Tale indennità ha natura risarcitoria, sicché essa è dovuta anche in caso di dimissioni per giusta causa, essendo l'interruzione immediata del rapporto - la giusta causa non ne consente la prosecuzione neanche provvisoria - conseguenza di un fatto dipendente dal datore





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