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DIRITTO COMMERCIALE
L'impresa agricola per connessione è l'ultimo confine tra impresa agricola e commerciale, in quanto l'impresa agricola per connessione indicata dal legislatore non è nient'altro che un'attività commerciale che proprio in virtù della connessione diventa agricola, senza questa connessione si hanno attività che intrinsecamente , cioè proprio per la loro natura sono attività commerciali .Quindi l'attività agricola per connessione è l'ultimo limbo dell'attività agricola dopo di che si rientra nell'impresa commerciale.
IMPRESA COMMERCIALE che il legislatore delinea all'art. 2195:
"Imprenditori soggetti a registrazione.
Sono soggetti all'obbligo dell'iscrizione nel registro delle imprese gli imprenditori che esercitano :
un'attività industriale diretta alla produzione di beni e servizi;
un'attività intermediaria nella circolazione dei beni;
un'attività di trasporto per terra, per acqua o per aria;
un'attività bancaria o assicurativa;
altre attività ausiliarie delle precedenti.
Le disposizioni della legge che fanno riferimento alle attività e alle imprese commerciali si applicano, se non risulta diversamente, a tutte le attività indicate in questo articolo e alle imprese che le esercitano" .
Formulazione che è profondamente diversa sia dalla nozione generale di imprenditore ma anche dalla definizione di imprenditore agricolo. Mentre la definizione di imprenditore agricolo cita:" E' imprenditore agricolo colui che " nella definizione di impresa commerciale è differente anche la tecnica legislativa, il legislatore si è preoccupato di definire in modo diverso l'imprenditore commerciale.
Mentre nell' art. 2135 si cerca di dare un contenuto alla nozione di imprenditore agricolo, nell' art 2195 si parla della commercialità dell'impresa, si fa riferimento ad una serie di attività che vengono considerate commerciali. Sono soggette all'obbligo di iscrizione nel registro delle imprese gli imprenditori che esercitano le attività, quindi non un contenuto generale di chi possa essere considerato imprenditore commerciale come per l'imprenditore agricolo, ma un elenco di attività soggette a registrazione proprio in quanto commerciali.
La commercialità dell'impresa data da:
un'attività industriale diretta alla produzione di beni e servizi;
un'attività intermediaria nella circolazione dei beni;
un'attività di trasporto per terra, per acqua o per aria;
un'attività bancaria o assicurativa;
altre attività ausiliarie delle precedenti.
Il legislatore ha puntato il suo occhio sull'attività dicendoci studiamo la commercialità dell'impresa. L'impresa non è altro che l'attività esercitata dall'imprenditore. Quindi per vedere se un'attività è commerciale o no bisogna guardare ai punti sopra indicati, ma in che modo?
Punto 1) attività industriale diretta alla produzione di beni o servizi ;
si pensa alle grosse imprese industriali automobilistiche, imprese chimiche, tessili, ecc.. Però, quando abbiamo visto l'art. 2082, la norma che spiegava quando siamo in presenza di un'impresa, trovavamo un'attività diretta alla produzione di beni e servizi. Però qui c'è qualcosa di più, il legislatore non ha guardato solo all'attività di produzione ma all'industrialità di questa attività di produzione. Quindi da vita ad un'impresa di tipo commerciale e industriale ogni attività che è diretta alla produzione di beni e servizi con metodo industriale.
Ecco che cos'è l'industrialità. Il problema è allora cosa vuol dire industrialità, cosa intende il legislatore, perché se non basta la produzione ma ci vuole una produzione su scala industriale vediamo cosa vuol dire industrialità o in modo industriale. Problema che affronteremo successivamente.
Punto 2) attività intermediaria nella circolazione dei beni ;
questo comprende tutto il settore del commercio, il soggetto che fa da intermediario tra chi trasmette le materia prime o il grossista o il singolo rivenditore. Ci sono in questo caso una serie di operazioni di scambio. Però sorge un problema. La nozione di scambio già trovata nel 2082, quale differenza tra nozione di scambio e di intermediazione, il concetto di scambio equivale al concetto di intermediazione oppure sono due concetti distinti. Quindi è impresa commerciale ai sensi del punto 2) ogni attività di scambio che realizzi questa intermediazione nella circolazione dei beni e dei servizi.
Punto 3) attività di trasporto per terra, per acqua e per aria;
Le imprese di trasporto producono dei servizi, producono lo spostamento di persone o cose da un luogo ad un altro, quindi in funzione di questa produzione queste attività possono rientrare nella categoria del punto 1) cioè nelle attività dirette alla produzione di servizi. L'attività di trasporto quindi non è niente altro che una specificazione di quanto detto dal legislatore al punto 1).
Punto 4) attività bancaria o assicurativa;
attività bancaria: la banca raccoglie risparmio dal pubblico e produce l'esercizio del credito formando un'intermediazione nella circolazione di un bene particolare che è il denaro. Quindi essendo un'attività di intermediazione rientra nel punto 2);
attività assicurativa: in quanto servizio rientra invece nel punto 1).
Punto 5) attività ausiliarie delle precedenti;
rientrano in questo tutte le imprese di agenzie, di commissione, di spedizione, di pubblicità, ecc. , anche queste sono niente altro che attività di produzione di servizi ed in quanto tali rientrano nel punto 1).
Però anche con riferimento alle attività ausiliarie emergono alcuni problemi.
I problemi emersi fino ad ora riguardano un concetto di commercialità dell'impresa che il legislatore definisce "Sono soggette a iscrizione nel registro dell'impresa le seguenti attività " le quali però devono essere spiegate. Già fin da adesso possiamo dire tranquillamente che i punti 1) e 2) sono i capisaldi di questa norma, perché tutti gli altri numeri in un certo senso rientrano nei primi due, in quanto sono niente altro che una specificazione di questi primi due grandi ceppi elencati dal legislatore.
Con riferimento a questo, allora il problema si sposta nello stabilire :
1-cosa significa industrialità
2-cosa significa attività di intermediazione, o meglio se l'attività di intermediazione sia qualcosa di diverso o di più rispetto all'attività di scambio già enucleata nella nozione di imprenditore nel 2082, o no.
Per quanto riguarda il punto 5), abbiamo visto che intrinsecamente sono delle attività che rientrano nel numero 1) perché producono servizi anch'esse, ma sorge un problema perché il legislatore dice "attività ausiliarie delle precedenti". Visto che le precedenti sono tutte attività commerciali, qualcuno si è chiesto: "se fossero ausiliarie di un'attività agricola, che ne è di queste attività?". "Qualora l'ausiliarietà non sia da porsi in una funzione di accessorietà rispetto alle attività principali commerciali ma rispetto alle attività principali agricole che ne è di questa impresa?" Detto questo, è nato il problema, che poi vedremo di più come un falso problema che altro, perché come tutta la dottrina dominante la risolve in un certo modo tranne ormai isolati seppur autorevoli opinioni, dell'IMPRESA CIVILE.
Che cos'è l'IMPRESA CIVILE? Perché è un problema?, ci si chiede se vi sia uno spazio tra impresa commerciale e impresa agricola sia pur oltre il suo limite costituito dall'impresa agricola per connessione. In realtà la definizione di impresa agricola da cui siamo partiti (la nozione di imprenditore agricolo), ha un suo significato perché il legislatore ha voluto, si, dare un contenuto positivo alla nozione di imprenditore agricolo ma questa nozione oltre a identificare l'imprenditore agricolo serve in negativo a spiegarci quando non c'è l'imprenditore commerciale e questo vedremo sarà la chiave per risolvere i casi dubbi. Questa definizione quindi ha tratteggiato l'impresa agricola e ha persino detto: badate bene che ci sono delle attività che sono intrinsecamente commerciali ma che se sono connesse rientrano nell'esercizio normale dell'agricoltura, abbiamo deciso di farle rientrare nel concetto di agricoltura perché si vuole favorire e migliorare l'agricoltura. Detto questo, dall'altro lato vi è chi ha una serie di attività che sono attività commerciali. Il vuoto che parrebbe esserci tra l'uno e l'altra andrebbe in qualche modo colmato. Qualcuno ha cercato di colmarlo con l'individuazione di una terza categoria d'impresa: l'IMPRESA CIVILE., perché civile? Perché non rientra neanche nell'impresa agricola seppur nell'estremo limite costituito dall'impresa agricola per connessione e che non è neanche però impresa commerciale.
Questa teoria ha delle conseguenze applicative notevoli perché comporta la sottrazione ulteriore di questa categoria d'impresa dallo statuto dell'impresa commerciale.
Abbiamo detto che c'è uno statuto dell'imprenditore in generale (2082, ci dice chi è imprenditore a questo si applicano sicuramente le norme in tema di azienda, brevetti, concorrenza sleale, antitrust e via dicendo) e c'è uno statuto integrativo di questo che è dato dallo statuto dell'imprenditore commerciale, a chi si applica l'imprenditore commerciale? Sicuramente a tutte le attività elencate nel 2195 e non già all'imprenditore agricolo. Ebbene se noi sosteniamo questa parte minoritaria ma non meno autorevole della dottrina che accanto a queste due forme di impresa affianca anche un'impresa civile, sottraiamo ulteriormente all'applicazione dello statuto dell'impresa commerciale anche l'impresa civile. Non ci sarebbero soltanto l'imprenditore agricolo e il piccolo imprenditore che non troverebbero applicazione dallo statuto dell'imprenditore commerciale ma non troverebbe applicazione neanche l'impresa civile. Sarebbe quindi un vuoto quello tra impresa agricola e commerciale che viene colmato secondo una parte della dottrina con l'individuazione dai contorni piuttosto fumosi di una non ben identificata impresa civile e quindi si amplierebbe la categoria dell'imprenditore sottratti a fallimento.
Allora, l'imprenditore civile appunto perché non può essere considerato agricolo neppur per connessione e non è neppure imprenditore commerciale ad esso verrebbe applicato solo lo statuto dell'imprenditore in generale quindi sarebbe un ulteriore favore verso una categoria d'impresa. Però quando si analizza poi a fondo perché ci si è sforzati di enucleare un terzo genus di impresa, lo si è fatto perché c'erano delle attività che parevano non rientrare in quelle elencate prima.
L'art. 2195 esordisce con "sono soggette a iscrizione nel registro " perché questa forma di pubblicità che è una pubblicità legale formale, formale perché affidata formalmente ad un pubblico registro (al registro dell'impresa), non è una pubblicità notizia di cui si parlava a proposito dell'imprenditore agricolo, per il quale con la nuova istituzione del registro delle imprese anche soggetti che prima non erano tenuti all'iscrizione quali ad esempio l'imprenditore agricolo e vedremo il piccolo imprenditore vanno iscritti in una sezione speciale. Cambia la funzione della pubblicità, per l'impresa commerciale si tratta di pubblicità legale dichiarativa e qualcuno dice giustamente formale, perché?, perché affidata ad un pubblico registro, ad un elemento formalistico
Dall'art. 2195, secondo quanto detto prima, tre delle cinque attività elencate si potevano far rientrare grosso modo nelle prime due il problema grosso è stato vedere cosa voleva dire attività industriale, cosa voleva dire attività intermediaria nella circolazione dei beni, perché pareva che ci fossero delle attività che non si riusciva a far rientrare in questi due concetti, ecco perché hanno inventato la follia dell'impresa civile, ma la conseguenza grave applicativa di questa teoria è che porta all'esonero dal fallimento un'ulteriore categoria rispetto a quelle previste dal legislatore. Quindi la concezione che porta all'enucleazione di questa terza categoria e cioè dell'impresa civile ci porta a dire che all'impresa civile non si applica lo statuto dell'imprenditore commerciale, in primis coloro che esercitano impresa civile non falliscono. Quindi le conseguenze giuridiche possono essere rilevanti a seconda della diversa impostazione teorica. Spesso dall'adozione dell'una o dell'altra teoria ci sono conseguenze applicative di non poco conto. Ricordatevi una cosa che sempre la bontà di una tesi va valutata alla luce delle conseguenze pratiche che comporta, perché una tesi può essere stupenda, enucleata benissimo e portare a delle conseguenze pratiche completamente distorte rispetto agli intenti del legislatore, quindi le conseguenze pratiche bisogna tenerle presenti. Qui non è che le conseguenze pratiche siano distorte ma il fatto di ampliare, senza che il legislatore ci abbia dato un preciso intento in questo senso, la cerchia degli imprenditori non soggetti al fallimento non è cosa di poco conto Quando si enucleano queste teorie bisogna fare attenzione proprio per questo fatto.
Allora in cosa consiste l'essenza della commercialità, cosa vuol dire commercialità dell'impresa, perché è nata la teoria dell'impresa civile.
Il requisito in senso tecnico dell'industrialità comporta in senso tecnico ed economico l'impiego di materie prime per la trasformazione in nuovi beni, nasce il concetto di impresa civile, perché ci sono delle imprese che producono beni senza aver trasformato materie prime. Le imprese minerarie sono quelle che hanno dato luogo a questo grosso dibattito e quelle di caccia e pesca, ma soprattutto quelle minerarie. Si è detto queste imprese sarebbero imprese civili e non commerciali, altro caso ci possono essere imprese che producono servizi senza che sia avvenuta prima una trasformazione e per dei servizi è molto facile che accada questo anche perché bisogna escludere da questo novero le imprese di servizi già elencate dal legislatore e cioè le imprese di trasporto elencate al numero 3), le imprese di assicurazione e poi tutte le imprese ausiliarie che abbiamo detto essere non altro che imprese produttrici di servizi. Quindi che ne è delle imprese che producono servizi senza trasformazione, esempio pubblici spettacoli, collocamento di domestici, baby-sitter, agenzie matrimoniali, ecc. ? E poi si è fatto rientrare nel concetto di impresa civile anche tutto quello che non rientrava nel 5)che dice sono attività commerciali tutte quelle attività ausiliarie ai numeri precedenti ma i numeri precedenti riguardano la commercialità dell'impresa e se l'impresa non è commerciale ? ci potrebbe essere un'impresa ausiliaria di quella agricola, allora si è detto che l'attività ausiliaria dell'impresa agricola dove va a finire? Un mediatore, un agente che si occupa di affari agricoli come andrebbe qualificato? Quale imprenditore civile secondo questa teoria. Poi c'è qualcuno che ha ampliato il discorso e ha cercato di far rientrare nell'impresa civile anche l'artigiano dicendo che in questo caso mancherebbe per l'attività artigianale la commercialità dell'impresa.
Altro problema, ci sono degli spazi vuoti lasciati dal concetto d'industrialità perché se noi la riteniamo proprio nel suo senso tecnico di impiego di materie prime e trasformazione ai fini della produzione ad opera dell'uomo vi sono delle attività che sfuggono a questo concetto, cioè se noi prendiamo l'industrialità nella sua accezione tecnica parrebbe che alcune attività non possano farsi rientrare nel concetto di industrialità dell'impresa. (industrialità = commercialità).
Problemi si hanno anche dal concetto di intermediazione. Per esserci intermediazione ci deve essere sia l'acquisto che la vendita di beni. Allora sarebbe un imprenditore non certo commerciale ma civile chi vende almeno sotto corrispettivo di un prezzo un bene proprio, in questo caso c'è si la vendita ma non c'è l'acquisto. Questa sarebbe un'attività di scambio perché certo che chi vende non fa altro che procedere ad un'attività di scambio ma non sarebbe un'attività intermediaria nello scambio. Facciamo un esempio: l'agricoltore che si mette a vendere i propri prodotti servendosi di un servizio e di un'organizzazione non secondo la tecnica agraria, quindi non rientra nell'impresa agricola per connessione, vende i propri prodotti, quindi non c'è l'attività di acquisto ma di sola vendita, allora questo non può essere considerato imprenditore agricolo per connessione perché esercita l'attività in modi non usuali in agricoltura non secondo la tecnica che governa l'agricoltura quindi non siamo neanche più nell'estremo limite dato dall'impresa agricola per connessione. Se noi poi intendiamo per intermediazione acquisto e vendita, visto che vende beni propri questo soggetto non può essere neanche qualificato imprenditore commerciale. Quindi non essendo ne l'uno ne l'altro, quale collocazione gli diamo? quello dell'impresa civile.
Come detto prima la teoria dell'impresa civile è stata escogitata perché sembrava che ci fossero delle imprese che sfuggivano a questa ripartizione che ci ha dato il legislatore. Non rientrano nell'elenco del 2195 e neanche nell'estremo limite dell'attività agricola per connessione e allora cosa sono, non si può negare che sono attività perché è una realtà di fatto e allora si è detto che sono attività ma attività che creano attività civile.
L'impresa è un'attività, la differenza tra atto e attività è che:
ATTO = atto singolo;
ATTIVITA' = insieme di atti uniti, legati insieme da un
unico fine, da una destinazione unitaria.
Quindi la differenza fra singolo atto e impresa è che l'impresa è una serie di atti unificati da una destinazione unitario e invece l'atto è un atto singolo.
Il significato giuridico dell'espressione impresa è attività, quindi quando diciamo questa impresa è commerciale è come se dicessimo questa attività è commerciale.
Allora cosa è stato contrapposto ai sostenitori della teoria dell'impresa civile, perché la maggior parte della dottrina si è schierata contro questa teoria? Perché si è detto guardate bene che l'art. 2195 non ci dice solo che sono soggette a registrazione una serie di attività caratterizzate dalla commercialità ma questo articolo va letto in correlazione (interpretazione sistematica) con il 2135 cioè con l'articolo che definisce l'imprenditore agricolo e allora si ritiene che attività industriale altro non sia che un sinonimo di attività non agricola e che quando l'articolo 2195 numero 2) parla di intermediazione nella circolazione di beni altro non fa che ribadire il concetto di attività di scambio, quindi i casi dubbi adesso vengono risolti.
Si arriva alla conclusione per cui l'art 2195 va letto come se dicesse è attività commerciale quella attività diretta alla produzione di beni e servizi non agricoli e quella rivolta alla circolazione dei beni, ecco cosa vuol dire intermediaria, che non rientra nell'attività agricola per connessione.
SINTESI: E' imprenditore commerciale colui che svolge un'attività dotata dei requisiti della commercialità secondo i numeri 1) e 2) del 2195, ma anche colui che oltre a questo non esercita un'attività agricola.
Tutti i casi dubbi si risolvono in questo modo. Se non si tratta di impresa agricola allora rientra nell'impresa commerciale. Visto che i punti 1) e 2) riassumono il concetto di commercialità dell'impresa non m'importa dire non c'è trasformazione c'è solo produzione di un nuovo bene o di un nuovo servizio, oppure, non c'è intermediazione perché c'è solo vendita di un bene proprio ma non c'è acquisto da un precedente fornitore, perché comunque visto che queste non costituiscono attività agricole seppur per connessione sono comunque imprenditori commerciali.
Può essere il caso di un agricoltore che va nella vicina città e apre un negozio dove vende solo prodotti suoi, questo soggetto è imprenditore commerciale perché non può essere considerato imprenditore agricolo neanche per connessione e lo è anche se non rientra nel 2195 numero 2) perché in realtà la sua attività di intermediazione più che di intermediazione è di rapporto scambio. Rapporto di scambio che è il vero carattere rilevante qualificante della commercialità dell'impresa. Perché scomodare un'impresa civile allargando i contorni di soggetti che non falliscono. Per l'imprenditore agricolo c'è stato tutto un favore legislativo relativamente al doppio rischio quello economico e quello derivante dalle calamità naturali che correrebbe, sotto questo profilo l'impresa civile non avrebbe neanche una giustificazione razionale per essere esentata dalle procedure concorsuali in caso di insolvenza e quindi dal fallimento.
Alcune delle imprese che furono definite imprese civili erano già considerate imprese commerciali sotto il codice di commercio del 1882. Quindi ci si chiede perché tornare indietro se già erano considerate imprese commerciali.
Anche per il concetto di industrialità vale lo stesso, viene letto nel suo senso tecnico ma anche inteso in senso speculativo al 2135.Quindi sicuramente l'attività industriale va intesa nel suo senso tecnico ma anche le attività che paiono non rientrare esattamente in questo concetto tecnico di industrialità, comunque se non sono attività agricole rientrano nel concetto di commercialità dell'impresa.
La stessa cosa vale per le imprese ausiliarie di attività non commerciali.
Le imprese ausiliarie di attività agricole si possono benissimo al pari delle imprese ausiliarie delle attività commerciali farle rientrare nel numero 1). Avevamo detto esiste un numero 5) attività ausiliarie delle precedenti, ma se non esistesse un numero 5) che enuclea una specie che dice sono attività commerciali le attività ausiliarie delle precedenti attività commerciali già elencate, quelle attività sarebbero comunque commerciali perché producono servizi quindi rientrano nel numero 1). Allo stesso modo le attività ausiliarie di attività agricole producono dei servizi ma non sono agricole secondo la ripartizione che abbiamo detto anche queste rientrano nelle attività produttrici di servizi pertanto rientrano nel concetto di commercialità dell'impresa ai sensi del numero 1). Allora abbiamo visto come va difeso il concetto di industrialità in senso tecnico come trasformazione e produzione ad opera dell'uomo di un bene nuovo, ma anche come per attività intermediaria si intenda attività di scambio, concetti sinonimi perché altrimenti si rischia di essere troppo riduttivi e nasce così il bisogno di creare l'impresa civile. Questa è la tesi del professor Cottino e della dottrina prevalente.
SINTESI:
Una parte minoritaria della dottrina dice: esiste il 2135 che letto in positivo cosa ci deve essere per avere impresa agricola, poi il legislatore ha sentito il bisogno di dire ci sono delle attività intrinsecamente commerciali, l'alienazione dei prodotti del fondo che intrinsecamente sono attività commerciali che proprio per il vincolo della connessione sono l'ultimo limbo dell'attività agricola, se neanche esiste la connessione andiamo a finire nel 2195 e nella commercialità dell'impresa. Però, per ciò che non pareva rientrare nei numeri 1) e 2), che sono i capisaldi per leggere sia gli uni che gli altri, si era sentito il bisogno di guardare alla collocazione delle altre imprese, se non si riesce a farle rientrare in questi numeri vorrà dire che il legislatore non è stato esaustivo e che c'è un vuoto tra l'impresa agricola sia pur per connessione e quella commerciale, vuoto che è colmato dall'impresa civile. Cosa si è risposto a questo: abbiamo una definizione di imprenditore agricolo che non serve solo per chiarire il significato di attività agricola ma serve anche a spiegarmi in negativo che cos'è impresa commerciale.
La commercialità dell'impresa è data dall'elencazione del legislatore e dal non essere qualificabile quale impresa agricola.
PICCOLO IMPRENDITORE
Fino ad ora abbiamo parlato di imprenditori diversificandoli in base all'oggetto dell'impresa e abbiamo l'imprenditore agricolo e l'imprenditore commerciale.
Un secondo modo di classificazione è il criterio della dimensione dell'impresa, con riferimento a questo criterio distinguo un piccolo imprenditore da un medio - grande.
I piccoli imprenditori sono sottoposti come gli imprenditori agricoli allo statuto dell'imprenditore in generale però sono esonerati:
l-anche se esercitano attività commerciale dalla tenuta delle scritture contabili e
2-dall'assoggettamento al fallimento e alle altre procedure concorsuali.
E mentre prima al pari dell'imprenditore agricolo non era soggetto ad alcuna forma di iscrizione oggi è soggetto ad iscrizione nel registro delle imprese in un'apposita sezione speciale ed al pari dell'imprenditore agricolo questa forma di pubblicità ha funzione di pubblicità notizia e non di pubblicità legale.
Anche la nozione di piccolo imprenditore serve a restringere ulteriormente l'applicabilità dello statuto dell'imprenditore commerciale. Lo statuto dell'imprenditore commerciale si applica agli imprenditori che esercitano una delle attività elencate nel 2195, chi non è imprenditore agricolo e chi non è piccolo imprenditore commerciale.
Allora sono esonerati dall'applicazione dello statuto dell'imprenditore commerciale sotto il profilo dell'oggetto dell'attività esercitata gli imprenditori agricoli e sotto il profilo dimensionale i piccoli imprenditori anche se esercitano attività commerciale.
Quindi lo statuto dell'imprenditore commerciale è lo statuto dell'imprenditore commerciale non qualificabile come piccolo.
Vi sono molte leggi di agevolazione e incentivazione delle piccole e medie imprese.
Questi concetti di piccole - medie imprese che troviamo nelle leggi speciali spesso sono totalmente svincolate dalla nozione di piccola impresa intesa in senso civilistico, quindi è necessario quando studiamo le leggi speciali tenere presente che esiste una moralità di nozione. Ad esempio come esiste una moralità di nozione di impresa, l'impresa per la legge antitrust non è impresa per il 2082 perché il concetto di impresa per l'antitrust è più esteso di quello di impresa civilistica vale questo anche per il diritto tributario.
Quando parliamo di statuto dell'imprenditore e dell'imprenditore commerciale facciamo riferimento al codice civile, perché le leggi speciali che si affiancano ad esso enucleano una nozione di impresa non coincidente con quella prevista dal codice civile. Quindi la piccola impresa oggetto di agevolazioni, di incentivazioni creditizie tributarie e fiscali non è la piccola impresa del 2083,ma è la piccola impresa che ha in mente il legislatore che prevede come fine della propria incentivazione ciò che vuole tutelare, non solo, spesso il legislatore accomuna la piccola e media impresa ai fini agevolativi cosa che non fa assolutamente il codice civile.
E' importante ricordare questa pluralità di nozioni che non è solo a livello nazionale di legislazione speciale ma anche a livello comunitario.
Quando il legislatore emana una legge speciale lo fa in base a un fine. Se crea ad esempio una legge che mira ad agevolare l'agricoltura, questa vale ai fini fiscali e non già a quelli civilistici, per cui l'impresa agricola ai fini fiscali per quella legge può essere impresa non coincidente con quella del codice. Questo soprattutto vale per il concetto di piccola impresa, numerose leggi di settore emanate negli ultimi anni, non ultima la 310/93 che accomuna la piccola e media impresa ai fini delle agevolazioni che il legislatore in un piano di programmazione economica ha voluto consentire, possono delineare un concetto di piccola impresa non coincidente con quello previsto dal 2083.
Art. 2083: "Piccoli imprenditori.- Sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti
del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un'attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della loro famiglia".
La norma ci elenca prima una serie di piccoli imprenditori e poi termina con: "coloro che esercitano ". Come si pone la seconda parte della norma rispetto alla prima o meglio, i piccoli imprenditori, i coltivatori diretti, gli artigiani, sono qualcosa di diverso da coloro che esercitano un'attività professionale organizzata ?
La maggioranza degli interpreti e la giurisprudenza affermano che la norma va letta come se dicesse: sono piccoli imprenditori coloro che esercitano un'attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della loro famiglia. La prevalenza del lavoro proprio e famigliare è il carattere distintivo di tutti i piccoli imprenditori, quindi la norma va capovolta, oltre ad altre spiegazioni vi è anche il principio costituzionale l'art. 3 della parità del trattamento.
Allora se comunque ciò che denota la piccola impresa è il lavoro prevalentemente proprio e dei famigliari questo deve essere presente anche nelle forme tipiche altrimenti ci sarebbe una disparità di trattamento nell'ambito dello stesso concetto di imprenditore. La maggioranza degli interpreti quindi lo legge come se fosse rovesciato.
Però questa è già una scelta dell'interprete, perché c'è un'opinione minoritaria in dottrina che sostiene che per le ure nominate vale un discorso e che il criterio della prevalenza si applica soltanto a coloro che non rientrano in quelle ure.
Ma questa è un'opinione del tutto minoritaria perché oramai si può dire che la lettura di questa norma avviene in base all'interpretazione di maggioranza. Quindi piccolo imprenditore per il codice civile è il soggetto che esercita attività organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e della sua famiglia.
E' necessario stabilire cosa si intende per concetto di prevalenza, perché bisogna che l'imprenditore eserciti il lavoro di questa impresa e poi bisogna che il lavoro dell'imprenditore e dei famigliari prevalga rispetto al lavoro altrui e al capitale utilizzato nell'impresa. Se ad esempio nella mia attività impiego capitale di miliardi e poi non ho alcun collaboratore perché tutta la mia attività è automatizzata comunque non parlo di piccola impresa, in quanto il mio lavoro non prevale sul capitale impiegato. Quindi il concetto di prevalenza va rapportato al capitale investito e al lavoro altrui, se non si hanno collaboratori e si investe un capitale molto rilevante si è imprenditori commerciali e non piccoli imprenditori.
Si è poi studiato in dottrina cosa si intende per prevalenza si è detto è un concetto matematico quantitativo o è qualitativo funzionale. Perché si parla di concetto qualitativo e non di un concetto quantitativo? Perché ci vuole proprio un lavoro preminente dell'imprenditore nell'impresa dando un apporto e un rilievo incisivo sul prodotto finito. Ecco perché si parla di prevalenza in senso qualitativo funzionale, in funzione dei beni e dei servizi prodotti. Esempi: il piccolo sarto su misura, il piccolo commerciante.
Questo è quello che ci dice il codice civile interpretato secondo l'opinione dominante a complicare le cose c'è la legge fallimentare che è quasi contemporanea del codice sono entrambe del 1942.
L'art 1) della legge fallimentare da una nozione autonoma di impresa non soggetta al fallimento e quindi di piccola impresa e cita:
"Sono considerati piccoli imprenditori gli imprenditori esercenti un'attività commerciale i quali sono stati riconosciuti in sede di accertamento ai fini dell'imposta di ricchezza mobile i titolari di un reddito non inferiore a un minimo imponibile quando è mancato l'accertamento ai fini dell'imposta di ricchezza mobile sono considerati piccoli imprenditori gli imprenditori esercenti un'attività commerciale nella cui azienda risulta essere investito un capitale non superiore a lire 900000.
In nessun caso sono considerati piccoli imprenditori le società commerciali"
La legge fallimentare è una legge che ha efficacia anche ai sensi civilistici non è una legge speciale, quindi è un criterio autonomo che però non è solo autonomo ma è anche completamente diverso dal 2083 per l'enucleazione del piccolo imprenditore.
Quindi ci si chiede che fine fa l'art 1) sopra citato. Si sa che l'imposta di ricchezza mobile è stata abolita nel 73 con l'irpef. Allora tutta la parte relativa all'imposta viene annullata è una sorta di approvazione implicita perché una legge sopprime quel tipo di imposta, a questo punto l'altro criterio citato: "quando è mancato l'accertamento ai fini dell'imposta di ricchezza mobile sono considerati picccoli imprenditori gli imprenditori esercenti attività commerciale nel cui nella cui azienda risulta essere stato investito un capitale non superiore a lire 900000" è fonte di dibattiti.
Ci sono diverse interpretazioni. Da una parte stanno coloro che dicono che la legge prevedeva il criterio delle 900000 in mancanza di accertamento del criterio relativo all'imposta di ricchezza mobile, quindi senza tutto il primo criterio, essendo il secondo un criterio accessorio al primo, cade tutta la norma. Questa è l'interpretazione data dal professor Cottino, opinione che è minoritaria, perché da sempre l'opinione prevalente in dottrina accolta da tutti i giudici fallimentari è stata: è vero che stata abolita la ricchezza mobile ma noi teniamo in vita la seconda parte della norma, come criterio di valutazione. Quindi in questo modo sono considerati piccoli imprenditori gli imprenditori esercenti un'attività commerciale nella cui azienda risulta essere stato investito un capitale non superiore alle 900000.
Di conseguenza si ha avuto fino al 1989 l'applicazione del criterio delle 900000, se il capitale investito nell'azienda superava le 900000 si era considerati imprenditori medi grandi e quindi soggetti al fallimento se invece il capitale investito non superava le 900000 si era piccoli imprenditori.
Solo nel 1989 data l'irrisorietà della somma è insorta la Corte di Cassazione che solleva la questione di costituzionalità della norma in relazione all'art. 3 principio di uguaglianza, che dice che bisogna applicare conseguenze identiche a chi si trova nelle stesse condizioni. Perché si è arrivati fino al 1989? Perché il criterio enunciato dal codice civile è molto elastico e quindi per un giudice risultava molto più semplice applicare il criterio delle 900000, essendo un criterio automatico.
A questo punto le possibilità erano due: accettare la prima interpretazione e quindi cade tutta la norma e si ritorna al 2083 al criterio della prevalenza elastica o aggiornare la somma delle 900000.
Interviene la Corte Costituzionale dicendo che l'art. 1) è incostituzionale perché non c'è più distinzione data l'irrisorietà della somma tra chi è imprenditore commerciale e deve fallire e chi è piccolo imprenditore e quindi non è soggetto al fallimento, viene quindi accolta l'incostituzionalità della norma con sentenza di accoglimento che vale erga omnes e quindi il primo e secondo comma della legge fallimentare tutt'oggi non ci sono più. Rimane della legge fallimentare solo l'ultima parte secondo comma che dice: "In nessun caso possono essere considerati piccoli imprenditori le società commerciali", e come se il legislatore avesse detto badate bene che il 2083 quando fa riferimento al concetto di prevalenza vale solo per l'impresa individuale perché le società non possono essere mai considerate piccoli imprenditori. Questa è l'unica parte della legge fallimentare che sopravvive al cammino travagliato che ha visto riforme fiscali e giudici della consulta intervenire rispetto a un criterio applicato fino all'89 ma dichiarato incostituzionale.
In
conclusione oggi per sapere se si è o meno piccoli imprenditori si deve solo
guardare al 2083, perché non c'è più questa differenza di connotazione data da
due leggi contemporanee. Quindi oggi è ancora più importante enucleare bene i
contorni della nozione di prevalenza.
DIRITTO COMMERCIALE
ARTIGIANO
L'art. 2083 che mi definisce il piccolo imprenditore, nell'elencare alcune ure tipiche di piccoli imprenditori nomina gli artigiani.
L'artigiano è quella ura di piccolo imprenditore che ha destato maggiori preoccupazioni ed interventi di sentenze molto importanti della Cassazione prima e della Corte Costituzionale dopo e anche della dottrina correttiva di interpretazioni, non solo è stato anche oggetto di due leggi speciali molto importanti.
Quando si è cercato di tratteggiare il rapporto tra le leggi speciali e il codice civile si è detto che non sempre le definizioni date a riguardo di un unico argomento siano coincidenti, è il caso della piccola impresa. Si hanno qualificazioni diverse perché si hanno diversi interessi perseguiti dal legislatore. Allora se il legislatore intende concedere delle agevolazioni fiscali spesso accomuna piccola e media impresa, oppure anche nell'ambito della piccola impresa da una definizione di essa, quale soggetto destinatario di queste agevolazioni, sotto molti profili non coincidente o non coincidente per niente con la piccola impresa delineata dal codice civile.
Detto questo, il problema più grosso l'hanno destato gli artigiani. In base a quello detto la ura dell'artigiano rientrerebbe nel 2083.Questa definizione ci dice che dobbiamo partire dal criterio di prevalenza in senso qualitativo funzionale, nel senso che è piccolo imprenditore colui che esercita professionalmente un'attività economica organizzata al fini della produzione con lavoro prevalentemente proprio o dei suoi famigliari. A questa stessa conclusione si arriva dopo un tormentato cammino in cui leggi speciali, cassazione, dottrina, corte costituzionale sono intervenuti per cercare di chiarire alcuni dubbi.
Perché sono intervenuti? Nel 1956 viene emanata la prima legge speciale in tema di artigianato: la legge 25 luglio 1956 n°860. Si ha quindi una prima definizione di artigiano data dal codice civile e si ha una prima legge speciale. Come si può inquadrare questa nell'ambito del discorso fatto sulle leggi speciali.
E' importante prima di tutto ricordare che la legge 5 ottobre 1991 n° 317 accomunava la piccola e media impresa e al fine di intervenire proprio per lo sviluppo della piccola impresa, qualifica piccole imprese industriali quelle aventi non più di 200 dipendenti e 20 miliardi di capitale investito, già questa legge è ovvio che vale solo ai fini di questa agevolazione.
Questo discorso perché la legge propria sull'artigianato, quella del 56, contiene tutte le norme per la disciplina giuridica delle imprese artigiane e affermava (perché stato successivamente abrogato)che l'impresa, che corrispondeva ai requisiti determinati da questa legge, era da considerarsi artigiana a tutti gli effetti di legge (art. 1, 1°comma)e cita: "E' da considerarsi artigiana a tutti gli effetti di legge l'impresa che possiede i seguenti requisiti : l'impresa deve avere per scopo la produzione di beni o la prestazione di servizi, di natura artistica o usuale, che fosse organizzata ed operasse con il lavoro professionale, anche manuale, del titolare ed, eventualmente, con quello dei suoi famigliari: inoltre il titolare è il responsabile dell'azienda e assume tutti gli oneri e i rischi inerenti alla gestione della stessa".
Il primo problema che ha dato del filo da torcere agli interpreti è stata la dizione: "a tutti gli effetti di legge" perché se si dice a tutti gli effetti di legge si concretano necessariamente gli effetti civilistici e in particolare quelli fallimentari. Accadeva che la legge agli effetti civilistici e fallimentari forniva dei requisiti non coincidenti con l'art. 2083 e ciò non di meno esonerava l'imprenditore dal fallimento. La nozione speciale così interpretata veniva a sostituire ciò che abbiamo già detto sul 2083, inoltre delineava un modello di impresa artigiana che si discostava da quella del codice, perché invece di guardare prettamente al criterio della prevalenza del lavoro famigliare rispetto agli altri fattori della produzione, guardava alla natura artistica o usuale dei beni e servizi prodotti, considerato questo come dato qualificante dell'impresa.
Oltre a questo la legge precisava di fissare dei limiti massimi per l'assunzione di dipendenti, però per alcuni tipi di attività come per l'abbigliamento su misura, questi limiti massimi non erano nemmeno previsti. Quindi, rispettando i limiti massimi in quei settori dove erano previsti per legge, l'impresa così delineata era considerata artigiana a tutti gli effetti e di conseguenza sottratta a fallimento anche in situazioni in cui il personale dipendente veniva ad essere assunto in alcuni casi addirittura senza limite e in situazioni indipendenti dai capitali investiti.
Qualcuno in dottrina ha tentato dire che questo "a tutti gli effetti di legge" era stato sopravvalutato e che bisognava fare una distinzione, però era una forzatura, perché in realtà questa espressione comprendeva senza dubbio gli effetti civilistici e fallimentari.
Per conciliare il dato normativo del codice civile con quello della legge fallimentare facevano una forzatura dicendo che questi effetti in realtà erano solo i privilegi e le agevolazioni che la legge poi prevedeva a favore dell'artigianato.
Quindi già nel 56 qualche voce si era sollevata per sostenere che forse questa espressione letterale non andava sopravvalutata e che quindi la legge civile si veniva ad apporre accanto alla legge speciale. Ma l'opinione dominante era che essendo così esplicita la legge erano compresi gli effetti civilistici e fallimentari. Può sembrare che l'opinione del Cottino si discosti da questa ma in realtà non è così, perché dice che la legge speciale veniva a integrare il codice, quindi è una sottotesi di coloro che sostengono che la legge vale a tutti gli effetti. Se va ad integrare il codice, il problema quindi poi diventa la conciliazione delle due cose, ma è come se lo stesso Cottino avesse detto che la legge vale a tutti gli effetti. E il fatto di dire che questa legge valeva a tutti gli effetti comportava l'esonero di questi soggetti dalle procedure concorsuali.
L'art. 2 della legge 860/56 sotto il profilo del personale dipendente assunto dice che potevano essere anche illimitati per taluni settori, la legge cita: "poteva avvalersi di personale dipendente pur che fosse personalmente guidato dall'imprenditore, senza limitazione di numero per le imprese che operavano nei settori dei lavori artistici tradizionali dell'abbigliamento su misura e con numero variabile per gli altri settori".
Anche sotto un altro profilo la legge si diversificava dal codice e dalla disciplina soprattutto generale, perché la qualifica di artigiano era riconosciuta anche a quelle imprese collettive e cioè esercitate in forme di società, le così dette società artigiane. Quali società potevano assumere la forma di società artigiane? Secondo la legge 860/56 le società cooperative e le società in nome collettivo.
La legge diceva: "L'impresa artigiana può essere esercitata anche in forma collettiva pur che si adotti la forma della S.n.c. o della società cooperativa" la condizione però era che la maggioranza dei soci partecipassero personalmente al lavoro dell'impresa e che il lavoro avesse funzione prevalente sul capitale.
Si poneva un problema perché ricordando l'art.1,2° comma della legge fallimentare che affermava: " In nessun caso sono considerate piccoli imprenditori le società commerciali".
La 56 ci dice che se noi accettiamo l'interpretazione a tutti gli effetti di legge, le società artigiane, seppur rientranti nell'ultimo comma dell'art. 1 della legge fallimentare, non erano soggette a fallimento. Quindi questa legge sotto il profilo societario costituiva una deroga all'art 1, 2° comma della legge fallimentare.
E' necessario fare una precisazione: una stessa impresa può essere esercitata individualmente ma anche collettivamente, se è esercitata collettivamente può esserci una società. L'art. 1, 2°comma della legge fallimentare dice: "In nessun caso sono considerati piccoli imprenditori le società commerciali". Allora mentre il piccolo imprenditore anche se esercita attività commerciale è sempre un piccolo imprenditore, dalla legge fallimentare si ha che se il piccolo imprenditore esercita attività collettiva e quindi è una piccola società commerciale, il fatto di essere piccola non rileva, perché se l'attività è commerciale ed esercitata in forma di società, fallisce. La distinzione fra piccolo - medio - grande, ai fini della dimensione dell'impresa vale solo per gli imprenditori individuali.
Su questo dato si inserisce la legge sull'artigianato che pare modificarlo, perché se questa legge vale a tutti gli effetti di legge e quindi anche a quelli fallimentari, si sovrappone all'art. 1 della legge fallimentare e prevede una deroga per le società artigiane. Quindi anche queste falliscono.
Anche la giurisprudenza ha sempre esonerato dal fallimento l'artigiano e la società artigiana seguendo però un percorso argomentativo diverso. L'artigiano e la società artigiana non falliscono perché non svolgono attività commerciale, facendo così una distinzione fra attività artigianale e attività commerciale.
Invece la dottrina è sempre stata contraria a questa interpretazione della legge del 56.
Una parte della dottrina ha detto che la qualifica artigiana data dalla legge del 56 nonostante la sua chiara espressione letterale a tutti gli effetti di legge pareva solo ai fini degli ausili proposti dalla legislazione speciale. Per fare questo però doveva forzare la lettera della legge. Un'altra parte della dottrina diceva invece che andava bene l'espressione a tutti gli effetti di legge ma non valeva per le società artigiane, perché comunque c'è l'art. 1, 2°comma della legge fallimentare che prevale sulla legge del 56.
Con il passare del tempo ci si rende conto che la ura artigianale si va modificando avvicinandosi sempre più al piccolo industriale.
La legge quadro dell'8 agosto 1985 n° 443, che prevede poi un adattamento regionale (la cosi detta legge cornice), interviene in materia di artigianato con una sua propria nuova definizione di artigianato. La 443 è tutt'oggi in vigore, anche se anche qui è intervenuta la Corte Costituzionale.
La definizione di impresa artigiana data fa perno sull'oggetto dell'impresa e l'art 3 della legge quadro cita:
"Definizione di impresa artigiana.- E' artigiana l'impresa che, , abbia per scopo prevalente lo svolgimento di un'attività di produzione di beni, anche semilavorati, o di prestazioni di servizi (con alcune limitazioni per alcuni settori) ".
In questa definizione è ssa l'espressione beni di natura artistica o usuale che caratterizzava l'artigiano del 56 e lo caratterizzava ancorandolo alla vecchia idea che noi avevamo dello stesso (arrotino, piccolo sarto di provincia), e sono invece si i semilavorati. Semilavorati vuol dire che per una parte il lavoro non viene fatto dall'artigiano. E' molto importante questo perché e il concetto di lavorazione per fasi ed è un concetto per cui la prevalenza qualitativa - funzionale se del tutto, prevalenza qualitativa - funzionale che voleva essere propria del piccolo imprenditore nella specie dell'artigiano. Quindi si è ancora più lontani dal 56, il processo in atto è verso un concetto di evoluzione dell'artigianato.
La legge cita anche la prestazione di servizi, vengono escluse alcune attività: le attività agricole, le attività di prestazioni di servizi commerciali, di intermediazione nella circolazione di beni o ausiliarie di queste ultime e di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, salvo il caso che siano solamente strumentali e accessorie all'esercizio dell'impresa.
Anche la ura dell'artigiano, all'interno di questa impresa, subisce delle modifiche perché si richiede che esso svolga in misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo senza specificare che tale lavoro deve essere prevalente sugli altri fattori della produzione, lavoro dipendente e capitale investito. Si dice solo genericamente che l'artigiano deve avere una funzione determinante nel processo produttivo.
Un altro punto importante sottolineato dall'art.: "svolga in misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale" come se la manualità fosse un qualcosa che può esserci o non esserci e che non caratterizza l'artigiano, laddove invece proprio il concetto di manualità è insita nella nostra idea di artigianato.
Anche in questa legge continuano ad essere imposti dei limiti per quanto riguarda i dipendenti che possono essere assunti, ma il numero massimo è talmente alto in taluni settori da arrivare a raggiungere una vera e propria piccola impresa industriale, esempio: già la legge del 56 fissava dei limiti, ma non sull'abbigliamento su misura e su alcuni lavori artistici, ebbene, con questa legge un passo avanti viene fatto perché si fissano i limiti proprio per l'abbigliamento su misura, limite che però è di 40 dipendenti. Oggi pensare che un sarto con 40 dipendenti sia da considerarsi artigiano è abbastanza ridicolo, perché non si ha più il confine con la piccola impresa industriale e successivamente con l'industrializzazione di questa attività.
Questa legge si preoccupa di fissare dei limiti all'assunzione dei dipendenti, ma questi però sono molto alti, perché? Perché si vuole assecondare il passo della crescita dimensionale dell'impresa artigiana.
La legge poi afferma che la qualifica artigiana possa essere assunta anche dalle società e quindi anche da imprese collettive. L'art. 3, 2° comma cita: "E' altresì artigiana l'impresa che, , è costituita ed esercitata in forma di società, pur che si rispetti la forma della società cooperativa e della società in nome collettivo, escluse le società a responsabilità limitata e per azioni ed in accomandita semplice e per azioni, a condizione che la maggioranza dei soci, ovvero uno di essi qualora i soci siano solo due, svolga in prevalenza lavoro personale, anche manuale, nel processo produttivo e che nell'impresa il lavoro abbia funzione preminente sul capitale". E' da notare che con questo articolo non si specifica affatto se nel concetto di lavoro sia compreso solo il lavoro del titolare o anche quello dei dipendenti, questo è rilevante in quanto dire che il lavoro vuole essere preminente sul capitale, non vuol dire che deve essere prevalente il lavoro dell'imprenditore o dei soci rispetto a quello dei dipendenti. Il discorso quindi cambia rispetto al 2083 dove si aveva una prevalenza concentrata sulla prevalenza qualitativa - funzionale rispetto al lavoro dei dipendenti e al capitale investito.
Oggi è intervenuta la legge n°133/97che ha modificato in parte questo 2° comma riconoscendo la qualifica artigiana anche alle società a responsabilità limitata unipersonale non che alle società in accomandita semplice pur che il socio unico o tutti i soci accomandatari siano in possesso dei requisiti previsti dalla legge sull'artigianato in generale e non siano nel contempo socio unico di un'altra s. r. l unipersonale o socio di un'altra accomandita, (art.3, 3°comma).
Quindi, oggi, la società artigiana può essere costituita nelle seguenti forme: s. n. c., società cooperativa, società a responsabilità limitata unipersonale e società in accomandita semplice pur che in questi ultimi due casi il socio unico o tutti gli accomandatari (soci che gestiscono l'impresa) non siano nel contempo soci unici o accomandatari di altre società.
La legge dell'97 vale solo perché amplia le società utilizzabili a regolare l'artigianato, rimangono comunque le leggi del 56edell'85.
La legge quadro dell'85 si allontana ancora di più dal codice civile perché come abbiamo visto è diversa per il tipo, per le dimensioni e soprattutto per l'oggetto dell'attività. Se ogni riferimento alla natura artistica usuale dei beni prodotti, vengono considerate artigiane anche le imprese edili, inoltre vengono compresi i semilavorati, l'attività manuale viene messo in un inciso e viene elevato il numero dei dipendenti in modo così ampio da fare in certi casi sire del tutto il confine tra l'impresa artigiana e la piccola industria.
Ci si chiede allora se questo è ancora l'artigiano del 2083 o siamo arrivati a una ura di artigiano completamente sganciata e rivista rispetto a essa. Cosa è rimasto, l'impresa artigiana si caratterizza ancora dalla prevalenza del lavoro dell'artigiano sul processo produttivo e dalla prevalenza del lavoro rispetto al capitale investito? Quando si parla di lavoro si intende il lavoro solo dell'artigiano e dei dipendenti. Il fatto che ci debba essere la prevalenza del lavoro rispetto al capitale è previsto poi solo per la società artigiane ma tutti hanno detto che per uniformità di trattamento e per parità di condizione questo principio si deve applicare anche all'impresa individuale.
La legge quadro quindi contempla veramente una grossa frattura rispetto ai dettati del 2083 e rispetto al modello di piccola impresa delineata nelle precedenti lezioni .
Quindi è vero che si scosta molto e che il concetto di prevalenza non è neanche alla lontana assimilabile al 2083.
Addirittura la legge dell'85 non prevede più l'espressione a tutti gli effetti di legge (civili non che fallimentari). Questa era prevista dalla legge del 56 ma viene soppressa nella legge dell'85 tutt'oggi in vigore. Anzi lo scopo specifico di questa legge quadro è quello di dare i cardini , i principi direttivi a cui poi si devono uniformare le singole regioni per l'applicazione di concessioni agevolative all'artigianato. Questo ci consente di dire che non dobbiamo più fare i conti con l'unico dato che sembrava doverci porre una lettura nel senso dell'esonero dal fallimento, da procedure concorsuali dell'artigiano. Questo era l'unico punto per cui se ci volevamo allontanare da esso dovevamo fare una forzatura della legge , adesso questa espressione non c'è più.
Questa legge prevede che tutti gli artigiani siano iscritti in un albo provinciale delle imprese artigiane e che questa iscrizione abbia efficacia costitutiva ai fini delle agevolazioni e non costitutiva ai fini della qualifica artigiana ai sensi civilistici, in quanto non sussiste più l'espressione a tutti gli effetti di legge.
Quindi l'iscrizione all'albo non preclude al giudice in sede fallimentare di accertare se esistono o meno i requisiti per far fallire questo soggetto.
Questo è un tipico caso di disapplicazione degli atti amministrativi da parte del giudice ordinario, perché ai nostri fini interessa vedere se il soggetto fallisce o no.
Allora la legge dell'85 ci riporta immediatamente al 2083, perché è come se dicesse che ci da una definizione di artigiano e di società artigiana con aspetti non coincidenti, perché la realtà è mutata (artigiano piccolo - medio industriale) però questa definizione non vale per tutti perché se a tutti gli effetti di legge, quindi parrebbe che sia sso un privilegio e parrebbe, questa legge, essere in sintonia con un orientamento giurisprudenziale che è sempre stato nel senso di fare quantomeno dei distinguo.
Oggi, quindi, per il riconoscimento di una qualifica artigiana del soggetto è necessario che sia rispettato il criterio della prevalenza del 2083. Se non si rispetta questo criterio l'imprenditore artigiano sarà considerato tale ai fini delle previdenze e di tutte le agevolazioni in materia dell'artigianato che saranno previste dalle regioni ma dovrà qualificarsi imprenditore commerciale o piccolo ai fini civilistici e quindi potrà fallire.
Quindi non è detto che il fatto di essere un artigiano ai sensi della legge dell'85 comporti sempre e comunque la non assoggettabilità al fallimento perché il giudice deve fare una verifica ulteriore.
Ci si trova su un sentiero che comincia a distinguere tra artigiano e artigiano, cioè ci può essere l'artigiano che rispetta il criterio della prevalenza e quindi è piccolo imprenditore oppure ci può essere l'artigiano che non rispetta questo criterio, che non è più un piccolo imprenditore, ma che è un imprenditore commerciale non piccolo e quindi è soggetto al fallimento, perché è un industriale.
La giurisprudenza nel frattempo arrivava alla stessa conclusione utilizzando però un percorso argomentativo diverso che ha portato avanti fino all'intervento della corte costituzionale.
La Cassazione ha fatto distinzione fra attività commerciale e attività non commerciale dell'artigiano e lo ha applicato, non facendo però mai distinzione fra impresa individuale e collettiva.
L'imprenditore artigiano è soggetto a fallimento quando per l'organizzazione e l'espansione dell'impresa abbia industrializzato la propria produzione conferendo al suo guadagno normalmente modesto i caratteri del profitto.
Questa affermazione si basa su una differenza qualitativa tra imprese artigiane ed imprese industriale e quindi commerciale e vede questa differenza qualitativa nella diversa remunerazione dell'artigiano e dell'industriale, per il primo sarebbe un guadagno normalmente modesto e per il secondo sarebbe un profitto che deriva dall'intermediazione speculativa dei fattori della produzione e soprattutto del lavoro altrui.
Questa espressione è molto criticata nel testo ed è stata criticata da moltissimi, perché si è guardato soprattutto alle parole usate dalla cassazione dicendo: il profitto è qualcosa che dipende comunque dall'imprenditore privato come si può fare questa distinzione fra guadagni e profitto, forse che l'artigiano non tende ad un profitto.
Il discorso della cassazione è si criticabile ma è molto più complesso di questo e non è criticabile sotto un profilo: ha voluto dire, indipendentemente dall'apparato teorico usato, che dopo la legge del 56 e quella dell'85 c'è artigiano ed artigiano, non si può più avere una ura unitaria di artigiano, quindi mentre è giusto sottrarre al fallimento colui che non ha industrializzato la propria produzione (cosa significa guadagno modesto, vuol dire che si rientra nel 2083),non si sottrae al fallimento colui che ha industrializzato la propria produzione. Se la cassazione avesse usato un'impalcatura giuridica diversa la sua opinione sarebbe stata molto meno criticata, perché in fin dei conti nella sostanza questa opinione è condivisa da molta parte della dottrina.
Se proviamo a leggere l'affermazione della cassazione nel senso di attribuirle un significato più corretto con un impalcatura teorica che renda di più dal lato giuridico, si legge che di fronte al fallimento la categoria dell'impresa artigiana non è unitaria, cioè bisogna distinguere tra l'artigiano che è piccolo imprenditore e come tale non è soggetto al fallimento e l'artigiano invece che fallisce.
Ciò che ha detto meno bene è il perché. Allora, la dottrina più avveduta ha percorso le tappe della cassazione e ne ha accolto il ragionamento ma ha detto: perché non dare una diversa cornice teorica: applichiamo o non applichiamo il 2083.
Quindi tutto il discorso della cassazione viene ricondotto solo e semplicemente al fatto che ci troviamo di fronte ad un piccolo artigiano se è applicabile il 2083, per cui se si può applicare il criterio della prevalenza qualitativa del lavoro dell'artigiano rispetto agli altri fattori della produzione siamo ancora di fronte ad un piccolo imprenditore. Usciranno da questo schema alcune ure di artigiano che sono previste dalla legge speciale (sarto con 40 dipendenti).
Problemi più grossi emergono perché la giurisprudenza applica lo stesso principio anche alle società, basandosi sul fatto che considerava che anche queste potessero avere un profitto modesto, avere una piccola dimensione e quindi essere esenti dal fallimento. Questo andava bene finche la legge del 56 prevedeva che tale legge speciale valeva a tutti gli effetti di legge, non andava più bene dopo l'85. Interviene la Corte Costituzionale sull'art. 1, 2° comma ultima parte della legge fallimentare che dice: " In nessun caso sono considerati piccoli imprenditori le società commerciali". Questo discorso si è tutto sviluppato negli anni 90 con le sentenze più importanti nel 91, la 54 e la 368.
La corte costituzionale viene chiamata a decidere sulla legittimità costituzionale dell'ultima parte 2°comma, art. 1 della legge fallimentare con riferimento esclusivo alle società artigiane. Posto che ormai l'interpretazione assodata è quella che per l'imprenditore individuale possiamo avere l'artigiano piccolo imprenditore non soggetto al fallimento e un artigiano che piccolo imprenditore non è ed è quindi soggetto al fallimento, perché non applicare la regola anche alle società artigiane? Con sentenza interpretativa di rigetto la corte dice: "Non c'è illogicità o disparità di trattamento tra piccoli imprenditori e società artigiane esonerati dal fallimento da un lato e le società commerciali anche piccole assoggettate alla misura concorsuale dall'altro. Il diverso trattamento fatto alla società artigiana trova giustificazione nella natura e nel carattere di questo tipo di società il quale gode di uno status particolare ed è soggetto ad una disciplina peculiare la quale si applica fino a che le sue dimensioni siano modeste. Se essa si ingrandisce, se la sua organizzazione si espande fino ad assumere le dimensioni di una vera e propria impresa industriale, se il suo bagaglio assume il connotato del profitto perde le caratteristiche di impresa artigiana ed è soggetta al fallimento in quanto è ritenuto prevalente il fine della speculazione del profitto, ciò e del resto quello che avviene anche per l'artigiano, il quale è soggetto a fallimento quando si espande e organizza la produzione su base speculative".
Questa sentenza è interpretativa di rigetto quindi vale per il caso deciso e non come per la sentenza di accoglimento che dichiarando l'incostituzionalità di una norma la fa cadere. In questo caso viene rigettata la questione di costituzionalità interpretando la norma. La norma non è incostituzionale se letta così: mi deve lasciare la possibilità di distinguere le società artigiane a seconda delle dimensioni, vi possono essere al pari dell'imprenditore individuale limitatamente alle società artigiane, società che falliscono perché non sono considerabili piccoli imprenditori e le società che non falliscono essendo di piccole dimensioni, i soci prestano la propria opera all'interno della società a livello personalizzato.
Questa affermazione è stata molto criticata da tutta la dottrina in quanto ha evidenziato una disparità di trattamento fra le società artigiane e tutte le altre società. Si è chiesta come mai la distinzione per le società artigiane non valesse per le altre società. Questo non è giustificato in quanto sarebbe un'interpretazione della corte costituzionale rivolta a perpetuare un privilegio in capo all'artigianato. E' come se dicesse non esiste il 2083 per l'impresa collettiva ma me lo invento limitatamente all'impresa artigiana.
Oggi quindi abbiamo quasi una frattura nell'ambito di questa interpretazione tra dottrina e corte costituzionale.
IMPRESA FAMIGLIARE
Art. 230 bis "Impresa famigliare. - Salvo che sia conurabile un diverso rapporto, il famigliare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell'impresa famigliare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell'impresa famigliare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento.."
Secondo il codice è quella in cui collaborano i famigliari dell'imprenditore. Si considerano il coniuge, i parenti entro il 3° grado cioè si arriva fino ai nipoti e agli affini entro il 2°.
Si è sentito di dettare una norma di questo tipo perché c'erano già in passato molti collaboratori "domestici" il cui lavoro non era valutato adeguatamente, quindi era necessario trovare una collocazione a questi soggetti.
Il legislatore ha voluto garantire un livello minimo inderogabile, un trattamento per questi soggetti che prestavano il proprio lavoro nell'impresa ma che non erano remunerati sufficientemente e ha specificato che questa disciplina trova applicazione ove non vi sia un rapporto diverso come un rapporto di società o un rapporto di lavoro subordinato. Però ove non ricorrano questi requisiti si applica il 230 bis del c.c., che è stato introdotto in seguito alla riforma del diritto di famiglia che fra l'altro parifica anche sotto altri profili la posizione femminile e quella maschile e vuole tutelare i collaboratori e l'impresa domestica.
Sul piano patrimoniale e poi anche su quello fiscale si hanno vantaggi perché questo istituto è servito per frazionare il reddito d'impresa attraverso i vari partecipanti all'impresa famigliare. Anche se però c'è stata una legge del 75 che ha detto che per evitare elusioni fiscali la quota di reddito che può essere assegnata ai famigliari non può superare un tetto massimo che è del 49% però nell'ambito di questo tetto massimo è possibile un frazionamento del reddito tra i vari famigliari.
Vengono riconosciuti dei diritti patrimoniali ai partecipanti dell'I.F., uno di questi è il diritto al mantenimento cosa che prima non esisteva. Questo diritto viene prestato secondo le condizioni economiche della famiglia.
Un diritto alla partecipazione agli utili dell'impresa del titolare che è commisurato alla effettiva entità del lavoro che viene prestato nell'impresa, un diritto ulteriore sui beni che vengono acquistati con gli utili dell'impresa e sugli incrementi del valore dell'azienda, inoltre in caso di divisione ereditaria di beni della stessa, il famigliare ha diritto di prelazione secondo le modalità della prelazione in materia successoria, cioè della prelazione con effetti reali (art. 732), ossia quando il titolare intende alienare l'azienda, il partecipante all'azienda famigliare ha il diritto di acquistarla a parità di condizioni, ha efficacia reale perché se l'azienda venisse venduta ad un terzo senza interpellare preventivamente l'altro famigliare ci sarebbe il retratto efficacia reale quindi nell'azienda gli effetti della vendita ricadrebbero sul famigliare e non sul terzo: prelazione con effetti reali.
Questa prelazione è diversa dalla prelazione con effetti obbligatori.
Oltre a questi diritti patrimoniali la legge stabilisce che limitatamente agli atti di straordinaria amministrazione le decisioni per operazioni inerenti a questi atti vengono contratte dai famigliari a maggioranza e si intende che tale maggioranza venga calcolata per testa.
I diritti di partecipazione si possono trasferire a favore di altri membri della famiglia però ci vuole il consenso degli altri partecipanti all'I.F., quindi consenso unanime.
Inoltre questo diritto di partecipazione è monetizzabile, si fa l'ipotesi di un soggetto che non appartenga più alla comine famigliare intesa come I.F. quindi il suo diritto di partecipazione può essere quantificato e monetizzato, a questo punto gli si attribuisce una (come conseguenza giuridica del recesso) attribuzione del diritto di credito, viene monetizzato in denaro il valore della quota.
La cosa più importante dal punto di vista giuridico è la qualificazione. Quest'I.F. che cos'è? E' un'associazione, una società, un'impresa individuale dove collaborano altri soggetti, è un'impresa collettiva, rientra in senso lato nei fenomeni associativi o è comunque un'impresa individuale?
In passato all'inizio del 75 quando c'è stata la riforma qualcuno aveva avanzato l'ipotesi che rientrasse nei contratti associativi.
L'opinione che prevale oggi è che sia esclusivamente un'impresa individuale del titolare e che i famigliari partecipano all'impresa del titolare e abbiano con esso solo un rapporto obbligatorio di debito-credito, quindi non sono soci ma soggetti titolari di rapporti esclusivamente obbligatori. Questi rapporti obbligatori di famigliari non alterano la struttura individuale che rimane in cap all'I.F. cosa molto importante perché comporta una serie di conseguenze giuridiche di non poco conto:
- la titolarità di tutta l'azienda è dell'imprenditore datore di lavoro: il titolare dell'impresa;
- i debiti dell'impresa sono debiti del titolare e non dei singoli come per la società con soci limitatamente responsabili.
In questo caso essendo impresa individuale l'unica responsabilità è quella del titolare, poi ci sono i rapporti di debito-credito all'interno di essa. Non solo ma il titolare compie tutti gli atti di gestione ordinaria; mentre per la gestione straordinaria serve una delibera maggioritaria che si vota per testa dei famigliari. Quindi se ad esempio l'imprenditore adottasse atti di straordinaria amministrazione violando questo principio di delibera a maggioranza degli altri famigliari, che ne è di questi atti nei confronti dei terzi? Questo è un problema che verrà studiato anche a proposito delle società quando si studieranno i poteri degli amministratori nei confronti dei terzi.
Ad es.: la vendita di un immobile che fa parte del patrimonio dell'impresa per la quale era necessario un consenso dei partecipanti all'I.F., l'imprenditore invece come unico titolare dell'impresa individuale si comporta come se questo fosse un atto di gestione ordinaria. Cosa accade del contratto? Il contratto non è opponibile ai terzi perché implica solo un problema di risarcimento danni nei confronti degli altri famigliari.
Quindi la violazione di questi poteri che la legge attribuisce ai famigliari, poteri di deliberare gli atti di straordinaria amministrazione fa si che se comunque il titolare unico compie questi atti senza che ci sia una loro delibera questa non incide sulla validità degli atti compiuti, l'atto resta valido nei confronti dei terzi ma implica che il titolare sia obbligato ad un risarcimento danni nei confronti dei famigliari prepermessi, perché non sono stati interpellati a tempo debito. E' un modo per tutelare i terzi e per facilitare anche i contratti.
Concludendo bisogna fare una distinzione, si è detto che l'imprenditore individuale per essere soggetto allo statuto dell'imprenditore commerciale deve essere un imprenditore commerciale non piccolo, tutte queste regole riassunte sotto lo statuto dell'imprenditore commerciale: problema della pubblicità, tenuta scritture contabili e fallimento.
Queste regole possono avere degli adattamenti quando si tratta di studiare le società per ora partiamo dal seguente concetto: ci sono diversi tipi di società. L'unico tipo di società nel nostro ordinamento che non deve assolutamente esercitare attività commerciale a cui è vietato è la società semplice che è adibita ad attività agricola.
Mentre l'attività agricola può essere esercitata da tutti gli altri tipi di società.
Per cui al di fuori della società semplice tutte le altre società in nome collettivo, in accomandita semplice, in nome personale e di capitali possono svolgere sia attività agricola che commerciale con un'unica differenza che queste società sono denominate nella prassi anche se svolgono attività agricola società commerciali.
Anche una società per azione potrebbe avere per oggetto un'attività agricola la differenza è che quando abbiamo studiato lo statuto dell'imprenditore commerciale le società semplici che esercitano attività agricola non falliscono, le società commerciali possono e non possono fallire e le società di capitali non sono soggette a fallimento perché non esercitano attività commerciale.
Dei distinguo si fanno anche a proposito della pubblicità. Oggi per quanto riguarda le società si è detto che l'imprenditore commerciale è iscritto nel registro delle imprese con funzione di pubblicità legale dichiarativa, questo vale per tutte le società ma una volta non valeva per le società semplici. Oggi anche queste vengono iscritte ma in sezioni speciali con un valore diverso dalle altre.
Le società non vengono mai considerate piccoli imprenditori a parte le società artigiane come ci ha insegnato la corte costituzionale, inoltre nei confronti dei soci illimitatamente responsabili il fallimento della società si estende anche a questi: fallimento in estensione.
Studiando le società si avrà più chiaro il concetto di statuto di imprenditore commerciale però è necessario tenere presente:
- le società con forma commerciale con oggetto agricolo non falliscono;
- tutte le società commerciali sono tenute all'iscrizione nel registro delle imprese;
- non sono considerate piccoli imprenditori le società commerciali;
- i soci a responsabilità illimitata di società personali falliscono con le società.
Quindi per l'impresa collettiva societaria questo statuto delle società commerciali provoca degli adattamenti.
La società semplice non è l'unica società con soci illimitatamente responsabili ma vi sono anche la società in nome collettivo e la società in accomandita semplice.
La società semplice sotto il profilo dell'impresa collettiva - piccolo imprenditore - imprenditore agricolo, va iscritta nel registro delle imprese in apposite sezioni speciali e la pubblicità di queste iscrizioni è di pubblicità notizia.
Tutte le altre pubblicità ed altri imprenditori che sono imprenditori di società commerciali vanno iscritti con funzione di pubblicità legale dichiarativa. Quando viene iscritta una S.p.A. nel registro la società non nasce se non viene registrata, si parla in questo caso di pubblicità costitutiva per le società di capitale.
Oltre agli imprenditori privati esistono anche quelli pubblici.
Lo scopo di lucro non è elemento essenziale per l'attività d'impresa perché non esiste solo l'impresa privata. Per l'impresa pubblica vale semplicemente il criterio di economicità. Visto che l'art.2082 non ha distinto tra impresa pubblica e privata, ha ritenuto sufficiente il concetto di economicità e non quello di scopo di lucro perché un conto è dire che si ottiene un esubero dei ricavi rispetto alle spese, un altro è dire che si ottiene il pareggio.
Il Cottino non dice una cosa diversa da questa, la dice solo in maniera diversa.
Leggendo, pare che dia per essenziale lo scopo di lucro, ma lo considera essenziale per l'impresa privata e non pubblica. Considerando l'impresa privata è essenziale lo scopo di lucro, però accanto ad essa non nega l'esistenza dell'impresa che privata non è, cioè l'impresa pubblica. Sottovaluta l'essenzialità, cioè dice che visto che la maggior parte delle imprese sono quelle private, è essenziale lo scopo di lucro. In realtà ci sono anche le imprese pubbliche e il 2082 non distingue.
Ci sono delle distinzioni da fare:
IMPRESE ORGANO
Possono essere enti pubblici territoriali come province e comuni e vengono a svolgere un'attività d'impresa valendosi dei propri organi e delle proprie strutture. In questi casi l'attività d'impresa è un'attività secondaria ed è accessoria rispetto ai fini istituzionali che l'ente si propone di raggiungere cioè i fini pubblici.
Es. rientrano i monopoli di Stato o le aziende municipalizzate, cioè quelle che vendono pubblici servizi come acqua o gas.
ENTI PUBBLICI ECONOMICI
Enti di diritto pubblico hanno come loro compito istituzionale principale (e non in via accessoria) l'esercizio di un'attività d'impresa.
La maggior parte di questi enti è venuta a diminuire dal 1990 in poi perché è iniziato un processo di privatizzazione per cui c'è stata o la trasformazione in società private, in S.p.A., e questa è la privatizzazione in senso formale.
Oppure c'è stata una privatizzazione sostanziale dove cioè lo Stato ha dismesso le partecipazioni di controllo a favore dell'impresa privata.
Comunque, la differenza è che per questi enti l'attività d'impresa non è svolta in
via principale, ma è sempre svolta in via accessoria.
Altro è il caso in cui lo stato o l'ente pubblico utilizzi lo strumento societario come
qualunque altro soggetto, cioè costituendo una società o acquistando delle quote e la
partecipazione pubblica può essere
R di maggioranza
R di controllo
R di minoranza
Per questo terzo profilo l'impresa pubblica non si distingue sotto nessun profilo
dall'impresa privata e segue totalmente le regole dell'impresa privata.
Lo stato utilizza lo strumento societario privato.
Quindi, non c'è distinzione.
La distinzione è tra
R imprese organo
R enti pubblici economici
Vediamo cosa dice il Codice. L'art.2093 reca la scritta «Enti inquadrati ed enti non inquadrati nelle associazioni professionali» per distinguere gli enti pubblici economici da una parte e le imprese organo dall'altra. Questo perché nel 1942 vigeva il regime fascista che imponeva questa dicitura. Oggi usiamo la dicitura di «Enti pubblici economici» che svolgono attività d'impresa in via principale ed «Imprese organo» che svolgono attività d'impresa in via secondaria.
Gli enti pubblici economici sono sottoposti, se svolgono attività commerciale, allo statuto dell'imprenditore commerciale. La legge dice che tali enti (2201) sono soggetti all'iscrizione nel registro delle imprese. Unica eccezione (art.2221 C.c. e art.1 legge fallimentare) è che non sono soggetti né al fallimento né alle altre procedure concorsuali. Al loro posto si avranno
R liquidazione coatta
R liquidazione prevista da singole leggi speciali
E' meno agevole individuare le discipline da applicare agli altri tipi d'impresa, cioè le imprese organo, quando l'attività d'impresa non è l'oggetto principale ma è quello secondario. L'art.2093 dice che nei confronti di questi enti si applicano le disposizioni sull'impresa limitatamente alle imprese da esse esercitate.
Però, il terzo comma dice che sono salve le diverse disposizioni di legge ad esse eventualmente applicabili.
Allora se gli enti pubblici economici sono soggetti ad iscrizione, implicitamente vuol dire che coloro che non svolgono attività d'impresa in via principale non sono soggetti all'iscrizione, in quanto quest'ultima è prevista solo per gli enti che hanno come oggetto esclusivo e principale un'attività commerciale.
Art.2221 dice che sono anche esonerati dal fallimento.
Da qui si apre un discorso interpretativo secondo 2 direzioni.
Il Cottino dice che nel momento in cui queste imprese non sono soggette ad iscrizione, vuol dire che questi sono considerati imprenditori ma non imprenditori commerciali.
Posizione avallata da una parte della dottrina.
Un'altra parte sostiene che tali imprese dovrebbero essere esposte alla tenuta delle scritture contabili, tanto il legislatore non dice nulla se non dire che sono soggetti alla disciplina dell'impresa con l'esonero implicito dell'iscrizione ed espresso della disciplina del fallimento. Quindi si ritiene che sia applicabile una piccola parte dello statuto dell'impresa commerciale e cioè quella della tenuta delle scritture contabili. Anche perché non c'è disposizione di legge contraria.
Per quanto riguarda le associazioni e le fondazioni, si tratta di enti che nascono con fini altruistici e benefici. Però, non è detto che non possano svolgere attività commerciale. Posto che tale attività è sempre strumentale rispetto alle finalità altruistiche degli enti, si fa la stessa distinzione tra
R enti pubblici economici = attività commerciale in via principale
R enti pubblici non economici = attività commerciale in via accessoria
Un'associazione che ha come scopo un fine altruistico può avere come oggetto un'attività commerciale in via esclusiva.
Es. associazione sportiva che vende biglietti per far partecipare più gente ai fenomeni sportivi. Quindi diventa un'attività commerciale in via principale.
Oppure un sindacato che pubblica dei periodici.
In questi casi, si svolge attività commerciale, con tutte le conseguenze che ne derivano tra cui l'assoggettamento al fallimento.
Più frequente è che l'attività commerciale sia svolta a latere.
Es. istituto di suore che apre un asilo.
In questo caso sorge di nuovo il dibattito, ma con la differenza che le associazioni che svolgono attività commerciale in via accessoria sono la maggior parte.
Le tesi sono 2. Posto che per i primi la parificazione all'impresa commerciale è totale, il problema sorge per le associazioni che svolgono attività commerciale in via accessoria.
Qualcuno ha proposto di fare applicazione analogica delle norme 2221 e 2201, cioè parificare queste associazioni agli enti pubblici non economici. L'opinione è che tali soggetti non diventassero imprenditori commerciali, ma solo imprenditori.
Il Cottino quando distingue tra enti pubblici economici e non economici, dove i primi sono soggetti allo statuto dell'imprenditore commerciale e i secondi solo allo statuto generale dell'imprenditore, fa tale distinzione solo per gli enti pubblici. Per le associazioni e le fondazioni che svolgono attività commerciale in via accessoria non fa tale distinzione, cioè non si può fare applicazione analogica in quanto le norme per gli enti pubblici hanno carattere eccezionale.
Una norma eccezionale serve per regolare un caso specifico non è suscettibile di applicazione analogica, perché applicazione analogica vuol dire che in base allo stesso ragionamento applico al caso non regolato la disciplina del caso regolato: Il Cottino e la maggior parte della dottrina ritiene che le norme riferite agli enti pubblici non possono essere trasferite nel campo dell'attività commerciale esercitata in via secondaria anche dall'associazione. Da qui il passo è breve nel dire che non ci sono più differenze tra l'associazione che svolge in via principale l'attività commerciale e quindi non attribuire pienezza di effetti di attività anche a coloro che la svolgono in via secondaria.
Invece, tutta la giurisprudenza tende a non far fallire tutte le associazioni che svolgono attività commerciale in via secondaria.
La disciplina degli enti pubblici l'ha chiarita il legislatore. L'unico problema è per le imprese organo cioè imprese che svolgono attività commerciale in via accessoria. In tal caso la legge dice che non è applicabile l'iscrizione nel registro delle imprese. Da ciò ne consegue, secondo Cottino, che non è applicabile anche la rimanente disciplina dell'impresa commerciale. Questa distinzione fatta per gli enti pubblici, qualcuno ha cercato di riprodurla tale e quale per le associazioni e fondazioni, facendo la distinzione tra quelle che svolgono l'attività commerciale in via principale e quelle che la svolgono in via accessoria. Si è arrivati a sostenere che il 2° tipo di associazioni non sono imprenditori commerciali, ma solo imprenditori.
Il Cottino che ha adottato questa tesi per gli enti pubblici, non la applica alle associazioni e fondazioni, perché dice che le norme che s'invocano per fare questo passo sono norme eccezionali e come tali non sono suscettibili d'applicazione analogica.
Al di là di questo, la giurisprudenza sostiene che le norme dettate sull'imprenditore commerciale non possano essere applicate ad associazioni e fondazioni che svolgano attività commerciale in via accessoria.
Questi passaggi sulle imprese pubbliche sono importanti perché il legislatore quando ha dato la definizione d'impresa, comprendeva anche quella pubblica, la quale ha regole in parte differenti da quelle private.
Imprese private ed alcune imprese pubbliche sono soggette a fallimento se insolventi.
Cosa vuol dire insolvente in senso fallimentare? L'imprenditore commerciale non riesce a far fronte a tempo debito e con mezzi normali al amento dei propri creditori. A questo punto un creditore chiede un'istanza di fallimento. Questa è la conseguenza a cui si va incontro quando non si a a tempo debito e con mezzi normali. Infatti, si può are in ritardo e con mezzi anormali che denotano già che l'impresa è in uno stato prezzi fallimentare.
Serve per dire quando è applicabile lo statuto dell'impresa.
La giurisprudenza ha adottato una teoria che vale per l'impresa individuale e una che vale anche per le società. Ciò è contraddetto dalla dottrina che afferma che distinguo non vanno fatti.
La qualità d'imprenditore si ha solo con l'effettivo inizio dell'esercizio dell'attività d'impresa (quando inizia l'esercizio effettivamente). Ci sono soggetti che vanno iscritti, ma non basta l'iscrizione se non c'è esercizio dell'attività d'impresa. Inoltre, c'è una forma d'illiceità che consiste nel compimento dell'attività d'impresa senza le prescritte autorizzazioni. Anche se queste imprese violano alcune norme amministrative, comunque iniziano attività d'impresa.
Di fatto, né l'iscrizione nel registro, né la mancanza di autorizzazione sono indici per farci dire che l'attività è cominciata, perché per le persone fisiche ci ispiriamo all'idea di un esercizio effettivo.
Invece, la giurisprudenza e parte della dottrina hanno adottato una soluzione diversa per le società. Per le società, le qualità d'imprenditori si ha fin dal momento della loro costituzione:
R dal momento del contratto per le società di persone
R dall'iscrizione nel registro delle imprese per le società di capitali
Per le società, l'acquisto della qualità d'imprenditore, cioè l'inizio della società, viene fatto coincidere con il momento della sua costituzione. Ma questa può avvenire prima dell'inizio effettivo del compimento di un atto d'esercizio. La conseguenza è quella di far fallire molto prima un soggetto collettivo rispetto al momento in cui inizia effettivamente ad esercitare l'attività. La motivazione che adducono è: mentre per l'imprenditore privato bisogna effettivamente vedere quando siamo di fronte all'esercizio d'impresa, per le società che hanno un oggetto sociale, cioè l'attività economica che la società si propone di compiere, è più facile per le società dire quali sono gli atti d'esercizio perché dichiarato nell'atto costitutivo. Invece, per le società fisiche, il controllo va fatto caso per caso perché esse possono svolgere una molteplicità di atti.
In realtà questa differenza di trattamento non poggia su nessun dato normativo.
L'art.2082 parla di esercizio e non distingue tra imprenditore individuale e collettivo.
E' vero che quell'articolo è dedicato all'impresa individuale, ma non fa distinzione. Dice semplicemente «è imprenditore chi esercita»; quindi è importante il momento dell'esercizio per assumere la qualità dell'imprenditore e quindi l'esercizio non è una mera dichiarazione d'intenti.
L'oggetto sociale non è l'attività economica della società, ma l'attività economica che la società si propone di svolgere, perché quando si fa l'atto costitutivo l'attività non è ancora iniziata. Quindi non è giusto dire che fin dalla costituzione è iniziata l'attività. Questa comincerà nello stesso momento in cui comincia per l'impresa individuale, cioè quando inizia l'esercizio effettivo, non quando uno programma l'attività economica.
Dunque, il principio dell'effettività vale sia per l'impresa individuale sia collettiva.
Il problema ora è distinguere l'attività preparatoria rispetto alla vera e proprio esercizio dell'attività d'impresa.
Non è detto che si parta subito con l'esercizio effettivo dell'attività d'impresa. Quando ciò avviene c'è un'intelaiatura di atti preparatori che precedono l'esercizio effettivo dell'impresa.
E' fase organizzativa in senso lato:
R l'acquisto di macchinari
R l'acquisto o affitto di un immobile
R l'assunzione di dipendenti
Però, non è detto l'attività sia sempre preceduta da un'attività preparatoria; si ha subito attività d'esercizio. Ma quando si hanno tali atti? Per l'imprenditore individuale bisogna fare attenzione che questi atti abbiano il connotato della professionalità, cioè devono essere una serie coordinata verso un unico fine. L'imprenditore inizia così la sua attività.
Quando c'è stata già attività preparatoria non si può più fare la distinzione, cioè cercare se basti un atto o ce ne vogliano più e collegati perché se abbiamo a monte un'organizzazione aziendale, già un unico atto d'esercizio è attività d'impresa.
Fin qui c'è l'accordo di tutti. I problemi nascono quando bisogna distinguere tra:
R atti preparatori o organizzativi
R atti d'esercizio
Se c'è struttura in piedi basta un solo atto per qualificarlo come atto d'esercizio
Se non c'è struttura, ci vogliono più atti teleologicamente coordinati altrimenti non c'è il requisito della professionalità ma dell'occasionalità.
Gli atti preparatori sono o no atti d'impresa?
Quando l'imprenditore inizia ad organizzare è già imprenditore o non lo è?
Il Cottino segue la tesi di Franceschelli il quale distingue tra
R atti di organizzazione
R atti dell'organizzazione
Mentre gli atti dell'organizzazione avrebbero sempre un carattere prezzi imprenditoriale, cioè preparatorio e non di esercizio, solo gli atti dell'organizzazione determinerebbero l'inizio dell'attività d'impresa.
Ma quali sono gli atti di e dell'organizzazione?
Chi adotta questa tesi fa dei distinguo. C'è una categoria di atti che è già un atto dell'organizzazione; c'è una categoria di atti preparatori che è da parificare agli atti di esercizio ed è l'assunzione dei dipendenti. Gli altri sono atti di organizzazione bisogna porre cautela, perché se sosteniamo che lì comincia un'attività d'impresa si arriva a far fallire un soggetto anche nell'attività preparatoria.
Quindi
R atti di organizzazione hanno carattere prezzi imprenditoriale
R atti dell'organizzazione hanno carattere imprenditoriale
Non è sempre così. Ci sono eccezioni: l'assunzione di dipendenti fa sì che chi li assume sia un datore di lavoro e che compia già un atto d'esercizio.
Si contrappone una tesi più largheggiante perché è molto difficile fare distinzioni nette. Visto che ci sono delle eccezioni, sarebbe meglio uniformare il tutto e non distinguere l'attività preparatoria da quella di esercizio. Però, non tutti gli atti preparatori sono già atti di impresa perché bisogna considerare
R n° degli atti compiuti
R loro significatività in relazione all'esercizio effettivo di quell'impresa
R loro direzione cioè devono essere volti a fine produttivo benessere stabilito
Inoltre, mentre è difficile fare questa distinzione per gli imprenditori individuali, molto meno lo è per le società perché per queste ci aiuta proprio il fatto che essa deve avere alla base un'organizzazione aziendale e una struttura tali da far sì che il primo atto sia già un atto d'esercizio. Quindi, la valutazione di fatto è più difficile per l'imprenditore individuale che non per le società.
Per la cessazione dell'attività si usa ancora il principio dell'effettività.
L'effettiva cessazione dell'attività fa sì che sia cessata l'attività. Ma dobbiamo stabilire quando ciò avviene. L'art.10 della legge fallimentare prevede che l'imprenditore commerciale possa essere dichiarato fallito entro un anno dalla cessazione dell'attività.
Quindi bisogna stabilire il giorno esatto.
La fine della società vera e propria è preceduta da fase di liquidazione in cui definire gli atti in corso e il fine ultimo è la disgregazione dell'attività. La fase di liquidazione non è disciplinata dalla legge per l'impresa individuale. La liquidazione è chiusa solo quando si arriva la disgregazione aziendale. Non è poi necessario che vi sia definizione totale di tutti i rapporti attivi e passivi sorti durante l'attività di impresa.
Non è necessario, cioè, che tutti i crediti siano stati riscossi e tutti i debiti ati.
Questo perché se si considera sempre in vita un'impresa fino a che questi rapporti non sono stati tutti definiti, l'art.10 non si applica più. L'articolo dice che l'imprenditore si può dichiarare fallito per tutto l'anno seguente la data di fallimento.
Ma se l'attività non è cessata fino a che c'è un creditore da soddisfare, allora nessuno dichiara più fallimento. Questa è proprio l'interpretazione data per le società. Mentre per l'imprenditore individuale si fa la differenza tra l'attività di liquidazione propedeutica ad una cessazione vera e propria dell'attività che si associa allo smantellamento del complesso aziendale, non avviene lo stesso per l'impresa societaria.
La giurisprudenza, ormai consolidata, all'art.2312 si parla di cancellazione della società. Approvato il bilancio finale di liquidazione, i liquidatori devono chiedere la cancellazione della società dal registro delle imprese.
Dalla cancellazione della società, cioè dal fatto che la società non esiste più, i creditori sociali che non sono stati soddisfatti possono far valere i loro crediti ai soci nei confronti dei soci, e se il mancato amento è dipeso da colpa di liquidatori, anche nei confronti di questi. Perché sui soci? Perché la società non esiste più.
La giurisprudenza è unanime nel leggere questa norma come se non esistesse. Essa dice che finché esiste anche un solo creditore che si fa avanti dopo la cancellazione della società, non si considera estinta la società. Quindi il creditore si rivolgerà direttamente alla società e non al singolo socio. Così la giurisprudenza vuole tutelare i creditori che avanzano pretese anche dopo la cancellazione della società. Spesso i creditori sono enti previdenziali e fisco. Purtroppo è una giurisprudenza che porta a fallimento la società. Inoltre, il superamento del 2312, fa rivivere la società finché l'ultimo creditore non sia stato soddisfatto e rende inapplicabile l'art.10 della legge fallimentare. Se si considera la società ancora in vita nonostante la cancellazione che ne determina l'estinzione, finché esista anche un solo creditore soddisfatto vuol dire tutti i creditori vanno soddisfatti e nessuno chiederà più il fallimento. Significa anche che la società invece di essere esposta al fallimento solo da un anno rispetto al giorno in cui ha cessato la sua attività, è esposta per sempre fino a che l'ultimo creditore non sia soddisfatto. Se la società non si considera estinta la società, essa è ancora esposta a fallimento. Non vale più il termine di un anno, perché fino a che ci sarà un creditore insoddisfatto, questo potrà chiedere il fallimento. Quando non ci saranno più creditori, non ci sarà più il fallimento perché non lo potrà più chiedere nessuno.
Quindi si arriva ad interpretazione che diversifica l'impresa individuale da quella societaria.
Si distingue tra
R minori non emancipati ed interdetti che sono considerati incapaci
R inabilitati e minori emancipati che sono considerati limitatamente capaci
Le regole stabilite dalla legge si riferiscono solo all'impresa commerciale. Non sono previste norme particolari per l'impresa agricola: si applicano le norme comuni in tema d'incapacità.
Vediamo quali sono le deroghe poste alla disciplina dell'incapace dal diritto commerciale.
Quali sono i principi generali del diritto civile? La legge si preoccupa di garantire che l'amministrazione del patrimonio degli incapaci faccia sì che si preservi l'integrità di tale patrimonio, e soprattutto la conservazione dello stesso. L'incapace potrebbe disgregare completamente il patrimonio. Questo soggetto non ha la piena capacità, e quindi il legislatore si preoccupa di garantire la conservazione del patrimonio.
L'incapace ha bisogno di un rappresentante legale, cioè di un soggetto che agisca in nome e per conto.
Agire per conto = nell'interesse di un altro soggetto (es. mandatario che compie uno o
più atti giuridici per conto del mandante. Se il mandato non ha
rappresentanza il mandatario compie atti giuridici per conto del
mandante)
In nome = essere autorizzati a spendere il nome del soggetto
(Es. mandato con rappresentanza. Gli atti giuridici compiuti, come una
vendita, producono degli effetti che ricadono sul mandante che è il
destinatario finale di tali effetti)
Dunque l'incapace deve avere un rappresentante:
R genitori per i minori
R tutore per interdetti
Secondo la disciplina comune, quella che vale per l'impresa agricola, il rappresentante è legittimato a compiere solo gli atti di ordinaria amministrazione.
Gli atti di straordinaria amministrazione possono essere compiuti solo in caso di necessità o di utilità reale ed è necessaria un'autorizzazione da parte del tribunale per ogni singolo atto.
Le stesse regole valgono per l'inabilitato ed il minore emancipato che compiono gli atti personalmente, ma con l'ausilio di un curatore.
Questa è la disciplina comune. Si studia l'incapace sotto il profilo della proprietà, che è un profilo statico.
L'impresa va invece studiata sotto il profilo dinamico. Ecco perché saltano delle regole che valgono per la proprietà a favore dell'imprenditore commerciale perché il legislatore non ha avuto di mira solo la conservazione del patrimonio d'impresa in sé, ma ha considerato che l'attività imprenditoriale è svolta a rischio dell'imprenditore; cosa che non accade al proprietario.
Tutto ciò ha portato all'enucleazione di regole speciali, che si affiancano a quelle del C.c. senza cancellarle.
C'è divieto assoluto di iniziare attività commerciale a carico del minore,
dell'interdetto e dell'inabilitato. Salvo che per il minore emancipato, per gli altri è prevista solo la continuazione di un'attività s'impresa che già è stata iniziata da altri, o dal soggetto che poi è stato dichiarato inabilitato. La continuazione si può fare purché sia
R utile
R autorizzata dal tribunale
Es. caso dell'eredità dell'azienda da parte di un minore. Oppure donazione di un'impresa. Il punto è che l'impresa è un complesso di beni organizzati dall'imprenditore per l'esercizio dell'impresa e può essere ceduta, donata o trasmessa «mortis causa». Ma l'impresa è un'attività che implica una gestione e l'incapace non è in grado di gestire. Allora per gestirla è necessaria la presenza di un soggetto che agisca in nome dell'incapace per la gestione.
Dunque, il legislatore ammette la continuità ma non l'inizio.
La continuazione ha un senso perché ci si trova davanti ad un'impresa già avviata, la cui cessazione potrebbe avere effetti negativi per il minore o interdetto stesso. Si sceglie un curatore per favorirlo e non per nuocergli.
Inoltre, per un'impresa già avviata è più facile per il tutore valutare i rischi cui il destinatario va in contro.
Rispetto al diritto civile si ha ampliamento dei poteri del rappresentante le gale dell'incapace o del soggetto limitatamente capace. La rappresentanza ha carattere generale. Non ci vuole più l'autorizzazione atto per atto. Non si distingue più tra atti di ordinaria e straordinaria amministrazione, cioè viene autorizzata l'attività non l'atto. In nessun caso è autorizzato l'inizio dell'attività nell'interesse di un minore. Quando per successione ereditaria e per donazione il minore acquista una preesistente attività commerciale il rappresentante legale (genitore per il minore e il tutore per l'inabilitato) può essere autorizzato dal tribunale, su parere del giudice tutelare, a continuare l'esercizio dell'impresa. Può anche accadere che il giudice tutelare conceda l'esercizio provvisorio dell'impresa, in attesa dell'autorizzazione finale, per non danneggiare la continuità degli atti in corso. Con l'autorizzazione finale i genitori o i tutori sono legittimati, in quanto rappresentanti in nome o per conto dei soggetti interessati, a compiere tutti gli atti che rientrano nell'esercizio dell'impresa. Questa è la rappresentanza di ordine generale.
Per l'interdetto valgono le stesse regole che valgono per il minore. Il rappresentante è in tal caso il tutore.
Regole diverse valgono per l'inabilitato che è quel soggetto la cui capacità non sia generale, ma limitata agli atti di ordinaria amministrazione.
Anche per esso, come per il minore, non può essere concessa un'autorizzazione per l'inizio d'impresa, ma solo per la continuazione. Una volta giunta l'autorizzazione, l'inabilitato è quel soggetto che esercita personalmente l'impresa con l'ausilio di un curatore. Ci sarà l'ausilio del curatore per gli atti che non può compiere da solo e cioè per gli atti che esulano dall'esercizio corrente dell'impresa. Anche in questo caso, però, il tribunale potrebbe subordinare il rilascio dell'autorizzazione alla nomina di un institore. L'institore ha un potere di rappresentanza generale, cioè può compiere tutti gli atti. Si applica, così, la disciplina della rappresentanza institoria.
Il minore emancipato è l'unico che può iniziare impresa commerciale e non solo continuarla. E' necessaria autorizzazione che gli conferisce la piena capacità di agire che gli manca.
Vediamo le conseguenze giuridiche.
In tutti i casi in cui ci vuole l'autorizzazione, la qualità d'imprenditore commerciale va in capo al minore, all'interdetto e all'inabilitato.
Purtroppo l'incapace è esposto a fallimento, cioè è esposto alle conseguenze che derivano dal fatto di essere titolare d'impresa commerciale.
Da qui manca la concordia degli autori. Posto che gli effetti patrimoniali del fallimento ricadono sul titolare d'impresa, cioè sull'incapace, altri autori fanno distinzione su altri effetti:
R effetti penalistici
R effetti personali (es. iscrizione all'albo dei falliti)
Bisogna fare distinzione tra
R effetti personali
R sanzioni penali
Forzando la lettera della legge, le sanzioni penali si fanno ricadere sul rappresentante e non sul rappresentato. La legge prevede sanzioni penali a carico degli institori, e quindi si fa applicazione analogica. Il rappresentante legale non è institore, ma ha in comune con esso il fatto di avere rappresentanza generale. Perciò, la sanzione penale colpisce chi ha compiuto il fatto e non il minore il cui nome è stato speso da altri. Facendo poi perno sulla disciplina penale dei reati commessi dall'institore e avvicinare la sua ura a quella dei rappresentanti legali, i quali sono anch'essi dotati di rappresentanza legale.
Quindi:
R effetti patrimoniali ricadono sull'incapace
R effetti penali ricadono sui rappresentanti legali
Più difficile è sottrarre il minore fallito agli effetti personali che derivano dal fallimento. Una parte della dottrina afferma che neanche questi effetti dovrebbero ricadere sull'incapace. Altri dicono che è difficile non attribuirgli questi effetti perché l'art.50 dice che l'incapacità di tipo personale consegue automaticamente all'iscrizione all'albo dei falliti. E' il minore ad essere iscritto. Quindi chi vuole non applicare gli effetti personali al minore, fa interpretazione che difficilmente si concilia con tale norma.
Le società hanno bisogno di dati certi e resi pubblici in modo da poter indirizzare il proprio agire. Inoltre, hanno bisogno anche d'informazioni veritiere che siano rilevanti sotto vari profili, non solo sotto quello del nome della ditta o dell'imprenditore, ma anche sotto il profilo degli atti costitutivi o della loro modifica.
Per tutte le società vige un principio di pubblicità legale. Vuol dire che per rendere conoscibili al pubblico determinati atti, la legge prevede un regime di pubblicità detta anche formale perché affidata a dei pubblici registri. In tal modo non solo le informazioni vengono rese accessibili al pubblico, ma producono l'effetto dell'opponibilità a chiunque degli atti iscritti e che, in tal modo, vengono resi conoscibili.
Quindi, la pubblicità legale è una sorta di pubblicità formale, cioè legata formalmente all'istituzione di un registro detto registro delle imprese. Il registro, previsto dal codice del 1942, è rimasto lettera morta, perché non è mai stato emanato il regolamento attuativo. Alcune norme transitorie del C.c., in attesa del regolamento, hanno dato le indicazioni su come comportarsi. Con il regime transitorio, invece che nel registro delle imprese, determinati atti venivano iscritti presso la Cancelleria del tribunale, che era il surrogato del registro. Però, le regole transitorie del C.c. regolavano questo per quanto concerne le società. Non c'è regime di pubblicità attuato per l'imprenditore individuale. Questo imprenditore era temporaneamente esonerato dall'iscrizione; solo per singoli atti era prevista l'iscrizione.
In emanazione della 1° direttiva CEE, la legge 1127/69 prevedeva un ulteriore forma di pubblicità per le società: l'iscrizione oltre che nel registro delle imprese, anche l'iscrizione nel BUSARL (= Bollettino ufficiale delle società per azioni e a responsabilità limitata). Le cooperative dovevano essere invece iscritte nel BUSC (=Bollettino ufficiale delle società cooperative).
Non erano tenuti ad iscrizione
R piccoli imprenditori
R imprenditore agricolo
R società semplici
che non possono esercitare attività commerciale.
Erano però soggetti a pubblicità notizia perché erano tenuti all'iscrizione nel registro delle ditte presso le Camere di Commercio. Bisognava rispettare un'esigenza d'informazione di ogni possibile interlocutore.
Il 29/12/93 con la legge n°580 del riordino delle Camere di Commercio si istituisce il registro delle imprese. Nel 1995 viene emanato il regolamento attuativo delle imprese e modificato nel 1996. Senza regolamento, il registro delle imprese non poteva essere attuato. Quindi tutta la disciplina trova applicazione dal 01/01/97, ponendo fine al regime transitorio durato 50 anni.
Con l'emanazione del regolamento attuativo, si elimina il registro delle ditte perché quei soggetti non commerciali ora trovano collocamento in sezioni speciali del registro delle imprese.
Dal 01/10/97 è stato soppresso l'obbligo di pubblicità aggiuntiva nel BUSARL e nel BUSC. Prima si stabiliva che per determinati attinenti alla vita delle società di capitali, gli effetti della pubblicità legale decorressero dalla pubblicazione nel BUSARL.
Il registro delle imprese non è solo uno di pubblicità legale limitato solo alle società commerciali, ma è strumento d'informazione sui dati rilevanti di tutte le società e anche dell'imprenditore individuale. Questo perché è stata estesa l'iscrizione anche ai 3 tipi d'imprenditori sopra indicati.
La tenuta del registro è affidata alle Camere di Commercio, le quali fanno sì che i compiti svolti preso le Cancellerie dei tribunali siano stati soppressi.
Altra importante novità che facilita l'acquisizione e l'inserimento dei dati, è che il registro è tenuto su base informatica e non cartacea. Ciò garantisce velocità.
Com'è strutturato il registro delle imprese?
C'è un ufficio del registro che è istituito presso la Camera di Commercio di ogni provincia ed è tenuto da un conservatore nominato dalla giunta comunale. La sua attività è sottoposta alla vigilanza del giudice delegato nominato dal Presidente del tribunale del capoluogo di provincia.
Il registro è composto da
R una sezione ordinaria
R diverse sezioni speciali
SEZIONE ORDINARIA
Nella sezione ordinaria sono iscritti gli imprenditori per i quali l'iscrizione nel registro ha effetto di pubblicità legale e cioè produce gli effetti di cui all'art.2193.
L'articolo afferma: i fatti dei quali la legge prevede l'iscrizione, se non sono stati iscritti, non possono essere opposti ai terzi da chi è obbligato a richiederne l'iscrizione, a meno che questi provi che i terzi ne abbiano avuto conoscenza.
L'ignoranza dei fatti dei quali la legge prevede l'iscrizione, non può essere opposta dai terzi dal momento in cui l'iscrizione è avvenuta.
Chi è soggetto ad iscrizione in questa sezione?
imprenditori individuali, commerciali, non piccoli
tutte le società, tranne quella semplice, anche se non svolgono attività commerciale. Perché l'attività agricola può essere svolta anche da società diverse dalla società semplice. Tutte le società con forma commerciale, anche se non svolgono attività commerciale, vanno iscritte nella sezione ordinaria. Non si guarda all'oggetto = attività effettivamente esercitata.
Consorzi (art.2012) tra imprenditori con attività esterna. Sono dei contratti associativi tra imprenditori che contrattano con i terzi e non solo tra i partecipanti all'associazione stessa.
GEIE = Gruppo Europeo d'Interesse Economico
Enti pubblici economici che hanno per oggetto esclusivo o principale un'attività commerciale
Società estere che abbiano in Italia o la sede della loro amministrazione o l'oggetto principale della loro attività.
SEZIONI SPECIALI
Sono iscritti tutti i soggetti che prima non erano soggetti ad iscrizione nel registro delle imprese, ma erano soggetti ad iscrizione nel registro delle dite ai soli fini di pubblicità notizia.
La pubblicità nelle sezioni speciali è pubblicità notizia, cioè è solo una segnalazione nei confronti dei terzi e non vale ai fini dell'opponibilità degli atti soggetti ad iscrizione.
Vanno iscritti:
imprenditori agricoli individuali
piccoli imprenditori
società semplici
sono annotati in una sezione speciale anche gli imprenditori artigiani, dove l'iscrizione ha effetti costitutivi solo ai fini delle agevolazioni della legge del 1985 e non ai fini civilistici (come l'acquisto della qualifica di piccolo imprenditore o l'esonero dal fallimento). Però, devono essere già iscritti all'albo degli artigiani.
La dottrina e la giurisprudenza ritengono che quando l'artigiano non è qualificabile
come piccolo imprenditore, esso vada iscritto nella sezione ordinaria perché è
imprenditore commerciale.
Quali atti vanno registrati?
Per l'imprenditore individuale, sono gli elementi che valgono ad identificarlo su la mercato:
R dati anagrafici
R ditta
R oggetto dell'attività
R sedi principale e secondarie eventuali
R momenti di inizio e cessazione
Per le società sono gli atti più importanti:
R atto costitutivo e sue modificazioni, e le delibere che modificano l'atto
R nomina e revoca di amministratori e sindaci
R liquidatori quando la società è sottoposta a liquidazione
In generale, ogni modifica di un elemento iscritto va di nuovo iscritta per renderle conoscibili ai terzi.
Va iscritto ciò che la legge impone sia iscritto. L'elencazione degli atti è tassativa.
Come viene fatta l'iscrizione?
L'iscrizione viene fatta nel registro delle imprese della provincia in cui ha sede la società.
Negli atti e nella corrispondenza delle società bisogna indicare il registro presso il quale l'iscrizione è avvenuta.
Viene fatta su domanda dell'interessato. Se non lo fa, l'iscrizione, quando è obbligatoria, viene fatta d'ufficio. Così d'ufficio può essere fatta una cancellazione di un'iscrizione avvenuta al di fuori delle norme di legge. Mai si cancellerà d'ufficio un atto costitutivo di una società di capitali, perché qui l'efficacia della costituzione costitutiva.
Che tipo di controllo si fa per procedere all'iscrizione?
L'ufficio del registro deve controllare che l'atto o il fatto soggetto ad iscrizione, nonché tutta la documentazione che viene allegata, siano formalmente regolari. E' controllo formale.
C'è anche un controllo sostanziale perché si deve controllare l'esistenza o la veridicità dell'atto o del fatto. Ciò non vuol dire controllare che l'atto sia valido, ma che sia veritiero.
L'iscrizione viene eseguita entro 10 giorni da quando la domanda viene protocollata.
L'iscrizione avviene tramite inserimento nell'elaboratore elettronico; gli utenti possono consultare il registro presso la Camera di Commercio oppure con propri PC.
Può accadere che il controllo dia esito negativo e quindi l'iscrizione non avviene. Il rifiuto viene motivato.
Il richiedente può ricorrere entro 8 giorni al giudice del registro che provvede con decreto. Anche contro questo decreto c'è il ricorso, che si propone in tribunale. Anche il giudice del tribunale provvede con decreto. Entro 15 giorni.
Quindi il principio è che si può ricorrere contro un diniego motivato.
L'inosservanza dell'obbligo d'iscrizione determina sanzioni pecuniarie ed amministrative. Vi sono anche sanzioni indirette, come l'escludere tali soggetti dal beneficio del concordato preventivo e dell'amministrazione controllata. Sono procedimenti per cercare di evitare il fallimento, concessi perché l'imprenditore è stato onesto ma sfortunato.
Esiste pubblicità
R formale (per i registri)
R di fatto = per le società semplici è concesso ai soci che non amministrano di limitare la responsabilità. Nelle società personali risponde illimitatamente la società perché il patrimonio è un centro autonomo di diritti e doveri.
(Anche le società hanno autonomia patrimoniale = società hanno autonomia patrimoniale distinta rispetto al socio)
Nella società semplice è valido il patto che limita la responsabilità, solo per i soci che non amministrano. Questo patto ha efficacia sui terzi solo se è reso loro noto con mezzi idonei. Per il Cottino, quella affidata a dei mezzi idonei è la pubblicità di fatto.
Mai nessuno ha dato definizione concreta di mezzi idonei. Tanto che notai e commercialisti consigliavano ai clienti di costituire una s.a.s., proprio per i dubbi sui mezzi idonei. (Oggi c'è il registro delle imprese, che potrebbe essere un ulteriore mezzo idoneo. Il dubbio che resta è se tale pubblicità non diventi dichiarativa, dove per le società semplici, l'iscrizione ha efficacia di pubblicità notizia).
Si parla di pubblicità:
1. dichiarativa
2. costitutiva
3. normativa
PUBBLICITA' DICHIARATIVA
E' la regola nel diritto commerciale.
Di regola l'iscrizione nella sezione ordinaria ha efficacia dichiarativa, cioè questa pubblicità rileva solo sul piano dell'opponibilità dell'atto o del fatto ai terzi.
Art.2193 è da collegare agli effetti solo della pubblicità dichiarativa: i fatti e gli atti dei quali la legge richiede l'iscrizione, nel momento in cui vengono iscritti, sono opponibili ai terzi. Questa è l'efficacia positiva immediata dell'iscrizione.
Si presume che siano conoscibili ai terzi tutti gli atti iscritti. Ecco perché è positiva.
Si presume che non valga la prova contraria. E' una presunzione assoluta: il terzo non può eccepire l'ignoranza dell'atto iscritto. Qualunque prova data dal terzo per dimostrare la sua non conoscenza, non ha effetto. C'è il registro.
Efficacia immediata = ha effetto dal momento della registrazione
C'è anche un'efficacia negativa: l'omessa iscrizione impedisce che il fatto possa essere opposto ai terzi.
Ma l'imprenditore può dare prova che il terzo ha avuto, lo stesso, conoscenza dell'atto. Es. lettera raccomandata.
PUBBLICITA' COSTITUTIVA
E' l'eccezione alla pubblicità dichiarativa.
In alcune ipotesi previste tassativamente dal legislatore, la pubblicità non rileva solo ai fini dell'opponibilità ai terzi dell'atto, ma rileva a fini maggiori. Diventa presupposto affinché l'atto sia idoneo a produrre i suoi effetti.
Quindi ha effetti più rilevanti, perché affinché l'atto sia produttivo d'effetti tra le parti o verso i terzi, occorre l'iscrizione con effetti costitutivi.
Es. Una società di capitali, finché non viene iscritta, non è una società di capitali e non produce i suoi effetti né all'interno né all'esterno.
Quando, con determinate delibere, si riduce il capitale perché troppo ampio rispetto all'oggetto della società, se la delibera non viene iscritta, l'omissione impedisce il decorso del termine di tre mesi per l'opposizione dei creditori. Cioè la mancata iscrizione vale solo nei confronti dei terzi. La riduzione vale, non c'è però l'effetto dei tre mesi. Quindi non c'è spazio per le società di capitali irregolari.
Le s.n.c. e le s.a.s. possono ugualmente vivere anche se non sono iscritte. Questo fenomeno delle società irregolari vale solo per le società di persone registrate, e non per le società di capitali, per ché per le società di persone commerciali l'iscrizione ha solo effetti dichiarativi, mentre per le società di capitali ha effetti costitutivi.
PUBBLICITA' NORMATIVA
Ecco perché si parla d'efficacia normativa. L'iscrizione delle società di persone nella sezione ordinaria fa sì che ad esse si applichi una disciplina giuridica particolare, che è quella delle società di persone commerciali regolari.
Se non vengono iscritte, vengono sottoposte a regime diverso.
Queste società possono essere iscritte con funzione di pubblicità dichiarativa. Se sono iscritte, acquistano la qualifica di s.n.c. o s.a.s. regolari. Visto che la disciplina delle società regolari è diversa da quella delle società irregolari, vuol dire che l'iscrizione ha una valenza normativa perché fa assumere la veste di società regolare.
EFFICACIA SANANTE DELL'ISCRIZIONE (art.2332)
Una società nulla se viene iscritta, può successivamente essere dichiarata nulla.
Avvenuta l'iscrizione nel registro delle imprese, sulla base di una società nulla si possono sviluppare una serie di rapporti con i terzi. Se si applicasse la disciplina generale della nullità dei contratti, poiché la società è sempre un contratto, l'azione di nullità farebbe cadere con efficacia retroattiva tutti gli atti compiuti. Il legislatore ha posto un'eccezione con l'art.2332, per cui se una società è nulla ma è stata iscritta, sono validi gli atti compiuti dal momento dell'iscrizione fino al momento della dichiarazione di nullità. Questo per tutelare la società stessa e i terzi. Se tutto fosse posto nel nulla, nessuno contratterebbe più con la società. Si tutela la circolazione nel mercato.
Quindi pubblicità sanante vuol dire che gli atti compiuti da una società nulla iscritta sono fatti salvi.
Inoltre, la legge dice che con una delibera dell'assemblea straordinaria iscritta nel registro, si può eliminare la causa di nullità. Anche qui, la pubblicità è sanante, poiché l'iscrizione della delibera che elimina il vizio nel registro, sana il vizio stesso. Il fenomeno della pubblicità sanante è fenomeno eccezionale.
PUBBLICITA' NOTIZIA
L'iscrizione nelle sezioni speciali del registro non produce nessuno degli effetti sopra, che sono della pubblicità legale dichiarativa. E' solo pubblicità notizia, cioè si viene a conoscenza dell'atto. Il problema è che, anche se l'atto è iscritto, non è renderlo opponibile ai terzi. Ciò significa che bisogna provare l'effettiva conoscenza.
Es. l'imprenditore agricolo che si è iscritto con tale qualità può opporre ai terzi tutti gli atti e fatti. Bisogna dimostrare che il terzo lo conosceva effettivamente.
Non si hanno gli effetti propri della pubblicità dichiarativa che è collegata all'iscrizione nella sezione ordinaria. Ha la stessa funzione che aveva nel registro delle ditte.
Quindi permane la differenza tra imprese soggette allo statuto dell'imprenditore commerciale e le altre imprese iscritte nelle sezioni speciali.
E' importante che il legislatore le abbia iscritte, per avere visione più organica, ma non ci sono gli effetti del 2193 (efficacia positiva e negative)
Il registro delle imprese è pubblico, quindi chiunque può consultare gli elaboratori e gli uffici rilasciano gli atti richiesti.
Per le società di capitali (S.p.A., s.n.c. e s.a.s.) l'opponibilità, i terzi non è immediata al momento dell'iscrizione, ma bisogna attendere 15 giorni. Quindi nel periodo che va dall'iscrizione fino al 15° giorno, un terzo potrebbe dimostrare di non essere stato a conoscenza dell'atto. Questo però limitatamente alle società di capitali. (art.2457)
Per le società cooperative e per convocare l'assemblea anche nelle S.p.A., la convocazione va pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale.
La pubblicità normativa è la pubblicità che distingue tra
R imprese regolari
R imprese irregolari
La pubblicità normativa è una sottospecie di quella dichiarativa.
Se una società con forma commerciale ha per oggetto un'attività agricola, va iscritta anche nella sezione speciale? No. Prevale l'iscrizione nella sezione ordinaria.
La pubblicità formale è quella affidata al registro.
La pubblicità di fatto è quella affidata ai mezzi idonei. Non è affidata formalmente ad un registro.
Nel Cottino, dopo la pubblicità, si parla di
In senso lato, anche la pubblicità crea un'apparenza perché rende conoscibili certi fatti. Ma non è l'apparenza giuridica. Con questo termine si fa riferimento a società che in realtà non esistono, ma esteriormente sembra di sì.
Apparenza giuridica = situazione di fatto non corrisponde a situazione di diritto.
Se, di fatto, ci sono persone che si comportano come soci verso terzi, ma di diritto non esiste nessuna società perché non è stato stipulato alcun contratto, e se tale situazione ha ingenerato in un terzo incolpevole il convincimento dell'esistenza della società, il legislatore parifica l'apparente a ciò che è veramente esistente. Ciò significa che nel momento in cui ci sono obbligazioni che nascono, nascono in capo alla società e si fa rispondere la società con il proprio patrimonio, o meglio con il patrimonio dei soci.
Una società apparente non può essere società di capitali, perché c'è l'iscrizione che ha effetti costitutivi, cioè non nasce se non è iscritta.
Se il terzo sapeva che la situazione di fatto nono corrispondeva alla situazione di diritto, allora non va tutelato.
Altra cosa è il problema dell'imprenditore occulto.
La società occulta è il contrario di quella apparente.
All'esterno si manifesta una situazione di fatto diversa da quella di diritto nel senso che non emerge
R l'esistenza di un socio, quando ci sono più soci
R o l'esistenza dell'imprenditore
Teoria fondata dal Bigiavi, cui aderisce il Cottino, ma non accolta da tutta la dottrina.
Come avviene l'imputazione dell'attività d'impresa? Viene imputata direttamente a chi agisce in qualità d'imprenditore, essendo il fatto noto ai terzi. Quindi bisogna che
R il soggetto stesso spenda il proprio nome
R o che qualcuno spenda il nome dell'imprenditore
Può esserci il caso, in cui si esercita impresa per interposta persona, cioè con un prestanome. Quindi un soggetto è il vero dominus dell'impresa, ma sta dietro le quinte. Poi ce n'è un altro che spende il nome proprio e agisce ed è colui che nei confronti dei terzi si rivela imprenditore.
Ci sono alcuni autori, tra cui il Bigiavi, che ritengono che insieme al soggetto che si rivela imprenditore debba essere responsabile nei confronti dei terzi anche il vero dominus dell'affare. Cioè, risponde a titolo di responsabilità cumulativa e anche a titolo di fallimento.
Il problema è individuare l'imprenditore occulto. Su cosa si basa l'idea della responsabilità cumulativa e del fallimento verso l'imprenditore occulto? Sul nesso tra
R potere di direzione
R responsabilità
E' giusto che chi ha il potere abbia anche la responsabilità. Se non si adottasse la teoria dell'imprenditore occulto, ci sarebbe separazione di questi due elementi perché
R uno è il dominus che dirige
R altro è il soggetto che si prende la responsabilità perché egli contratta a nome
proprio nei confronti dei terzi. Quindi i creditori si rivolgono al patrimonio del
prestanome e non dell'imprenditore occulto, perché non lo conoscono.
In base al nesso, si richiamano alcune norme.
Art.2267 dice che nella società semplice, per definizione, i soci sono a responsabilità illimitata. Quindi rispondono nei confronti dei terzi
R la società illimitatamente con il proprio patrimonio
R i singoli soci che rispondono illimitatamente con il loro patrimonio
Però, è possibile che alcuni soci limitino la loro responsabilità. Tuttavia, i soci amministratori non possono limitare la responsabilità. Ecco che c'è un nesso inscindibile tra direzione dell'impresa e responsabilità.Stessa cosa deve avvenire per l'imprenditore occulto.
Con riferimento alla s.a.s. gli accomandatari sono i gestori dell'impresa e rispondono illimitatamente, mentre l'accomandante che non è gestore dell'impresa, risponde nei limiti della quota conferita. Questo è un altro nesso tra potere di direzione e responsabilità.
Tutte le società di capitali sono dotate d'autonomia patrimoniale. Significa che esiste il patrimonio della società slegato da quello dei singoli soci e questa separazione di patrimoni permea tutta la disciplina delle società, con gradi diversi. Vuol dire che l'autonomia patrimoniale della società semplice è meno accentuata della s.n.c.
Si arriva ad autonomia patrimoniale perfetta nella società di capitali, perché la separazione di patrimoni è totale.
Questa regola subisce un'eccezione (art.2362): durante la vita della società tutte le azioni sono concentrate nelle mani di un unico azionista. In tal caso, se la società fosse insolvente, quell'unico azionista risponderebbe illimitatamente. E' una sorta di sanzione per il fatto che le azioni sono nelle mani di un solo soggetto. Ma questo è un altro esempio che mostra come la gestione effettiva sia collegata dal legislatore alla responsabilità. Vale solo per l'unico azionista e non per la s.r.l.
Quindi i sostenitori di questa teoria si sono basati non su una motivazione morale, ma hanno cercato una base normativa.
Da queste norme si è estratto il corollario dell'inscindibilità tra poteri di direzione e responsabilità illimitata. Da qui si vuole dare la responsabilità illimitata anche a chi ha potere di direzione, ma agisce dietro le quinte. Si vuole dare stessa responsabilità illimitata all'imprenditore occulto al pari di quello palese. Si vuole agire sul patrimonio dell'imprenditore occulto perché quasi sempre il prestanome è un nullatenente. Si vuole agire in tal senso per favorire i creditori.
Non conta la spendita del nome, ma il potere effettivo di direzione perché in più norme il legislatore ha collegato la responsabilità illimitata a chi dirige l'impresa e a chi l'amministra. Allora gli autori dovevano dimostrare che l'imprenditore occulto è
R corresponsabile dei debiti dell'impresa (per alcuni autori)
R può fallire (per Bigiavi e altri)
Quindi, superando il principio della spendita del nome ci sarebbe parificazione tra prestanome e imprenditore occulto, perché il vero padrone di un'impresa formalmente altrui, non solo sarà corresponsabile dei debiti dell'impresa, ma fallirà, sempre e comunque, se fallisce il prestanome.
Il Bigiavi completa la sua teoria con l'art.147 della legge fallimentare. Riguarda il fallimento dell'imprenditore occulto di una società palese.
Il 1° comma tratta del fallimento in estensione: quando fallisce una società di persone, falliscono in estensione e in proprio anche i soci illimitatamente responsabili.
Il 2° comma dice: se dopo la dichiarazione di fallimento della società risulta l'esistenza di altri soci illimitatamente responsabili il tribunale, su domanda del curatore o d'ufficio, dichiara il fallimento dei medesimi, dopo averli sentiti in camera di consiglio. Il 2° comma dice che fallisce il socio occulto di società palese.
Si è voluto applicare l'art.147 per analogia al caso di fallimento del socio occulto di società occulta. E' un modo di dire che il legislatore considera la società occulta.
La giurisprudenza su questo punto è costante. Lo è meno su un altro punto. Una volta arrivati a parificare l'ipotesi non regolata a una regolata, ma che per la stessa ragione dovrebbe essere regolata allo stesso modo, cioè se si applica l'art.147 all'ipotesi sua propria e all'imprenditore occulto, perché si deve distinguere tra
R esercizio collettivo dell'impresa = società occulta
R esercizio individuale = imprenditore occulto
e dire che la società occulta fallisce e l'imprenditore occulto no?
Questo terzo passaggio è più ardito. Ecco perché la giurisprudenza è più restia ad ammettere l'esistenza dell'impresa occulta la dove ammette la società occulta. E' parsa più persuasiva la soluzione adottata a proposito delle società che non questo passo ulteriore.
Inoltre, si potrebbe estendere l'ipotesi al socio tiranno di una società di capitali, cioè chi è formalmente il vero padrone dell'affare ed è titolare dell'intero pacchetto azionario. Questa norma applicata formalmente porta a concludere che se un soggetto ha il99% delle azioni e un altro possiede l'1%, la norma 2362 non si applica.
Anche il socio tiranno è un imprenditore indiretto, quindi si dovrebbe applicare la stessa teoria.
Il Cottino appoggia la teoria dell'imprenditore occulto.
La giurisprudenza riconosce l'esistenza della società occulta e più difficilmente quella dell'impresa occulta perché adotta altri strumenti per reprimere questi casi.
Siamo partiti dallo studio dell'imputazione dell'attività d'impresa. I criteri usati sono:
Criterio formale = spendita del nome
L'attività d'impresa va in capo al soggetto il cui nome viene speso, non importa se da lui o da qualcun altro.
Es. Io che agisco in mio nome; oppure un tutore che agisce in nome dell'incapace.
Ma gli effetti dell'atto si producono in capo al soggetto il cui nome è stato speso nei confronti dei terzi. I creditori si rivolgono al patrimonio di quel soggetto che ha speso il nome all'esterno, anche perché non possono sapere se e chi c'è dietro.
La teoria dell'imprenditore occulto nasce proprio per il fatto che, quando i creditori vanno a chiedere il amento, si trovano davanti un nullatenente e non possono riscuotere. Anche la regola del mandato con o senza la rappresentanza ci dà la prova che prevale il criterio formale. Cioè l'imputazione dell'attività d'impresa è giusto che vada fatta in capo a quei soggetti che spendono il nome all'esterno.
Se il mandato è con rappresentanza risponde il mandante. Se è senza rappresentanza risponde il mandatario in proprio.
A questa tesi si oppone il
Criterio sostanziale = deve rispondere chi ha potere di direzione.
Non basta la spendita del nome. Ci sono delle norme che mostrano come in realtà
risponda chi ha il potere di gestione dell'impresa.
Allora è giusto che sia l'imprenditore occulto a rispondere illimitatamente.
Quindi ci sono 2 criteri giuridici per imputare l'attività d'impresa, così da avere due patrimoni su cui rifarsi.
Se, però, si abusa di tale principio, si rischia di far fallire chi ha un patrimonio capiente. Quindi la 2° teoria è più giusta ma va usata con cautela, altrimenti si va a cercare l'occulto ovunque. Un soggetto che per una sola volta ha prestato un finanziamento ad un altro rischia di fallire perché considerato imprenditore occulto.
Se, in linea generale, è vero che chi ha la direzione d'impresa risponde illimitatamente, questo non è un principio assoluto. Storicamente la gestione è sempre stata collegata alla responsabilità illimitata. Alcuni autori sostengono che non è sempre così. Consideriamo la s.n.c.. Tutti i soci rispondono illimitatamente perché non è possibile limitare la responsabilità all'esterno. Tutti i soci rispondono illimitatamente nei confronti dei terzi. Però è possibile che qualcuno di questi soci rinunci all'amministrazione. Coloro che non amministrano si vedono accolta la stessa responsabilità illimitata di coloro che amministrano. Quindi non è un principio assoluto che la gestione si accomna sempre alla responsabilità illimitata.
Nel caso della s.a.s. l'accomandatario è l'unico socio che può amministrare. Ma se non ha voglia di amministrare può solo fare il socio. Tuttavia, rimane un socio accomandatario che risponde illimitatamente. La responsabilità illimitata dell'accomandatario è collegata a un dato formale e non sostanziale, cioè alla qualità si accomandatario.
Quindi non è vero che alla gestione è sempre collegata la responsabilità illimitata.
Se fosse vero che il legislatore bada più alla sostanza che alla forma, l'accomandatario che non gestisce dovrebbe rispondere limitatamente. Invece, il legislatore si basa sul dato formale, cioè fa rispondere l'accomandatario illimitatamente, non perché amministra, ma perché è socio accomandatario. Normalmente è l'accomandatario che amministra, per questo vale la responsabilità illimitata dell'accomandatario. La responsabilità illimitata è data perché astrattamente l'accomandatario amministra. Se non amministra, al legislatore basta il dato formale di essere accomandatario per far scattare il regime della responsabilità illimitata.
Quindi prevale il dato formale.
E ciò è dimostrato ancora per il socio unico di una s.r.l.. E' l'unica società che può nascere con un unico socio.
Prima avevamo fatto un'ipotesi diversa: la S.p.A. deve nascere con una pluralità di soci. Durante la vita della società, vi può essere un unico azionista.
Oggi la s.r.l. può nascere con un unico socio che risponde limitatamente.
Quando risponde illimitatamente? In base a condizioni oggettive e formali, come la violazione della disciplina dei conferimenti previsti per il socio unico di s.r.l..
Si vede come il legislatore badi al dato formale perché consente ad una società di nascere con unico socio: la responsabilità illimitata scatta quando si violano delle regole formali.
Questi autori dicono che è troppo ritenere che l'art.147 legittimi la teoria dell'imprenditore occulto. L'unica cosa che dice è che se dopo il fallimento di una società palese si scopre la presenza di un ulteriore socio, questo risponde illimitatamente. Non si conosce il n° dei soci, non l'esistenza dell'impresa. Quindi da questa fattispecie regolata, passare al fallimento della società occulta va bene, ma non al fallimento dell'imprenditore occulto. Non regge l'analogia perché nella società palese con soci occulti, chi ha agito è la società. Quindi si rispetta il criterio della spendita del nome, che è criterio formale.
Ciò che è stato occultato non è l'impresa, ma il numero dei soci. Quindi c'è responsabilità del patrimonio dell'impresa, a cui si aggiunge quella del socio in più.
Sono due criteri. Bisogna vedere quale scegliere.
Se si chiama a rispondere solo l'imprenditore palese, si vogliono tutelare i creditori.
Ma bisogna distinguere i creditori. Facendo commistione di patrimoni, si fa commistione di creditori al momento del fallimento. Si crea concorrenza tra creditori dell'imprenditore occulto e dell'imprenditore palese.
La giurisprudenza accoglie l'esistenza della società occulta e la fa fallire e meno l'idea dell'imprenditore occulto. Elabora la teoria dell'impresa fiancheggiatrice per cui ci possono essere dei comportamenti tipici dell'imprenditore occulto e del socio tiranno, come
R sistematico finanziamento alla società
R direzione di fatto
Ma queste imprese che nascono a fianco dell'impresa considerata, come si possono fare fallire? Riconoscendo che tali imprese svolgono a loro volta attività commerciale e per tale via farle fallire. Quindi considera che vi siano gli attributi del 2082.
L'impresa fiancheggiatrice accanto all'impresa del prestanome, viene fatta fallire in proprio. Non sulla base dell'imprenditore occulto, ma sulla base del 2082, cioè è un'impresa dotata d'organizzazione, professionalità e metodo economico. E' un'impresa commerciale che può essere individuale o dare luogo ad una società di fatto. Quello che conta è che sia qualificabile come impresa commerciale e che per questo fallisca.
DIRITTO COMMERCIALE
LE SCRITTURE CONTABILI
Sono documenti che contengono la rappresentazione in termini monetari e quantitativi di tutti gli atti dell'impresa presi singolarmente, rappresentano la situazione patrimoniale dell'imprenditore e in senso lato, pone in luce se c'è stata una perdita.
Tenendo presente che mentre è nella facoltà di qualunque imprenditore indipendentemente dal fatto che questo sia o meno commerciale la tenuta di questi libri è facoltativa per tutti, la legge pone un obbligo esclusivamente per gli imprenditori che esercitano un'attività commerciale.
La tenuta di queste scritture contabili che è una facoltà per tutti, diventa un obbligo giuridicamente rilevante per gli imprenditori che esercitano un'attività commerciale ed è con riferimento ad essi che il codice disciplina le Scritture Contabili.
Per quanto riguarda i soggetti che sono obbligati a tenerle, bisogna fare attenzione, innanzitutto va detto che la disciplina si riferisce agli imprenditori commerciali però badate bene che la disciplina e le S.C. previste dal codice art.2214 e seguenti non si applica ai piccoli imprenditori che esercitano attività commerciali quindi è vero che si applica a chi esercita un'attività commerciale ma bisogna aggiungere purché non si tratti di piccolo imprenditore.
Inoltre, è stata fatta una distinzione tra società con forma commerciale che però potrebbero avere un oggetto non commerciale, l'unico divieto di svolgere attività commerciale la legge lo pone in capo alla società semplice, ma come vedremo per tutte le altre società vi è la facoltà di avere un oggetto o commerciale o agricolo.
Tutte le società commerciali con forma commerciale devono ritenersi obbligate alla tenuta delle S.C. anche se in concreto poi hanno un oggetto non commerciale quindi anche se non esercitano attività commerciale.
Da cosa si ricava questo riferimento?, vi sono norme sparse in ambito societario che lo chiariscono,
ad es.: per le S.p.A. il 2421 1° comma :
"Oltre all'obbligo della tenuta delle S.C. le società devono anche tenere:
Il libro dei soci,;
il libro delle obbligazioni,;
il libro delle adunanze e delle deliberazione delle assemblee,;
il libro delle adunanze e delle deliberazioni del consiglio di amministrazione;
il libro delle adunanze e delle deliberazioni del collegio sindacale;
il libro delle adunanze e delle deliberazioni del comitato esecutivo, se questo esiste;
il libro delle adunanze e delle deliberazioni delle assemblee degli obbligazionisti, se sono state emesse obbligazioni."
Quindi il legislatore ha previsto la tenuta delle S.C. indipendentemente dall'attività esercitata dalla società, quindi se per ipotesi la S.p.A. esercita un'attività agricola le si applica la norma appena citata.
Mentre la sottrazione del piccolo imprenditore lo stabilisce la legge 2214 3° comma:
"Le disposizioni di questo paragrafo non si applicano ai piccoli imprenditori".
Spesso i criteri del c.c. non sono necessariamente coincidenti con quelli del diritto tributario per cui secondo il diritto tributario vi possono essere delle S.C. diverse da quelle previste come obbligatorie dal c.c..
Non solo l'obbligo della tenuta di alcune scritture è prevista anche in capo a chi esercita un'attività professionale ma questo è solo ai fini tributari e non ai fini civilistici.
Le S.C. art. 2214:
"L'imprenditore che esercita un'attività commerciale deve tenere il libro giornale e il libro degli inventari.
Deve altresì tenere le altre scritture contabili che siano richieste dalla natura e dalle dimensioni dell'impresa e conservare ordinatamente per ciascun affare gli originali delle lettere, dei telegrammi e delle fatture ricevute, nonché le copie delle lettere, dei telegrammi e delle fatture spedite.
Le disposizioni di questo paragrafo non si applicano ai piccoli imprenditori"
Qual è il sistema del codice?, la norma detta innanzitutto un principio generale che l'imprenditore deve tenere le S.C. che siano richieste dalla natura e dalle dimensioni dell'impresa; e detta subito che devono essere tenuti obbligatoriamente determinati libri:
- Libro giornale;
- Libro degli inventari.
E ci parla poi della corrispondenza commerciale, lettere, telegrammi, fatture, per ciascun affare devono essere conservati gli originali di questa corrispondenza ricevuta e se ne custodisce una copia di quella spedita con riferimento a queste scritture il Cottino parla di Scritture giuridiche.
Libro Giornale:
registro con valore cronologico - analitico art. 2216.
"Il libro giornale deve indicare giorno per giorno le operazioni relative all'esercizio dell'impresa"
cronologico perché giorno per giorno anche se non bisogna intendere queste espressioni letteralmente è necessario però che tutte le operazioni siano registrate nell'ordine in cui si sono verificate, anche se questo non coincide col giorno esatto in cui sono avvenute.
Bisogna fare attenzione che si può anche registrare operazioni in modo omogeneo, questa sintesi deve consentire però la ricostruzione cronologica di ogni singola operazione che si è succeduta.
Il libro giornale si può suddividere in più libri parziali a secondo delle dimensioni delle imprese.
Libro Inventario:
Si dice che sia un libro periodico - sistematico perché deve essere redatto subito quando si incomincia l'attività d'impresa e poi successivamente ogni anno.
Quando studieremo successivamente altre norme vedremo che dev'essere chiuso entro 3 mesi dalla data della dichiarazione dei redditi.
Ci deve dare un quadro completo della situazione patrimoniale dell'imprenditore, deve contenere l'indicazione e la valutazione delle attività e delle passività anche estranee all'impresa quindi che riguardano l'imprenditore ma non l'impresa. Questo è detto dall'art.2217 1° comma:
"L'inventario deve redigersi all'inizio dell'esercizio dell'impresa e successivamente ogni anno, e deve contenere l'indicazione e la valutazione delle attività e delle passività relative all'impresa, nonché delle attività e delle passività dell'imprenditore estranee alla medesima"
La norma poi prosegue dicendo che l'inventario si chiude con il bilancio e con il Conto Profitto e Perdite Art.2217 2° comma:
"L'inventario si chiude con il bilancio e con il conto dei profitti e delle perdite, il quale deve dimostrare con evidenza e verità gli utili conseguiti o le perdite subite. Nelle valutazioni il bilancio l'imprenditore deve attenersi ai criteri stabiliti per i bilanci delle società per azioni, in quanto applicabili."
Quando parla di Bilancio e Conto P.P. intende dire del Bilancio comprensivo dello Stato Patrimoniale e del Conto Economico ed è un Bilancio nel quale devono risultare con evidenza e verità la situazione patrimoniale complessiva (Stato Patrimoniale a fine di ogni anno) nonché gli utili conseguiti o le perdite sofferte sempre nello stesso arco di tempo.
Evidenza e verità come principio di chiarezza e principio di verità .
Principio di chiarezza significa che il bilancio deve essere intelligibile ossia chi lo legge deve essere in grado di capirlo
Principio di verità significa che il bilancio non deve essere falso quindi vero. Il falso in bilancio è punibile anche penalmente.
Evidenza e verità sono i principi che trovate per la prima volta quando studiamo i libri contabili dell'imprenditore e sono principi che dettati con formule parzialmente diversi li troveremo per il bilancio delle società di capitale.
La Stato Patrimoniale è come se fotografasse in un dato periodo il patrimonio della società il C.E. ci da la spiegazione di come quell'utile è stato conseguito o del modo in cui si è arrivati a questa perdita.
La disciplina del bilancio invece è molto più analitica con riferimento alle S.p.A. perché ci sono norme che fissano il contenuto del bilancio, le voci che devono urare nei vari prospetti contabili e i criteri degli amministratori che sono l'organo che redigono il bilancio quando l'art.2217 prevede l'obbligo di redazione del bilancio fa un rinvio per la S.p.A. solo per ciò che concerne i criteri di valutazione.
Infatti la legge dice al 2° comma dell'art.2217:
"Nelle valutazioni di bilancio l'imprenditore deve attenersi ai criteri stabiliti per i bilanci delle società per azioni, in quanto applicabili".
La dottrina e la giurisprudenza dominante ritengono che il rinvio abbia carattere generale cioè il legislatore abbia voluto attenersi soltanto ai criteri di valutazione ma non nel senso di escludere tutto il resto.
Laddove il bilancio si debba fare, il modello a cui ci si deve ispirare è quello della società per azione, non solo per ciò che attiene i criteri di valutazione come parrebbe dire il 2217 ma in senso più globale.
Siamo partiti da un principio generale e l'adozione di questo comporta poi nel singolo caso concreto la tenuta di tutte quelle scritture che sono richieste dalla natura e dalla dimensioni delle imprese.
Ad esempio: il libro mastro, in questo libro vi sono registrate le singole operazioni, ma non cronologicamente, ma in modo sistematico cioè si raggruppano le operazioni per voci omogenee, esempio per tipo di operazioni, per tipo di cliente,
Il libro cassa che contiene entrate ed uscite di denaro
Libro magazzino dove vengono registrate le entrate ed uscite delle merci.
Questi sono libri contabili obbligatori secondo il c.c.
Secondo il diritto tributario ve ne sono altri, la legislazione tributaria prevede:
il libro dei cespiti ammortizzabili, il registro magazzino, il libro ai fini dell'accertamento I.V.A., libri che hanno contenuto laburistico: libro a, libri matricola.
Quindi a fianco della disciplina civilistica si affianca tutta una disciplina tributaria che non coincide in tutto e per tutto.
La legge si preoccupa di dettare come devono essere tenuti questi libri.
La legge vuole tutelare il principio di veridicità delle Scritture Contabili cioè si tende ad impedire che queste possano essere alterate in qualche modo, allora si dettano dei criteri che in parte mirano a prevedere una forma di regolarità formale altri che invece tutelano la regolarità sostanziale.
Regole Formali:
Libro giornale e libro degli inventari devono essere numerati ina per ina, devono essere inizialmente bollati fin dall'inizio foglio per foglio dall'ufficio del registro dell'impresa o da un notai, art. 2215.
Invece in base ad una legge del '94 è stata stabilita la vidimazione annuale ed è stata abolita la bollatura foglio per foglio in base ad una legge del '72 ma in realtà nella pratica si bolla ancora ina per ina, mentre la legge ammette una sola bollatura sull'ultima ina.
Questa regola per cui è stata abolita la vidimazione annuale ha modificato gli art. 2216-2217.
Formalità intrinseche: la legge dice che tutte le scritture devono essere tenute secondo norme dell'ordinata contabilità art.2219.
Norme di un ordinata contabilità significa che non vi devono essere spazi in bianco che non vi devono essere interlinee non abrasioni e se ci sono state delle cancellature si deve vedere la cosa che è stata cancellata, questa legge del '94 consente anche che si conservino le Scritture Contabili mediante sistemi informatici purché in ogni momento venga data la possibilità di leggere i dati.
Normalmente negli studi questi libri si tengono a computer e poi nei termini di legge, si rifà la stampa generale del libro.
Se non sono stati rispettati questi criteri di regolarità che sono sia estrinseci che intrinseci la scrittura non è regolarmente tenuta, vedremo che ha delle conseguenze non irrilevanti sotto il profilo probatorio.
Devono essere conservate per 10 anni e non sono soggette ad alcuna forma di controllo esterno si vuole tutelare il segreto dell'imprenditore questo vale per l'impresa individuale e per le società semplici.
Per le società di capitale tutta la contabilità delle S.p.A. quotate in borsa sono sottoposte ad un controllo esterno affidato a 2 organi:
società di revisione;
CONSOB.
Quindi questa regola per cui le scritture non sono sottoposte a nessuna forma di controllo esterno, ha una vistosa eccezione per quello che riguarda le società quotate.
Il fatto che vi sia un obbligo per la tenuta delle scritture ci fa presumere che ci sia una sanzione in caso contrario, ma in realtà non esiste una sanzione diretta. Vi sono però delle sanzioni indirette:
L'imprenditore che non tiene regolarmente le Scritture Contabili non può utilizzarle come messo di prova a suo favore, possono esser utilizzate contro di lui, non può essere ammesso alla procedura del concordato preventivo e all'amministrazione controllata quindi perde benefici.
Può essere assoggettato a delle sanzioni in caso di banca rotta, qui si tratta di sanzioni penali, in caso di fallimento.
Qual è la rilevanza sotto il profilo probatorio delle Scritture Contabili? c'è una forma di segretezza tutelata per cui in realtà le S.C. sono destinate in via di principio a rimanere nella sfera interna dell'imprenditore quindi c'è una sorta di tutela preferenziale dell'imprenditore.
Ciò che concerne l'imprenditore e per ciò che ottiene al bilancio vero e proprio (il bilancio si chiude con l'inventario) per l'imprenditore individuale e per le società di persone non vi è nessuna forma di pubblicità.
Mentre il bilancio delle società di capitale e delle società cooperative ha una forma di pubblicità che consiste nel deposito presso l'ufficio del registro delle imprese (non è un'iscrizione è un deposito).E' un deposito perché gli interessati possano prenderne visione.
Le S.C. siano o non siano regolarmente tenute possono sempre essere utilizzate dai terzi come mezzo processuale di prova contro l'imprenditore che le tiene. Quindi per essere usate dai terzi contro l'imprenditore non è un presupposto necessario quello della regolare tenuta ovviamente il terzo le fa valere in campo processuale per trarne vantaggio. La legge comunque si promulga di dire che non si può scinderne il contenuto cioè colui che vuole trarne vantaggio non può leggere o escludere ciò che più gli fa comodo. L'imprenditore per tutelarsi potrebbe con qualunque mezzo di prova dimostrare che le proprie S.C. sono false e quindi non corrispondano a verità.
La giurisprudenza recentemente ha detto che si deve escludere che la mancata registrazione di un singolo fatto sia di per sé una prova a sfavore dell'imprenditore. Il giudice, dal fatto stesso che manchi la registrazione, potrebbe ricavare solo una presunzione semplice che il fatto non esista però non una regola, quindi non è una presunzione ne assoluta ne relativa.
CHIARIMENTO:
Presunzione assoluta: quando l'imprenditore, per il quale si richiede l'iscrizione nel registro delle imprese (pubblicità legale dichiarativa) viene incriminato, si presume che tutti i terzi conoscano quell'atto non importa che il soggetto poi dica che non ne era a conoscenza perché dal momento stesso che c'è iscrizione si presume che sia conosciuto. Presunzione assoluta perché non è dicibile la prova contraria.
Presunzione relativa: quando il codice detta una presunzione dicibile da prova contraria ossia si può dimostrare il contrario.
Presunzione semplice: quando si presume semplicemente da un fatto noto quanto è ignoto e sono utilizzabili tutti i mezzi di prova a disposizione del giudice. E' quindi un procedimento logico utilizzato dal giudice nel processo, costui risale da un fatto noto ad uno ignoto secondo principi di uso.
In questo caso la mancata registrazione di un dato fatto non vuol dire che faccia sempre prova a sfavore dell'imprenditore ma è un indice attraverso il quale il giudice può avere una presunzione semplice che l'atto non sia stato compiuto.
Le S.C. regolarmente tenute rispondo a principi diversi, perché esse possano essere utilizzate a favore dell'imprenditore devono però ricorrere tre condizioni:
1-devono essere regolarmente tenute;
2-bisogna farle valere contro un altro imprenditore, quindi valgono solo tra imprenditori, questo è un principio di parità di trattamento;
3-la controversia deve essere relativa ad atti inerenti l'impresa.
Per ciò che riguarda il principio di segretezza il giudice può solo richiedere l'esibizione delle singole scritture, la comunicazione integrale è prevista solo in casi previsti dalla legge:
1-lo scioglimento della società,
2-la comunione dei beni;
3-successione a causa di morte (art. 2711, comma 1°).
Al di fuori di questi tre casi tipizzati dal legislatore è ammessa solo l'esibizione di singole S.C. solo per la parte attinente alla controversia in esame.
Quindi anche queste regole tutelano il principio di segretezza aziendale la quale viene infranta solo quando interessi superiori lo richiedano diversamente sarà per quanto concerne le società.
RAPPRESENTANZA COMMERCIALE
E' il terzo aspetto dello statuto dell'imprenditore commerciale.
L'imprenditore si avvale nello svolgimento delle sue funzioni per l'esercizio della propri impresa di soggetti che vengono stabilmente inseriti nell'organizzazione aziendale, questi sono i lavoratori subordinati o ausiliari interni. Accanto ad essi ci sono gli ausiliari esterni o autonomi che possono collaborare anche stabilmente con l'imprenditore, essi sono: gli agenti, i mediatori, possono essere contratti di commissione o spedizione. Tutti questi contratti sono contratti che legano i collaboratori esterni o autonomi all'imprenditore. Spesso le collaborazioni hanno carattere stabile, ad esempio la gente se rientra nell'esercizio professionale potrebbe anche essere un'impresa ausiliaria dell'impresa commerciale. Se invece l'attività è esercitata sporadicamente non parleremo certo di impresa commerciale ausiliaria ma comunque questi soggetti sono sempre ausiliari esterni o autonomi.
Nella R.C. non ci occupiamo di questi ultimi ma degli ausiliari interni o subordinati.
Il fenomeno della R. che ha una disciplina generale nel diritto privato, ha nel diritto commerciale delle norme speciali (non eccezionali).
CHIARIMENTO:
- Norma eccezionale: è quella che non è suscettibile di applicazione analogica fuori dal caso regolato;
- Norme speciali: è il corpo di norme che sono dettate per un settore specifico e che valgono per tutto quel settore ponendosi accanto a quelle dettate in linea generale.
Quando si tratta di atti inerenti l'esercizio dell'impresa posti in essere da particolari soggetti, si parla di normativa relativa alla R.C..
Le ure tipiche di ausiliari interni o subordinati sono : gli institori, i procuratori ed i commessi. Per questi soggetti che sono rappresentanti degli imprenditori si applica una disciplina sulla R. creata da norme speciali ad hoc.
Alcuni cenni sulla R. generale civilistica.
Cosa vuol dire R.?
Es.: Il mandato è un contratto e può essere con o senza R. ma perché?
Il mandato di per sé è quel contratto in base al quale il mandatario compie uno o più atti giuridici per conto (interesse) del mandante, può essere con o senza R. perché se io sono il mandatario senza R., contraggo con il terzo a mio nome anche se quello che faccio va nell'interesse del mandante. Se invece il mandato ha la R. significa che oltre al mandato ci vuole una procura. La procura, prevista dall'art. 2387, è un documento in cui si specifica il contenuto e l'ampiezza del potere rappresentativo. La procura può essere generale o speciale, se è generale comprende tutti i qual si voglia atti nell'interesse del mandante, se è speciale invece riguarda atti determinati in questo caso quindi può porre anche dei limiti all'agire del mandatario.
(Specificazione: il soggetto è investito da potere di R. in base a procura non a mandato, il mandato è il rapporto sottostante accanto ad esso vi può essere o non essere una procura).
La procura serve a spendere all'esterno il nome altrui e riguarda la spendita del nome del rappresentato nei confronti dei terzi, i terzi sono in grado di valutare il potere del rappresentante (procura speciale) e dopo di che avviene la contrattazione.
Es.: se compro un terreno e spendo il nome di un terzo gli effetti della legge ricadono in capo al terzo.
Se agisco invece a mio nome gli effetti cadranno nella mia sfera giuridica.
La procura deve essere conferita con la stessa forma del contratto che si va a concludere, se si conclude un contratto che necessita la forma pubblica o quella scritta, la procura deve essere rispettivamente per forma pubblica o scritta.
C'è un grosso onore che grava sul terzo che contratta con il rappresentante ed è quello che il terzo deve andare a verificare che ci sia questa procura e deve chiedere al rappresentante di giustificare i suoi poteri, questo perché si pone il problema del falsus procurator (rappresentante falso). In questo caso la legge fa ricadere gli effetti negativi di tutto quest'agire sul terzo contraente, perché visto che il terzo a l'onere di chiedere sempre l'esibizione della procura, peggio per lui se non lo fa.
Infatti, in questo negozio si ha che, da un lato non si possono far ricadere gli effetti sul rappresentato perché manca la procura ma dall'altro sul rappresentante in proprio in quanto non ha dichiarato di agire in suo nome.
La legge quindi dice che il contratto concluso dal falsus procurator è inefficace, improduttivo di effetti giuridici e il terzo anche se in buona fede non ha altra tutela che richiedere al falsus procurator un risarcimento dei danni per aver confidato senza sua colpa sulla validità del contratto (art. 1398)
L'applicazione di tutto questo si ha nella continuità delle girate. La firma di un falsus procurator blocca o non blocca la continuità delle girate?
La giurisprudenza prevalente dice che non interrompe tale continuità in quanto il principio è la continuità delle stesse girate tra cui la cartolizzazione segue dei principi suoi propri.
In diritto societario ci sono delle regole diverse perché il legislatore a voluto regolare l'istituto della R.C. con norme più consone al principio della moltiplicazione degli affari e ha voluto nel contempo tutelare maggiormente il terzo.
Quindi la regola del falsus procurator non si applica a institori, procuratori e commessi.
Le regole del diritto civile quindi tutelano poco o male il terzo contraente ed ostacolano le contrattazioni tra rappresentanti e di conseguenza lo sviluppo degli affari, queste stesse però sono importanti negli ausiliari autonomi.
DIRITTO COMMERCIALE:
Continuazione della RAPPRESENTANZA COMMERCIALE.
Le norme speciali che affrontiamo riguardano gli institori, i procuratori e i commessi. Questi soggetti proprio per la posizione che rivestono nell'impresa sono stabilmente destinati a venire a contatto con i terzi e a concludere affari per l'imprenditore, essi vengono investiti automaticamente della R. dell'imprenditore e hanno il potere di R. nelle imprese. Il potere di R. si basa strettamente sul tipo di funzione che questi soggetti vengono a svolgere all'interno dell'impresa e questo può essere più o meno ampio a seconda di questa funzione. Questo potere non si basa sulla procura del diritto civile, ma diventa l'effetto naturale della collocazione che l'imprenditore ha voluto dare loro all'interno dell'impresa, basta l'atto di preposizione idonea e trattandosi di subordinati questo potrebbe essere l'atto di funzione all'impiego.
La procura è necessaria non per conferire poteri ma per modificare un contenuto dei poteri di questi soggetti. Il contenuto legale-tipico dei poteri è prestabilito dalla legge ma per ottimizzarlo, o dal momento della nomina o nel momento successivo, è necessaria la procura. Procura che conferisce potere limitato e che deve essere portato a conoscibilità dei terzi nelle forme prevista dalla legge (pubblicità dichiarativa, art. 2693).
Degli ausiliari subordinati previsti dal nostro legislatore (institori, procuratori e commessi) bisogna studiare la diversa ampiezza del loro potere di R. che varia a seconda delle mansioni a cui sono concretamente affidati e per adibirli a tali funzioni non è necessaria una procura civilistica ma basta un atto di preposizione.
L'INSTITORE è il soggetto che viene preposto dall'imprenditore all'esercizio dell'impresa stessa, a tutta l'impresa, a una sede secondaria o ad un ramo particolare della stessa (direttore generale, direttore di una filiale, direttore di settore), è un lavoratore subordinato che ha la qualifica di dirigente. Un fatto che lo qualifica quindi rispetto a tutti gli altri ausiliari è essere al vertice della gerarchia dei dipendenti ossia al massimo grado della subordinazione. Si pone veramente al vertice assoluto se viene preposto all'intero vertice dell'impresa ossia dipende solo ed esclusivamente dall'imprenditore.
I poteri dell'institore sono: potere di gestione di tipo generale, può compiere tutte le operazione che rientrano nella struttura all'interno della quale egli ne è il responsabile;
è tenuto compiutamente con l'imprenditore alla tenuta delle scritture contabili, all'iscrizione nel registro delle imprese.
L'institore nel caso che l'imprenditore fallisse viene assoggettato alle sanzioni penali previste dall'art In questo caso il soggetto dichiarato fallito sarà l'imprenditore che avrà gli effetti personali del fallimento ma le sanzioni penali andranno in capo all'institore (legge fallimentare).
Al potere di gestione generale si affianca il potere di R. generale dell'imprenditore.
CHIARIMENTO: differenza tra gestione e R.
- gestire: amministrare a livello interno la società;
- rappresentare: avere uno specifico potere di spendere all'esterno il nome della società.
Si vedrà che nelle società di capitali tutti gli institori hanno il potere di gestire ma non tutti hanno quello di rappresentare.
L'institore ha sia il potere di gestione che il potere di R. generale, questi derivano dalla legge per il solo fatto che l'institore è preposto a quella determinata impresa piuttosto che a un determinato ramo di essa o ad una determinata filiale. Quindi si ribadisce la non necessità di procura.
Ci sono però dei limiti a questa R. che nasce come generale, prima di tutto la limitazione di tipo legale.La legge dice che se non vi è un'autorizzazione specifica è strettamente vietato all'institore di alienare o ipotecare i beni immobili dell'imprenditore, per poter far questo ha bisogno dell'autorizzazione sopra citata.
Oltre a questo la legge dice che l'institore può compiere tutti gli atti pertinenti all'esercizio dell'impresa. Ci sono atti che possono esorbitare dal concetto di esercizio dell'impresa. Qualcuno ha considerato che rientrino in questi la vendita dell'azienda.
RIASSUNTO
L'institore è investito di un potere di R. che nasce generale perché ha effetto legale della qualifica all'interno dell'impresa, di tutta, di un ramo o di una filiale. Per assumere questa R. non è necessario un atto di procura ma basta l'atto di preposizione institoria. Con questo si diventa institori e si acquista un potere di R. e di gestione di tipo generale, generale perché consente all'institore di compiere tutti gli atti pertinenti all'esercizio dell'impresa.
Questo potere generale o derogato convenzionalmente dalle parti ha dei limiti legali, la legge dice che l'institore non può alienare o ipotecare i beni immobili senza un'espressa autorizzazione del preponente sempre che l'alienazione degli immobili non costituisca oggetto dell'impresa, in questo caso si rientra nel concetto di esercizio corrente.
Non solo ma visto che può compiere tutti gli atti inerenti all'esercizio dell'impresa non può compiere quelli che non ne fanno parte (vendite ed affitto dell'azienda).
Anche in questo caso si parla di procura.
I poteri di R. determinati dalla legge potrebbero essere limitati o addirittura revocati dall'imprenditore stesso sia nel momento dell'atto della preposizione sia in un momento successivo. L'imprenditore può modificare il regime legale previsto dalla legge, a questo punto le limitazioni saranno opponibili ai terzi solo se sono state fatte con una procura originaria o una successiva che stabilisce quali limitazioni siano state fatte, ossia nel momento in cui siano state pubblicate nel registro delle imprese (art. 2206, comma 1°; art. 2207, comma1°).Se la pubblicità non viene fatta la R. si reputa generale perché nasce come tale. Vale la prova, da parte dell'imprenditore, che il terzo effettivamente conosceva i limiti (effetti della pubblicità legale dichiarativa).
La procura quindi torna ad essere importante per la limitazione dei poteri.
Allo stesso modo per cui esiste una procura che limita i poteri ci può essere la revoca della procura. Anche la revoca per essere opponibile ai terzi deve essere pubblicata nelle forme dette prima e se non avviene questo l'imprenditore deve dimostrare che il terzo conoscesse tale revoca.
Bisogna analizzare anche la responsabilità dell'institore per gli atti da lui compiuti.
Il principio generale in tema di R. è che il rappresentante in generale deve rendere noto al terzo la sua veste, se non fa questo contratta in proprio quindi vale il principio generale della spendita del nome (contemplatio domini).
Un principio diverso lo troviamo nel 2208 a proposito dell'impresa.
"L'institore personalmente preposto".
E' un principio totalmente diverso perché dice che l'institore è personalmente obbligato se omette di far sapere al terzo che tratta per il preponente. Si va anche oltre perché personalmente obbligato è anche il preponente (il rappresentato) solamente se gli atti compiuti dall'institore siano pertinenti all'esercizio dell'impresa cui è preposto.
Disposizione che vuole tutelare il terzo contraente perché non vuole far cadere su questo il rischio di un comportamento dell'institore che può generare incertezze su chi sia veramente il titolare dell'impresa (contemplatio domini presunta).
I PROCURATORI (art. 2209) sono coloro che in base ad un rapporto continuativo abbiano il potere di compiere per l'imprenditore gli atti pertinenti all'esercizio dell'impresa pur non essendo preposti ad esso. Sono ausiliari in caso inferiore agli institori perché non sono preposti all'esercizio dell'impresa.
Sono posti quindi a capo di tutta l'impresa, di un ramo o di una filiale, ciò vuol dire che pur essendo dipendenti con funzioni direttive il loro potere riguarda un circoscritto o determinato settore operativo e non produttivo come per l'institore.
Se non vengono iscritte nel registro delle imprese tramite procura delle limitazioni, la legge vuole che i procuratori rappresentino l'imprenditore per tutti gli atti inerenti alla mansione a cui sono adibiti. Es.: il direttore ufficio vendite potrà compiere in nome dell'imprenditore tutti gli atti inerenti questa mansione.
Per porre delle limitazioni è necessario ricorrere alla procura.
Altra differenza rispetto all'institore è che non hanno la R. processuale del proponente, hanno la R. sostanziale (il direttore del personale rappresenterà l'imprenditore per il personale).
I procuratori non sono soggetti all'obbligo di iscrizione nel registro delle imprese ne hanno la corresponsabilità per la tenuta delle scritture contabili, un'altra regola rilevante, quella che ci porta fuori dalla R. civilistica per cui se l'atto rientra nell'esercizio dell'impresa di quest'atto ne risponde anche l'imprenditore, non vale per i procuratori ma come detto prima si applica solo agli institori.
Art. 2208 trova esclusiva applicazione con riferimento agli institori, quindi l'imprenditore non risponderà degli atti pertinenti all'esercizio dell'impresa che siano compiuti da un procuratore che non ha speso il nome dell'imprenditore.
I COMMESSI sono ausiliari subordinati ma hanno delle funzioni esecutive o materiali che li pongono a contatto con i terzi.
Anche in questa loro posizione i commessi rappresentano l'imprenditore limitatamente alle mansioni a cui sono adibiti, anche se non c'è per essi una procura, un atto di trasferimento di potere, per legge i commessi nei limiti dell'azione esecutive eseguono R. per l'imprenditore.
L'art. 2210 comma 2° dice che i commessi possono compiere gli atti che ordinariamente comporta la specie delle operazioni di cui sono incaricati. Questi atti sono: - innanzitutto non possono concedere sconti o illazioni a meno che lo sconto non sia d'uso, - non possono derogare alle condizioni generali del contratto.
Qualora essi siano adibiti alla vendita nei locali dell'impresa - non possono mai esigere il amento del prezzo quando esiste un'apposita cassa destinata alla riscossione dello stesso.
A tutti indistintamente e limitatamente agli affari che questi possono eseguire e poi dato un determinato potere - possono ricevere reclami per conto dell'imprenditore, quindi se ci sono state delle inadempienze contrattuali il soggetto compratore può andare legittimamente dal commesso per i relativi reclami, questo è possibili perché queste sono regole che attendono all'esecuzione del contratto e al suo adempimento.
Anche in questo caso l'imprenditore potrebbe ampliare o limitare i poteri del commesso ma non è previsto per questi un regime di pubblicità legale, quindi è necessario ricorrere a mezzi idonei nel momento in cui l'imprenditore rendendo opponibile ai terzi le limitazioni dovrà dimostrare che queste limitazioni ci siano state.
L'AZIENDA art. 2555)
"L'azienda è il complesso di beni "
La prima cosa importante è il concetto di organizzazione, concetto che abbiamo già trovato nell'imprenditore "attività economica organizzata" ed ecco che ritroviamo questa parola e in questo caso si tratta di tutto il complesso di beni organizzati dall'imprenditore per l'esercizio dell'impresa,
quindi è tutto l'apparato strumentale di cui si serve l'imprenditore per lo svolgimento della propria attività, macchinari, attrezzature, materie prime, merci,
L'A. è tutta incentrata sull'elemento dell'organizzazione in quanto tutti questi elementi variabili hanno per l'A. come elemento coagulante l'organizzazione fatta dall'imprenditore.
I beni che fanno parte dell'A. possono essere mobili, immobili, materiali, immateriali, fungibili, infungibili, tutti i tipi di beni, non solo, ma l'aspetto che ha l'A. può in dato momento subire delle modificazioni nel corso del tempo.
E' un complesso di beni caratterizzato da un unità di tipo funzionale perché l'imprenditore coordina tutti questi beni fondamentali tra di loro e li rivolge ad una destinazione unitaria che non è altro che il fine produttivo a cui sono destinati. Quindi tra i diversi elementi c'è un rapporto di coordinamento e di complementarità verso un fine unitario.
La cosa fondamentale è che i bei organizzati in A. ci consentano la produzione di utilità nuove e diverse rispetto alle utilità che ogni singolo bene è in grado di riprodurre.
Fino ad ora abbiamo detto che c'è un aspetto statico ed uno dinamico, finché trattiamo il diritto di proprietà siamo nell'aspetto statico, laddove studiamo l'impresa siamo dentro l'aspetto dinamico.
Sul piano statico l'A. in realtà si risolve semplicemente nei singoli beni che la compongono, sul piano dinamico è un valore nuovo e diverso rispetto al valore di ogni singolo bene perché ha l'attitudine a produrre di per sé nuova ricchezza indipendentemente dal valore dei singoli beni, questa è dato anche dal fattore organizzazione e dal fatto che tutti questi beni sono coordinati verso una destinazione unitaria.
Il rapporto di complementarità dei singoli beni strumentali fa si che l'A., complesso unitario legato dal fattore organizzazione, acquisti di per sé un valore di scambio superiore al valore dei singoli beni presi uno per uno e sommati tra loro.
Questo maggior valore non è altro che l'avviamento.
Spesso l'avviamento è collegato a singoli beni ed è in grado di rimanere anche se cambiasse il titolare dell'impresa. Quando si crea un complesso produttivo di un certo livello anche se muta la persona del titolare le cose vanno avanti lo stesso, si parla in questo caso di avviamento oggettivo. E' tale perché è ricollegabile a dei fattori che sono in grado di rimanere tali e che consistono nel coordinamento funzionale dei diversi beni.
L'avviamento soggettivo dipende solo dall'attività delle persone (l'imprenditorietà di ricercare nel commerciante la clientela).
Tutti, Cottino, dottrina, qualificano l'avviamento come una qualità dell'A..
Il legislatore nell'art. 2556 e seguenti ha voluto disciplinare il trasferimento dell'A., ha studiato, analizzato e dettato norme che disciplinano l'A. sotto questo profilo, anche in questo caso ci sono delle deviazioni dal diritto comune.
Il trasferimento d'A. può essere la vendita, ci sono delle deviazioni dal diritto comune perché una cosa è vendere l'auto e un'altra è vendere l'A..
Il legislatore ha collegato al trasferimento in sé dell'A. determinati effetti legali: divieto di concorrenza, caso alienante, successione dei contratti stipulati da parte dell'A..
Con questo il legislatore ha voluto proteggere e favorire la conservazione dell'unità produttiva (favor legislativo per la conservazione dell'impresa in vita).
Gli elementi costitutivi dell'A. sono i beni. Per qualificare il bene come bene aziendale è importante vedere la destinazione che gli ha impresso l'imprenditore, questo perché non è tanto importante giuridicamente-formalmente il titolo giuridico in base al quale il bene viene utilizzato ma sono beni anche quelli per cui non si ha la titolarità ossia la proprietà formale. Es.: un bene in leasing è comunque un bene aziendale in vista della destinazione unitaria.
Si apre su questo una disputa in dottrina su ciò che fa parte della nozione di azienda, ogni elemento patrimoniale facente capo all'imprenditore nell'esercizio dell'impresa e più in generale tutto ciò che costituisce oggetto di impresa giuridica.
Si è allargato questo concetto fino ha comprendere una serie di rapporti che esulano dal concetto di beni e si fanno rientrare servizi, rapporti di debito credito, rapporti contrattuali in senso lato, tutti i contratti stipulati per l'esercizio dell'impresa, gli impegni verso la clientela, debiti verso fornitori e qualcuno ha inserito anche l'avviamento che non è ne un bene materiale ne immateriale ma una qualità dell'A. anche se valutabile a livello patrimoniale.
La maggior parte della dottrina e l'opinione del testo si discostano molto dalla tesi precedente appoggiata dalla giurisprudenza e da una parte della dottrina.
L'A. è solo un complesso di beni. Gli elementi costitutivi dell'A. sono beni in senso proprio usati dall'imprenditore per l'esercizio dell'impresa (art. 2555). La dottrina si chiede per quale motivo si dovrebbe ampliare questo concetto.
La legge ci dice chiaramente che la cessione dell'A. come effetto naturale comprende la cessione del contratto, con un patto derogatorio è sempre possibile escludere questa successione di contratti.
Quando si studiano i patti contrattuali è necessario tenere bene presente quello che c'è scritto e quello che non c'è scritto, quando le parti stipulano dei patti in deroga il problema è solo, per quello che stabilisce la legge, dire se la norma è derogabile o no, se la norma è derogabile vi può essere sempre un patto in deroga se la norma non è derogabile ovviamente il patto in deroga non esiste. Il problema sorge quando nulla è detto dalle parti, in questo caso si applica la disciplina della legge. Quindi se nulla è dettodalle parti il cessionario subentra nei contratti in corso, il problema in questo caso è se questa norma è derogabile o inderogabile.
L'opinione prevalente è quella di considerare questo ingresso del cessionario nei contratti in corso un effetto naturale ma non essenziale dei contratti in corso.
Questo è stato detto contro coloro che sostengono che anche rapporti giuridici (contratti) fanno parte degli elementi costitutivi dell'A., però se è vero che questa disciplina può essere derogata vuol dire che non è vero che crediti, rapporti e contratti fanno parte della nozione costitutiva della legge perché se ciò fosse vero la norma sarebbe inderogabile.
Per quel che concerne poi i crediti ed i debiti bisogna dimostrare se in caso di cessione dell'A. essi passano o non passano con la stessa perché la legge parla solo di passaggio di contratti. Quindi per debiti e crediti resta una discussione aperta, per cui si può sostenere che l'A. resta un complesso di soli beni e non è invece da ritenere quale complesso di beni e insieme di rapporti giuridici(contratti, debiti, crediti).
Alla luce delle conseguenze pratiche si sviluppano alcune teorie a cui il Cottino dedica parecchie ine.
L'A. come concezione atomistica e l'A. come concezione unitaria-universalista.
- Teoria unitaria: considerano l'A. come un bene unico, diverso, nuovo e distinto rispetto agli elementi che lo compongono. L'elemento centrale è l'organizzazione. Oltre ad essere la teoria del testo è anche quella accolta dalla giurisprudenza che unanime legge sempre l'A. in chiave di universitas. Cosa intende per universitas ? E' un concetto che proviene dal diritto romano e veniva considerato come universitas il gregge, la particolarità di questo secondo il diritto romano era che il gregge era un elemento distinto rispetto ai singoli. Un conto erano le 100 pecore prese una ad una, un conto era il valore del gregge in cui tutti gli elementi erano interdipendenti collegati e destinati ad un fine unitario.
C'è un diritto di proprietà unitario sul tutto, sull'universitas che viene a coesistere col diritto di proprietà che si vanta sui singoli beni.
- Teoria atomistica: l'A. non è niente altro che l'addizione, la pluralità, dei singoli beni tra loro collegati in modo funzionale. Singoli beni sui quali l'imprenditore può vantare diritti diversi: proprietà, usufrutto, diritti reali, personali.Prevale quindi il singolo diritto che vanta l'imprenditore sui singoli beni.
Entrambe le teorie dicono che i beni sono culturalmente collegati ma quest'ultima dice che non c'è direzione unitaria e che l'A. non è un oggetto di diritto unitario diverso rispetto al diritto che l'imprenditore ha sui singoli beni.
Quando si è parlato dell'avviamento si è detto che nel momento in cui si cede l'A., il valore dell'A. non è dato dall'insieme dei valori dei singoli beni ma c'è un valore aggiunto che è dato dall'avviamento e che porta lo scarto, la differenza tra la somma dei singoli beni che sono singolarmente considerati e il valore che assume l'A. in sé.
C'è poi un avviamento di tipo oggettivo e di tipo soggettivo(vedere precedentemente).
Quindi quando si cede un'impresa c'è ovviamente questo aspetto dell'avviamento da considerare che è un valore diverso indipendente e superiore rispetto alla somma dei singoli beni.
E' indubbiamente vero che un elemento di unitarietà il legislatore l'ha concepito e l'ha voluto, il problema però è di vedere se questa destinazione, questo concetto di A. come bene unitario sia previsto sotto ogni profilo e a tutti gli effetti, ovvero che non subisca deroghe.
Un conto è dire che quest'unificazione giuridica è un'unificazione relativa-funzionale, un conto è dire che esiste sempre e comunque e che tutte le norme vanno lette secondo la teoria universalista. E' necessario tenere presente l'art. 2556, comma 1°:
"Per le imprese soggette a registrazione i contratti che hanno per oggetto".
La legge dice che per il trasferimento del complesso aziendale devono essere necessariamente osservate le norme stabilite dalla legge per il trasferimento dei singoli beni che compongono l'A., quindi questa norma da ragione alla teoria atomistica, perché considera un determinato bene e non l'A. in sé. Infatti i fautori della teoria atomistica hanno come loro cavallo di battaglia l'art. 2556, comma 1°.
Non si vuol dire con ciò che si stia prendendo una posizione definitiva, ma solo che è da tenere presente che questo è un dato legislativo incontrovertibile. Certamente deve essere tenuto presente anche da coloro che sostengono la teoria dell'A. come universitas, in quanto il legislatore ha considerato in molti casi l'unitarietà dell'A. ma questo non deve essere preso in senso assoluto.
L'art. 2561,comma 2°: "L'usufruttuario dell'A.".
Questa norma viceversa si rifà ad un principio diverso, l'A. è la stessa è unitaria nonostante i vari elementi che la compongono, nonostante il mutare dei suoi elementi costitutivi, quindi l'unità dell'A. permane al punto che l'usufruttuario deve gestire l'A. senza modificarne la destinazione e deve preservarne l'esigenza.
Il legislatore con questa norma ci vuole far capire che c'è comunque un valore dato dall'organizzazione dai beni, impianti che la compongono per cui quello che conta è che l'A. resti immutata anche se variano i singoli beni che la compongono.
Questa unificazione giuridica dell'A. è solo relativa-funzionale e le teorie sopra esposte vanno lette in questo senso.
Correttamente anche chi è conforme alla teoria atomistica, secondo la più moderna formulazione di questa, dice che l'A. e l'universalità sono entrambi aggregati di cose a destinazione unitaria e sono finalizzati alla produzione di una utilità complessiva, nuova, diversa, rispetto a quella offerta dalla semplice somma dei singoli beni.
Agevolazioni dell'A.: Soggetti e forme dei singoli negozi.
Art. 2556: ""
L'A. può essere oggetto di vari atti di disposizione di diversa natura, es.: possiamo avere la vendita dell'A., può essere conferita in società, può essere oggetto di una donazione, inoltre si possono conferire dei diritti reali e personali di godimento di un'A. a favore dei terzi.
Bisogna fare attenzione quando si redige un contratto, soprattutto quando si stipula che sia un contratto di concessione d'A. e che non sia semplicemente un contratto che vuole un singolo componente dell'A.. E' importante questa distinzione perché il problema dei contratti in caso di esecuzione avviene solo in caso di trasferimento di A. e non in caso di trasferimento di un bene aziendale.
Nell'interpretazione è da tenere anche presente il risultato che concretamente le parti si propongono di raggiungere con la cessione dell'A.
E' importante stabilire se si tratta proprio di un trasferimento totale perché ci sono degli effetti che riguardano anche i terzi.
Bisogna ricordare che quello che conta nel trasferimento d'A. è che venga trasferito questo complesso di beni che sia potenzialmente idoneo ad essere esercitato per una determinata attività, questo anche se il nuovo titolare viene ad integrare questo complesso con nuovi elementi.
Ove necessario però quando si fa la vendita di A. con l'esclusione di alcuni beni pur che i beni non siano talmente essenziali che la loro mancanza venga ad alterare il funzionamento del tutto perché allora non vale come vendita d'A..
Quindi è possibile tralasciare anche qualche elemento pur che questo non sia così funzionalmente collegato da farmi perdere il concetto unitario di questo complesso di beni, es.: il diritto di brevetto sul quale si basa tutta l'impresa.
La forma della cessione (art.2556): "..".
L'ultima parte del 2° comma: "nel termine di 30 giorniautenticante" è costituito dalla legge de 12 agosto 1993 n° 310 (Norme sull'antiriciclaggio del denaro sporco), questa parte sul libro non c'è.
Con questa norma il legislatore si preoccupa della forma da adottare ai fini della validità del trasferimento dei singoli beni dell'A.; la forma richiesta per la prova ai fini probatori del trasferimento e l'ultimo comma si occupa della forma richiesta per l'opponibilità ai terzi del trasferimento.
La regola espressa nella seconda parte del 1° comma cioè che bisogna osservare le forme sancite dalla legge per il trasferimento dei singoli beni che compongono l'A. è la regola relativa alla validità del trasferimento. Questa vale per ogni tipo di A. commerciale o agricola.
Quando la legge dice: "i contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà", questi sono validi soltanto se si osservano le forme che la legge stabilisce per il trasferimento dei singoli beni che compongono l'A. o per la natura del contratto. Es.: per trasferire un bene immobile guardo l'art. 1350, all'acquirente di un'A. di singoli beni immobili che fanno parte dell'A. stessa, sarà necessaria la forma scritta pena la nullità del contratto.
Ed ecco che tornano i sostenitori della teoria atomistica dicendo che non esistono autonome ed unitariamente considerate leggi per la circolazione dell'A. in quanto tale, ma esiste una legge di circolazione solo relativa al singolo bene componente l'A..
Abbiamo visto comunque che anche se esiste una tendenziale indicazione nel senso dell'azienda quale universitas non bisogna dimenticare questo dato testuale che anche se noi la adottiamo questa non vale sempre e comunque.
Per le imprese soggette a registrazione con esclusione delle piccole imprese commerciali delle imprese agricole e delle società semplici è previsto che qualunque atto di disposizione dell'azienda sia provato per scritto. La scrittura ai fini della validità del contratto (art. 1350) "E' prevista a pena la nullità.", se non si rispetta la forma prevista dalla legge il contratto è nullo, queste sono solo le forme previste per la prova.
Quando si richiede una prova per iscritto fra le parti ma non fra i terzi è escluso l'uso della prova testimoniale, questo vuol dire che la prova non è ai fini della validità del contratto ma semplicemente ai fini della prova e la scrittura richiesta per la validità dell'atto è che sia stata redatta senza vizi di forma pena la nullità.
Per le imprese soggette a registrazione l'art. 2556, comma 2° stabilisce che i relativi contratti sono anch'essi soggetti a iscrizione nel registro delle imprese, ai fini dell'opponibilità pertanto il contratto di trasferimento deve essere sempre redatto o per atto pubblico o per scrittura privata autenticata e deve essere depositata a cura del notaio nell'iscrizione nel termine dei 30 giorni.
Questo comma riguarda il regime pubblicitario.
A riguardo di questa legge una parte della dottrina ha detto che forse tenendo presente la finalità di ordine pubblico della legge, che era quella di prevenire e reprimere il fenomeno del riciclaggio del denaro sporco, questo obbligo di registrazione si sarebbe dovuto forzare e applicare la legge anche a coloro che sono si tenuti all'iscrizione ma non con fini di pubblicità legale. Si può anche accettare questa ulteriore applicazione della norma ma tenendo presente che resta comunque chiaro che solo l'iscrizione nella sezione ordinaria nel registro, l'iscrizione produce gli effetti della pubblicità legale dichiarativa, cioè gli effetti dell'opponibilità ai terzi del trasferimento. Quindi anche se si iscrivono i trasferimenti di altre imprese non soggette a registrazione questa iscrizione avrà solo funzione di pubblicità notizia.
Quindi solo l'iscrizione nella sezione ordinaria del registro produce la funzione dichiarativa e cioè l'opponibilità per il trasferimento nei confronti dei terzi.
Allora quando si parla in generale della forma del trasferimento è necessario considerare che la forma può essere sempre prevista ai fini della validità ed ai fini della prova, ma non solo il concetto di validità è profondamente diverso dal concetto di opponibilità di un atto. Questo perché un conto è dire siamo in presenza di un atto valido altra cosa è vedere quando un atto è opponibile o no.
DIRITTO COMMERCIALE
CESSIONE D'AZIENDA
Art.2556.
In caso di trasferimento, si devono applicare regole particolari che fanno leva sul fatto che il trasferimento d'azienda non è paragonabile a qualunque altro atto di trasferimento.
Es. vendita mobiliare o immobiliare.
Mentre la vendita attiene i diritti reali, per cui è privilegiato l'aspetto statico, nell'azienda si privilegia l'aspetto dinamico e soprattutto il fatto che con l'esercizio da parte dell'imprenditore dell'attività d'impresa si venga a contatto con una serie di soggetti come creditori o lavoratori, le cui posizioni vengono prese in considerazione dal legislatore e tutelate.
Ci sono delle regole in caso di vendita d'azienda. La disciplina generale è l'art.2556.
In caso di alienazione d'azienda esiste il divieto di concorrenza (art.2557).
Oltre gli effetti propri di ogni contratto, l'alienazione d'azienda produce degli effetti, per legge, e quindi detti legali, che sono ulteriori rispetto a quelli previsti per ogni contratto. Anche perché il complesso di beni organizzato dall'imprenditore per l'esercizio dell'impresa produce nelle sfere giuridiche altrui delle situazioni che vanno tutelate. Possono essere sia derogabili che inderogabili.
Gli effetti legali ulteriori riguardano:
R divieto di concorrenza
R sorte dei contratti
R sorte dei debiti
R sorte dei crediti aziendali
Divieto di concorrenza
La disposizione si applica anche alle aziende agricole per connessione quando se è possibile uno sviamento di clientela.
L'attività agricola per connessione è attività commerciale.
La norma cerca di contemperare interessi opposti:
interesse dell'acquirente di mantenere immutata la situazione sotto il profilo della
clientela. Mira a trattenere la clientela che c'era in capo al precedente alienante e
quindi mira a godere di questo avviamento soggettivo = clientela, di cui si è tenuto
conto nel prezzo di vendita.
si vuole anche tutelare l'alienante nel senso di non restringere troppo la propria
libertà entro un tempo massimo benessere preciso. Entro i limiti necessari affinché
l'acquirente possa consolidare a sua volta una nuova clientela.
Il divieto di concorrenza è posto a tutela primaria di chi compra e vuole evitare uno sviamento di clientela, che sarebbe ingiusto perché ha ato per l'avviamento.
Queste regole sono derogabili e hanno carattere relativo, cioè bisogna vedere se l'attività effettivamente iniziata dall'alienante sia in effettivo rapporto concorrenziale con quella dell'acquirente. E' derogabile, perché la legge consente di ampliare la portata del divieto di concorrenza.
La legge dice che si può ampliare la portata dell'obbligo di astenersi dal fare concorrenza, purché non sia impedita ogni attività professionale dell'alienante. In ogni caso è vietato prolungare oltre i 5 anni la durata del divieto.
Il legislatore però non intende dire che si possono superare i 5 anni. E' durata prestabilita dalla legge. Se nel contratto si prevede una durata superiore, automaticamente gli anni si ridurrebbero a 5.
La portata dell'obbligo di astensione dal fare concorrenza può essere ampliata stabilendo ad esempio che sono in concorrenza delle attività che non sono direttamente in concorrenza tra loro.
Es. la giurisprudenza ha detto che non viola l'obbligo di non concorrenza che aliena azienda relativa ad impresa che produce pane e poi apre un negozio di generi alimentari diversi.
Se il gestore di un ristorante aprisse una pizzeria ci sarebbe rischio di sviamento della clientela.
L'astensione dalla concorrenza è un obbligo di non fare.
Il divieto esiste anche in caso non di vendita volontaria, ma anche in caso di vendita fallimentare. Il fallito non può esercitare attività in concorrenza con quella in cui si presume non abbia brillato.
I problemi sorgono quando si devono analizzare delle situazioni che pongono incertezze perché non sono espressamente regolate:
divisione ereditaria con assegnazione dell'azienda a uno degli eredi.
Esiste o no l'obbligo di astensione dell'erede che non ha ereditato l'azienda?
scioglimento di una società con assegnazione dell'azienda a uno dei soci, quale quota di
liquidazione. Capita soprattutto nelle aziende di persone. Gli altri soci devono astenersi?
vendita di partecipazione totalitaria o di controllo di una società di capitali o di persone.
Esiste o no divieto di concorrenza?
Divisione ereditaria e b. scioglimento della società
Non siamo in presenza di un trasferimento in senso giuridico. C'è divisione e assegnazione.
Quindi in senso formale si dovrebbe escludere la norma sul divieto di concorrenza.
Cessione di pacchetto azionario
Qui c'è il negozio traslativo. Non si sta cedendo l'azienda. E chi è il titolare dell'azienda? Il soggetto che cede o la società?
Chi vende è titolare delle azioni, non è titolare dell'azienda.
Quindi in tal caso la vendita non riguarda direttamente l'azienda. Riguarda le azioni, ma non direttamente l'azienda perché formalmente l'azienda resta alla società che ne è titolare. Il socio vende l'unica cosa che gli appartiene, cioè le azioni.
Questi casi sono stati risolti diversamente dalla dottrina e dalla giurisprudenza.
Si potrebbe applicare la norma per analogia, secondo la dottrina, la norma a favore dell'erede o del socio che subentra nell'azienda e a carico degli altri soci o dei coeredi. La ragione è il tenere conto del valore dell'avviamento.
La giurisprudenza è contraria.
Anche la vendita dell'intero pacchetto azionario o della partecipazione di controllo, a livello formale e non sostanziale, danno lo stesso risultato.
Qui il problema è distinguere il caso di società con personalità giuridica e sociatà prive di personalità giuridica. Nelle società di capitali, dotate di personalità giuridica, si può capire di più l'orientamento della giurisprudenza che dice una cosa è la titolarità dell'azienda che compete al soggetto "società di capitali" altra cosa è la titolarità delle stesse che fa capo al socio. Quindi essendoci il diaframma tra
socio che vende le quote
società di cui fa parte l'azienda
la norma non sarebbe applicabile. Non c'è vendita d'azienda, ma solo di azioni.
Il discorso è molto formalistico, perché vendendo tutte le azioni, è come se si trasferisse l'azienda.
La dottrina guarda più all'applicazione sostanziale della norma.
Che differenza c'è tra trasferimento d'azienda e di azioni di una società? Dovrebbe esserci in entrambi i casi, il divieto di concorrenza.
Parte della giurisprudenza, che ha sempre applicato un criterio formalistico, sta valutando l'altra ipotesi con riferimento alle società di persone. Perché non c'è l'ostacolo della personalità giuridica che si frappone nelle società di capitali tra il patrimonio della società e quello dei soci.
Autonomia patrimoniale = società costituiscono un centro autonomo d'imputazione di diritti e doveri e hanno autonomia patrimoniale perché il patrimoni sociale costituisce un patrimonio separato da quello dei singoli soci.
Cosa vuol dire "chi aliena l'azienda"? Abbiamo visto i casi dubbi sopra attinenti a questa tematica.
Cosa significa inizio di una nuova impresa?
Problema che sorge perché alcuni vogliono eludere l'art.2557.
Un soggetto vende la sua azienda e poi inizia un'attività concorrente usando un prestanome.
Oppure vende l'azienda e diventa dirigente di un'impresa concorrente.
Oppure vende l'azienda e diventa amministratore unico di un'impresa concorrente.
C'è o no inizio di una nuova impresa?
Sì perché può togliere clientela all'impresa alienata.
Attenzione a non confondere con la concorrenza sleale perché questa è la concorrenza tra imprenditori.
Questo è il divieto di concorrenza che per legge accomna tutte le cessioni d'azienda.
Il legislatore vuole proteggere anche in questi casi lo sviamento della clientela.
Se l'obbligo di non fare concorrenza è violato tutte le volte in cui si ha sviamento della clientela dall'azienda ceduta, la dottrina afferma che non importa che questo avvenga per un fatto concorrenziale posto in essere direttamente o indirettamente dall'alienante.
A livello pratico è difficile provare queste cose. Allora al momento della stipula del contratto, bisogna prevedere con delle clausole pattizie la precisa estensione del divieto di concorrenza.
Queste clausole devono uniformarsi alla legge.
Successione nei contratti aziendali
Art.2558.
E' la cessione dei contratti in corso.
Se non è pattuito diversamente, l'acquirente dell'azienda subentra nei contratti in corso, cioè i contratti continuano.
Questa norma l'abbiamo studiata con riferimento a cosa fa parte del compendio aziendale.
Accanto a tesi che vuole far rientrare tutti i beni materiali e immateriali, mobili e immobili, c'è una nozione più lata di azienda cioè una nozione che vuole far rientrare anche i contratti, i debiti e i crediti. Questa teoria largheggiante è adottata dalla giurisprudenza.
La dottrina dice che se fosse vero che anche i contratti rientrano nel concetto di azienda, allora non ci sarebbe una regola dispositiva e quindi non sarebbe prevista una disposizione contraria. Se si stabilisce che anche i contratti fanno parte dell'azienda, cioè è un effetto legale, non si potrebbe escludere per volontà gli stessi con partizione contraria. Quindi il legislatore non avrebbe dovuto scrivere "salvo pattuizione contraria".
Visto che secondo la legge, se nulla è detto, i contratti proseguono, ma sarebbe ammissibile una pattuizione contraria a questa, si può dire che il fatto che i contratti proseguono è solo un effetto naturale del negozio, non essenziale.
Questo non fa che ribadire la tesi che nella nozione giuridica di azienda devono rientrare solo i beni mobili o immobili, materiali o immateriali.
Il Cottino afferma che l'organizzazione è l'elemento coagulante del tutto, i contratti, i debiti e i crediti sono una cinghia di trasmissione affinché l'imprenditore utilizzi i beni per l'esercizio dell'impresa, ma non fanno parte del compendio aziendale in se stesso.
Il legislatore nella disciplina del trasferimento dell'azienda cerca di mantenere l'unità economica dell'azienda stessa. Sotto questo profilo si cerca di agevolare il subentro nei contratti in corso dell'acquirente.
Es. alienante quando cede azienda può avere dei contratti aperti con fornitori, clienti o lavoratori.
Che ne è di questi contratti in corso di esecuzione, cioè non ancora eseguiti da nessuna delle due parti?
Le posizioni di cui tenere conto sono tre:
posizione dell'alienante
posizione dell'acquirente
posizione del terzo contraente ceduto
L'acquirente d'azienda ha tutto l'interesse a subentrare nelle posizioni contrattuali in corso e questo fa sì che ci sia una vistosa deroga dei principi di diritto privato. In diritto privato il contratto può anche cedere il contratto, ma ci vuole il consenso del contraente ceduto perché cambia uno dei soggetti con cui si è stipulato il contratto.
Rileggendo l'art.2558 non si fa riferimento al consenso del contraente ceduto, perché è tenuta benessere presente la preservazione dell'unità economica dell'azienda e, per preservarla, si deve garantire all'acquirente di preservare anche i contratti in corso.
Questo è un problema di subentro in contratti in corso di esecuzione.
Es. somministrazione in corso : un soggetto che fornisce materie prime all'alienante e l'acquirente subentra.
Ma se il contratto è già eseguito da una delle parti, non rientriamo in questa ipotesi.
Es. imprenditore ha trasferito la proprietà del bene, ma è ancora creditore del prezzo.
Oppure ha comprato le merci, ma non ha ancora ato quindi è debitore.
Nel trasferimento di proprietà per cosa determinata, l'effetto traslativo è immediato: basta il consenso delle parti legittimamente manifestato.
L'obbligo di consegna della cosa e del amento del prezzo avvengono all'esecuzione del contratto, non alla sua perfezione. Se permane l'obbligo di are il prezzo, l'effetto traslativo si è prodotto ma siamo nell'ambito dell'esecuzione del contratto, per cui chi ha l'obbligo di are è inadempiente ma è già proprietario della merce venduta.
Se non è pattuito diversamente, l'acquirente dell'azienda subentra nei contratti stipulati per l'esercizio dell'azienda stessa che non abbiano carattere personale.
Il terzo contraente non è senza tutela, ma è ridotta. Egli può recedere dal contratto entro 3 mesi dalla notizia del trasferimento se sussiste una giusta causa, salvo la responsabilità dell'alienante. Il subingresso nei contratti prescinde da manifestazione di volontà delle parti. Ciò significa che se le parti nulla scrivono, il subingresso si verifica per legge, purché i contratti non abbiano carattere personale.
Però le parti possono derogare questa regola: possono stabilire il contrario o stabilire il subentro solo per alcuni contrari.
Nel diritto comune la posizione del terzo contraente è privilegiata perché se egli non dà il consenso la cessione non si può fare.
Invece, nel diritto d'impresa il terzo può recedere entro 3 mesi da quando ha avuto notizia del trasferimento dell'azienda. Il recesso produce l'estinzione del vincolo ex nunc cioè dal momento in cui si manifesta la volontà di recedere.
Questo non può avvenire sempre. La giusta causa di recesso è oggettiva, cioè bisogna dimostrare che l'acquirente si trovi in una posizione personale o aziendale tale da non dare più affidamento ragionevole sulla regolare esecuzione del contratto.
Deve esserci situazione oggettiva patrimoniale, personale o aziendale.
Il contraente ceduto ha diritto al risarcimento dei danni. Per ottenerlo deve provare che, se l'alienante fosse stato più attento nella scelta del suo acquirente, avrebbe scelto un soggetto che non si trovi in quella situazione oggettiva patrimoniale o personale tale da far ritenere che il credito potrà non essere onorato. E' difficile provare la mancata diligenza dell'alienante.
La legge ha voluto così favorire l'unità funzionale dell'azienda.
Questo favore legislativo è previsto dall'art.2558, ma è ribadito per determinati contratti:
contratto di lavoro subordinato
contratto di consorzio
contratto di edizione
locazione degli immobili destinati a esercizio di attività industriale e commerciale = legge
sull'equo canone. Conduttore può sub locare l'immobile o cedere il contratto il contratto di
locazione anche senza il consenso del locatore purché venga insieme ceduta o locata
l'azienda.
Non si trasferiscono i contratti che hanno carattere personale. In questo caso è necessaria
R espressa pattuizione contrattuale tra alienante e acquirente
R consenso del contraente ceduto
quindi torniamo alla disciplina della cessione del contratto.
La dottrina prevalente, compreso il Cottino, ritiene che siano contratti a carattere personale quelli basati sull'identità e sulle qualità personali dell'imprenditore alienante perché queste qualità e l'identità devono essere stati determinanti nel consenso quando è stato stipulato il contratto.
Es. Apertura di credito bancario (oltre ad appalto, mandato o commissione)
Bisogna andare a cercare l'effetto determinante dell'alienante nella contrattazione.
Disciplina dei crediti e dei debiti
Art.2559 si occupa dei crediti relativi all'azienda ceduta. Anche in mancanza di notifica al debitore o di sua accettazione la cessione ha effetto nei confronti dei terzi dal momento dell'iscrizione del trasferimento nel registro delle imprese. Tuttavia, il debitore ceduto è esonerato se a in buona fede all'alienante. Le stesse disposizioni si applicano anche nel caso di usufrutto dell'azienda, se esso si estende ai crediti relativi alla medesima.
Questo è un problema di opponibilità ai terzi. C'è una deroga rispetto ai principi di diritto comune perché la disciplina del diritto comune prevede che il credito è efficace viene notificato al debitore ceduto oppure la cessione viene da lui accettata con un atto di data certa.
Nell'art.2559 c'è qualcosa di più.
Questo articolo è rimasta lettera morta fino a che non si è attuato il registro delle imprese.
La legge prevede una formalità diversa rispetto a quella di diritto comune. L'efficacia della cessione nei confronti dei terzi è l'iscrizione nel registro delle imprese del trasferimento del credito. Si applica limitatamente alle società da iscrivere nella sezione ordinaria, cioè le imprese commerciale. Per loro, oltre alla notifica e all'accettazione c'è una sorta di "notifica" collettiva che è l'iscrizione del trasferimento nel registro delle imprese. Esperita questa formalità, la cessione è opponibile ai terzi.
Cosa accade per i debiti? Qui è più forte la deviazione dal diritto comune. C'è una regola comune per il diritto civile e per il diritto delle imprese. Si mantiene fermo il principio generale per il quale non è ammesso il mutamento del debitore senza il consenso del creditore: cioè l'alienante non è liberato dai debiti se non risulta che il creditore vi abbia dato consenso.
Ci vuole consenso esplicito alla liberazione del proprio debitore. Se manca, il debitore non è liberato.
Per le sole aziende commerciali, è previsto un principio che diverge da quello di diritto comune, in base al quale ciascuno risponde soltanto delle obbligazioni da lui contratte. Nel trasferimento di un'azienda commerciale risponde dei debiti aziendali anche l'acquirente dell'azienda se i debiti risultano dai libri contabili obbligatori.
Quindi anche se non esiste nessun patto di accollo dei debiti, l'acquirente di una sola azienda commerciale (non vale per aziende agricole né per le piccole imprese) risponde in solido con l'alienante nei confronti dei creditori dell'azienda. Ovviamente ai creditori che non hanno liberato il debitore.
Questa responsabilità legale (perché deriva dalla legge) riguarda solo i debiti aziendali. Ei debiti devono risultare dai libri contabili obbligatori.
I libri possono essere tenuti regolarmente o no.
Ai fini dell'accollo dei debiti all'acquirente, i libri possono essere tenuti sia regolarmente sia irregolarmente, perché i libri costituiscono prova contro l'imprenditore.
Per i debiti di lavoro si tiene conto dell'art.2212 che è più favorevole ai lavoratori: l'acquirente dell'azienda risponde in solido con l'alienante, anche se non risultano dai libri contabili e anche se l'acquirente non ne ha avuto conoscenza al momento del trasferimento. Questa regola vale per tutte le aziende, commerciali e non, perché si è voluto favorire i lavoratori.
Eravamo partiti dall'azienda come un universo. Secondo il Cottino, in caso di cessione di azienda
R passano i contratti perché lo dice la legge
R passano i crediti
R non passano i debiti tra le parti
Quello che abbiamo studiato finora è l'opponibilità della cessione ai creditori o ai debitori dell'azienda.
Altro problema è: quando si trasferisce l'azienda che ne è dei contratti, dei crediti e dei debiti tra le parti? Non è un problema di terzi.
Per i contratti, la legge e la dottrina dicono che si trasferiscono, salva pattuizione contraria. Passano tranne quelli personali.
Per i crediti, il Cottino sostiene che visto che il legislatore si è preoccupato solo di dire quando la cessione ha efficacia nei confronti dei terzi, vuol dire che dà per scontato che i crediti passano. E passano perché l'azienda è un'universitas.
I debiti non passano perché ci vuole il consenso del creditore e poi c'è la regola delle scritture contabili.
Oltre a questa opinione vi è quella di una giurisprudenza costante secondo la quale con la cessione passano contratti, debiti e crediti. La giurisprudenza, infatti, parte da nozione allargata di azienda e fa rientrare anche i contratti, i debiti e i crediti.
Se invece si ha nozione più restrittiva di azienda, che fa rientrare solo i beni, allora il problema si pone. Per il Cottino passano i contratti e i crediti, ma non i debiti. Questo perché l'art.2559 dà per scontato che il credito sia passato. Allora si chiede quando la cessione ha efficacia nei confronti dei terzi. Per il Cottino i contratti passano perché lo dice la legge i crediti passano perché lui la interpreta così.
Altri sostengono, come la giurisprudenza, che passa tutto. Na parte dice che passano solo i contratti. Per i debiti e crediti, affinché passino, ci vuole una clausola contrattuale.
Di fatto, la legge si occupa dei terzi, cioè l'aspetto esterno alle parti. Altra questione è cosa passa insieme alla gestione dell'azienda. Non ci dice cosa ne è dei debiti e dei crediti tra le parti. Dice solo cosa avviene di debiti e crediti nei confronti dei creditori e dei debitori dell'azienda.
DIRITTO COMMERCIALE:
LE SOCIETA'
Le società sono delle organizzazioni che vengono create dalla autonomia privata per l'esercizio in comune di un'attività produttiva e sono solo i tipi previsti dalla legge. Si decide di fare una società perché è più facile raggiungere lo scopo produttivo in collaborazione piuttosto che da solo.
Pluralità dei tipi:
nell'ambito delle società lucrative abbiamo:
Società personali:
- società semplice;
- società in nome personale;
- società in accomandita semplice.
Società di capitali:
1.- società in accomandita per azioni;
2 - società per azioni;
3 - società a responsabilità limitata.
Accanto a queste abbiamo le società mutualistiche:
Società cooperative;
Società mutuo assicuratrici.
In linea generale una prima distinzione viene fatta sulla base degli aspetti organizzativi comuni e distinguiamo tra società di persone e società di capitali.
La legge detta un unica definizione legislativa di società art. 2247:
"Contratto di società. Con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l'esercizio in comune di un'attività economica allo scopo di dividerne gli utili".
E' stata effettuata una modifica della rubrica che da nozione è diventata contratto di società, quando nel 1993 è stata attuata in attuazione della XII direttiva CEE in Italia la possibilità di costituire una società a responsabilità limitata con un unico socio, fino ad allora si trovava scritto nozione perché tutte le società nascevano da contratto. Dal '93 vi è una società che può non nascere da contratto ed è la s.r.l. unipersonale che nasce da atto unilaterale del socio fondatore. E' stata modificata la rubrica perché il termine "nozione" era onnicomprensiva e si riferiva a società che originariamente nascevano tutte da contratto, ma ora vi sono anche società che non nascono da contratto e sono fenomeni eccezionali, al di fuori di queste tutte le società nascono da contratto.
Un altro esempio è quello della scissione di società, c'è un ipotesi in cui da una delibera della società scissa mediante atto unilaterale si costituisca una nuova società.
La differenza dalla s.r.l. unipersonale è che quest'ultima si costituisce con atto unico unilaterale con un unico socio al momento della costituzione, nel caso della scissione la società che si scinde con la delibera e mediante l'atto di scissione può dar vita alla costituzione di una nuova società ma questa società è un contratto unilaterale.
Queste due ipotesi hanno in comune solo il fatto che entrambe in deroga al principio della contrattualità nascono da atto unilaterale.
Al di fuori di queste ipotesi che sono eccezionali le società nascono come contratti (momento genetico). La società rientra nel genere contratti associativi o meglio contratto plurilaterale con comunione di scopo. Nel loro momento genetico le società hanno alla base un momento contrattuale.
I contratti plurilaterali con comunione di scopo sono distinti dai contratti sinallarmatici di scambio perché come diceva Graziani, nei contratti associativi vi è un interesse unico di tutti i contraenti (esercizio in comune dell'attività economica che forma l'oggetto del contratto).
Nei contratti di scambio l'avvenimento che soddisfa l'interesse di una delle parti è diverso dall'avvenimento che soddisfa la controparte (nella compravendita, l'interesse del compratore è soddisfatto dal trasferimento della proprietà della merce, laddove l'interesse del venditore è il trasferimento del prezzo).
Questo chiarisce quale tipo di distinzione vi sia alla base dei due contratti considerati, un diverso tipo di interesse.
Nei contratti associativi le partecipazioni di ciascuna delle parti possono essere diverse l'una dall'altra perché sono dei conferimenti e possono anche avere una diversa natura (conferimenti di beni mobili ed immobili, materiali ed immateriali ed anche quale titolo a conferimento beni in proprietà, diritto di godimento).
Sono diverse le prestazioni di ogni socio, sono tutte chiamate conferimenti ma possono essere diverse nel loro ammontare oppure anche nell'oggetto stesso del conferimento.
In alcune società si possono anche conferire servizi: soci d'opera.
Il contratto è chiamato plurilaterale con comunione di scopo perché tendenzialmente è aperto a due o più parti, quindi è sufficiente che ci siano anche solo due soci però questo non toglie la qualifica di plurilateralità. L'eccezione è sempre la s.r.l. unipersonale.
Il contratto associativo rivolto alle società è un contratto che organizza una attività futura perché quando si attuerà, il contratto si svolgerà con un'attività comune per il perseguimento dell'oggetto sociale.
Tutta l'organizzazione di gruppo deve essere creata per lo svolgimento in futuro di un'attività rivolta al raggiungimento dell'oggetto sociale.
Questo oggetto sociale è l'attività economica che la società si propone di compiere e deve esser indicata subito nell'atto costitutivo, questa segna anche la cornice dei poteri degli amministratori perché questi potranno compiere tutti gli atti che rientrano nell'oggetto sociale.
Nella fase genetica si propone di compiere una determinata attività economica, nella fase di attuazione si svolgerà l'attività in vista del raggiungimento di quella attività economica che ci si proponeva di compiere all'inizio.
Questa organizzazione di gruppo che deve essere necessariamente creata ha un rilievo non solo interno fra i soci ma soprattutto all'esterno perché ci saranno poi dei soggetti portati a spendere il nome della società all'esterno, a contrattare con i terzi ecc in base al potere di rappresentanza.
Gli art. 1420-l446-l459-l466 riguardano la disciplina che il C.C. detta sui contratti plurilaterali con comunione di scopo e ci dicono che nei contratti associativi, la nullità, l'annullabilità, la risoluzione per inadempimento e l'impossibilità sopravvenuta che vengono a colpire il vincolo di un solo socio, non comportano la nullità, l'annullabilità, la risoluzione per inadempimento e l'impossibilità sopravvenuta dell'intero contratto a meno che la singola partecipazione sia ritenuta essenziale per la continuazione della società stessa.
Questa disciplina che vale per i contratti plurilaterali con comunione di scopo dovrà essere adattata alle società .
In linea generale sono principi applicativi alle società ma con delle differenze.
Esempio: nei contratti, se un socio non adempie, l'altro contraente può chiedere la risoluzione del contratto per inadempimento. Nelle società il rimedio contro l'inadempimento non è la risoluzione del contratto ma l'esclusione del socio, quindi l'esclusione è il pandan societario della risoluzione del contratto per inadempimento e per impossibilità sopravvenuta.
Si ha anche in questo caso l'ipotesi dell'esclusione del socio dalle società di persone e la vendita coattiva delle quote o delle azioni nelle società di capitale.
Da cosa sono caratterizzate le società: art. 2247.
Dobbiamo avere dei conferimenti dei soci e l'esercizio in comune di un'attività economica allo scopo di dividerne gli utili.
Quale è la funzione dei conferimenti? I conferimenti servono a dare vita al patrimonio iniziale della società, sono i contributi.
All'inizio patrimonio e capitale coincidono perché i conferimenti formano il capitale ma nel momento iniziale questo coincide con il patrimonio della società. Il socio destina stabilmente il proprio conferimento per la durata della società, quindi il conferimento ha un vincolo di destinazione e corre il rischio d'impresa perché se la società non ha utili neanche il socio li ha.
I conferimenti possono essere costituiti da beni e da servizi. I beni innanzitutto sono il danaro poi ci sono i beni in natura mobili ed immobili, materiali ed immateriali. Un bene in natura può essere trasferito a titolo di conferimenti in proprietà alla società, o in usufrutto o concederlo in locazione, quindi il titolo del conferimento varia, può essere un diritto reale, un diritto personale, o la stessa proprietà.
L'oggetto del conferimento è il bene ma il titolo del conferimento può variare. Il titolo del conferimento è il titolo giuridico in base al quale il bene viene conferito alla società.
La legge dice beni e servizi e quindi il conferimento di un socio può consistere nel mettere a disposizione della società la propria opera come può essere una prestazione di lavoro intellettuale. La differenza dai lavoratori subordinati sta nel fatto che i lavoratori sono assunti con un rapporto di lavoro subordinato, il socio d'opera è tale perché fa un conferimento d'opera.
Questo principio di possibilità di oggetto di conferimento di beni e servizi è limitato alle sole società di persone.
Nelle altre è espressamente sancito dalla legge d.p.r.30 del'86 all'art. 2342 comma 3° che non possono formare oggetto di conferimento nelle società di capitali le prestazioni d'opera e di servizi. Questo perché i conferimenti d'opera non sono ascrivibili a capitale e monetizzabili visto che in queste società ci sono norme che tutelano l'integrità del capitale.
Tutti i conferimenti devono essere ascrivibili a capitale che ha la sua funzione di garanzia, quindi la funzione del capitale nelle società di capitale non è paragonabile alla funzione di capitale nella società di persone tanto è vero che le società di persone potrebbero anche non avere capitale. Es.: società di persone formate da soci d'opera.
Capitale e patrimonio come detto coincidono nella fase iniziale poi tendono a divaricarsi man mano che la società comincia a svolgere l'attività economica che si era proposta.
Patrimonio sociale è il complesso dei rapporti giuridici attivi e passivi che fanno capo alla società, inizialmente costituita solo dai conferimenti eseguiti o promessi dai soci, e successivamente subisce variazioni di tipo qualitativo e quantitativo. La consistenza esatta del patrimonio sociale verrà accertata periodicamente ogni anno con il bilancio. Questo perché la legge prescrive la redazione annuale di un bilancio d'esercizio.
Il patrimonio netto invece è la differenza fra attività e passività.
Tutte le società hanno un autonomia patrimoniale ossia tutte rispondono con il proprio patrimonio, questa autonomia patrimoniale può essere più o meno accentuata a seconda del tipo di società che prendiamo in esame.
Il patrimonio sociale è quindi la garanzia generica dei creditori della società (2740).
Bisogna fare una differenza a questo riguardo tra società di persone e società di capitale, perché in alcune società questa garanzia generica costituita dal patrimonio sociale diventa una garanzia principale ed accanto ad essa vi è anche la garanzia dei soci illimitatamente responsabili.
Nelle società di persone per le obbligazioni sociali rispondono anche i soci con il proprio patrimonio quindi la garanzia patrimoniale generica offerta dal patrimonio della società è la garanzia principale dei creditori sociali ma non l'unica perché c'è anche la garanzia offerta dal patrimonio dei soci a responsabilità illimitata.
Nelle società di capitale la garanzia generica è l'unica perché in queste società non rispondono i soci in proprio, essendo la società dotata di un autonomia patrimoniale perfetta.
Il capitale sociale nominale è una semplice entità numerica, una cifra che descrive il valore in denaro del conferimenti, questo valore non è altro che quello che risulta dalla valutazione fatta al momento dell'atto costitutivo.
Si dice che i soci hanno conferito o si sono obbligati a conferire perché c'è una differenza fra capitale versato e capitale sottoscritto.
Capitale versato è quello direttamente versato alla società al momento della costituzione.
Capitale sottoscritto è quello che i soci si impegnano a versare in un momento successivo.
Le società di capitale richiedono il versamento dei 3/10 dei conferimenti in danaro, i 7/10 possono essere versati in un momento successivo pur che il capitale sia sottoscritto per l'intero. Chi non ha versato è considerato un creditore della società e si assume l'obbligo di versare successivamente. Questo obbligo va adempiuto. L'adempimento è a carico dell'organo amministrativo che procede a richiedere i decimi mancanti nel corso della vita della società. Non esiste però una norma che definisce un termine di versamento, questo è rimesso alla volontà del socio. ½ è un divieto di esonerare i soci dai versamenti dovuti. In caso che la società abbia bisogno di liquidità, se l'amministratore invece di chiedere i versamenti dovuti si indebita verso l'esterno andrà sicuramente incontro a delle responsabilità.
Nelle società di capitale c'è un esplicita disciplina che regola il procedimento nei confronti di un socio moroso cioè in mora nei versamenti. Ossia accade quando gli amministratori gli fanno una diffida ad adempiere e ciò nonostante non ha adempiuto.
Il capitale sociale è la parte indisponibile del patrimonio netto e rappresenta quel valore che i soci si sono impegnati disporre per l'attività di impresa quindi non può essere ripartita durante la vita della società e proprio perché è indisponibile è la parte più rigidamente vincolata a garanzia del creditori.
Il capitale sociale ha delle funzioni, in bilancio serve ad accertare l'utile e la perdita di esercizio e nelle società di capitale ha anche una funzione organizzativa in quanto serve a misurare le situazioni soggettive dei soci (i diritti soggettivi patrimoniali ed amministrativi spettano a ciascun socio in proporzione alla parte di capitale sociale sottoscritto.
Art. 2247: "per l'esercizio comune di un'attività economica". Con il contratto di società deve essere determinato l'oggetto sociale che è quella precisa attività economica che la società si propone di raggiungere, deve essere predeterminata nell'atto costitutivo però può essere modificata durante la vita della società, questo vale per tutte le società cambia solo il modo di modificarlo.
Questa necessarietà dell'attività comune è ciò che distingue la società dall'imprenditore individuale.
Anche il modo di svolgimento dell'attività in comune è importante. Il modo di svolgimento dell'attività deve essere imputata alla società non è sufficiente l'agire insieme, quindi bisogna seguire le modalità che ci consentono l'imputazione dell'attività in capo al gruppo, è necessario che colui che agisca nei rapporti esterni sia investito del potere di agire non solo per conto del gruppo ma anche in nome del gruppo, così che gli atti siano imputabili al gruppo stesso.
Questa l'unificazione soggettiva ed oggettiva che identifica il gruppo.
Non abbiamo questo nelle associazioni in partecipazioni art. 2549:
"Nozione. Con il contratto di associazione in partecipazione l'associante attribuisce a l'associato una partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o più affari verso il corrispettivo di un determinato apporto".
L'associante è l'imprenditore, l'associato può versare dei fondi, ma tra i due soggetti non c'è una società. I singoli atti d'impresa anche compiuti da l'associato vengono imputati in testa a l'associante. Non esiste un patrimonio comune. L'associato partecipa al rischio economico. Solo l'associante è a direzione dell'impresa e l'associato ha dei poteri di controllo. Manca l'attività comune ed è per questo che non è una società.
E' considerata attività d'impresa l'esercizio delle professioni intellettuali. Quali sono i dati normativi? Gli art. 2229 e seguenti regolano l'esercizio delle professioni intellettuali. Emerge che l'attività del professionista è un'attività di carattere esclusivamente personale. L'art. 2232stabilisce al professionista di eseguire direttamente l'incarico. Un soggetto si può avvalere di sostituti ausiliari pur che siano sempre diretti personalmente dal professionista intellettuale.
Esiste una legge del 1939 che riguarda le professioni protette (quelle iscritte in specifici albi) e dice che i singoli professionisti intellettuali potrebbero associarsi al fine di svolgere la propria professione ma non possono formare una società, questa è espressamente vietata. Questi soggetti nella denominazione del loro ufficio e nei rapporti con i terzi devono usare la dizione: studio legale, notarile, giuridico, ecc., ma oltre a questa dizione se hanno costituito un'associazione devono esplicitare chiaramente tutti i nomi dei singoli professionisti con la professione praticata. Queste non sono altro che associazioni professionali.
Il divieto di costituire una società ha un importanza notevole in quanto se si costituisse una società questa sarebbe nulla e sarebbero nulli tutti i rapporti intrattenuti dai professionisti e sarebbero nulli anche i rapporti di lavoro all'interno dell'associazione stessa. Questo non vuol dire però che più professionisti possano assumere un in carico congiunto.
Società di professionisti è ancora distinta dalla società di mezzi fra professionisti. Es.: 3 medici hanno un'associazione ed accanto ad essa costituiscono una società di mezzi per l'acquisto dei beni strumentali.
Società di mezzi per l'esercizio individuale della loro professione al fine di dividersi le spese, è uno strumento per l'esercizio.
Come le società di mezzi, sono le società di engeenering che offrono sul mercato un prodotto complesso. Il carattere professionale viene usato come strumento. Sono opere complesse che comprendono una fase di progettazione, una di messa in opera ed ogni tanto la vendita ai terzi e quindi non hanno come oggetto vero e proprio l'attività professionale del singolo professionista.
Per ciò che concerne le vere e proprie società professionali vi è un divieto di costituzione con la legge del '39. La disputa è sempre stata accesa in quanto qualcuno diceva che comunque la legge valeva solo per la categorie protette. Qualcun altro si è spinto oltre dicendo di non costituire una società di professionisti come società di capitale ma forse si potrebbe utilizzare la società di persone perché caratterizzata dalla responsabilità illimitata del socio.
Sembrava che la questione fosse chiusa con l'emanazione di una legge che dichiarava che le disposizioni della legge del '39 erano abolite. Ma questa legge ha demandato la propria attuazione ad un regolamento attuativo che è stato emanato dal Consiglio di Stato. Il regolamento attuativo ha previsto che possono essere esercitate le attività professionali sia dalle società in forma personale che dalle società di capitale ed ha dettato una regolamentazione.
La Corte dei Conti però ha bloccato questo, perché il regolamento è una fonte secondaria, ed è incostituzionale che il regolamento incida sulle situazioni soggettive di diritto privato, che solo una legge ordinaria potrebbe disciplinare.
Ritornando all'art. 2247 dice: "allo scopo di dividerne gli utili", questo è lo scopo della società lucrativa ed è anche la causa del contratto di società.
E' necessario distinguere un lucro in senso oggettivo ed un lucro in senso soggettivo:
lucro in senso oggettivo: è la produzione dell'utile in capo al patrimonio della società;
lucro in senso soggettivo: si ha quando il lucro prodotto in senso oggettivo nel momento in cui viene assegnato ai soci diventa soggettivo.
Questo è lo scopo di lucro che la società assegna a tutte le società lucrative di persone e di capitali e proprio in base a questo concetto vengono definite società lucrative contrapponendosi a quelle società che invece non si propongono uno scopo di lucro che sono le società mutualistiche: cooperative.
Cosa significa scopo mutualistico contrapposto allo scopo di lucro, lo scopo delle cooperative è quello di superare l'intermediazione del terzo imprenditore e rivolgersi direttamente ai soci fornendo direttamente ai soci prodotti e servizi a condizioni più vantaggiose. Consente ai soci un vantaggio patrimoniale, ad esempio in una cooperativa di consumo il vantaggio può essere un risparmio di spesa, in una cooperativa di lavoro sarà una maggiore remunerazione.
C'è una differenza tra utile e ristorno, in quanto è diverso il modo in cui viene prodotto e dal modo in cui viene attribuito. Cioè l'aspetto oggettivo e soggettivo varia per l'utile e per il ristorno quindi variano a secondo che la società sia lucrativa o mutualistica, perché nella prima l'attività è svolta nei confronti dei terzi ed il socio ha diritto ad avere gli utili in proporzione alla quota conferita, nella seconda l'attività è svolta nei confronti dei soci e la distribuzione è in base all'utilizzo che il socio fa dello strumento cooperativo, ossia chi ne usufruisce di più avrà di più.
Quindi accanto a società con scopo di lucro definite dall'art.2247 vi sono anche società che non hanno scopo di lucro come appunto le cooperative ma anche le società consortili. Le società consortili attraverso l'uso del consorzio cercano di produrre indirettamente un vantaggio a favore dei singoli consorziali.
Vi sono anche leggi speciali che prevedono determinati tipi di società che non hanno scopo di lucro.
Distinzione fra società ed associazione. Lo scopo principale della società è lo scopo economico e che quindi sia lucrativo che mutualistico è comunque uno scopo economico. E' completamente avulso dallo schema della società il problema dell'istituzionale devoluzione ai terzi dei risultati conseguiti dell'eventuale attività di impresa, questo invece è possibile nelle associazioni a fine altruistico. Le associazioni sono enti a fini ideali ed altruistici e non è necessario che tale associazione non persegua fini economici perché può darsi che l'associazione si procuri degli utili mediante l'esercizio tramite il rapporto con i terzi ma non in funzione di fini egoistici ma verso una devoluzione in coerenza con lo scopo istituzionale dell'associazione.
La presenza di tante società che non perseguono uno scopo di lucro ha portato alcuni studiosi come Santini a considerare questo fatto.
Santini con un articolo intitolato: "Tramonto dello scopo di lucro" ha voluto sottolineare l'esistenza di tanti esempi di società, società cooperative, consortili, sportive (legge '81 potevano costituirsi sotto forma di s.p.a. e di s.r.l. e potevano realizzare un utile ma avevano un divieto espresso di distribuire l'utile ai singoli soci in quanto dovevano devolverlo in relazione all'attività sportiva. Questa regola è venuta a cadere recentemente con decreto legge 20 settembre '96 n°485 ed oggi le società sportive non solo possono produrre utili ma anche distribuirlo) per le quali mancavano lo scopo di lucro. Ha anche voluto sottolineare il fatto che se in fin dei conti accanto alla società lucrativa conosciamo tutte queste eccezioni vuol dire che la società è solo un modello organizzativo prescelto dalle parti ma di per se neutro rispetto allo scopo di lucro. Quindi quando si sceglie una società per azioni la si sceglie per avere benefici da quella determinata organizzazione corporativa che però è neutra in quanto può essere utilizzata compatibilmente con la finalità lucrativa e non.
C'è tutta una corrente dottrinale in atto che tende a svalutare lo scopo di lucro come elemento coessenziale proprio alla definizione di società.
Altri invece tendono a svalutare quest'idea del tramonto dello scopo di lucro e dicono (dal testo) che comunque l'esistenza di questa varietà di società non porta alle conseguenze che la teoria del tramonto delinea:
dicendo che lo scopo di lucro non è così essenziale si pone un quesito non irrilevante che è quello se sia possibile costituire una società di capitali senza prevedere uno scopo di lucro a livello di volontà delle parti, questo è possibile se l'elemento scopo di lucro non più considerato essenziale. Alcuni hanno anche evidenziato che nel 2332 che elenca la cause tassative di nullità della società non è prevista l'assenza dello scopo di lucro, quindi è un motivo in più a sostegno della teoria del Santini ma a anche una grossa parte degli orientamenti.
A questa teoria ha obiettato la dottrina dicendo che prima di arrivare alla dichiarazione di nullità la società deve essere iscritta nel registro delle imprese e se non ha lo scopo di lucro la società non viene prorogata e quindi non passa nemmeno alla fase dell'omologo. Se ciò nonostante riesce a superare la fase dell'omologazione una società dichiaratamente per volontà delle parti dell'autonomia privata senza scopo di lucro, è una società affetta da una clausola nulla. A questo punto bisogna vedere cosa accade perché qualcuno ha detto che non è più una società ma potrebbe essere convertita in qualcosa di diverso (associazione), ma a questo si è obiettato in quanto le parti volevano proprio la società se no avrebbero scelto l'associazione (si tratta di conversione di un negozio in un altro negozio), quindi il problema è proprio che ci si trova proprio di fronte ad una società con clausola nulla, questa potrebbe a questo punto essere sostituita automaticamente con una clausola valida e quindi con la regola del 2247 reintroducendo lo scopo di lucro.
Art.2248:
"Comunione a scopo di godimento. La comunione costituita o mantenuta al solo scopo del godimento di una o più cose è regolata dalle norme del titolo VII del libro III".
La comunione costituita al solo scopo di godimento non è regolata dalle norme sulla società ma da quelle sulla comunione. La comunione a differenza della società è una situazione giuridica che si verifica quando il diritto di proprietà o altro diritto reale spetta a più persone che sono i comproprietari. Quando all'origine contrattuale due soggetti comprano un bene per goderne siamo in presenza di comunione volontaria e non in presenza di una società.
Godimento della cosa in comune. E' il diverso rapporto che intercorre tra beni comuni e l'attività che differenzia la società dalla comunione.
Nella società i beni comuni ossia il patrimonio sociale hanno una funzione servente e strumentale rispetto all'attività svolta dalla società.
Nella comunione invece si inverte il rapporto, non sono i beni strumentali rispetto all'attività ma è l'attività che svolge una funzione servente rispetto ai beni, per la sua conservazione.
Vi è un diverso regime patrimoniale, i beni facenti parte del patrimonio sociale sono affetti da un vincolo di destinazione unitaria, lo svolgimento dell'attività sociale. I beni della comunione invece non presentano questo vincolo.
Ci sono delle regole comuni che valgono a differenziare la comunione dalla società e sono:
per la società, - il singolo socio non può direttamente servirsi dei beni del patrimonio sociale per finalità che esulano dall'attività sociale, - non può provocare unilateralmente da solo lo scioglimento della società, - i creditori personali dei soci non possono soddisfarsi direttamente sul patrimonio della società.
Per la comunione, - ogni partecipante può servirsi della cosa comune, pur che non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto, - il comproprietario può chiedere in ogni momento lo scioglimento della comunione, - i creditori personali di ogni singolo comproprietario possono aggredire il bene comune.
La comunione non gode di autonomia patrimoniale non ha un patrimonio autonomo.
Società di mero godimento, si può costituire una società per il mero godimento di un immobile, art. 2248, emerge che no sono ammissibili le società di mero godimento dei beni perché sarebbe una comunione non una società.
Il problema sorge a riguardo delle società immobiliari di comodo. Fenomeno questo molto diffuso nelle società semplici ma non essendo società soggette a registrazione possono essere anche irregolari o di fatto quindi ci sono state moltissime società con oggetto immobiliare di cui nessuno ne è venuto a conoscenza anche perché per problemi fiscali conveniva intestare la macchina in nome alla società piuttosto che al singolo soggetto. Ma non solo anche le società di capitale sono state come società immobiliari di comodo enunciando un falso oggetto sociale, esempio: l'acquisto e la vendita dell'immobile laddove l'oggetto vero era semplicemente il godimento dell'immobile. Qualcuno ha detto che le società di persone sono semplicemente nulle, per le società di capitali il discorso è diverso perché se un s.r.l. denuncia che si occupa della compravendita di immobili ed esercita un'attività commerciale la legge non vieta questo, il problema è se questo avviene effettivamente o se accanto all'oggetto dichiarato vi sia un oggetto di fatto diverso che il godimento dell'immobile. Quindi l'unico modo per reprimerlo è quello di seguire la strada ardua della simulazione.
Una società immobiliare che abbia come oggetto la gestione di un residence per le vacanze non viola la legge, non è una comunione. Le società vietate sono solo quelle di mero godimento non le società in cui oltre al godimento si instaura accanto ad esso un rapporto di servizi con i terzi.
I veri problemi si hanno quando la comunione cade su un bene produttivo, es. quando il padre muore ed i li ereditano l'azienda. I li si trovano di fronte ad una comunione incidentale perché non l'hanno scelta loro.
Fin che si eredita una casa non c'è nessun problema, i problemi sorgono quando si eredita un bene produttivo come può essere un azienda. Quando due fratelli ereditano un azienda non per questo loro diventano imprenditori perché si diventa tale solo con l'esercizio di fatto dell'attività di impresa, quindi rimangono comproprietari di un bene. Contitolari di beni. I problemi nascono quando questi soggetti si mettono a gestire l'impresa. Si ha ancora o no la contitolarità? Non si ha più la contitolarità ma si avrà una società di fatto irregolare perché per costituire una società di persone non è necessaria alcuna formalità specifica. Il tacito accordo di continuazione dell'attività da luogo ad una società, ma visto che questa è stata formalizzata all'esterno sarà una società irregolare o di fatto in quanto non è registrata. L'importante è che i soci si comportino come tali svolgano la loro attività al fine di produrre gli utili e le quote in comproprietà si trasformano in quote di conferimento.
DIRITTO COMMERCIALE
TIPI DI SOCIETA'
Studiando le società vedremo che vi una grossa differenza tra quello che l'ordinamento interno di ciascuna società e la regolamentazione specifica dei rapporti esterni, quindi c'è un profilo interno organizzativo e un profilo più propriamente esterno.
Studiando i rapporti interni diversificandoli per i vari tipi di società vedremo le regole procedimentali che arrivano alla formazione della volontà sociale nelle società di persone e nelle società di capitali, vedremo come si atteggiano i diritti del singolo socio all'interno di questo ordinamento corporativo cioè come viene esercitato il diritto di voto, vedremo in che modo e se in quale misura spettano al socio oltre al diritto di voto, che rientra nei diritti corporativi e amministrativi, l'aspetto più propriamente patrimoniale ossia quanta parte ha il socio nella divisione degli utili sia durante la vita della società che in sede di liquidazione.
Esempio corporativo per eccellenza: il diritto di voto.
Sotto il profilo interno vedremo chi e con quali modalità quale soggetto e con quali meccanismi è abilitato a spendere all'esterno il nome della società in modo che le obbligazioni che assume questo soggetto diventeranno obbligazioni della società con una corrispondente responsabilità della società per le obbligazioni sociali contratte da chi è investito dalla rappresentanza della società.
Questi due aspetti interni ed esterno seguono dei moduli organizzativi diversi a secondo del tipo di società.
Un'altra panoramica è al riguardo delle società lucrative e delle società mutualistiche. Scopo di lucro si contrappone allo scopo mutualistico, le società lucrative con forma lucrativa tipica: società per azioni, società in accomandita per azioni, società a responsabilità limitata e le società cooperative che perseguono uno scopo antitetico a quello lucrativo, al bene in origine, sono nate con funzione anticapitalistica in alternativa al tipo lucrativo.
Accanto a questa grossa dicotomia tra società lucrative e cooperative le leggi speciali hanno dato vita ad una serie di società non lucrative tanto che qualcuno ha parlato del tramonto dello scopo di lucro.
Sotto il profilo dell'attività concretamente esercitata si distinguono la società semplice da tutte le altre società che sono di tipo o di forma commerciale. La società semplice deve essere esclusivamente utilizzata per l'esercizio di un attività non commerciale mentre deve essere iscritta nel registro delle imprese in una sezione speciale con la funzione di pubblicità notizia tutte le altre società lucrative invece possono esercitare, sono attività di forma commerciale, ma concretamente possono esercitare sia un'attività commerciale che agricola, non solo sono sempre e comunque soggette a iscrizione con funzione di pubblicità legale.
Esempio: s.r.l. che esercita attività agricola.
Un'altra e profonda distinzione è quella tra società dotate e non dotate di personalità giuridica. Hanno personalità giuridica le società di capitali, le società per azioni, in accomandita per azioni, a responsabilità limitata e le società cooperative; sono prive di personalità giuridica le società personali.
Differenze degli aspetti organizzativi tra società di capitali e società di persone.
In tutte le società di capitali e quindi in tutta quelle dotate di personalità giuridica è sempre prevista, come modello inderogabile, un'organizzazione della società di tipo corporativo ossia sono basate sulla presenza di una pluralità di organi (assemblea, organo amministrativo, collegio sindacale) ognuno dei quali investito di poteri ben determinati, si vedrà anche che talvolta (questo principio non viene contraddetto) come ad es. nella società a responsabilità limitata il collegio sindacale può essere facoltativo.
Quindi c'è una pluralità di organi ed un principio di collegialità nella formazione della volontà sociale di questi organi.
Il principio di collegialità si accomuna spesso al principio di maggioranza, a volte sono usate come sinonimi ma non lo sono. La collegialità anche se si accomna a maggioranza non significa maggioranza, perché vedremo che nelle società di persone si vota a maggioranza ma non è necessario il principio di collegialità.
Nelle società di capitali invece spesso i due termini sono usati come sinonimi perché si ha ovviamente una formazione collegiale della volontà sociale nell'assemblea e nella stessa si vota a maggioranza, ma comunque non sono sinonimi.
Principio di collegialità: la legge predetermina in modo inderogabile l'iter attraverso il quale si arriva alla formazione della volontà sociale:
convocazione dei soci in un unico luogo, ora, giorno;
predeterminazione di un ordine del giorno cioè di un elenco di materie da trattare;
discussione e votazione contestuale, principio di contestualità;
verbalizzazione.
Questo iter è predeterminato solo per le società di capitali, a questa regola procedimentale si accomna il principio maggioritario (di regola), cioè il funzionamento degli organi sociali è dominato dal principio di maggioranza, che si calcola in base alla partecipazione di ciascun socio in base al capitale sociale, quindi non ha rilievo la persona del socio tranne , come vedremo, nelle cooperative ma il principio capitalistico, si vota in proporzione alla parte di capitale posseduta.
Questa differenza è stata fatta perché al contrario che nelle società di capitale, nelle società di persone non c'è nessun iter scandito a chiare lettere dal legislatore per arrivare ad una volontà sociale, regola l'informalità più assoluta e ciò non di meno per alcune decisioni il legislatore richiede la maggioranza, quindi maggioranza ma non collegialità.
Nelle società di capitale il singolo socio non ha poteri di amministrazione diretti o di controllo, ha il potere di nominare chi gestisce e chi controlla la gestione quindi ha un potere indiretto sulla gestione nel senso che nomina le cariche sociali e il peso di ciascun socio all'interno dell'assemblea è fermamente collegato al principio capitalistico cioè da rilievo alla parte di capitale sottoscritta.
Nelle società di persone non è prevista un'organizzazione di tipo corporativo e tanto meno una pluralità di organi, non è prevista la regola della collegialità come regola legale di formazione della volontà sociale. Non è detto però che la regola della collegialità non possa essere applicata, questa è facoltativa, non essendo un modello imposto come nelle società di capitali. Ogni socio a responsabilità illimitata tendenzialmente ha il potere di amministrare e come regola generale vige il principio dell'unanimità dei consensi per modificare il contratto sociale. Spesso per talune decisioni basta la maggioranza, per tutte le modifiche del contratto ci vuole l'unanimità, per alcune decisioni la maggioranza.
Il socio a responsabilità illimitata è in quanto tale investito del potere di amministrare e rappresentare la società, senza tenere conto della percentuale di capitale che a conferito in quanto questo rapporto si basa sul fattore personale, tanto che vi è un rapporto di reciproca fiducia tra tutti i componenti della società e quando questo rapporto viene meno ci sono delle precise regole che ci dicono cosa avviene.
La differenza però maggiore fra questi tipi di società è quella che fa leva sul regime di responsabilità dei soci, in questo modo ci si avvicina al discorso della personalità giuridica e dell'autonomia patrimoniale. Ci sono delle società in cui delle obbligazioni sociali risponde sia la società con il proprio patrimonio sia i soci con proprio patrimonio, questa regola della responsabilità per le obbligazioni sociali in primis del patrimonio ed in secondo luogo del patrimonio del singolo, responsabilità che la legge definisce illimitata e solidale ma anche inderogabile per la società in nome collettivo, non ci può essere un patto che escluda o elimini questa responsabilità verso i terzi, e derogabile dai soci di una società semplice.
Abbiamo società come la società in accomandita semplice e la società in accomandita per azioni in cui si ha la compresenza istituzionale di due tipi di soci a responsabilità limitata ed illimitata insieme. Poi vi sono tipi di società dove risponde esclusivamente il patrimonio sociale e non altro: società per azioni e società a responsabilità limitata.
La responsabilità illimitata non è un qualcosa che esiste solo laddove non esiste personalità giuridica, perché ad esempio la società in accomandita per azioni è una società con personalità giuridica ma con soci con responsabilità illimitata, non solo, ci sono dei casi in cui anche nella società per azioni potremmo avere dei soci con responsabilità illimitata, è il caso del pubblico azionista (art. 2362).
Ci possono anche essere società senza personalità giuridica (società semplice) o soci a responsabilità limitata perché la legge consente ai soci non gestori di limitare la responsabilità nei confronti dei terzi. Quindi in una società semplice è ammissibile un patto volto a limitare quella che di regola è una responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali, per patto alcuni soci possono limitare la responsabilità, non possono farlo tutti perché possono farlo solo i soci che non gestiscono e quando questo patto c'è e non riguarda i soci amministratori ha una valenza all'esterno, riguarda i rapporti con i terzi. Quindi si può avere una società priva di personalità giuridica ma con una parte di soci a responsabilità limitata.
La regola da rispettare è che comunque non può esistere una società di persone con tutti i soci a responsabilità limitata e che l'amministrazione può essere conferita solo a soci che concretamente amministrano, cioè solo a soci a responsabilità illimitata.
Cosa significa personalità giuridica e cosa significa autonomia patrimoniale.
Il problema era sconosciuto dal codice dell'82 (codice del commercio) perché si diceva che tutte le società erano dotate di personalità giuridica perché si trovava scritto che le società erano enti collettivi forniti di una propria personalità distinta da quella dei soci. Il legislatore del 42 ha mutato completamente orientamento ed ha fatto una netta distinzione da un lato società di capitali e cooperative con personalità giuridica e dall'altro le società di persone senza personalità giuridica. Le società di persone al pari delle società di capitali godono di autonomia patrimoniale.
SCHEMA: Tutte le società godono di autonomia patrimoniale;
Solo per le società di capitale e le cooperative è prevista la personalità giuridica.
Definizione di autonomia patrimoniale secondo Cottino :
"Tutte le società godono di autonomia patrimoniale, ora stiamo parlando delle società di persone vi spiego come si atteggia l'autonomia patrimoniale nelle società di persone, dovete considerare due aspetti:
L'autonomia patrimoniale è caratterizzata da una relativa e variabile insensibilità del patrimonio sociale rispetto alle obbligazioni contratte in proprio dai soci sin che esso non sarebbe aggredibile dai loro creditori particolari;
E da una relativa e variabile localizzazione delle obbligazioni sociali nel patrimonio del gruppo che è il primo punto di riferimento per le obbligazioni contratte dalla società.
Quindi Cottino, di autonomia patrimoniale, dice una relativa e variabile insensibilità del patrimonio sociale rispetto alle obbligazioni del singolo, perché l'autonomia patrimoniale varia da tipo a tipo, l'accentuazione è ad esempio più accentuata nella s.n.c. che nella società semplice.
Altro aspetto fondamentale la localizzazione. Le obbligazioni sociali trovano il loro luogo nel patrimonio sociale ed anche quest'aspetto della localizzazione è relativo e variabile. E' ad esempio più accentuato in una società in nome collettivo regolare che in una società semplice.
Personalità giuridica ed autonomia patrimoniale hanno entrambe una precisa funzione. E' come se il legislatore volesse tutelare i creditori della società rispetto ai creditori personali del singolo socio, creando una separazione di patrimoni invoglia i soggetti a costituire una società per beneficiare della separazione dei patrimoni, quindi le due tecniche legislative utilizzate: autonomia patrimoniale da un lato oppure autonomia patrimoniale perfetta e personalità giuridica dall'altro sono due tecniche legislative che consentono di privilegiare i creditori sociali rispetto ai creditori personali e tende ad incentivare l'esercizio collettivo dell'impresa.
Il codice del 42 utilizza già la dicotomia società con e società senza personalità giuridica, alcuni articoli si riferiscono esplicitamente a società con personalità giuridica, esempio il 2331 "La società acquista personalità giuridica", 2498 comma 2° "Trasformazione in società aventi personalità giuridica. La società acquista personalità giuridica dal momento dell'iscrizione della delibera di trasformazione nel registro delle imprese". Altre norme si trovano poi nel codice di procedura civile dove si ammette una notifica a società con personalità giuridica. Quindi il codice civile distingue tra società con e senza personalità giuridica.
Godere di personalità giuridica o essere soggetti giuridici significa essere soggetti di diritto formalmente distinti dalle persone dei soci, la società è in una posizione di alterità soggettiva rispetto ai soci e conseguentemente la sua autonomia patrimoniale è piena e perfetta. Questo rapporto di alterità tra società e soci fa si che non ci possa essere nel modo più pieno la minima commistione nel senso che i creditori sociali hanno a disposizione esclusivamente il patrimonio sociale e non altro, non si possono soddisfare sul patrimonio dei soci. Questa regola dell'alterità è una regola formale stabilita dal legislatore quindi si avranno delle eccezioni in cui società dotate di personalità giuridica avranno la regola della responsabilità illimitata.
Esempio 2362 l'unico azionista: in un momento successivo alla nascita della società tutte le azioni sono in mano ad un unico socio, se la società in questo caso fosse insolvente (presupposto oggettivo) e le azioni risultano essere di un unico socio quest'unico socio per il momento in cui risulta essere formalmente l'unico titolare delle azioni risponde illimitatamente.
Differentemente avviene nelle società di persone quando rimangono con un unico socio. La legge dice: "se la pluralità dei soci originaria non è ricostituita entro sei mesi la società si scioglie" questo avviene grazie all'artificio della personalità giuridica, autorità soggettiva che consente alla società di continuare come persona giuridica nonostante la mancanza della pluralità dei soci fondatori.
Nelle società di persone non c'è l'alterità formale ma c'è l'autonomia patrimoniale. I creditori personali dei soci di queste società non possono aggredire il patrimonio sociale per soddisfarsi e fin che dura la società (la legge dice) questi creditori possono far valere i loro diritti solo sugli utili spettanti ai soci e compiere degli atti conservativi sulla quota che eventualmente spetterà al socio in sede di liquidazione della società .
Quindi si ha che solo un creditore particolare di un socio di società semplice può chiedere ed ottenere la liquidazione della quota; potrebbero ottenerlo anche i creditori personali di una s.n.c. ma solo in caso di proroga della società oltre la scadenza stabilita in contratto.
La localizzazione relativa e variabile vuol dire che le obbligazioni sociali si concentrano nel patrimonio sociale, i creditori della società proprio in base a questo principio non possono aggredire direttamente il patrimonio personale del singolo socio a responsabilità illimitata, prima devono tentare di soddisfarsi sul patrimonio della società. Quindi con soci a responsabilità illimitata non si può aggredire direttamente il loro patrimonio perché prima è necessario che tentino di soddisfarsi sul patrimonio della società e solo dopo averne discusso senza alcun risultato ci si rivolge nei confronti dei soci illimitatamente responsabili, con regole parzialmente diverse a secondo che ci troviamo in una società semplice o in una società in nome collettivo regolare, quindi questa regola subisce delle differenze perché ci sono delle norme specifiche per la società semplice e delle norme specifiche per le società in nome collettivo regolare.
Questi sono i principi generali su cui nessuno discute, dottrina e giurisprudenza invece discutono perché dicono che posto comunque che la legge distingue tra società dotate e non dotate di personalità giuridica e posto che tutte le società godono di autonomia patrimoniale, perché si deve ritenere che le società di persone non siano anch'esse dei centri autonomi di diritti ed obblighi al pari delle società di capitali, leggermente declassate perché non hanno la personalità giuridica. Gli orientamenti sono spaccati in due sia in dottrina che in giurisprudenza da un lato coloro che dicono che sarebbe giusto considerare che in fin dei conti la proprietaria dei beni sociali, la società semplice e la società in nome collettivo, perché non dire che alla titolarità formale si accomna anche il fatto che anch'esse sono soggette di diritto ma di secondo grado.
Queste sono distinzioni molto sottili e questi due orientamenti non hanno conseguenze applicative di scarso rilievo perché proprio in base a queste due distinzioni cioè coloro che dicono che sono tutti soggetti di diritto anche le società di persone anche se non hanno la personalità giuridica, perché comunque sono centri autonomi di diritti e di doveri anch'esse. C'è una grossa discussione che riguarda il caso di scioglimento particolare del vincolo (recesso) chi è che è tenuto a liquidare la quota al socio receduto la società o gli altri soci?
Le sentenze che seguono la tesi secondo la quale le società di persone anche se non dotate di personalità giuridica sono soggette di diritto dicono che è la società a liquidare la quota, coloro che ritengono invece che le società di persone godono solo di autonomia patrimoniale dicono che la quota è liquidata direttamente dagli altri soci al socio receduto, coloro che sostengono che solo le società di capitale siano soggetti di diritto ritengono che alla base delle società di persone vi sia comunque una contitolarità di beni conurata dalla destinazione e dallo scopo comune, una contitolarità di beni finalizzata allo scopo di svolgere un'attività economica e questa riemergerebbe quando si scioglie la società e rimane comunque questa contitolarità. Altri ritengono che non è niente vero tutto questo perché anche la società di persone sono centri autonomi di imputazione di diritti e di doveri quindi giammai contitolarità, il titolare è unico e della società.
Questa antinomia tra le due posizioni però è più apparente che reale, perché se è vero che dal punto di vista sostanziale una società di persone data la partecipazione del socio alla vita sociale, il fatto che naturalmente il socio è un amministratore, la responsabilità illimitata ecc, fanno si che sostanzialmente si possa parlare di comunione qualificata da uno scopo. Questi autori dicono anche ecco perché quando fallisce una società di persone falliscono anche i soci in proprio perché è come se fossero dei comprenditori, ma perché sono dei comprenditori? Perché è come se fossero degli institori. Gli altri rispondono di no, i beni che acquista la società sono della società non dei soci in contitolarità. E' una differenza questa più formalistica che altro, perché a livello sostanziale si potrebbe anche dire che esiste questa contitolarità qualificata dallo scopo che però fin che dura la società c'è la società, quando la società si scioglie potrebbe esserci soprattutto in caso di sopravvenienza.
In questo sta la differenza dalla comunione, in quanto si sostiene che a livello sostanziale mi va bene parlare di contitolarità di beni finalizzata ad uno scopo, questi beni non si toccano finchè dura la società.
Tutte queste distinzioni che fa la giurisprudenza sono comunque anche capziose, perché quello che è vero è che queste società non sono dotate di personalità giuridica poi se si vuol dire che la società acquista in suo nome i beni, è anche vero, ma sostanzialmente alla base c'è una contitolarità che vede i soci protagonisti della vita sociale molto di più nelle società personalizzate di capitali dove i soci non contano come persone ma come partecipazione al capitale. Nelle società di persone i soci sono coimprenditori per il potere di gestione che è connaturato al socio delle società di persone che è naturato nella spersonalizzazione; le società di capitale si chiamavano nomine perché non rilevava la persona del socio ecco perché si chiamavano società anonime, rilevava la partecipazione sociale, la quota non la persona del socio che gestisce e partecipa direttamente alla vita della società. E quando la legge dice all'art. 2266 che le società di persone acquistano diritti ed assumono obbligazioni in proprio per mezzo dei soci che ne hanno la rappresentanza si dice qualcosa di vero, la società acquista diritti ed obblighi proprio in virtù del potere di rappresentanza dei soci amministratori questo però non vuol dire negare quella differenza tra società dotate personalità giuridica con alterità soggettiva perfetta e società che non c'è l'hanno perché questa distinzione è ineliminabile.
Cosa si intende per tipicità, per sistema tipico? In diritto privato si sono visti i contratti tipici che sono quelli nominati dal legislatore, esiste una norma che dice che pur che l'interesse posto alla base del contratto sia deleterio di tutela secondo il nostro ordinamento le parti potrebbero dare vita a dei contratti atipici (leasing, factoring, franchising) e sono nati nuovi modelli contrattuali. Il legislatore ha sentito la necessità di creare questo dualismo perché nel 1942 c'era una realtà economica e giuridica profondamente diversa da quella di oggi, sono sorti moltissimi modelli contrattuali nuovi da quel periodo ad oggi e quindi è stata prevista una clausola che diceva che pur che l'interesse sia meritevole di tutela un contratto prima si forma nella prassi poi si cerca di analizzare ed a dargli una collocazione, questo non perché il codice civile preveda le caratteristiche di certi contratti ma perché il potere sociale acquista un rilievo tale che ne diviene un contratto atipico. Questa regola non vale per le società dove vige la regola del numero chiuso, le società sono solo quelle tipiche e sono solo quelle previste dal legislatore (Art. 2249 comma 1°) quanti costituiscono una società possono scegliere fra tutti i tipi di società se l'attività che devono svolgere non è un'attività commerciale, possono scegliere tutti i tipi tranne la società semplice se l'attività che vogliono svolgere è commerciale, ma sono solo quelle previste:
società semplice in nome collettivo,
società in accomandita semplice,
società per azioni,
società a responsabilità limitata,
società in accomandita per azioni,
società cooperative e mutuo assicuratrici.
La società semplice e quella in nome collettivo costituiscono in un certo senso dei regimi individuali ciò vuol dire che possono essere delle società di fatto, se per ipotesi tre soci si mettono ad esercitare di fatto (perché si è parlato di attività individuale) un'attività commerciale, si dice che il regime della società in nome collettivo è un regime individuale perché anche se non dichiarata espressamente la s.n.c., di fatto un'attività commerciale si può svolgere solo sotto forma di s.n.c. irregolare, la stessa cosa per la società semplice, ma anche se le parti nulla dicono e di fatto svolgono un'attività agricola la loro attività non può essere che svolta sotto forma di società semplice perché sono i due elementi minimi di un'attività che può essere svolta anche di fatto, quindi ci vuole un'intenzione una dichiarazione delle parti solo se si volesse utilizzare ad esempio la s.n.c. per esercitare un'attività agricola perché naturalmente è il prototipo di una società di persone commerciale. Quindi se nulla è detto anche per fatti concludenti potrei mettermi a svolgere attività commerciale e dare vita ad una società irregolare o di fatto commerciale se svolgo attività commerciale o una società di fatto sotto forma di società semplice se svolgo un'attività agricola. Si dice che la s.n.c. e la società semplice sono due regimi residuali perché la scelta di un tipo specifico non è una condizione necessaria per dar luogo ad una società, se nulla dico e di fatto intendo svolgere attività commerciale il regime sarà quello della s.n.c. (seppur irregolare), se nulla dico ed intendo svolgere attività agricola il regime sarà quello della società semplice (seppur di fatto), perché il contratto di società semplice ed in nome collettivo potrebbe anche avvenire verbalmente o per fatti concludenti e quindi non dichiarando espressamente di voler scegliere quel particolare tipo.
Cosa accade quando in un contratto tipico si inserisce una clausola atipica? Bisogna fare attenzione che quello che è vietato è la società atipica non una clausola. Ad esempio: come regola generale le quote nelle società di persone si trasferiscono con il consenso di tutti i soci, è possibile inserire a questo riguardo una clausola che prevede la libera circolazione delle quote in queste società? Posso prevedere una clausola che mi altera il regime di responsabilità nei confronti dei terzi?
Visto che le clausole atipiche non sono previste dal sistema bisogna valutare la singola clausola e vedere se questa non si ponga in contrasto con aspetti della disciplina legale espressamente dichiarati inderogabili, o considerati inderogabili perché fissa dei caratteri organizzativi essenziali della società. Non si può derogare in una clausola atipica: una norma inderogabile o tutto ciò che concerne le parti essenziali della società sotto il profilo organizzativo funzionale di quel tipo. Quindi nell'esempio di prima non è inderogabile il principio che tutte le modifiche del contratto in una società di persone vengono adottate ad unanimità, non è la stessa cosa per la responsabilità dei soci in una s.n.c. non poso disporre che i soci dispongano limitatamente nei confronti dei terzi perché questa regola vale solo per le società semplici dove con patto ad hoc si può limitare la responsabilità del socio.
LA SOCIETÀ SEMPLICE.
All'esercizio di fatto di un'attività non commerciale si applica la disciplina della s.s.
La s.n.c può essere utilizzata sia per svolgere attività commerciale sia non commerciale.
In ogni caso, qualunque sia l'attività esercitata, va iscritta nel registro delle imprese con funzione di pubblicità notizia e ciò deriva dal fatto che è una società di tipo commerciale.
Inderogabilmente, nei confronti dei terzi, per le obbligazioni sociali rispondono tutti i soci, solidalmente e illimitatamente e non è ammesso patto contrario.
Anche la s.n.c. rappresenta un regime residuale, perché non è necessaria una specifica scelta dell'utilizzazione di questo tipo di società e quindi l'attività commerciale esercitata di fatto sarà soggetta alle norme della s.n.c. irregolare.
La s.a.s. è società di tipo commerciale ed è caratterizzata da 2 tipi di soci:
R accomandanti che rispondono limitatamente per la quota conferita
R accomandatari rispondono illimitatamente e solidalmente
La s.a.s. non è un regime residuale. Bisogna che le parti la scelgano espressamente.
La s.s. ha particolare rilievo normativo perché le norme sulla s.s. sono la base per l'applicazione di esse anche alla s.n.c e alla s.a.s. Per queste due società si trova scritto che le norme che le regolano sono "le norme della s.s. a meno che non siano derogate dalle norme che seguono".
Con le norme sulla s.s. il legislatore ha voluto dettare una base normativa generale.
Infatti, alcune norme si trovano solo nella s.s. Posto che la base è costituita dalla s.s., ci sono delle norme particolari per la s.n.c. e per la s.a.s.
Dunque la s.s è il prototipo normativo di tutte le società di persone.
Consideriamo il contratto di s.s.
Art.2551 : il contratto di s.s. non è soggetto a forme speciali, salvo quelle richieste dalla natura
dei beni conferiti.
La legge non detta nemmeno delle norme specifiche riguardo al contenuto dell'atto costitutivo, previste invece per le altre società di persone.
Oggi è soggetta ad iscrizione con funzione di pubblicità notizia, in una sezione speciale.
La regola generale è che la s.s. ha regime informale, tanto che qualcuno ha affermato che il legislatore ha creato come prototipo delle società di persone quella che detta meno garanzia di tutte nei confronti dei terzi perché non è nemmeno soggetta ad iscrizione.
Quest'osservazione fatta prima della creazione del registro delle imprese, vale ancora oggi perché l'iscrizione ha solo funzione di pubblicità notizia e non dichiarativa.
Come può essere stipulato il contratto di società semplice?
La legge non detta alcuna disposizione sul contratto detto atto costitutivo.
Il contratto può essere concluso in modo
R scritto o verbale
R può anche risultare da un comportamento concludente: in questo caso si ha una società irregolare o di fatto
Si parte dal fatto che la legge non richiede una formalità particolare.
Non bisogna confondere la mancanza dell'atto scritto o l'accordo verbale con quello per fatti concludenti.
Quando c'è l'accordo verbale significa che non c'è la stesura di un atto scritto che detta delle regole particolari, ma verbalmente i soci si sono accordati. Quindi la forma orale è pur sempre una forma perché c'è un accordo verbale. Nella società di fatto non c'è accordo verbale. I soci cominciano a gestire una società, ad esempio perché due fratelli l'hanno ereditata: cominciano a gestire con tacito accordo. E' una società di fatto, cioè società che è nata per fatti concludenti. Il fatto che le parti non regolino il loro rapporto, non è un ostacolo perché la legge detta delle norme per cui "se nulla è detto, si presume . ".
Se c'è silenzio delle parti su alcuni elementi essenziali, come sui conferimenti, questo silenzio viene colmato con delle norme suppletive.
Regole non diverse valgono per la s.n.c.
Art.2295 prevede il contenuto dell'atto costitutivo. Però tutte le regole che si trovano in tale articolo sono prescritte ai fini dell'iscrizione della società nel registro delle imprese. E l'iscrizione nel registro di una società di persone commerciale, oltre ad avere funzione di pubblicità legale, è anche la condizione di regolarità della società stessa ma non di esistenza.
Quindi queste regole di forme e di contenuto non attengono alla validità della società, ma solo alla sua regolarità. Ecco perché la s.n.c. non ha regole diverse dalla s.s.
Se la società è iscritta nel registro, diventa una s.n.c. regolare. Quindi si ha pubblicità normativa.
Se rispetto le regole dell'art.2295 avrò una s.n.c. regolare.
Se non le rispetto la s.n.c. esiste comunque ma è irregolare.
Qual è la differenza tra s.n.c. irregolare e società di fatto?
Il fenomeno delle società irregolari riguarda solo le società di persone commerciali soggette ad iscrizione nel registro delle imprese con funzione di pubblicità legale.
Se la s.n.c. e la s.a.s. non vengono iscritte nel registro perché ad esempio
R c'è l'atto costitutivo ma non viene depositato
R o non c'è l'atto costitutivo
comunque la società è irregolare perché la società è soggetta ad iscrizione ma non viene iscritta.
Se il fenomeno delle società irregolari è circoscritto alle società di persone di tipo commerciale, c'è profonda distinzione tra s.n.c. regolare ed irregolare perché la disciplina applicata è differente.
Tornando alla distinzione tra società irregolare e di fatto, per la s.s. non c'è differenza perché la s.s. non è soggetta ad iscrizione con effetto di pubblicità legale.
Per la s.s possiamo avere solo
R s.s. che ha contratto scritto orale
R s.s. che non ha un contratto; la volontà di costituire una società si desume per fatti
concludenti
L'idea della società di fatto vale per la s.s. ma può valere anche per la s.n.c.
Una s.n.c. dove non solo c'è un contratto e non è depositato, ma dove non c'è neanche un contratto, perché i soci si sono accordati per fatti concludenti e di fatto svolgono una società commerciale. Questa è una società di fatto come la s.s.
La distinzione ulteriore tra società di fatto e società irregolare è che mentre nella società di fatto non esiste nemmeno un contratto, nella s.n.c. irregolare il contratto c'è ma non viene depositato presso il registro delle imprese.
Questa distinzione trova unificazione perché la disciplina della s.n.c. irregolare vale anche per quella di fatto.
Sintesi: per società di fatto in senso giuridico si intende una società che deriva da fatti
concludenti, manca contratto sia scritto sia legale.
Quindi una società di fatto, la si ritrova sia nella s.s. sia nella s.n.c.
Nella s.n.c. oltre ad avere un accordo che risulti da fatti concludenti, si potrebbe avere
anche l'atto scritto; ma se questo atto non viene iscritto nel registro, ci si trova di
fronte ad una s.n.c. irregolare. Alle s.n.c. irregolari non si applicano le stesse norme
delle s.n.c. regolari.
Quando le s.n.c. sono irregolari? Quando il legislatore consente di avere un atto scritto e non iscriverlo? Solo per le società di persone di tipo commerciale; non esiste una società di capitali di tipo irregolare perché mentre l'iscrizione delle società di persone commerciali è condizione di regolarità della società e la disciplina applicata è diversa, nelle società di capitali l'iscrizione è una condizione di esistenza stessa della società.
Quindi nelle società di persone di tipo commerciale, l'iscrizione crea uno spartiacque tra regime della società regolare e irregolare.
Mentre la s.s. può essere di fatto, la s.n.c. può essere
R di fatto se non c'è contratto
R irregolare se il contratto c'è ma non viene iscritto
In entrambi questi casi la disciplina è identica ed è quella delle s.n.c. irregolari.
In cosa consiste la differenza tra s.n.c. regolare e irregolare?
Ci sono norme precise nella s.s. che dettano i rapporti tra la società e i terzi
Ci sono norme nella s.n.c. regolare che dettano regole nei rapporti tra la società e i terzi.
Se la s.n.c. non viene iscritta, c'è declassamento di autonomia patrimoniale nella s.n.c.
Perché la legge afferma che nei rapporti tra la società irregolare e i terzi si applicano le norme meno favorevoli della s.s.
Quando la s.n.c. viene iscritta si applica tutta la disciplina prevista dalla legge.
Se la s.n.c. non viene iscritta e quindi è irregolare si applica la disciplina della s.s. solo nei rapporti tra la società e i terzi, non nei rapporti interni. La legge afferma che alla s.n.c. regolare si applicano le norme corrispondenti. Se è irregolare i rapporti tra la società e i terzi, e solo quelli, sono regolati per alcuni aspetti dalla disciplina meno favorevole della s.s. (art.2297).
Da qui l'importanza di distinguere la s.n.c. regolare da quella irregolare.
Art.2295: requisiti dell'atto costitutivo. Valgono solo ai fini della registrazione e della regolarità della società, non dell'esistenza.
L'atto costitutivo deve essere redatto per atto pubblico o scrittura privata autenticata e deve contenere le seguenti indicazioni:
1. cognome, nome, luogo, data di nascita, domicilio, cittadinanza dei soci
2. ragione sociale = nome della società. Quindi la ragione sociale deve essere costituita dal
nome di uno o più soci con l'indicazione del rapporto sociale.
3. I soci che hanno l'amministrazione e la rappresentanza della società. Quindi nella s.n.c.
nell'atto costitutivo si trova il nome dei soci che hanno la rappresentanza della società.
Es. Giovanni Rosso e Mario Bianchi s.n.c.
4. sede della società ed eventuali sedi secondarie
5. oggetto sociale = attività che la società si propone di svolgere
6. conferimenti di ciascun socio, il valore ad essi attribuito e il modo di valutazione
7. le prestazioni a cui sono obbligati i soci d'opera
8. le norme secondo le quali gli utili devono essere ripartiti e la quota di ciascun socio negli
utili e nelle perdite
9. durata della società
Non tutti questi elementi sono essenziali perché alcune lacune possono essere colmate dalle norme suppletive di legge. Ad esempio se non è prevista la durata della società, per le società di persone vale la regola che esse sono contratte a tempo indeterminato.
Non sono essenziali gli elementi ai numeri 3, 8, 9.
Se nulla è detto, esistono norme suppletive che dicono come ci si deve comportare riguardo:
R amministrazione e rappresentanza
R ripartizione utili
R durata della società
Che forma devono avere i conferimenti?
La libertà delle forme ha un limite dato dalle forme speciali richieste dalla legge per il particolare conferimento e quindi dalla natura dei beni conferiti (art.2251)
Es. se si conferisce un bene immobile alla società si devono rispettare le regole che prescrive la legge per il conferimento dei beni immobili. Se è conferito il godimento di un bene per oltre 9 anni si deve adottare la forma scritta.
Ci interessano le forme dei punti n°1 e n°9 dell'art.1350 : atti che devono farsi in forma scritta.
Devono farsi per atto pubblico o scrittura privata, sotto pena di nullità,:
i contratti che trasferiscono la proprietà dei beni immobili
9. i contratti di società o di associazione con i quali si conferisce il godimento di beni immobili o
di altri diritti reali immobiliari per un tempo eccedente i 9 anni o per un tempo
indeterminato
Significa che se conferisco un bene immobile ad una società a titolo di usufrutto (= titolo del godimento è un diritto reale) o in locazione (= titolo di conferimento è un titolo personale) e il conferimento si protrae per più di 9 anni, allora ci vuole la forma scritta.
La forma scritta, a pena di nullità, sarà quindi necessaria quando il conferimento ha i seguenti oggetti:
R beni immobili
R trasferimento della proprietà di beni immobili o di altri diritti reali
R godimento a tempo indeterminato o per un tempo eccedente i 9 anni di beni immobili
Questi requisiti di validità sono riferiti al singolo conferimento e non al contratto di società nel suo complesso. Non sono richiesti per la validità di tutto il contratto, ma riguardano solo il singolo conferimento.
Se non si rispetta la forma scritta per il conferimento di un immobile, non è sottoposto a nullità tutto il contratto di società, ma può essere dichiarato nullo solo quello specifico conferimento. Bisogna però fare attenzione: la disciplina della nullità di tutti i contratti afferma che il conferimento non deve rivestire carattere essenziale. Se così fosse, tutto il contratto di società sarebbe nullo.
Es. società di fatto per la costruzione di immobili la costruzione deve avvenire su terreno di uno dei soci. Se il socio non rispetta la forma scritta per il conferimento alla società, il conferimento è talmente essenziale che fa cadere tutto il contratto di società.
C'è però anche il principio di conservazione: è principio generale in base al quale c'è un favore legislativo verso la conservazione della società piuttosto che verso la sua disgregazione.
La ragione è che la disgregazione della società comporta degli effetti dannosi, ad esempio verso i lavoratori subordinati.
E' principio previsto anche per i contratti.
Conferire un immobile senza atto scritto dà sempre luogo alla nullità di quel conferimento?
Secondo il Galgano no. Se il conferimento di un bene per più di 9 anni, a titolo di proprietà, non è poi così indispensabile per il conseguimento dell'oggetto sociale, lo si potrebbe tramutare in un conferimento in godimento infranovennale; così si recupererebbe un conferimento che altrimenti sarebbe nullo. Vale il principio di conservazione, cioè l'immobile viene conferito in godimento infranovennale perché è il tempo massimo per cui non è richiesta la forma scritta.
Dobbiamo studiare i conferimenti cioè l'ordinamento patrimoniale della società.
Art.2253: il socio è obbligato ad eseguire i conferimenti determinati nel contratto sociale.
Se i conferimenti non sono determinati si presume che i soci siano obbligati a
conferire, in parti uguali tra loro, quanto è necessario per il conseguimento
dell'oggetto sociale.
dunque se nulla è detto, si presume che i soci siano obbligati a conferire in parti uguali.
E' una norma suppletiva.
L'obbligo di conferimento è necessario per acquistare la qualità di socio. Non occorre conferire effettivamente, ma obbligarsi a conferire, anche se poi l'obbligo viene adempiuto in un momento successivo.
Questa distinzione è importante, perché vale solo per la società di persone.
Per le società di capitali la qualità di socio, acquistata solo con l'obbligo di conferimento, vale solo per la parte dei conferimenti in denaro che eccedono i tre decimi, perché, per tutti i conferimenti diversi dal denaro, la legge dice che devono essere immediati.
Per i sette decimi dei conferimenti in denaro si può assumere l'obbligo. Ci vuole il versamento immediato in denaro per i tre decimi. Inoltre, per tutti i conferimenti diversi dal denaro non si assume la qualità di socio con l'obbligo di conferire, ma con il conferimento effettivo.
Nella società di persone il socio può
R conferire effettivamente il bene
R o obbligarsi a conferirlo
Se il socio si obbliga a conferire, avrà un debito di conferimento nei confronti della società.
L'obbligazione può essere adempiuta successivamente.
Come si determinano i conferimenti nelle società di persone?
La determinazione fatta dalle parti quanto alla specie e all'ammontare del conferimento stesso, non condizione essenziale per la valida costituzione delle società di persone.
Se le parti nulla dicono riguardo la specie né l'ammontare del singolo conferimento subentrano delle norme dispositive che possono essere previste, salva disposizione contraria:
se nulla è detto, si presume che il conferimento sia da farsi in denaro.
Questa presunzione non si ricava dalla disciplina della società di persone, ma dall'art.2342 che regola le società di capitali: il conferimento principale è il conferimento in denaro.
E' la via maestra per diventare socio.
La specie del conferimento può essere: denaro, beni in natura o crediti.
Quindi se non è determinata la specie, si presume che il conferimento sia in denaro
se non è determinato l'ammontare, cioè se i conferimenti non sono determinati, si presume
che i soggetti siano obbligati a conferire, in parti uguali tra loro, quanto è
necessario per il conseguimento dell'oggetto sociale (2253, 2°).
In caso di contrasto tra soci, il conferimento deve essere determinato con riferimento all'oggetto sociale all'epoca della stipulazione del contratto.
Potrebbero gli altri soci chiedere continuamente di conferire quanto necessario per lo svolgimento dell'attività? No. Nessuno può imporre al socio ulteriori conferimenti rispetto a quelli previsti dall'atto costitutivo. Se l'atto costitutivo dice, che se nulla è previsto, bisogna conferire quanto determinato secondo l'oggetto sociale, allora si deve fare riferimento all'oggetto sociale (cioè all'attività programmata) al momento in cui la società si costituisce.
Quindi il socio non può essere costretto a nuovi esborsi, pena l'esclusione dalla società di chi li richiede, a titolo di conferimento qualora quelli iniziali non siano più sufficienti. Il socio potrebbe dare spontaneamente.
Non può essere costretto a nuovi conferimenti se l'attività si espande e si dovesse aumentare il capitale, perché ci si obbliga a conferire solo quanto promesso al momento della costituzione della società.
Questa regola che vale quando l'atto costitutivo già predetermina l'ammontare dei contenuti, vale ancor più quando la legge dice che i conferimenti si presumono uguali e si presume che i soci si obblighino a conferire quanto necessario per il raggiungimento dell'oggetto sociale.
C'è chi sostiene che quando il conferimento è necessario per l'oggetto sociale, questo può comportare che si faccia riferimento anche alla vita della società e non solo all'inizio della società. Invece la norma va intesa nel senso di riferirsi all'oggetto sociale all'epoca di stipulazione del contratto e non ad un'epoca successiva.
Se però c'è unanimità, cioè tutti i soci sono d'accordo, si può conferire di più.
Quindi giuridicamente non c'è obbligo a conferire di più di quanto stabilito nell'atto costitutivo.
L'unanimità dei soci o anche solo il consenso di un singolo socio possono far sì che si possa conferire di più. Ma nessuno può imporlo.
Cosa si conferisce in una società di persone?
C'è profonda differenza tra ciò che si può conferire nelle società di persone e in quelle di capitali.
Nessuna limitazione è posta all'autonomia privata per i conferimenti alla società di persone.
Possono essere conferiti:
R denaro
R beni mobili o immobili, materiali o immateriali (es. brevetto)
R crediti
R sevizi
Ci sono poi i casi dubbi:
R quasi tutti ritengono che si possa conferire il nome purché sia suscettibile di valutazione
economica: cioè la società acquista ricchezza e ne ottiene vantaggi
R si può conferire la responsabilità illimitata del socio? No perché essa è l'effetto legale
dell'acquisto della qualità di socio. L'acquisto della responsabilità illimitata è un acquisto
che presuppone un conferimento. Dalla qualità di socio discende la responsabilità illimitata.
Al di là di questo si può conferire tutto ciò che è suscettibile di una valutazione economica.
Profonda divergenza rispetto alla società di capitali sta nel conferimento di servizi.
Il socio d'opera è ammesso solo per le società di persone.
Questo non vale per le società di capitali.
Art.2342: non possono formare oggetto di conferimenti le prestazioni di opera o di servizi.
Bisogna sempre studiare il titolo giuridico del conferimento.
Es. trasferimento di un immobile
R in proprietà: la proprietà si deve vedere quando passa alla società a seconda del tipo di
vendita a efficacia immediata o differita. Se trasferisco la proprietà di cosa determinata la
proprietà passa immediatamente alla società.
R in godimento: il titolo del godimento è un diritto reale se è concesso a titolo di usufrutto; se è
concesso a titolo di locazione la società godrà del bene a titolo personale.
Art.2254: per il conferimento in proprietà la garanzia dovuta dal socio e il passaggio dei rischi sono regolati dalle norme sulla vendita.
Quindi il socio è tenuto alla garanzia per vizi e per evizione.
Sul socio grava poi il rischio del perimento del bene per caso fortuito fino a che la proprietà nn sia passata alla società.
Nella vendita il trasferimento, cioè l'effetto traslativo, è immediato cioè basta il consenso delle parti, se riguarda cose determinate. Le cose determinate solo nel genere hanno effetto traslativo è differito, cioè bisogna attendere l'individuazione.
Se la cosa perisce per caso fortuito, cioè prezzo colpa nessuno, il rischio grava sul proprietario cioè su
R socio se ha ancora la proprietà.
R società sa è divenuta proprietaria
Questo principio subisce un adattamento con riferimento alle società.
Il perimento di una cosa promessa prima che la proprietà sia passata alla società (è effetto traslativo differito) comporta che il socio possa essere escluso dalla società (art.2286, 3°).
Il soggetto è già socio perché si è obbligato al conferimento. Quindi può essere escluso dalla società. Però c'è un adattamento perché, fino a che l'esclusione non è decisa dagli altri soci, partecipa ad eventuali utili o perdite della società. L'esclusione nelle società di persone è, di regola, una facoltà dei soci: il socio può essere escluso, ma potrebbe anche non esserlo. Ci sono poi i casi di esclusione automatica.
Per i beni conferiti in godimento il rischio cade sul socio che le ha conferite perché è il proprietario.
Anche in questo caso c'è una possibile causa di esclusione. L'art.2286 afferma che il socio può essere escluso quando la cosa perisca o il godimento diventi impossibile per causa non imputabile agli amministratori.
Quindi il rischio di caso fortuito resta a carico del socio conferente.
La garanzia dovuta quando si conferiscono beni in godimento è data dalle norme sulla locazione (artt.1578 e ss.).
A differenza del conferimento in proprietà, il bene conferito in godimento resta di proprietà del socio conferente. La regola è: res perit domino = la cosa perisce con il proprietario
La società ne può godere ma non ne può disporre.
Il socio ha diritto alla restituzione del bene quando si scioglie la società, ma nello stato in cui si trova.
Se il bene è perito o deteriorato per colpa degli amministratori, il socio ha diritto al risarcimento dei danni e può fare prima un'azione di responsabilità contro gli amministratori.
Es. di caso fortuito è l'incendio.
Si possono conferire anche i crediti. Cioè il soggetto A vanta un credito verso il soggetto B.
A conferisce il suo credito alla società. Allora B deve are il debito alla società. B diventa debitore ceduto.
Il conferimento di crediti è ammesso per le società di persone e di capitali.
Art.2255: il socio che ha conferito il credito risponde dell'insolvenza del debitore.
Es. se B non a, A ne risponde nei confronti della società per insolvenza del debitore ceduto, nei limiti del valore del credito.
Continuazione delle SOCIETA' DI PERSONE.
Nelle società di persone le entità conferibili sono molto ampie, purché suscettibili di valutazione economica e la disciplina più rilevante è la previsione del socio d'opera.
Socio d'opera = socio che si obbliga a prestare la propria opera all'interno della società.
C'è distinzione tra
R socio d'opera
R colui che lavora alle dipendenze della società perché si tratta di un rapporto di lavoro
subordinato: ha retribuzione garantita, cosa che non accade nel caso del socio d'opera visto
che rischia insieme con tutti gli altri soci di capitali.
Dunque il conferimento di servizi, anche intellettuali, fa assumere al soggetto la qualità di socio e non di lavoratore subordinato.
Poi le 2 qualifiche potrebbero anche coesistere purché i servizi che formano oggetto del conferimento non siano gli stessi che vengono prestati a titolo di lavoro subordinato.
Sul socio d'opera è accollato il rischio dell'impossibilità della prestazione, anche se deriva da causa a lui non imputabile, perché l'art.2286, 2° comma, in tema d'esclusione, afferma che gli altri soci possono escluderlo per la sopravvenuta inidoneità a svolgere l'opera conferita.
Quindi, sotto questo profilo, la sua posizione è pari a quella di un socio che ha conferito un bene in godimento. Viene escluso, se anche per colpa non sua, non è più in grado di svolgere l'opera promessa.
La cosa più importante, sostenuta dalla dottrina più autorevole, è il trattamento riservato al socio d'opera in caso di scioglimento della società. Questo socio partecipa all'eventuale attivo che residua dopo il rimborso del valore nominale di chi ha conferito capitale.
Es. ci sono 2 soci e uno ha conferito la propria opera alla società, mentre l'altro conferisce denaro per 100.
Al momento dello scioglimento della società si scopre un saldo di 300: viene conferito 100 al socio di capitale e il residuo verrà ripartito tra i 2 soci in proporzione alla parte a ciascuno attribuita ai guadagni. Significa che non c'è la valutazione del conferimento d'opera nel momento in cui si afferma che deve essere ritenuta per principio una somma anche a suo favore. Ci sarà solo un residuo attivo e su questo competerà insieme ai soci di capitale. Salva diversa pattuizione, non potrà avere il rimborso del valore della sua prestazione di servizi.
Il punto non è pacifico perché il prof. Di Sabato sostiene che anche al socio d'opera vada attribuito il rimborso del valore del suo apporto. Quest'autore si basa sull'art.2282, in tema di scioglimento, afferma che il saldo di liquidazione è destinato al rimborso dei conferimenti. L'articolo non fa distinzione tra conferimenti e quindi non si dovrebbe privare il socio d'opera anche del valore del suo conferimento.
Il Cottino e gli altri si attengono al fatto che solo il residuo vada diviso tra i soci.
Il Di Sabato ritiene che anche i conferimenti di servizio vadano capitalizzati.
Quasi tutti fanno distinzione tra
R conferimento di capitale: oggetto sono denaro o proprietà di beni
R conferimento di patrimonio: oggetto sono conferimenti di servizi e il godimento di beni
Secondo la tesi dominante c'è profonda distinzione tra i due perché mentre i conferimenti di capitale sono ascrivibili a capitale, tali non lo sono i conferimenti di servizi.
In caso d'amministrazione disgiuntiva, la legge afferma che la rescissione dei soci amministratori e non va calcolata a maggioranza secondo la quota di partecipazione agli utili. Il legislatore ha stabilito la maggioranza non secondo la quota di capitale sottoscritta, ma secondo la quota di partecipazione agli utili proprio perché ci possono essere soci che conferiscono servizi, i quali non sono ascrivibili a capitale. Se la maggioranza fosse conteggiata solo in base alla quota di partecipazione al capitale, nulla potrebbe pretendere chi ha conferito servizi.
Ipoteticamente si potrebbe avere una s.s. anche solo con soci d'opera. Quindi si avrebbe una società senza capitale perché i conferimenti di servizi non sono ascrivibili a capitale.
Quest'ipotesi è sottoscritta alla s.s., perché la s.n.c. ha un capitale e quindi deve esserci almeno un socio di capitale.
La società conferitaria diventa proprietaria esclusivamente dei beni conferiti in proprietà, non di quelli conferiti in godimento.
Capitale sociale è la parte indisponibile del patrimonio netto e più rigidamente vincolata a garanzia dei creditori. E' una garanzia supplementare perché è quella parte di capitale netto che non può essere disposta. Le riserve sono disponibili, a parte la riserva legale. Il capitale sociale è semplicemente una posta ideale che è vincolata perché è una parte del netto indisponibile.
Ha funzione di vincolo perché è proprio l'individuazione di quella parte dell'attivo che non è distribuibile ai soci. Inoltre, serve nel bilancio per determinare se c'è una perdita o un utile.
Può esistere una s.s. con soli soci d'opera perché a nozione di capitale sociale è del tutto assente nelle s.s.
Non esiste alcuna norma che si preoccupi di tutelare il capitale nella s.s.
Non è nemmeno previsto nelle s.s. che sia valutato il conferimento inizialmente.
Nella s.n.c. è diverso perché se paragoniamo la disciplina del capitale della s.n.c. a quella delle società di capitali, sembra roba da poco; ma paragonata alla s.s. vi sono profonde differenze.
Art.2295 n°6: vanno indicati i conferimenti di ciascun socio, il valore ad essi attribuito e il modo di valutazione.
Questo ci consente di determinare l'ammontare del capitale, cosa che non è prevista nelle società di persone.
Diversamente da quanto rigidamente stabilito nelle società di capitali, non c'è nessuna regola che prevede la valutazione dei conferimenti diversi dal denaro. I conferimenti diversi dal denaro sono rimessi alla libera valutazione delle parti.
Nelle società di capitali tutti i conferimenti diversi dal denaro sono sottoposti a rigida valutazione in omaggio al principio dell'esatta formazione del capitale.
Tutto ciò non avviene nelle s.n.c., perché l'esatta formazione del capitale è principio tipico delle società capitalistiche. Non si può a fronte di un immobile che si dichiara valere 100, quando in realtà vale 50, attribuire azioni per un valore nominale di 100.
La valutazione dei conferimenti diversi dal denaro è rimessa alla libertà dei soci nella s.n.c.
Ci sono però 2 norme 2303 e 2306 che disciplinano parzialmente il capitale nella s.n.c.
Rappresentano una garanzia minima ai creditori, ma non sono paragonabili alle norme delle società di capitali.
Art.2303: è vietata la ripartizione tra i soci d'utili che non si siano realmente conseguiti.
Sono somme fittizie perché non rappresentano veramente l'esuberanza del patrimonio netto (=attività - passività) rispetto al capitale sociale.
Però se si verifica una perdita non c'è obbligo giuridico, come nelle società di capitali, di ridurre il capitale sociale. L'art.2303 non afferma che se si verifica una perdita, si è costretti a ridurre il capitale sociale. Nella s.n.c. se si verifica una perdita del capitale sociale, non può farsi ripartizione degli utili fino a che il capitale non sia reintegrato o ridotto in misura corrispondente.
La sanzione è indiretta: è vero che si parla di riduzione, ma non c'è l'obbligo di riduzione se si verificano perdite. Il vero obbligo è non distribuire utili fino a che non si sia reintegrata la perdita o non si sia fatta la riduzione.
Quindi la riduzione del capitale per perdite non è altro che arretrare la cifra del capitale.
E' una riduzione nominale perché bisogna adeguare la cifra del capitale al valore patrimoniale. Quindi la consistenza attuale del patrimonio netto va posta in corrispondenza con la cifra nominale del capitale. Ecco perché la riduzione è nominale e non reale.
Nelle società di persone la riduzione di capitale è sempre facoltativa.
Diventa uno strumento necessario se si vogliono distribuire gli utili.
Quindi le vere regole poste sono quelle dei limiti alla distribuzione degli utili, non c'è l'obbligo di ridurre il capitale. Sono i soci che scelgono:
R se riducono il capitale potranno distribuire gli utili
R se non lo riducono non potranno distribuirli
Non ci sono regole inderogabili poste a tutela dei terzi.
Nel caso in cui il valore del patrimonio netto corrisponde alla cifra nominale del capitale ci sono norme che tutelano anche i terzi, negli altri casi non è possibile. Quindi non si può adeguare la cifra del capitale sociale nominale alla consistenza attuale del patrimonio netto. Ciò è possibile solo se si vogliono distribuire gli utili.
Art.2306: riduzione del capitale per esuberanza. E' una riduzione reale.
La disciplina è diversa da quella delle società di capitali.
La legge stabilisce che gli amministratori non possono rimborsare ai soci i conferimenti eseguiti o liberarli dall'obbligo di eseguirli.
Nelle società di capitali l'obbligo a conferire si assume solo per i 7/10 perché il conferimento deve essere effettivo per tutto ciò che non corrisponde ai 7/10 in denaro.
Nelle società di persone si assume l'obbligo di conferire e così si acquista la qualità di socio.
Ci possono essere dei conferimenti non ancora eseguiti.
Se il capitale fosse esuberante, gli amministratori potrebbero liberare i soci dai versamenti che devono ancora eseguire. Oppure, se non ci sono più versamenti da eseguire, potrebbero rimborsare i soci del loro conferimento.
La regola generale è che, durante la vita della società, gli amministratori non possono rimborsare i soci dei conferimenti o liberarli da quelli promessi.
L'unica ipotesi ammessa è la riduzione del capitale esuberante: questo vale sia per le società di persone sia di capitale.
Se gli amministratori, fuori dei casi previsti dalla legge, restituissero ai loro soci i conferimenti o li liberassero da questi, commetterebbero illecito civile e penale.
Ma il patrimonio è la garanzia primaria dei creditori, anche nelle società di persone.
Poi ci sono i soci a responsabilità illimitata.
Il fatto che l'operazione di rimborso potrebbe ledere i creditori, questi potrebbero fare opposizione e dimostrare di subire un danno da questo tipo d'operazione.
La decisione di ridurre il capitale può essere eseguita solo dopo 3 mesi dal giorno dell'iscrizione nel registro delle imprese della decisione della riduzione del capitale.
La riduzione comporta modifica dell'atto sociale ma che comporta che questa modifica possa essere resa priva d'efficacia se un creditore fa opposizione. Si decide prima in un ordinario giudizio di cognizione sull'opposizione stessa.
E' una tutela minima che la legge offre ai creditori. E' minima perché la stessa fattispecie della riduzione del capitale ha aspetti in comune con la riduzione del capitale esuberante prevista per le società di capitali.
Siamo partiti dal concetto che nella s.s. potrebbe non esservi capitale. Nelle società di persone commerciali ci deve essere. Perché la regolamentazione relativa è così diversa rispetto alle società di capitali? Nelle società di capitale, a differenza delle società di persone, il capitale assume un'importanza considerevolmente diversa:
R ci sono norme che presiedono al principio dell'esatta formazione del capitale
R il capitale è intangibile tranne che con l'adozione di determinati procedimenti rigidamente
stabiliti dal legislatore. La tutela dei creditori assume un'importanza di proporzioni
benessere diverse rispetto a quella che assume nelle società di persone. Infatti, c'è un
principio generale d'intangibilità del capitale fuori dei casi ammessi dalla legge.
Nelle s.s. la presenza del capitale è parzialmente regolato dal legislatore, ma questa regolamentazione non è paragonabile a quella che assiste il capitale nelle società di capitali.
Nelle società di persone, oltre al capitale sociale, si ha la responsabilità illimitata dei soci come ulteriore garanzia ai creditori.
Quando si afferma che la società risponde con il suo patrimonio, vuol affermare che la società risponde illimitatamente. Ma una cosa è la responsabilità illimitata della società, altra cosa è la responsabilità illimitata dei soci delle società di persone. Questo concetto è dettato dal principio d'autonomia patrimoniale. Bisogna ricordare il concetto di localizzazione: le obbligazioni sociali sono localizzate nel patrimonio sociale. Questo significa che la società risponde con il proprio patrimonio illimitatamente. Che poi accanto ci siano dei soci che rispondono illimitatamente o limitatamente, ciò non toglie che la garanzia offerta dal patrimonio della società sia illimitata.
Si è poi detto che tutti i soci hanno diritto di partecipare agli utili o alle perdite che si verificano durante la gestione della società. Però, c'è un limite posto all'autonomia privata. E' il limite posto dal patto leonino: il nostro ordinamento lascia libere la parti di stabilire la quota che ognuno deve avere d'utili o perdite con il solo limite del patto leonino. La legge afferma all'art.2265 che è nullo il patto con il quale uno o più soci sono esclusi da ogni partecipazione agli utili o alle perdite.
E' difficile trovare dei patti così espliciti; spesso sono patti più complicati. Quindi dottrina e giurisprudenza affermano che si deve guardare al dato sostanziale. Si viola il patto leonino anche quando si stabilisce una soglia così alta prima di poter avere qualcosa, o così bassa per poter are, che in sostanza si fa un patto leonino.
Quindi l'autonomia privata può stabilire come si debbano attribuire gli utili o le perdite nei limiti del divieto del patto leonino.
E' nullo il patto, non viene colpita da nullità la singola partecipazione, a meno che non si dimostri che quel socio abbia dato il proprio conferimento proprio per quel patto; in tal caso c'è nullità del singolo conferimento. Se esiste il patto leonino è questo patto ad essere nullo. Non è nulla la singola partecipazione, né tanto meno tutto il contratto di società. Se si dimostra che il socio ha stipulato il contratto di società perché c'è un patto leonino che lo favorisce allora la sua partecipazione è inficiata di nullità. Se in più il contratto di società è stato stipulato proprio per avere quel soggetto, e quindi la sua partecipazione è essenziale, allora cade il contratto.
A parte quest'eccezione, si ha, nel caso di nullità del patto, una sostituzione automatica del patto nullo con le clausole previste dalla legge.
Quali sono le clausole? Sono norme suppletive.
Se il contratto nulla dice, le parti spettanti agli utili e alle perdite si presume che siano
proporzionali ai conferimenti.
Es. il socio ha conferito 100 patisce perdite per 100 o avrà utili per 100.
Se neanche il valore di conferimento è stato stabilito, le parti si presumono uguali.
Si presume che ogni socio abbia conferito in parti uguali.
Se è stata stabilita solo la % di partecipazione agli utili, si presume che nella stessa % si partecipi alle perdite
La parte spettante al socio d'opera, se non è determinata contrattualmente, verrà stabilita dal giudice secondo equità.
Quindi la legge prevede dei criteri legali di ripartizione in assenza di una specifica disciplina delle parti. Se le parti hanno già predeterminato tutto, queste norme non si applicano.
Il prof. Cottino fa prima una distinzione.
Non bisogna confondere
R responsabilità illimitata
R partecipazione alle perdite
La responsabilità illimitata dei singoli soci in una società di persone riguarda i rapporti tra la società e i terzi.
Il concetto di partecipazione alle perdite attiene ai rapporti interni di divisione del cattivo esercizio della gestione sociale. Ci sono delle regole per la ripartizione delle perdite stabilite dalle parti o, in mancanza, dalla legge con il divieto del patto leonino.
Nelle società di persone si diventa soci già solo con l'obbligo di conferire, ma nessuno può essere obbligato a conferire più di quanto promesso al momento della costituzione della società. Se ciò accadesse, questa sarebbe una causa d'esclusione del socio che ha obbligato a conferire.
Quindi le regole sono:
nessun socio può obbligare gli altri a conferire
la responsabilità illimitata vale nei confronti dei terzi
la partecipazione alle perdite riguarda i rapporti interni
Mentre all'esterno il socio risponde con il suo patrimonio illimitatamente, all'interno la partecipazione alle perdite può essere diversa da socio a socio.
Questo sulla carta, perché poi quando la società va male e gli amministratori vanno a chiedere soldi ai soci per are i creditori, questi concetti vanno sfumando. Però un conto è che il socio spontaneamente faccia dei versamenti ulteriori, altro è l'obbligo di eseguire un versamento.
Di fatto, poi, nelle società di persone accade che i soci versino di più rispetto ai conferimenti promessi, ad esempio per evitare che la società fallisca o che falliscano essi in proprio.
Quindi il maggiore conferimento è "spontaneo" cioè volto ad evitare di fallire; comunque non è un obbligo.
La stessa cosa si fa per ripianare le perdite, purché non si violi il patto leonino.
Esiste un vero e proprio diritto agli utili nelle società di persone?
Nella s.s., l'art.2262 afferma che, salvo patto contrario, ciascun socio ha diritto di percepire la sua parte d'utili dopo l'approvazione del rendiconto.
Il rendiconto nelle s.s. è il bilancio per le altre società. Se la società dura più di un anno il rendiconto va predisposto ogni anno.
La s.n.c., se è commerciale, deve tenere le scritture contabili.
Le regole sono le stesse del bilancio delle società di capitali. Questo perché il conto profitti e perdite si chiude con il bilancio e l'art.2217 che prevede questo documento con riferimento all'imprenditore individuale, rimanda alle norme delle S.p.A. Quindi le stesse norme, se valgono per l'imprenditore individuale, valgono anche per la s.n.c.
Il bilancio è sempre predisposto dai soci amministratori.
Poi c'è chi sostiene che il bilancio predisposto dagli amministratori deve essere
R approvato all'unanimità dagli amministratori e non dai soci che non hanno amministrato
R oppure l'approvazione del bilancio va fatto all'unanimità, ma essendo un documento redatto
da chi ha amministra verso chi non ha amministrato, l'approvazione compete solo ai soci
non amministratori. Il Cottino sostiene quest'ipotesi.
Indipendentemente da questo, l'approvazione di un rendiconto o di un bilancio nelle società di persone commerciale e non (s.s., s.n.c., s.a.s.) è condizione necessaria e sufficiente perché ogni socio possa pretendere l'assegnazione della sua parte di utili. E' chiaro sul punto l'art.2262.
Le cose sono diverse nelle società di capitali.
Art.2433: L'assemblea che approva il bilancio delibera sulla distribuzione degli utili.
Vuol dire che esiste un organo che delibera a maggioranza se
R distribuire l'utile
R non distribuirlo
R mandare l'utile a riserva
R decidere di autofinanziare la società
senza che il socio di minoranza possa dire alcunché. Questo perché non esiste un diritto agli utili che derivi dall'approvazione del bilancio.
Ogni socio ha diritto di ricevere quella parte di utili che l'assemblea delibera di distribuire; ma l'assemblea potrebbe anche decidere di non distribuire o di distribuire una parte.
Mentre non c'è nessun filtro tra l'approvazione del bilancio e il diritto conseguente agli utili nelle società di persone, in quelle di capitali il diritto è dato da una delibera maggioritaria dell'assemblea. E' vero che esiste diritto agli utili sulla carta, ma non è detto che sia distribuito. L'assemblea non è libera di fare quello che vuole perché ad esempio una politica di autofinanziamento protratta per anni e che sacrifica il diritto agli utili del socio di minoranza, comporterebbe un abuso di potere della maggioranza, se non adeguatamente motivata.
Invece nelle società di persone il diritto agli utili consegue direttamente dall'approvazione del bilancio. Non c'è una decisione dei soci che si frappone tra approvazione del bilancio e diritto agli utili. Sulla carta è così.
L'attribuzione dell'utile è lo scopo di lucro soggettivo.
Lo scopo di lucro oggettivo, cioè la creazione dell'utile, si presenta diversamente a seconda che si trovi in una società di persone o di capitali.
Può accadere che se la società va male, l'utile risultante non venga distribuito.
Sulla carta, cioè formalmente, c'è grossa distinzione giuridica tra
R il diritto agli utili nelle società di persone, che è un vero e proprio diritto soggettivo
risultante dall'approvazione del rendiconto o dal bilancio
R diritto agli utili di cui l'assemblea deliberi la distribuzione nelle società di capitali.
Nella sostanza le due situazioni tendono ad avere dei punti in comune quando anche nelle società di persone gli utili non vengono distribuiti.
Nella s.s. e nella s.n.c. risponde, innanzi tutto, la società con il proprio patrimonio illimitatamente.
Art.2267: i creditori della società possono sempre far valere i loro diritti sul patrimonio sociale.
Quindi la garanzia primaria nelle società di persone è data dal patrimonio sociale, illimitatamente. E' la garanzia esclusiva nelle società di capitali.
Nelle società di persone, accanto alla garanzia offerta dal patrimonio sociale, vi è la garanzia illimitata offerta dai singoli soci.
Bisogna fare attenzione e considerare separatamente come la responsabilità illimitata si atteggi nella s.s. e nella s.n.c. Il principio che tutti i soci rispondono solidalmente e illimitatamente di tutte le obbligazioni sociali (= quelle contratte dalla società nei confronti dei terzi) verso i creditori sociali, quindi il principio di localizzazione, nella s.s. è un principio che può essere derogato, cioè è una norma dispositiva. Infatti, l'art.2267 dice che la garanzia primaria è data dal patrimonio sociale. Per le obbligazioni sociali rispondono inoltre personalmente e solidalmente i soci che hanno agito in nome e per conto della società e, salvo patto contrario, gli altri soci. Questa norma è applicabile solo alle s.s.
E' importante perché attiene a quell'aspetto dell'autonomia patrimoniale detto localizzazione e prevede che tale localizzazione sia graduata con riferimento alla s.s. Cioè la regola della responsabilità illimitata e solidale dei soci è derogabile. Le legge dice che rispondo delle obbligazioni sociali i soci che hanno agito in nome e per conto della società.
Quindi si può distinguere tra soci che agiscono in nome e per conto e soci che non agiscono in nome e per conto della società.
Solo nei riguardi dei secondi è ammesso un patto contrario: una parte dei soci nella s.s. può limitare la propria responsabilità nei confronti dei terzi. Ma per fare questo ci vuole un patto apposito e bisogna fare attenzione a che tale responsabilità limitata non vada attribuita a quei soci che hanno agito in nome e per conto della società.
I soci che agiscono in nome e per conto sono:
R sia i soci che gestiscono, cioè gli amministratori che hanno il potere di gestire la società
all'interno
R sia i soci che spendono il nome della società
Per questi è impossibile limitare la responsabilità.
Quindi sembra che ci voglia sia il potere di gestione interna sia la rappresentanza per far scattare questa norma. Ma la dottrina ha messo in luce che basta la gestione. Il prof. Cottino, Galgano e la maggioranza della dottrina interpretano in senso anti-letterale la norma.
Es. su 5 soci, solo 2 amministrano e hanno la rappresentanza. Questi non possono godere della
responsabilità limitata.
La regola della responsabilità illimitata non è inderogabile perché c'è una parte di soci, quelli che non hanno gestito, che possono predisporre con un patto di rispondere limitatamente.
Il punto è che i terzi devono sapere se un socio risponde limitatamente alla quota conferita nella società o no. Secondo la legge, nell'art.2267 2° comma, il patto deve essere portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei. In mancanza la limitazione della responsabilità o l'esclusione della solidarietà non è opponibile a coloro che non ne hanno avuto conoscenza.
Es. i soci A e B che hanno rinunciato ad amministrare rispondono limitatamente alla quota
conferita. Questo patto viene scritto e va portato a conoscenza dei terzi.
Prima dell'istituzione del registro delle imprese ci si chiedeva cosa fossero questi mezzi idonei.
Ad esempio lettere con ricevuta di ritorno.
Oggi è stata fatta una proposta dalla dottrina. Poiché anche le società di persone vanno iscritte nella sezione speciale del registro con funzione di pubblicità notizia.
La pubblicità legale serve a rendere opponibile un atto ai terzi, non solo a farglieli conoscere.
C'è chi ha sostenuto che, visto che nessuno ha mai detto cosa fossero i mezzi idonei, di iscrivere la limitazione di responsabilità nel registro delle imprese. Ma l'iscrizione è fatta per renderla opponibile ai terzi.
Quest'iscrizione è ancora compatibile con una funzione di pubblicità notizia?
Si avrebbe una sorta di applicazione della pubblicità dichiarativa nell'ambito di una società che viene iscritta solo ai fini della pubblicità notizia. Probabilmente questa via verrà seguita perché così l'atto è opponibile ai terzi.
Dunque si è detto che la limitazione di responsabilità, se è portata a conoscenza con mezzi idonei, è opponibile ai terzi.
Invece, non è mai limitabile la responsabilità dei soci di una s.n.c. La responsabilità illimitata nella s.n.c. è inderogabile. Se si trovasse una clausola che limitasse la responsabilità dei soci, essa non sarebbe nulla, ma avrebbe valenza solo internamente e non nei confronti dei terzi.
Ecco perché l'autonomia patrimoniale nella s.n.c. è più accentuata.
Es. socio deve are al creditore sociale 100; poi all'interno fa azione di regresso sugli altri
soci perché lui aveva limitato la sua responsabilità e quindi rivuole i soldi.
Sia nella s.s. sia nella s.n.c. chi entra a far parte di una società di persone già costituita risponde con gli altri soci per le obbligazioni sociali anteriori all'acquisto della qualità di socio.
Es. A costituisce s.n.c. nel 1985 e nel 1990 entra B. Il socio B risponde nei confronti dei terzi
anche per le obbligazioni sociali precedentemente contratte.
E' l'art.2269: chi entra a far parte di una società già costituita risponde con gli altri soci per le obbligazioni sociali anteriori all'acquisto della qualità di socio.
Se si verifica una causa di scioglimento del vincolo del socio, non viene meno la responsabilità illimitata per le obbligazioni sorte prima dello scioglimento del vincolo.
Queste obbligazioni cadono anche sugli eredi del socio defunto: rispondono delle obbligazioni sociali fino al giorno in cui si ha lo scioglimento.
E' necessario però che i terzi sappiano che c'è stato scioglimento del vincolo. Nelle s.s., dove la legge non prevede il regime di pubblicità legale, ci vogliono mezzi idonei, cioè un patto, altrimenti si continua a rispondere.
Nella s.n.c. il mezzo idoneo è dato dall'iscrizione nel registro delle imprese.
DIRITTO COMMERCIALE
Abbiamo visto la possibilità di escludere o limitare pattiziamente, ove è possibile, una responsabilità che per sua natura nasce illimitata.
Ora dobbiamo vedere in che rapporti sono
La responsabilità del patrimonio sociale con quella del socio illimitatamente responsabile nei vari tipi di società
L'autonomia patrimoniale è stata divisa in:
Localizzazione
Insensibilità del patrimonio sociale alle vicende individuali dei patrimoni dei singoli soci
Localizzazione è quell'aspetto dell'autonomia patrimoniale per cui dei debiti sociali risponde in via principale il patrimonio sociale e solo in via sussidiaria il patrimonio dei soci in proprio.
Vediamo com'è accentuata la localizzazione nei vari tipi di società di persone.
Nella s.s. e nella s.n.c. i creditori sociali si trovano davanti 2 patrimoni.
I soci illimitatamente responsabili sono responsabili in solido delle obbligazioni sociali.
La garanzia principale è sempre data dal patrimonio. Quindi hanno responsabilità illimitata in via sussidiaria, cioè sussidiaria a quella data dal patrimonio della società.
Vuol dire che c'è un beneficio di preventiva escussione del patrimonio della società. Questa regola è più o meno accentuata a seconda del tipo di società.
Quindi i creditori sociali devono prima cercare di soddisfarsi sul patrimonio sociale e poi sul patrimonio dei singoli soci.
Questo beneficio di escussione è totale nella s.n.c. Invece nella s.s. e nella s.n.c. irregolare questo beneficio è meno accentuato.
La società semplice è paragonata alla s.n.c. irregolare perché per le società irregolari il legislatore ha previsto un declassamento dell'autonomia patrimoniale. Quindi nei rapporti tra la società e i terzi si applicano le norme della s.s. Il creditore sociale può rivolgersi direttamente al singolo socio illimitatamente responsabile.
Poi il singolo socio eccepisce in via di eccezione la preventiva escussione del patrimonio sociale. Ma in più deve indicare i beni sui quali i creditori possono agevolmente soddisfarsi (art.2268).
Quindi non è un vero e proprio beneficio di escussione. La prova che il socio di s.s. e di s.n.c. deve dare riguardo ai beni da escutere non è semplice. Non deve solo dimostrare che esistono dei beni, ma che sono facilmente sottoposti all'esecuzione forzata.
Dunque la localizzazione è meno accentuata, perché è vero che esiste la garanzia offerta dal patrimonio sociale e poi quella offerta dai soci. E' vero che c'è beneficio di escussione, ma non opera automaticamente. Il creditore si rivolge al socio. Il socio gli dice di rivolgersi ai beni della società perché su questi è più facile avere esecuzione forzata. Questa è una prova molto rigorosa che determina un'accentuazione minore della localizzazione.
Bisogna tenere conto che la s.s. e la s.n.c. irregolare non sono iscritti nel registro con valore di pubblicità legale. Quindi i terzi hanno poca possibilità di conoscere la reale consistenza del patrimonio sociale.
Nella s.n.c. regolare il beneficio di escussione spiega il suo massimo effetto perché opera automaticamente, non in via di eccezione. Ciò vuol dire che i creditori sociali non possono pretendere di rivolgersi al socio se prima non hanno escusso il patrimonio sociale. Questa è una regola automatica, cioè il socio non deve eccepire che ci sono dei beni su cui rifarsi.
Art.2304: i creditori sociali, con riferimento alla s.n.c. irregolare, non possono pretendere il amento dai singoli soci, se non dopo l'escussione del patrimonio sociale.
Quindi l'escussione del patrimonio sociale si pone come atto precedente a quello volto ad aggredire il patrimonio dei singoli soci.
Dunque nella s.n.c. regolare è più accentuato l'aspetto dell'autonomia patrimoniale che si chiama localizzazione, poiché opera automaticamente. Il socio non deve dare la gravosa prova dell'indicazione de beni sui quali i creditori possono agevolmente soddisfarsi.
C'è un declassamento dell'autonomia patrimoniale perché la legge dice che se la s.n.c. è irregolare (il fenomeno è circoscritto alle società di persone commerciali soggette ad iscrizione ma non iscritte) i rapporti tra la società e i terzi sono regolati dalle norme della s.s. C'è minore localizzazione.
Cosa vuol dire che la responsabilità dei soci è illimitata e solidale? Posto che il creditore agisca, a chi si rivolge? Si applica il meccanismo delle obbligazioni solidali.
Es. se creditore deve ricevere 100 da tre persone, vuol dire che queste tre persone hanno solidalmente un credito di 100 verso il creditore. Il creditore non va a chiedere a ognuno proprietà quota fino ad arrivare a 100. Egli ha diritto ad esigere l'intera prestazione da ciascuno dei condebitori in solido indifferentemente. Se i debitori sono A, B e C, il creditore può rivolgersi ad A e chiedere l'intero credito.
Supponiamo che un creditore sociale vanti un credito e che non ci siano beni idonei a soddisfarlo nel patrimonio sociale. Si rivolge direttamente ai soci perché il tentativo di escutere il patrimonio sociale non è riuscito, o perché il socio non ha indicato i beni sui quali il creditore poteva agevolmente soddisfarsi.
Cosa succede a questo credito di 100? Il creditore va da A e gli chiede di are 100. Il socio A deve are l'intero, e non può are solo la sua parte perché è in società con gli altri due soci. Dopodiché tra i soci all'interno c'è l'azione di regresso: chi ha ato 100 va dagli altri soci e chiede la loro parte. In che misura? La chiede in base alla partecipazione di ciascuno alle perdite.
Bisogna fare attenzione perché una cosa è la responsabilità verso i creditori sociali = fatto esterno e un'altra cosa è la partecipazione alle perdite sociali = fatto interno. Quindi all'esterno chi è chiamato a rispondere risponde per 100. All'interno non si chiama più responsabilità illimitata, si ha l'altra faccia della medaglia e cioè la partecipazione alle perdite.
Se la partecipazione alle perdite non è stabilita nel contratto, allora si intende quella stabilita dalla legge, cioè così some si partecipa agli utili, si partecipa alle perdite. Il tutto è proporzionato ai conferimenti effettuati, secondo questo meccanismo di presunzione. Ma potrebbe essere alterato da diverse disposizioni dell'atto costitutivo. Nulla vieta, nei limiti del patto leonino, ci siano soci che ano più di altri perché l'hanno scelto loro.
Tutta la dottrina dice che in realtà, visto che in primis è responsabile il patrimonio della società, ci sarebbe anche un'azione di regresso nei confronti della società.
Il creditore che vanta 100 è ato dal socio A. Questi, prima di esercitare azione di regresso contro gli altri soci, dovrebbe andare dalla società a rivalersi perché il debito è prima di tutto suo. Questo è un discorso solo formale, perché se la società avesse avuto i soldi avrebbe ato subito. E' un discorso che si fa per spiegare che in teoria il primo a rispondere è il patrimonio sociale.
Nella realtà, quando si crede di non ottenere nulla dal patrimonio della società i creditori sociali si tutelano in un altro modo. Spesso richiedono ai soci illimitatamente responsabili delle garanzie, quali avalli o fideiussioni. Questo perché le lungaggini di un procedimento esecutivo nei confronti del patrimonio sociale fanno tardare la soddisfazione dei crediti.
Sono richiesti per soddisfarsi più agevolmente sul patrimonio dei soci. Con una garanzia personale è più facile ottenere soddisfazione. Sono le banche che di solito concedono credito alla società solo se i soci, oltre a dare questa garanzia che c'è per legge della loro responsabilità illimitata, prestano anche garanzia personale.
L'interesse del creditore esiste perché è molto più facile ottenere soddisfazione quando c'è avallo o garanzia.
I soci di una società di persone che non hanno gestito, potrebbero limitare con un patto la loro responsabilità. Quindi potrebbe accadere che nella società semplice ci si trovi davanti soci con responsabilità limitata. Il problema è portare a conoscenza dei terzi questo fatto.
Nella s.n.c. regolare non è ammesso un patto di limitazione della responsabilità che valga nei confronti dei terzi. Un patto è ammissibile ma solo a livello interno. Al terzo non importa nulla che vi sia questo patto perché sa che in una s.n.c. regolare si trova comunque di fronte a soci illimitatamente responsabili per legge. Però può essere utile un patto interno perché chi a nei confronti dei creditori, avrà comunque rivalsa, se aveva limitato all'interno la propria responsabilità sotto il profilo della divisione e delle azioni di rivalsa.
Indipendentemente da questo, nella s.n.c. irregolare nei rapporti con i terzi segue le norme della s.s. Che ne è di questa regola, che riguarda i rapporti con i terzi, per cui i soci possono limitare la loro responsabilità? Questa regola, se tutta la normativa in rapporto con i terzi fosse applicabile alla s.n.c. irregolare, in realtà la s.n.c. regolare sarebbe svantaggiata.
L'art.2297 quando detta le norme in tema di s.n.c. irregolare dice che fino a quando la società non è iscritta nel registro delle imprese, i rapporti tra la società e i terzi, ferma restando la responsabilità illimitata e solidale di tutti i soci, sono regolate dalle disposizioni della s.s. Cioè il legislatore ai soci di una s.n.c. irregolare, per i rapporti con i terzi, applica le norme meno favorevoli della s.s., ma non applica la possibilità di limitare la responsabilità. Infatti, la legge specifica " . ferma restando la responsabilità illimitata e solidale . "; per tutto ciò che concerne si applicano le regole della s.s. per i rapporti con i terzi. Per i rapporti interni continuano ad applicarsi le regole della s.n.c.
Per le società di persone commerciali soggette ad iscrizione, ma che possono vivere anche se non iscritte, si applica la regola della società irregolari. Quali sono? La legge prende atto che la società non è iscritta e, come una sorta di punizione, ne declassa l'autonomia patrimoniale. Sotto il profilo della localizzazione, cioè riguardo al fatto che in prima battuta risponde il patrimonio sociale e in seconda battuta risponde il socio in proprio, applica alla s.n.c. irregolare le norme meno favorevoli della s.s. solo nei confronti dei terzi. Tuttavia non applica quella parte della disciplina della s.s., che sarebbe un premio ingiusto, cioè il fatto che i soci possano limitare la responsabilità. Anche perché la s.n.c. irregolare non è iscritta e quindi il terzo che contratta con la società pensa di avere di fronte soci illimitatamente responsabili.
Vediamo il secondo aspetto dell'autonomia patrimoniale:
Insensibilità del patrimonio sociale alle vicende individuali dei patrimoni dei singoli soci
Vediamo l'insensibilità del patrimonio sociale alle obbligazioni personali dei soci. Vediamo come agiscono i creditori personali del socio.
Il patrimonio della società è insensibile alle obbligazioni contratte dai singoli soci, cioè personali, ed è in linea di principio intangibile da parte dei creditori personali.
Il creditore personale del socio né nella s.s. né nella s.n.c. può aggredire direttamente il patrimonio sociale per soddisfarsi.
Inoltre, se il creditore personale è anche debitore della società, non può compensare il debito con il credito, altrimenti sarebbe un modo per rivalersi sul patrimonio della società, che invece non può toccare.
In linea generale, sia nella s.s sia nella s.n.c., il creditore personale
può far valere i suoi diritti sugli utili che spettano al socio e che è suo debitore.
può compiere atti conservativi sulla quota del socio: se alla fine della società c'è un regime attivo, al socio spetta la sua quota di liquidazione. Quindi potrebbe attuare un sequestro conservativo sulla quota
Nella s.s. e nella s.n.c. irregolare, il creditore ha un potere in più: il creditore può chiedere la liquidazione della quota del suo debitore. Però deve provare che gli altri beni del debitore sono insufficienti al fine della soddisfazione dei propri crediti. Non può chiedere la liquidazione della quota nella s.n.c regolare.
Una volta che il creditore particolare del socio ha ottenuto la liquidazione della quota,
questa opera come causa di esclusione di diritto del socio la cui quota è stata escussa. Lo
dice l'art.2288: nella società semplice il creditore particolare può chiedere la liquidazione
della quota del suo debitore. Se fa questo, il socio è escluso di diritto dalla società.
In genere, l'esclusione è sempre una facoltà degli altri soci che possono decidere, anche in presenza di cause che legittimerebbero ad escludere il socio, di tenersi il socio.
L'altro caso di esclusione di diritto è il fallimento del socio.
L'esclusione di diritto è un'eccezione rispetto all'esclusione facoltativa che è una regola.
Quando il creditore chiede la liquidazione della quota, la società deve versargli una somma di denaro che corrisponde al valore della quota al momento della sua domanda. La quota verrà liquidata entro 3 mesi. Il creditore può ottenerla a meno che i soci non decidano di sciogliere la società. Tale decisione prevale sulla richiesta del creditore personale volta a chiedere la liquidazione della quota. Deve aspettare lo scioglimento e poi gli sarà dato quanto dovuto.
Nella s.n.c. regolare, invece, c'è una disciplina che accentua di nuovo l'autonomia patrimoniale della società perché il creditore particolare del socio, finché dura la società, non può chiedere la liquidazione della quota, anche se prova che gli altri beni non sono idonei a soddisfarlo.
Tutto ciò presuppone però che si faccia riferimento alla scadenza della società, prevista nell'atto costitutivo. Ma potrebbe accadere che i soci, alla scadenza dell'attività, vogliano continuare l'attività sociale. ci può essere una proroga espressa o tacita (cioè senza decidere alcunché, continuano, di fatto, a gestire la società; la proroga tacita è ammessa solo per le società di persone).
Se la società fosse prorogata espressamente, con una specifica decisione, questo non può andare a pregiudizio dei creditori, i quali non ottengono più la soddisfazione dei loro crediti.
La legge all'art.2307 dice che se la proroga è espressa, i creditori possono opporsi a questa proroga. Questo se i creditori dimostrano di avere un pregiudizio dalla continuità dell'attività sociale. Se l'opposizione è accolta, il creditore ha diritto a vedersi liquidare la quota anche nella s.n.c. regolare.
Se la proroga è tacita, il creditore personale può chiedere la liquidazione della quota in ogni momento, dimostrando semplicemente l'insufficienza degli altri beni a garantirlo.
Quindi la regola per cui il creditore personale non può chiedere liquidazione della quota, subisce un'eccezione nel caso di proroga della società. I procedimenti sono diversi a seconda che la proroga sia espressa o tacita.
Amministrazione
Lo spazio dedicato all'autonomia privata è molto ampio nelle società di persone, dove accanto ad una disciplina legale vi è la possibilità di derogare queste norme con delle disposizioni specifiche. Quindi abbiamo insieme modello legale e modello statutario.
Si può sfruttare al massimo l'autonomia delle parti con delle regole dettate da tale autonomia, oppure non si può diritto nulla e la legge ci dice come vanno le cose.
Ci sono 2 regole fondamentali per ciò che riguarda i modelli di organizzazione stabiliti dal legislatore:
ogni socio illimitatamente responsabile è per legge investito del potere di amministrazione e di rappresentanza della società
per modificare il contratto sociale è necessario il consenso di tutti i soci, salvo diversa pattuizione
Sono gli art.2252-2257-2266.
Art.2252: per modificare il contratto vale l'unanimità dei consensi, salvo patto contrario.
Art.2257: ogni socio può da solo amministrare la società.
Art.2266:chi amministra ha di regola anche la rappresentanza, ove non previsto diversamente.
Vediamo qual è il modello legale dell'amministrazione.
Art.2257: modello legale = se i soci non dicono nulla in merito si applica l'amministrazione disgiuntiva che è il modello tipico legale di amministrare una società di persone. Per attuare un altro modello bisogna dirlo espressamente.
Amministrazione disgiuntiva vuol dire che ciascun socio amministratore porti con sé un potere di gestione e uno di rappresentanza. Ma le parti possono prevedere regole diverse.
La funziona gestoria è legata al fatto di essere soci illimitatamente responsabili.
Non è detto che per statuto si elegga un amministratore unico; oppure che ad esempio su 5 soci, 3 amministrino e 2 no.
Quindi la regola socio-amministratore non è una regola costante perché dipende da cosa hanno deciso i soci.
Di fatto possono esserci soci amministratori e soci non amministratori. Chi amministra ha anche il potere di spendere il nome della società.
La norma dice che se c'è amministrazione disgiuntiva ogni socio amministratore può compiere un atto che rientra nell'oggetto sociale può compiere qualsivoglia atto idoneo a quel fine, senza chiedere né informare gli altri soci amministratori.
Es. ci sono i soci A-B-C-D-E. tra questi A-B-C amministrano mentre gli altri 2 sono solo soci.
Tutti e 5 hanno responsabilità illimitata. Ma C-D possono limitare la loro responsabilità in quanto non amministrano. Questo patto non vale per gli amministratori che rispondono sempre illimitatamente.
Il socio A vuole comprare un quantitativo di merce per l'attività d'impresa. Ma il socio B riesce preventivamente a sapere che A sta per compiere questo atto e fa opposizione. Non è facile perché agire disgiuntamente significa che A non fa conoscere agli altri soci cosa sta per fare.
E' consentito agli altri soci amministratori proporre opposizione tempestivamente, prima che l'atto sia compiuto. Solo uno dei soci amministratori B o C può opporsi a quello che sta facendo A. Il socio B può opporsi perché è venuto a sapere che A sta compiendo un atto che potrebbe anche depauperare il patrimonio della società. Questo meccanismo non è semplice perché la legge dice che l'opposizione deve essere tempestiva. Ma per essere tale il socio B venga a sapere quello che A sta facendo. Ma se A non glielo dice perché la legge gli consente di agire all'insaputa degli alti soci, è molto difficile che B venga a saperlo.
Quando si fa opposizione la società è bloccata perché A stava per compiere un atto che B ha bloccato. A questo punto è necessaria una decisione sull'opposizione, cioè chi è chiamato a decidere non decide se A deve o no comprare la merce, ma deve decidere se l'opposizione è fondata o no.
Quali regole detta il legislatore sulle decisioni delle società di persone?
Decidono tutti i soci, cioè ognuno può esprimere la sua volontà, ma la decisione vincola la società quando è adottata a maggioranza in relazione alla quota di partecipazione agli utili.
Art.2257: l'opposizione proposta da un altro socio amministratore, compete a soci amministratori e non. Come decidono?
Tutti devono essere interpellati, ma basta la maggioranza calcolata secondo la partecipazione agli utili.
Il legislatore nelle società di persone non chiarisce sempre come debbano essere adottate le decisioni. Regola che le modifiche del contratto sociale devono essere adottate all'unanimità, ove non previsto diversamente.
Altra decisione regolata è sul come si vota. Nel caso in cui un socio voglia compiere un atto ed un altro socio amministratore si opponga, chi decide? Tutti i soci amministratori o non. Ma il fatto che decidano tutti i soci, non vuol dire che si voti ad unanimità Tanto è vero che si vota a maggioranza. Anche i soci non amministratori esprimono la loro volontà. Dunque prevale la maggioranza secondo la quota di partecipazione agli utili.
Perché il legislatore ha usato come metro di riferimento della maggioranza la quota di partecipazione agli utili e non la quota di partecipazione al capitale? Per i soci d'opera perché la società semplice può essere formata solo da soci d'opera oppure potrebbero esserci soci d'opera e di capitale. Se le quote venissero conteggiate solo in base alla partecipazione al capitale, non voterebbero coloro che hanno conferito servizi.
La decisione è sull'opposizione perché anche se poi l'opposizione risultasse infondata, il socio A può ancora decidere se comprare o no la merce. Cioè la maggioranza calcolata secondo la partecipazione agli utili non obbliga A a comprare perché aveva ragione.
Si decide sull'opposizione e non sul compimento dell'atto, anche se le due cose possono coincidere. Questo è il metodo legale.
E se i soci optano per un altro tipo di amministrazione? La legge dice che ciò è possibile, tanto è vero che regola l'amministrazione congiuntiva. (art.2258)
Questo modello deve essere voluto dalle parti. Se nulla dicono, vuol dire che adottano l'amministrazione disgiuntiva. Se invece decidono per un modello diverso, la legge consente loro di farlo, ma devono specificarlo nel contratto.
Riprendiamo l'esempio di prima. Ci sono 5 soci. Si sceglie l'amministrazione congiuntiva cioè le decisioni su cosa fare vengono prese da tutti congiuntamente. Ognuno deve informare gli altri.
Con riferimento alla rappresentanza, se nulla è detto nel contratto ai soci amministratori disgiuntivamente compete disgiuntivamente anche la rappresentanza; mentre ai soci che amministrano congiuntivamente compete congiuntivamente anche la rappresentanza. Tutto ciò se nulla è detto.
Dunque se i 5 soci vogliono comprare una partita di merce, devono consultarsi tra loro. Dopodiché, se hanno anche la rappresentanza congiunta, se così è, devono firmare tutti e cinque.
Ove nulla è detto si presume che chi agisca in amministrazione congiuntiva abbia anche la firma congiunta.
La legge va oltre. Si può avere
R amministrazione congiuntiva con decisione all'unanimità
R o un'amministrazione congiuntiva con voto a maggioranza
Se si sceglie il voto a maggioranza, la si deve calcolare secondo la quota di partecipazione agli utili.
Es. in uno statuto potrebbe esserci scritto che per le decisioni più importanti si adotta la formula dell'amministrazione congiuntiva. L'unanimità per ogni atto di gestione viene a bloccare la vita della società: Si stabilisce allora che per gli
R atti di ordinaria amministrazione si prevede la maggioranza
R atti di straordinaria amministrazione si prevede l'unanimità
Questo è consentito dalla legge all'art.2258 2° comma: se è convenuto che per l'amministrazione o per determinati atti sia necessario il consenso della maggioranza questa si calcola secondo la maggioranza per quote di partecipazione agli utili.
Quindi l'amministrazione congiuntiva è compatibile sia con una regola di maggioranza dei consensi sia con una regola di unanimità.
Dunque amministrazione congiuntiva non vuol dire sempre unanimità.
Se nulla è detto, nell'amministrazione congiuntiva la decisione è all'unanimità.
Questa è la regola. Ma la legge parla di soci amministratori, perché possono esserci soci che non amministrano.
Es. se su 5 soci, 2 non amministrano, e l'amministrazione è congiuntiva, il voto o unanime o a maggioranza è riferito ai 3 soci amministratori.
Il voto relativo all'amministrazione compete solo ai soci amministratori, che se nulla è detto si presumono tutti. Se, invece, è detto che l'amministrazione è conferita solo ad alcuni, allora il voto spetta a loro. Gli altri soci controllano.
Dunque gli artt.2557-2558 sono riferiti ai soci amministratori.
Ma si può fare lo statuto in modo ancora diverso:
R per alcuni atti prevedo l'amministrazione disgiunta, per snellire l'attività
R per altri atti prevedo l'amministrazione congiunta
Anche questo deve essere previsto, perché se nulla è detto si applica l'amministrazione disgiunta per tutti gli atti.
Gli artt.2557-2558 non implicano la scelta dell'uno o dell'altro modello; perché l'ampio spazio lasciato all'autonomia privata nelle società di persone rende compatibile un modello societario per cui si sceglie per determinati atti l'amministrazione disgiuntiva e per altri quella congiuntiva. Stessa regola si applica in tema di rappresentanza.
Per gli atti di ordinaria amministrazione si applica l'amministrazione disgiuntiva e tale è anche la rappresentanza. Mentre per gli atti di straordinaria amministrazione ci vuole la regola dell'amministrazione congiuntiva. Quindi questi 2 modelli. che il legislatore tiene distinti, possono mescolarsi tra loro.
Non solo. Nell'ambito di uno stesso modello, quello congiuntivo, è compatibile una regola di maggioranza e una regola di unanimità.
Inoltre, possono esserci regole diverse per la rappresentanza. Perciò bisogna distinguere tra gestire e rappresentare perché il potere di gestione attiene ad un fatto interno all'ambito della gestione. Il potere di gestione è nelle mani di chi ha il potere di decidere gli atti di amministrazione. Quando si dice che tutti gli amministratori possono compiere tutti gli atti che rientrano nell'oggetto sociale, vuol dire che l'oggetto sociale segna un limite al potere degli amministratori e tutti possono decidere ad esempio se comprare o no una determinata merce.
Posto che questa decisione compete ai soci amministratori, compete in modo diverso a seconda che l'amministrazione sia disgiuntiva o congiuntiva. Ma questa è ancora la sfera interna della società.
Altra cosa è non il potere di decidere se comprare o no, ma il potere di spendere all'esterno il nome della società.
Il potere di decisione in merito agli atti di gestione si chiama potere di gestione.
Gestire significa avere il potere di decidere sul compimento di un singolo atto di gestione.
Non è il portare all'esterno una decisione che si è formata all'interno della società.
Il potere di gestione può essere disgiunto o congiunto.
Il potere di rappresentanza, ove nulla è detto, si presume identico a quello di gestione.
Es. il socio A va a comprare merce senza informare i soci B e C. Il socio A compra per la società e firma; questo impegna la società.
Quando l'amministrazione è congiunta, e così anche la rappresentanza, allora occorre la firma di tutti e tre i soci.
Ma le cose possono andare diversamente perché sia in caso di amministrazione disgiuntiva sia congiuntiva è sempre rimessa alla autonomia delle parti chi scegliere di fare rappresentante. Può esservi dissociazione tra chi decide il compimento dell'atto e chi lo porta all'esterno il nome della società.
Es. 5 soci hanno regime di amministrazione congiuntiva, cioè amministrano insieme. Ma stabiliscono che per il potere di rappresentanza bastano i soci D ed E. A questi si può dare firma disgiunta o congiunta. Possono fare quello che vogliono.
Se la legge presume, per facilitare le cose, che
R se nulla è detto l'amministrazione è disgiuntiva e la rappresentanza pure
R se si sceglie l'amministrazione congiunta, anche la rappresentanza lo è
ciò non significa che le cose non possano essere mescolate nel modo più vario.
Basta che sia specificato chi ha la firma sociale.
La cosa importante da sottolineare è che non sempre chi ha il potere di decidere ha anche il potere di portare le decisioni all'esterno.
C'è dissociazione tra i due poteri.
I rappresentanti non possono portare all'esterno una volontà diversa. Hanno solo potere di firma coerentemente con quello che è stato deciso.
Ci sono 3 soci A-B-C; il socio C non vuole avere potere di firma e lo lascia ai soci A e B congiuntamente tra loro. Vuol dire che nel momento in cui A e B decidono di comprare della merce, devono interpellare C. Devono andare a vedere nel contratto se, per deliberare, basti la volontà della maggioranza o la volontà di tutti. Se basta la maggioranza C è esonerato anche dalla decisione.
Per sapere chi spende il nome della società, la si deve presumere se nulla è detto e l'amministrazione è disgiuntiva.
Se le parti hanno scelto l'amministrazione congiuntiva, ma le parti non dicono nulla in tema di rappresentanza, questa si modella su quella disgiunta.
Non bisogna confondere
R potere di amministrare congiuntamente o disgiuntamente la società
R potere di firma
Anche la firma può essere congiunta o disgiunta, ma non ha nulla a che fare con la disgiunzione o congiunzione del potere amministrativo.
Sono 2 aspetti diversi. Trovano rapporto solo nell'agire per presunzione.
Può esserci però dissociazione tra i soggetti che sono solo soci amministratori e i soci che portano all'esterno la volontà dei soci amministratori, che sono sempre soci amministrazione ma quelli muniti del potere di firma, che possono non essere tutti.
Si dice che la ura più simile a quella dell'amministratore sia quella del mandatario. La legge richiama spesso delle norme in tema di mandato.
Il mandato è la ura più vicina ma non si può identificare l'amministratore con il mandatario perché il mandatario compie uno o più atti giuridici per conto e, se ha la rappresentanza, in nome del mandante. Invece l'amministratore compie un'attività cioè un insieme di atti coordinati e anche lui, se ha la rappresentanza, li compirà in nome e per conto della società.
Può essere conferita amministrazione a terzi? E' ammissibile nelle società di capitali, ma non in quelle di persone.
Nella s.s. la legge dice che i soci possono limitare la loro responsabilità se portano a conoscenza i terzi di questo fatto con mezzi idonei. Nella s.s. possono esserci dei soci che rispondono illimitatamente, purché non siano quelli che amministrano.
Se si conferisce il potere d'amministrazione a un terzo e ci fosse un atto di limitazione per gli altri, allora si avrebbero tutti soci che rispondo limitatamente, che è proprio quello che il legislatore vuole evitare.
L'amministratore che dovrebbe rispondere illimitatamente, non risponde illimitatamente perché è un estraneo e i soci, che non sono amministratori, possono godere del beneficio di limitare pattiziamente nei confronti dei terzi la loro responsabilità. Quindi si avrebbero tutti soci a responsabilità limitata.
Quindi l'art.2267 che dice che il patto di limitazione della responsabilità non può essere assunto da chi gestisce, serve al contrario a spiegare come l'amministrazione non possa essere conferito ad un estraneo, che non risponde perché non è socio.
DIRITTO COMMERCIALE
continuazione SOCIETA' DI PERSONE
Per tutte le modifiche del contratto serve l'unanimità dei consensi salvo patto contrario e di regola per i problemi di amministrazione si vota a maggioranza calcolandola in base alle quote di partecipazione agli utili, questo è un criterio da adottare tutte le volte in cui la maggioranza viene calcolata per quote e non per testa perché potrebbero esserci dei soci d'opera il cui conferimento non essendo ascrivibile a capitale non sarebbero conteggiati se si rapportasse alla maggioranza le quote di conferimento e non alle quote di partecipazione agli utili.
I due poli sono dunque:
- l'unanimità per le modifiche;
- la maggioranza per il modello legale dell'amministrazione disgiuntiva.
Posto che il legislatore ha dettato delle regole dentro le quali muoverci, si pone poi un problema relativo a tutto ciò che non viene regolato, perché ci sono altre decisioni da adottare nella vita e nell'organizzazione della società diverse da quelle prese in considerazione dal nostro legislatore senza che però vi sia una soluzione nel nostro codice, come ci si muove quindi in questi casi e quali sono?:
- problema della nomina della revoca degli amministratori;
- problema dell'approvazione del bilancio, a chi competa tale approvazione e se tale decisione venga presa ad unanimità o a maggioranza.
Nel testo c'è una soluzione di base: basandosi sul fatto che le società di persone sono caratterizzate da questa stretta partecipazione del socio alla vita della società e c'è un rapporto di collaborazione stretta tanto che cadendo le basi per questa collaborazione si può parlare di un caso di scioglimento particolare del vincolo. Tutto questo fa si che si sia scelto di risolvere in chiave di unanimità tutti i tipi di decisioni non regolati dal legislatore.
Nomina e revoca degli amministratori
La regola secondo la quale ogni socio sarebbe naturalmente investito della carica di amministrare è una regola che ha carattere dispositivo perché l'atto costitutivo potrebbe invece attribuire proprio per volontà dei soci stessi la facoltà di amministrare ad alcuni soltanto di essi, quindi si potrebbe avere una dicotomia tra soci che amministrano e soci che non amministrano. Indipendentemente da questo gli amministratori possono essere nominati direttamente nel contratto sociale oppure con un atto separato. Quando la nomina viene nel contratto sociale avviene ovviamente ad unanimità ma il testo ritiene che anche la nomina con atto separato deve avvenire ad unanimità. La legge poi detta una non chiara norma in tema della revoca della facoltà di amministrare art.2259:
"La revoca dell'amministratore nominato con contratto sociale non a effetto se non ricorre una giusta causa.
L'amministratore nominato con atto separato è revocabile secondo le norme sul mandato (art.1726).
La revoca per giusta causa può in ogni caso essere chiesta giudizialmente da ciascun socio".
Questo articolo parla della revoca ma non tratta il problema se questa debba avvenire a maggioranza o ad unanimità come a differenza era stato fatto parlando della nomina, bisogna quindi ricostruire il sistema.
Quando l'amministratore è nominato nel contratto sociale per averne la revoca ci vuole l'unanimità dei consensi in quanto comporta pur sempre una modifica del contratto che avviene ad unanimità ove non previsto diversamente e deve ricorrere una giusta causa quale presupposto per revocare. Il problema è nel 2° comma, l'amministratore nominato con atto separato, perché la legge apparentemente nulla dice ma in realtà dice che è revocabile secondo le norme sul mandato. Si applicano qui le norme sul tema del mandato collettivo che è il mandato conferito da più mandanti. Il legislatore ha utilizzato lo schema del mandato ma l'attività dell'amministratore non si identifica solo nel mandato perché il mandato compie uno o più atti giuridici per conto e se ha la rappresentanza in nome del mandante mentre l'amministratore compie un'attività che è un'insieme di atti giuridici coordinati e rivolti ad un unico fine, quello di produrre utili, non solo ma tutta l'attività non è nient'altro che la definizione del campo in cui possono muoversi gli amministratori, cioè possono compiere tutti gli atti rientranti nell'oggetto sociale. Importante quindi è non identificare l'amministratore con un semplice mandatario perché gli assomiglia molto ma è qualcosa in più.
In questo caso si richiama il mandato collettivo perché se per ipotesi vi sono i soci che investiscono della carica amministrativa altri soci, quindi collettivo perché l'incarico così come la revoca non proviene da un unico mandante ma da più soci. Nella norma art. 1726 in tema di mandato collettivo, dice:
"Se il mandato è stato conferito da più persone con unico atto e per un affare di interesse comune, la revoca non ha effetto qualora non sia fatta da tutti i mandanti, salvo che ricorra una giusta causa".
Quindi anche la revoca per atto separato richiede l'unanimità dei consensi, c'è però una differenza non è necessaria la giusta causa o meglio non rileva allo stesso modo può riemergere ma non è un presupposto per poter revocare.
La revoca di :
amministratore nominato con contratto sociale occorre unanimità più giusta causa;
amministratore nominato con atto separato occorre unanimità ma non giusta causa.
La giusta causa riemerge in un secondo momento qualora il mandato sia conferito anche nell'interesse del mandatario e cioè dell'amministratore.
La giusta causa riemerge ancora una volta quando la revoca può essere chiesta giudizialmente da ciascun socio indipendentemente dalle decisioni adottate ad unanimità, il socio potrebbe rivolgersi al giudice e chiedere la revoca.
Approvazione del bilancio.
Bilancio o rendiconto:
bilancio nelle società in nome collettivo e nella società in accomandita semplice,
rendiconto nella società semplice.
La legge dice che i soci non amministratori (il problema sussiste nel momento in cui c'è distinzione tra soci amministratori e soci non amministratori, perché c'è una distinzione di poteri) hanno normalmente poteri di controllo quali:
- hanno diritto di avere notizie sullo svolgimento degli affari sociali, questo è un potere molto penetrante perché non può essere paralizzato da un segreto aziendale votato dagli amministratori per non dare queste notizie. Questo è un tipo di società in cui sono molto stretti i rapporti interindividuali ed in cui c'è una partecipazione individuale nella società molto rilevante è per questo motivo che il legislatore prevede questo potere di controllo;
- hanno diritto di consultare tutti i documenti relativi all'amministrazione, scritture contabili comprese;
- devono anche ottenere il rendiconto o il bilancio.
Il problema a questo punto è a chi compete l'approvazione del rendiconto o del bilancio. E' un caso non risolto dal legislatore e si pongono due problemi:
a chi compete l'approvazione di questo documento;
l'approvazione va fatta con decisione ad unanimità o basta la maggioranza.
a chi compete l'approvazione: secondo la tesi del testo essendo il rendiconto o il bilancio un atto degli amministratori rivolto a chi non amministra l'approvazione competerebbe solo ai soci non amministratori,
l'approvazione va fatta ad unanimità.
Quindi tutte le ipotesi sono risolte in chiave di unanimità ma c'è un giudizio di fondo che spiega tutto questo perché c'è anche qualcun altro che la pensa diversamente, ed è quello definito anche prima, che è quello per cui in una società di persone si presuppone una partecipazione attiva di tutti i soci quantomeno amministratori all'attività sociale e quindi l'unanimità è anche più facile da raggiungere. E' molto difficile ipotizzare la regola dell'unanimità fuori da ipotesi di società personali. Si vedranno poi regole parzialmente diverse in relazione all'accomandita con riferimento ad alcune ipotesi.
Ricordiamo che abbiamo due ipotesi tipiche: modifica del contratto sociale ed unanimità. Nella modifica del contratto rientra anche la modifica della quota in quanto comporta il subingresso di un nuovo socio nella società e questo deve essere approvato da tutti i soci, proprio per questa rilevanza della persona , per il principio di collaborazione, ecc.. . Rientra all'interno del 2252 che sancisce in linea di principio l'unanimità dei consensi, è una norma dispositiva, quindi potrebbe ammettersi così come la modifica a maggioranza anche la cessione della quota o addirittura la libera trasmissione della partecipazione.
Quindi questa regola dell'unanimità ove non derogata è stabilita per le modifiche del contratto.
La maggioranza calcolata in base alla quota di partecipazione agli utili è prevista per i problemi relativi all'amministrazione disgiuntiva, tutti gli altri casi vengono risolti sotto il principio dell'unanimità dei consensi che è quella che più è adeguata alla società di persone e alla loro struttura ed organizzazione.
Un altro dovere che incombe sui soci amministratori e sui soci non amministratori (questo solo con riferimento alle società commerciali) è quello di non concorrenza.
Per le società in nome collettivo e quelle in accomandita semplice incombe sui soci lo specifico obbligo di non esercitare per conto proprio o altrui un'attività concorrente con quella della società ed inoltre di non partecipare come socio illimitatamente responsabile in un'altra società concorrente (art.2301). Quando si parlerà di esclusione del socio dalla società uno dei casi è quello della violazione dell'obbligo legale di non concorrenza.
Metodo collegiale e principio maggioritario, alcune conclusioni.
Il legislatore detta delle regole su come si vota nelle società di persone e ci sono delle discussioni per i casi non definiti per quanto riguarda appunto il dilemma maggioranza o unanimità, risolto dal testo verso l'unanimità di tutti i casi dubbi. La legge non ci dice però come si debba formare la volontà sociale, per la società di capitale vi è un metodo inderogabile per la formazione della volontà che è il metodo collegiale. Questo metodo si applica o non si applica alle società di persone?
Collegialità non è sinonimo di maggioranza.
La dottrina dominante e le tesi accolta dal testo è che per le società di persone non esista un'imposizione del metodo collegiale per la formazione della volontà sociale. Quindi tutto è determinato dalla informalità più assoluta. Questa affermazione va temperata nella sua portata solo se si consideri poi la necessità di avere una prova di quanto è stato discusso. Quindi c'è sempre la necessità di una pur minima formalità.
Quando si deve avere una maggioranza se non è necessaria la collegialità significa che si può arrivare ad avere la maggioranza anche se non tutti i soci sanno che si deve adottare una decisione, ad esempio 10 soci, si ha maggioranza anche se solo 6 sapevano ed erano d'accordo sulla questione.
E' anche da considerare il fatto che il legislatore dice che le società di persone potrebbero essere tacitamente prorogate, è una norma che non va sottovalutata perché implica che non è necessaria una sorta di formalità per stabilire la modifica del contratto. Anche questo è un altro motivo per ritenere che il principio di collegialità non sia imposto dalla legge.
Tutto ciò non vuol dire che i soci non adottino per loro scelta il metodo collegiale, quindi la collegialità è facoltativa e quando si sceglie si protrae fino in fondo.
SCIOGLIMENTO PARTICOLARE DEL VINCOLO.
Nelle società di persone (esclusa l'accomandita in quanto trattata separatamente) ogni socio sarebbe destinatario naturale della facoltà di amministrare ma l'atto costitutivo potrebbe prevedere che alcuni facessero gli amministratori ed altri no ma quando un socio è anche amministratore nel caso della sua revoca non si esclude contemporaneamente anche il socio. Si revoca all'amministratore la carica ma ciò non comporta l'esclusione del socio. Sono due situazioni differenti che vengono a coincidere solo nel momento in cui sussistono situazioni molto gravi che fanno venire meno a monte il rapporto reciproco di collaborazione che è alla base di ogni società personale ovviamente questo incide anche sulla permanenza del socio nella società.
Vi sono tre modi per i quali il rapporto sociale si sciolga limitatamente ad un socio:
la morte;
il recesso;
l'esclusione.
Il legislatore quando ci ha messo di fronte a tre ipotesi tipiche di scioglimento particolare del vincolo ha tenuto presente proprio ciò che è all'opposto dello scioglimento della società (disgregazione della comine sociale)e cioè il principio della continuazione dell'organismo produttivo. Quindi la conservazione della società è alla base di tutte le norme che prevedono lo scioglimento particolare del vincolo. Anche se il vincolo è essenziale non travolge se non lo vogliono gli altri soci l'intero contratto. Lo scioglimento della società è proprio il contrario della conservazione, ecco perché questi istituti sono così profondamente diversi.
Mentre lo scioglimento della società è determinato da cause che non rendono più attuabile la continuazione del rapporto sociale lo scioglimento del vincolo parte dall'opposto principio che la società possa andare avanti lo stesso e persegue l'intento della conservazione degli organismi produttivi del principio di continuità e del fatto che il legislatore abbia in un certo senso favorito il prolungarsi nel tempo della società invece che il suo disgregarsi.
Anche se ci sono soci gravemente inadempienti o addirittura soci interdetti o inabilitati la facoltà di escludere questi soci è rimessa ai soci stessi, non è il legislatore che decide, questo è in virtù della conservazione.
La disciplina generale dei contratti associativi muove da due principi fondamentali:
la valutazione del carattere essenziale della valutazione che viene meno è rimessa alla discrezionalità dei soci superstiti,
anche se rimanesse per ipotesi un solo socio, la società non si scioglie ma vige un periodo di 6 mesi per vedere se è possibile ricostituire la pluralità dei soci.
Cause di scioglimento particolare del vincolo:
- morte del socio: art 2284
"Salva contraria disposizione del contratto sociale, in caso di morte di uno dei soci, gli altri devono liquidare la quota agli eredi, a meno che preferiscano sciogliere la società ovvero continuarla con gli eredi stessi e questi vi acconsentano".
Ci sono varie possibilità quando muore un socio, l'unica cosa chiarissima è che non esiste un principio come nelle società capitalistiche come parzialmente accolto in caso di morte con riferimento alla quota dell'accomandante della trasmissibilità della quota agli eredi. Ci sono appunto diverse ipotesi: la morte del socio produce come effetto legale tipico lo scioglimento del rapporto fra il socio e la società con un obbligo conseguente per i soci superstiti di liquidare la quota del socio defunto agli eredi nel termine di 6 mesi. Quindi ciò implica che i soci superstiti non sono obbligati a vedere entrare in società gli eredi.
Le altre ipotesi alternative all'effetto legale tipico sono quella che i soci possano decidere lo scioglimento anticipato della società, scioglimento che deve essere deciso ad unanimità e che comporta la modifica del contratto in quanto va a variare l'elemento della durata. Gli eredi in questo caso non hanno più diritto alla quota della liquidazione nei termini dei 6 mesi perché lo scioglimento della società assorbe lo scioglimento particolare del vincolo e quindi diventano creditori come gli altri in concorrenza con essi e devono attendere la fine delle operazioni di liquidazione.
I soci superstiti potrebbero anche decidere di continuare la società con gli eredi stessi, in questo caso è necessario il consenso di tutti i soci superstiti all'unanimità e di tutti gli eredi anche per fatti concludenti, quindi ciascun erede diventa socio in proporzione della partecipazione accreditata alla quota ereditaria. Si potrebbe anche avere il consenso di alcuni eredi e non di altri questo perché tutti devono esprimersi ma può darsi che alcuni preferiscano avere la liquidazione della quota ed altri invece che acconsentano a continuare la società.
Lo scioglimento anticipato della società o la continuazione con gli eredi devono essere decisi dai soci superstiti nel termine di 6 mesi, termine che è lo stesso concesso per la liquidazione della quota e per la ricostituzione della pluralità dei soci quando questi si riducono ad uno.
L'art. 2284 fa salva una diversa disposizione del contratto sociale. Sovente la disciplina legale è ampiamente derogata dalla volontà delle parti che preferiscono già stabilire per contratto che cosa accadrà nel caso in cui uno dei soci venga meno per morte.
Clausole più frequenti negli statuti e nei patti sociali:
Clausola di consolidazione, i soci stabiliscono per contratto che in caso di morte di un socio la quota del socio defunto resta acquisita agli altri soci in proporzione ed agli eredi viene liquidato il valore della quota.
Ci sono delle clausole quelle di continuazione che hanno trovato in dottrina spesso degli ostacoli e sono:
Clausola di continuazione facoltativa, vincola solo i soci superstiti mentre gli eredi hanno la facoltà o meno di o rientrare in società o richiedere la liquidazione della quota. La differenza tra questa clausola e l'art.2284 sta nel fatto che per il 2284 è un accordo successivo alla morte del socio, i soci superstiti hanno ancora la facoltà di decidere tra le tre ipotesi sopra descritte mentre con questa clausola i soci hanno già stabilito in anticipo un vincolo che per loro va bene la continuazione con gli eredi, sono questi ultimi che hanno la facoltà di dire si o no. La dottrina ritiene questa clausola legittima in quanto vincola solo i soci superstiti e lascia un potere di decisione in capo all'erede.
Clausola di continuazione obbligatoria, vincola i soci superstiti e contiene l'obbligo dell'erede di subentrare con la conseguenza che se l'erede non subentrerà sarà tenuto a risarcire i danni ai soci superstiti.
Clausola di continuazione automatica, prevede l'ingresso automatico dell'erede nella società. Gli eredi solo per avere accettato l'eredità diventano automaticamente soci della società stessa.
Queste due ultime clausole sono molto contestate dalla dottrina ed in particolare quest'ultima più della precedente in quanto quella obbligatoria da la possibilità di non entrare risarcendo i danni mentre in quella automatica non è neppure ammessa questa possibilità e la differenza che troviamo nei contratti è efficacia obbligatoria o reale, quelle a efficacia automatica sono anche quelle ad efficacia reale in quanto è automatico il subingresso dell'erede in quanto per il solo fatto di avere accettato l'eredità diventa automaticamente socio. I problemi destati sono appunto perché non lasciano più alcuna opportunità di scelta in capo all'erede, il quale è costretto se non vuole diventare socio o a non accettare l'eredità oppure accettarla con beneficio di inventario in quanto entra in una comine sociale dove i soci sono illimitatamente responsabili.
La giurisprudenza invece dichiara tutte legittime queste clausole.
- recesso del socio: art. 2285
"Ogni socio può recedere dalla società quando questa è contratta a tempo indeterminato o per tutta la vita di uno dei soci.
Può inoltre recedere nei casi previsti nel contratto sociale ovvero quando sussiste una giusta causa.
Nei casi previsti nel primo comma il recesso deve essere comunicato agli altri soci con un preavviso di almeno tre mesi".
Una distinzione da fare è tra società di persone contratte a tempo determinato e società contratte a tempo indeterminato in quanto c'è una bella distinzione tra il recesso da una società contratta a tempo indeterminato ed il recesso da una società contratta a tempo determinato.
Il recesso è un atto di volontà del socio che decide di andarsene ed è una dichiarazione unilaterale recettizia cioè è una dichiarazione unilaterale che esce dalla sfera del soggetto e che viene comunicata ad altri soci.
Come si fa a recedere? Una prima distinzione è appunto quella fra società a tempo determinato e società a tempo indeterminato, si rispecchia in questo un po' il principio generale che nei contratti di durata attribuisce spesso la facoltà di recedere ad uno dei due contraenti o a tutti e due, perché, quando un contratto ha una durata che si protrae nel tempo, possono modificarsi determinati aspetti per i quali nessuno possa essere costretto ad obbligarsi per una durata indeterminata. Questa è la ratio del recesso.
Applicata al recesso considerato se ci troviamo in una società contratta a tempo indeterminato è più facile recedere perché il socio può recedere liberamente cioè non deve apporre una giusta causa per poter andarsene deve semplicemente dichiarare con dichiarazione unilaterale recettizia ossia comunicare la volontà di recedere agli altri soci. Proprio perché si può recedere liberamente la legge prescrive che ci vuole un termine di preavviso di almeno 3 mesi. Il preavviso ha una condizione di efficacia della dichiarazione ossia significa che nel momento in cui vado dai soci e dichiaro o non dichiaro il preavviso ma comunque comunico il recesso questo ha validità a decorrere dai tre mesi successivi alla comunicazione, gli altri soci lo considerano ancora socio per altri tre mesi in quanto è come se fosse sottoposto ad una condizione sospensiva.
Nelle società contratte a tempo determinato non è invece concesso di recedere liberamente, per recedere bisogna apporre una giusta causa, quindi non è più necessario un preavviso ma una giusta causa e se sussiste giusta causa non è necessario un preavviso.
Per giusta causa si recede sempre vale per tutte le società, la differenza sta nel fatto che per le società a tempo indeterminato si può recedere anche liberamente con un preavviso.
La giusta causa mi dimostra che non si può recedere liberamente occorre stabilire quindi che cos'è questa giusta causa. La giurisprudenza lo risolve in modo chiarissimo e dice che per giusta causa si intende la reazione contro inadempimenti di altri soci, una reazione contro un illegittimo comportamento degli altri soci tale da incrinare quel rapporto fiduciario che lega i soci gli uni con gli altri. E' quindi un concetto inteso in senso oggettivo.
Il testo però ritiene questo concetto riduttivo e rilancia dicendo che è giusta l'ipotesi ma non è giusto racchiudere nel concetto di giusta causa solo l'elemento oggettivo di una reazione ad un inadempimento altrui, quale può essere escludere il socio gravemente inadempiente ai suoi obblighi, oppure quella di andarsene direttamente perché caduta la fiducia del rapporto. Il Cottino e la dottrina non sono d'accordo. Per loro giusta causa può essere intesa anche in senso soggettivo, come il socio che si ammala o quello che viene trasferito all'estero per motivi di lavoro o famigliari.
Come dice la legge vi possono essere delle ipotesi di recesso convenzionali cioè l'atto costitutivo può stabilire che in relazione a determinati accadimenti sia consentito il recesso, questo è ammissibile pur che però l'autonomia non si spinga a negare le ipotesi di recesso laddove il legislatore le ha volute.
Nelle società di capitali il recesso è visto con sfavore laddove invece nelle società di persone è facilitato, questo perché nelle società di capitali la funzione del capitale e soprattutto l'integrità del capitale stesso è tale per cui in seguito al recesso di uno dei soci abbiamo una diminuzione del capitale sociale. La funzione del capitale è differente, nelle società di persone non è rilevante così come nelle società di capitale dove l'integrità del capitale viene tutelata da specifiche norme che non troviamo nelle società di persone. Per questo motivo nelle società di capitale il recesso è limitato a pochi casi ben delineati e tassativi quali: - quando la società si trasforma; - solo se si cambia l'oggetto della società; - o se si trasferisce la sede all'estero tranne ipotesi particolari in caso di fusione eterogenee ecc .
- esclusione del socio: art. 2286 - 2287 - 2288.
Esistono due tipi di esclusione:
Esclusione facoltativa;
Esclusione di diritto.
Il legislatore ci dice che di regola l'esclusione è sempre e solo una scelta degli altri soci poi si vede come viene adottata tale scelta ma la regola è che l'esclusione è sempre una facoltà degli altri soci.
Per ciò che riguarda l'esclusione di diritto si hanno solo due casi:
Il fallimento del socio;
Il caso in cui vi è un creditore particolare del socio, laddove l'autonomia patrimoniale è meno accentuata, può chiedere e ottenere la liquidazione della quota, nel momento in cui ha ottenuto la liquidazione della quota il socio, nei cui confronti è ottenuta la liquidazione della quota, è escluso di diritto dalla società.
Le fattispecie che legittimano un eventuale delibera dei soci rivolta ad escludere il socio che ha commesso questi fatti sono:
- Gravi inadempienze che derivano dalla violazione di obblighi che derivano dalla legge o dal contratto sociale, per esempio se si viola l'obbligo della legge della non concorrenza, per Interdizione, per Inabilitazione del socio e per condanna ad una pena che importa l'interdizione, anche temporanea, dai pubblici uffici.
- Impossibilità sopravvenuta nella prestazione;
- Eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione.
Per quanto riguarda le gravi inadempienze si ha l'ipotesi per cui un contraente può escludere l'altro solo se uno dei due è gravemente inadempiente per quanto riguarda i contratti. Per ciò che riguarda l'impossibilità sopravvenuta o l'eccessiva onerosità si hanno le ipotesi già viste per i conferimenti quali: perimento della cosa che il socio si è obbligato a conferire in proprietà (perimento non per colpa del socio), perimento della cosa conferita in godimento che non dipenda da un comportamento degli amministratori, sopravvenuta inidoneità a prestare la propria opera. Tutte queste ipotesi possono legittimare l'esclusione del socio dalla società.
Questa esclusione si vota in modo diverso da quelle viste precedentemente. Si vota a maggioranza ma a maggioranza calcolata per teste. Non si calcola in questa maggioranza il socio da escludere. E' stato previsto questo tipo di maggioranza diverso da quello previsto in base alle quote di utili in quanto prevale in questo caso un aspetto personalistico, conta il rapporto interpersonale. Questa maggioranza per teste comunque deve essere motivata in relazione alle cause che la legge ha motivato e ha effetto solo quando sono passati 30 giorni dalla comunicazione di questa al socio, c'è questo termine perché il socio può fare opposizione. E' a quest'ultimo riguardo che sorge un primo problema: quando un giudice mette il naso negli affari della società non si deve sostituire agli amministratori o ai soci ma deve fare un controllo non di merito o di opportunità ma fa un controllo di legittimità seppur si chiama legittimità sostanziale cioè non un controllo di legittimità veramente formale dove c'è la motivazione e basta ma sostanziale perché la motivazione adotta è veramente coerente quindi mi preura veramente la possibilità di escludere il socio o no, però il giudice non può valutare se sia opportuno escludere quel socio questa decisione è rimessa solamente alla discrezionalità dei soci. Questa è una regola che vale per tutto il diritto delle società, laddove un sindacato giurisdizionale ci sia, quindi un sindacato da parte di un organo esterno alla comine sociale, questo sindacato non può mai toccare il merito delle scelte che competono, se si tratta di società di capitali, ad uno specifico organo, in questo caso ai soci o agli amministratori.
Se la società è composta solo da due soci l'unica forma per escludere è quella di andare dal giudice altrimenti non si potrebbe farlo.
Le questioni relative all'esclusione dei soci oppure alla giusta causa del recesso ecc sono devoluti ad arbitri cioè si trova una clausola arbitrale alla fine degli atti costitutivi che implica la scelta anticipata dei soci di non andare davanti all'autorità giudiziaria ma di risolvere i loro problemi davanti ad arbitri nominati secondo le regole ritrovate nell'atto costitutivo.
Per ciò che riguarda la liquidazione degli eredi, questi hanno diritto a una somma di denaro che rappresenti il valore della quota salvo che non sia diversamente stabilito. Questo valore si determina guardando il valore patrimoniale della società nei giorni in cui si verifica lo scioglimento del rapporto che però deve tenere conto anche delle operazioni in corso e bisogna attribuire ai beni un valore effettivo. Quindi si considera la situazione reale del bene e il valore di avviamento dell'azienda. Diversamente dalle società di capitali dove non si considera il valore di avviamento dell'azienda a meno che per questo non sia stato ato un prezzo. La quota deve essere liquidata entro 6 mesi ed entro 3 nel caso in cui sia un liquidatore particolare a chiedere la liquidazione della quota (esclusione di diritto del socio).
SCIOGLIMENTO DELLA SOCIETÀ art. 2272
"Cause di scioglimento della società. La società si scioglie:
per decorso del termine;
per il conseguimento dell'oggetto sociale o per la sopravvenuta impossibilità di conseguirlo;
per la volontà di tutti i soci;
quando viene a mancare la pluralità dei soci, se nel termine di 6 mesi questa non è ricostituita;
per le altre cause previste dal contratto sociale".
Art. 2273:
"Proroga tacita. La società è tacitamente prorogata a tempo indeterminato quando, decorso il tempo per cui fu contratta, i soci continuano a compiere le operazioni sociali".
Questa è la norma che chiarisce il principio di informalità assoluta che regna nella adozione delle decisione delle società di persone in quanto è una modifica dell'atto costitutivo nel quale è prevista la scadenza e viene addirittura adottata tacitamente.
Spiegazione delle cause di scioglimento:
- scadenza del termine: quando è decorso il termine la società si scioglie;
- conseguimento dell'oggetto sociale e sopravvenuta impossibilità nel conseguirlo: i maggiori problemi li pone il secondo aspetto in quanto per ciò che riguarda il conseguimento dell'oggetto sociale si è esaurito il motivo per cui è sorta la società quindi è più facile da stabilire. Invece per la sopravvenuta impossibilità di conseguirlo ad esempio la revoca della licenza su cui si basava l'attività della società.
C'è una differenza con l'impossibilità originaria di conseguire l'oggetto sociale che è un motivo di nullità, se nel momento in cui si costituisce la società l'oggetto è impossibile, è un motivo di nullità della società stessa. Invalidità originaria.
In questo caso l'oggetto è possibile e lecito ma per causa sopravvenuta è impossibile da raggiungere.
A questo riguardo la causa che ha dato luogo a più casi giudiziari sotto il profilo dell'art. 2272 e sotto il profilo dell'impossibilità di conseguire l'oggetto sociale è quello che viene chiamato il dissidio insanabile fra i soci. Le società di persone sono a volte teatro di lotte furibonde fra i soci, con manovre ostruzionistiche, quando queste diventano tali da paralizzare il raggiungimento dell'oggetto sociale e quindi paralizzano l'attività della società vengono considerate motivo di impossibilità di raggiungimento dell'oggetto sociale.
Questa è una delle cause più frequenti dello scioglimento delle società di persone.
La giurisprudenza ha però sempre detto che per il dissidio insanabile prevale l'esclusione del socio e non lo scioglimento della società quando è chiaro che la colpa è imputabile al comportamento di un socio ad una sua grave inadempienza.
- volontà di tutti i soci: c'è un problema di coordinamento con la legge che prevede che se la società ha un termine, scioglierla, implica la modifica del contratto sociale con l'unanimità dei consensi, questa norma è anche derogabile, quindi è possibile trovare un atto costitutivo che prevede anche solo la modifica a maggioranza. Questa norma invece pare volere la volontà di tutti i soci, come si risolve? Prevale l'art. 2272 oppure si potrebbe avere una modifica a maggioranza? Il testo afferma che dovrebbe prevalere l'art. 2272 in quanto la regola è chiaramente espressa, ci sono altri che sostengono l'altra possibilità, il dibattito è ancora aperto.
- viene a mancare la pluralità dei soci, se nei termini di 6 mesi la società non viene ricostituita. La riduzione della società ad un socio non comporta lo scioglimento automatico della società ma decorre un termine di 6 mesi in cui la società sopravvive ed ha la possibilità di trovare un altro socio con il quale continuare la società. Se il socio unico decorsi i 6 mesi non procede alla liquidazione della società ma continua a svolgere le operazioni sociali ci si trova davanti ad una sorta di trasformazione anomala che dalla società si passa ad una impresa individuale.
- cause previste dal contratto sociale: sono sempre rimesse all'autonomia privata, possono essere inserite delle cause di scioglimento. Altre cause riguardano le società con oggetto commerciale, una di queste può essere il fallimento della società per la quale però si instaura una procedura specifica diversa da quella prevista per lo scioglimento.
Si arriva all'estinzione delle società attraverso un procedimento a formazione progressiva, ciò vuol dire che non si arriva allo scioglimento della società istantaneamente ma c'è tutto un procedimento da seguire:
- verificarsi di una causa di scioglimento della società. Tutte le cause di scioglimento agiscono di diritto o operano automaticamente ossia ogni accertamento che si faccia da amministratori o da un socio sono accertamenti di qualcosa che si è già verificato. Quindi l'accertamento ha valore dichiarativo e la causa di scioglimento determina l'entrare nella fase di liquidazione della società.
- la società entra automaticamente in liquidazione, questo significa che si cambia lo scopo sociale che non è più quello di dividere gli utili ma quello di are i creditorie sperare che vi sia poi un residuo attivo da distribuire tra i soci.
Già dal verificarsi della causa di scioglimento emergono degli effetti molto importanti perché ci sono delle forti limitazioni ai poteri degli amministratori art.2274:
"I poteri degli amministratori sono limitati al compimento degli affari urgenti"
se gli amministratori compiono atti che non sono urgenti e proseguono l'attività sociale sono ritenuti come dei rappresentanti senza poteri. Possono quindi compiere solo gli affari urgenti come i liquidatori una volta nominati non possono a loro volta intraprendere nuove operazioni che sono poi quelle destinate alla creazione di nuovi utili
Resta fermo a carico dei soci l'obbligo di eseguire, se i fondi risultano insufficienti a are i creditori sociali, i versamenti ancora dovuti.
Col solo verificarsi della causa di scioglimento cambia anche la posizione dei creditori personali dei soci in alcuni casi questi potrebbero ottenere la liquidazione della quota, se però la società è entrata nella fase di scioglimento questi creditori particolari devono attendere la chiusura della liquidazione non possono pretendere di essere favoriti ed avere subito la liquidazione della quota.
Il verificarsi quindi della causa di scioglimento incide non sulla capacità della società ma sui poteri di determinati soggetti che poi sono determinati organi per la società di capitali.
E' importante che la società conservi una piena capacità giuridica perché la società potrebbe sempre ramificare un'operazione di un amministratore che non sia urgente come potrebbe ramificare l'operato dei liquidatori che compiono le operazioni.
Il legislatore anche in questo caso è propenso versa la tendenza a voler conservare il più possibile l'organismo produttivo, una volta avviata la procedura di liquidazione i soci potrebbero sempre ad unanimità decidere di, anche con fatti concludenti, proseguire l'attività sociale revocando la liquidazione, revoca della liquidazione. Mentre dubbi ci sono sulle società di capitali se questa debba essere fatta a maggioranza o ad unanimità, nelle società di persone sono tutti d'accordo che ci vuole l'unanimità. La proroga tacita della società dopo la scadenza ne è un esempio anche se c'è che distingue tra questa e la revoca della liquidazione, proroga tacita quando non c'è proprio soluzione di continuità, basta uno stacco netto tra i due passaggi che si è già in una revoca, spessissimo una proroga tacita potrebbe anche essere una revoca della liquidazione.
Il procedimento di liquidazione art. 2275:
"Se il contratto non prevede il modo di liquidare il patrimonio sociale e i soci non sono d'accordo nel determinarlo, la liquidazione è fatta da uno o più liquidatori, nominati con il consenso di tutti i soci o, in caso di disaccordo, dal presidente del tribunale.
I liquidatori possono essere revocati per volontà di tutti i soci e in ogni caso dal tribunale per giusta causa su domanda di uno o più soci".
Per le società personali a differenza delle società di capitali si ritiene che, mentre un procedimento di liquidazione bene o male ci debba essere, sia lasciato nella facoltà dei soci di determinare le modalità attraverso le quali debba avvenire la liquidazione. quindi i soci potrebbero procedere essi stessi allo smantellamento del patrimonio sociale, are i creditori e dividersi l'attivo senza nominare i liquidatori.
Alcuni ritengono che questo sia possibile solo nella società semplice, mentre tutta la giurisprudenza lo ritiene invece possibile per tutte le società di persone commerciali e non. La nomina dei liquidatori va fatta dai soci ad unanimità e in caso di disaccordo dal presidente del tribunale. Il termine disaccordo crea alcune difficoltà, se il disaccordo è sulla persona che si deve nominare liquidatore si risolve la questione andando dal presidente del tribunale, ma spesso c'è controversia riguardo all'esistenza di una causa di scioglimento della società, una parte dei soci sostengono che esiste un dissidio che porta allo scioglimento altri sostengono di no. Il presidente del tribunale a questo riguardo prima di nominare i liquidatori deve accertare che si sia verificata una causa di scioglimento oppure no? A questo riguardo si discute perché in realtà il provvedimento del tribunale del giudice è in camera di consiglio non è procedimento contenzioso in cui si fanno valere le parti. La giurisprudenza si sta orientando visto che la controversia attiene a diritti soggettivi verso il fatto che il giudice deve nominare i liquidatori solo quando è incontrastato, non c'è un disaccordo sul fatto che si sia verificata una causa di scioglimento, altrimenti bisognerebbe attendere gli esiti di un giudizio vero e proprio.
I liquidatori possono essere revocati da tutti i soci oppure dal tribunale.
I poteri dei liquidatori sono legati al fatto che devono definire i rapporti pendenti che si ricollegano all'attività sociale, spesso convertono in denaro i beni, potrebbero vendere in blocco tutti i beni sociali solo attraverso una disposizione, devono are i creditori e ripartire fra i soci un eventuale residuo attivo.
Per procedere al amento dei creditori della società i liquidatori in primis possono chiedere ai soci i versamenti ancora dovuti però solo se i fondi non sono sufficienti per are i creditori sociali, inoltre possono sempre chiedere ai soci secondo la proporzione in cui ciascun socio subisce le perdite somme ulteriormente necessarie per are i creditori sociali. Non possono sicuramente intraprendere nuove operazioni che sono vietate altrimenti vengono a rispondere personalmente nei confronti dei terzi delle operazioni compiute e non possono ripartire fra i soci neanche parzialmente i beni sociali fin che i creditori sociali non siano stati ati o non siano state accantonate le somme necessarie a titolo di garanzia per arli. Per ciò che riguarda gli obblighi e le responsabilità dei liquidatori sono modellate su quelle degli amministratori .
Se la liquidazione si protrae per più di un anno i liquidatori sono tenuti a redigere un rendiconto se si tratta di società semplice o un bilancio alla fine di ogni anno e poi una volta estinti i debiti sociali procedono alla definizione dei rapporti fra i soci stessi.
Distinzione fra conferimenti in godimento ed in proprietà, perché per quelli in godimento devono essere restituiti al socio nello stato in cui si trovano se questi beni fossero deteriorati o periti per una causa imputabile agli amministratori il socio ha anche diritto al risarcimento del danno. I conferimenti in proprietà sono passati in proprietà alla società quindi non creano problemi.
La ripartizione dell'eventuale residuo patrimoniale avviene in denaro a meno che una clausola apposita dell'atto costitutivo non stabilisca che i soci preferiscano avere i beni in natura, in questo caso si applicano le norme sulla divisione delle cose in comune.
Da questa ripartizione sono esclusi coloro che hanno conferito i beni in godimento e il socio d'opera, perché non è capitalizzabile ciò che loro conferiscono. Questi soggetti partecipano solo alla divisione delle eccedenze in proporzione a quanto ciascuno a conferito.
Il saldo attivo di liquidazione viene fatto per il rimborso al conferimento per il valore nominale e quindi si determina secondo il valore stabilito in contratto o il valore che aveva il conferimento nel momento in cui è stato effettuato. A questo valore va distribuito il saldo attivo.
Nella società semplice il procedimento di liquidazione della società si chiude nella maniera più informale, nelle società in nome collettivo i liquidatori devono redigere un bilancio finale di liquidazione è un piano di riparto ossia modalità di distribuzione tra i soci.
Ultima fase dello scioglimento della società è la sua estinzione. Nella società semplice ed in quella in nome collettivo irregolare la chiusura di fatti del procedimento di liquidazione segna la fine della morte della società. In quella in nome collettivo si applica l'art. 2312:
"Approvato il bilancio finale di liquidazione, i liquidatori devono chiedere la cancellazione della società dal registro delle imprese.
Dalla cancellazione della società i creditori sociali che non sono stati soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci e, se il mancato amento è dipeso da colpa dei liquidatori, anche nei confronti di questi.
Le scritture contabili e i documenti che non spettano ai singoli soci sono depositati presso la persona designata dalla maggioranza.
Le scritture contabili e i documenti devono essere conservati per 10 anni a decorrere dalla cancellazione della società dal registro delle imprese".
l'ultimo anello di questo procedimento a formazione progressiva per le società registrate è la cancellazione. Sorgono dei problemi interpretativi perché la norma pare risolvere il problema delle sopravvenienze passive ossia il caso in cui spunta un creditore dopo che la società è stata cancellata. Il 2° comma dice che i creditori sociali che non sono stati soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci (perché non esiste più la società), e se il mancato amento è dipeso da colpa dei liquidatori, anche nei confronti di questi. La giurisprudenza che vuole tutelare in ogni modo i creditori da un'interpretazione di questa norma antiletterale e la supera dicendo che la cancellazione dal registro delle imprese che è un atto formale è una condizione certo necessaria per l'estinzione ma non sufficiente, perché fin che si fa vivo anche un solo creditore che pretende di essere ato, la giurisprudenza continua a mantenere in vita la società. Sopravvivenza della società fintanto che c'è un solo creditore sociale noto.
C'è poi un ulteriore corollario che si arriva in alcuni casi a far fallire la società.
DIRITTO COMMERCIALE
ELEMENTI ESSENZIALI DELLA S.A.S.
Art.2313: nozione di s.a.s.
Nella s.a.s. i soci accomandatari rispondono solidalmente e illimitatamente per le obbligazioni sociali e i soci accomandanti rispondono limitatamente alla quota conferita.
Le quote di partecipazione dei soci non possono essere rappresentate da azioni.
Quando si parla di elemento tipologico essenziale della società si intende elemento senza il quale non si conura quel tipo particolare di società.
Quali sono gli elementi tipologici essenziali?
La s.a.s. è caratterizzata dalla presenza di 2 tipi di soci:
accomandatari
accomandanti
Perché il 2° comma, dopo aver posto l'accento su 2 tipi di soci, sottolinea che le quote di partecipazione non possono essere rappresentate da azioni?
Perché la presenza dei 2 soci la si trova anche nella s.a.p.a., con la differenza che in quest'ultima le quote di partecipazione sono rappresentate da azioni.
Quindi il legislatore ha messo in evidenza 2 elementi:
la presenza di 2 tipi di soci
le quote non sono in forma di azioni
La s.a.s. è una società di persone e si modella sulla s.n.c., ma oltre a queste regole deve rispettare tutta una serie di regole che derivano dal fatto che non ci sono solo soci a responsabilità illimitata come nella s.n.c.
La s.a.p.a, pur avendo soci che rispondono illimitatamente (gli accomandatari amministratori), è pur sempre una società per azioni perché sia gli azionisti accomandatari sia gli azionisti accomandanti sono sempre azionisti e le azioni sono sempre le stesse.
Sulla falsa riga della s.n.c. il legislatore ha voluto conurare la s.a.s., cioè sulla falsa riga di una società di persone modificata dal fatto che esistono anche soci a responsabilità limitata, sulla falsa riga della S.p.a. il legislatore ha voluto conurare la s.a.p.a. dove esistono soci a responsabilità illimitata.
Mentre nella s.a.p.a. l'azione che appartiene al socio accomandante ha le stesse caratteristiche di quella che appartiene al socio accomandatario, nella s.a.s. ribadisce che le quote di partecipazione del socio non possono essere azioni.
I soci accomandatari, come i soci della s.n.c., sono i naturali destinatari dell'amministrazione della società. Significa che, ove non sia diversamente previsto nell'atto costitutivo, naturalmente l'amministrazione spetta a loro. Per ipotesi si potrebbero avere soci accomandatari che non amministrano.
Art.2318 afferma che l'amministrazione della società può essere conferita solo a soci accomandatari.
Il socio accomandatario che per contratto non è amministratore, resta accomandatario cioè non perde la sua qualifica.
Come contropartita del potere di amministrare esiste la responsabilità illimitata e solidale per le obbligazioni sociali. Questa è la regola che accomuna accomandatari ai soci di s.n.c.
La differenza è data dalla presenza di soci accomandanti: essi rispondono limitatamente alla quota che hanno conferito. Come contropartita, sono esclusi dalla direzione della società, cioè non possono fare gli amministratori.
Non bisogna confondere
R s.a.s.
R associazione in partecipazione
Quando si costituisce una s.a.s. ci sono dei soci che amministrano = accomandatari e dei soci che conferiscono i capitali = accomandanti. E questa è una società:
si forma patrimonio comune autonomo dotato di autonomia patrimoniale
esiste dovere di collaborazione di tutti i soci
esiste patrimonio slegato da quello dei singoli soci
Nella associazione in partecipazione, che è anch'essa un contratto, vi è un soggetto che amministra e uno che apporta capitali. Ma non c'è la formazione di un fondo comune. Non c'è impresa esercitata in comune.
Ci sono delle regole fondamentali da rispettare:
accomandanti non possono inserire il loro nome nella ragione sociale
accomandanti non possono intromettersi nell'amministrazione
Ma hanno determinati poteri.
Quando si fa atto costitutivo di una s.a.s. bisogna indicare quali saranno i soci accomandatari e quali gli accomandanti.
I terzi devono sapere se esiste questa duplice categoria di soci.
Anche l'atto costitutivo della s.a.s., al pari di quello della s.n.c., va iscritto nel registro delle imprese con funzione di pubblicità legale dichiarativa.
Possono dunque esistere s.a.s. irregolari. Anche in questo caso il fenomeno è circoscritto alle società di persone con forma commerciale soggette ad iscrizione nel registro con effetti di pubblicità legale dichiarativa.
Art.2314. Ragione sociale. La società agisce sotto una ragione sociale costituita dal nome di almeno uno dei soci accomandatari con l'indicazione di s.a.s., salvo il disposto del 2° comma dell'art.2292.
L'accomandante il quale consente che il suo nome sia compreso nella ragione sociale, risponde di fronte ai terzi illimitatamente e solidalmente con i soci accomandatari per le obbligazioni sociali.
Prendiamo lo statuto.
Si distingue tra
R statuto = segna le basi organizzative della società
R atto costitutivo = segna nome degli accomandatari, i soci accomandanti, ecc.
Il notaio che ha fornito questo statuto, distingue tra atto costitutivo e statuto anche per le società di persone.
Di solito per le società di persone si redige un patto sociale in cui atto costitutivo e statuto sono entrambi compresenti.
Ragione sociale = nome della società.
Deve essere costituita da almeno uno dei nomi dei soci accomandatari, cioè dei soci che amministrano, con l'indicazione di s.a.s.
Questo perché i terzi devono sapere già quello che è scritto nell'atto costitutivo.
Art.1 La società agisce sotto la ragine sociale : ALDO ROSSI & C. s.a.s.
Cosa succede se un accomandante acconsente che il proprio nome sia inserito nella ragione sociale, risponde illimitatamente e solidalmente di tutte le obbligazioni sociali, come se fosse un accomandatario. Non diventa accomandatario, ma di fronte ai terzi assume la stessa responsabilità illimitatamente propria dei soci accomandatari.
La responsabilità illimitatamente è per tutte le obbligazioni sociali, passate, presenti e future non solo per le obbligazioni sociali che sorgono dal momento in cui ha inserito il suo nome.
Non è regola tanto strana.
Quando abbiamo studiato la responsabilità dei soci nelle società di persone, l'art.2269 dice che chi entra a far parte di una società risponde anche delle obbligazioni precedenti.
Ma l'accomandante resta sempre tale, non diventa accomandatario, quindi non diventa amministratore.
La responsabilità illimitatamente va a colpire il socio se il nome è stato inserito con il suo consenso.
La disciplina dei conferimenti subisce qualche modifica? L'opinione dominante in dottrina, che è anche quella del Cottino, è quella di ritenere che è meglio che il socio accomandante non faccia il socio d'opera perché nasce normalmente come socio di capitale.
Il conferimento d'opera è ammissibile nelle società di persone e non in quelle di capitali. Però, esiste la posizione del socio della s.a.s. che nasce come socio di capitale e che mal si concilia con la prestazione di servizi, quale oggetto di conferimento.
Art.2318 dice che i soci accomandatari hanno stessi diritti e doveri dei soci di una s.n.c. e che l'amministrazione della società spetta naturalmente ad essi.
Ciò non significa che la legge non consideri i poteri che spettano ad un socio accomandante. Di regola non può ingerirsi nella
R gestione interna, cioè non può compiere atti di gestione che non
comportino una contrattazione con i terzi
R gestione esterna, cioè non può fare il rappresentante generale
Però non è completamente estraniato dalle vicende della società.
Regola generale: è vietata qualunque ingerenza nell'amministrazione in senso lato cioè non possono fare gli amministratori.
Se il socio accomandante si mette a fare l'amministratore, perde il beneficio della responsabilità limitata.
Quali sono le conseguenze del divieto di immistione? Sono di 2 tipi:
R di ordine patrimoniale
R di ordine personale
Conseguenza patrimoniale
assume responsabilità illimitata e solidale per tutte le obbligazioni sociali (art.2320)
in caso di fallimento della società, fallisce al pari degli accomandatari perché illimitatamente responsabile
Conseguenza personale
Il socio può essere escluso dalla società (art.2320).
Rientra nell'art.2286, che dice che l'esclusione può derivare da grave inadempienza agli obblighi di legge o dall'atto costitutivo.
Il caso dell'accomandante che viola il divieto d'immistione è una grave inadempienza ad un obbligo legale. Ma anche questo è un caso d'esclusione facoltativa.
Nel caso in cui l'accomandante amministri perché glielo hanno consentito gli accomandatari, l'accomandante risponderà illimitatamente davanti ai terzi, ma non potrà essere escluso. Ecco perché il legislatore non ha previsto che la violazione del divieto d'immistione determini esclusione di diritto.
Se invece non c'è il consenso avviene l'esclusione, con voto di maggioranza.
Bisogna dare un contenuto al divieto d'immistione.
Si è detto che gli accomandanti non possono fare gli amministratori.
L'art.2320 afferma che:
i soci accomandatari non possono compiere atti di amministrazione, né trattare o concludere affari in nome della società, se non in forza di procura speciale per singoli affari.
Procura speciale
Significa che mentre non è possibile conferire una procura generale ad un socio accomandante e cioè dargli potere generale di gestire e spendere il nome della società per qualunque atto di ordinaria e straordinaria amministrazione, è possibile con una procura speciale, che è limitata al compimento di un singolo atto, dargli un potere di gestione e di rappresentanza.
Con una procura ad hoc si può dare all'accomandante il potere di firmare un contratto di vendita in nome della società, purché sia ben limitata alla sua area di azione.
Lo spartiacque è dato dall'ingerenza generale nell'amministrazione e nella rappresentanza delle società.
Quando abbiamo studiato gli ausiliari dell'imprenditore, abbiamo studiato la ura dell'institore il quale è investito di una procura generale per i singoli atti.
1) L'accomandante non può quindi rivestire la qualifica d'institore, altrimenti sarebbe come
dire che è investito di una rappresentanza generale.
Il socio accomandante ha anche altri poteri:
Gli amministratori possono essere nominati sia per atto costitutivo sia per atto separato
Se gli accomandatari sono nominati con atto separato, la legge dice che è necessario il consenso di tutti gli accomandatari e l'approvazione di tanti soci accomandanti che rappresentano la maggioranza del capitale da essi sottoscritto (art.2319).
Quindi, ove non derogato per patto, ci vuole il consenso di tutti gli amministratori e della maggioranza del capitale sottoscritto dagli accomandatari.
3) possono prestare la loro opera purché lo facciano sotto la direzione degli accomandatari.
4) possono dare autorizzazioni e pareri per determinate operazioni. I pareri possono essere
vincolanti o meno, invece l'autorizzazione è un consenso dato al fine del compimento o non
compimento di un atto. Fino a che punto è valida una clausola di un patto sociale che
prevede questo potere?
Bisogna analizzare qual è il contenuto del potere d'immistione in relazione a questi poteri.
Fino a che punto è possibile questi poteri di autorizzazione e pareri? La dottrina e la giurisprudenza hanno detto che se questi poteri sono così ampi da svuotare la linea di confine tra chi è deputato naturalmente ad amministrare (= accomandatario) e chi è estraniato dalla direzione (= accomandante) allora si viola la legge, cioè il divieto d'immistione. Si viola
R quando è necessaria autorizzazione dell'accomandante per ogni atto di ordinaria e
straordinaria amministrazione
R quando i contratti che superano un certo importo devono essere prima approvati
dall'accomandante
Ma se l'autorizzazione è riferita ad atti singolarmente considerati e non si svuota il contenuto della regola inderogabile secondo la quale il potere di amministrare spetta solo agli accomandatari, allora si riesce ad individuare un confine tra ciò che rientra nel divieto d'immistione e ciò che non rientra.
Quindi bisogna enunciare qual è il contenuto del divieto d'immistione e specificare che esso non implica un'estraniazione totale dell'accomandante da ogni atto di gestione e di rappresentanza; ma postula che resta tale la regola per cui l'amministrazione generale e la rappresentanza spetta solo agli accomandatari. L'accomandante ha dei poteri limitati, ma importanti nel caso in cui debba concedere autorizzazioni.
L'accomandante ha poi dei poteri di controllo. Secondo l'art.2320:
ha diritto di avere comunicazione annuale del bilancio e del conto profitti e perdite e di controllarne l'esattezza, consultando i libri e gli altri documenti della società.
Qui è nato un problema riguardo il diritto di avere comunicazione del bilancio. Qualcuno sostiene che approvare un bilancio è un atto di gestione e come tale vietato agli accomandanti. Questa tesi è stata contraddetta da tutta la dottrina e anche dal Cottino perché approvare un bilancio redatto da altri non vuol dire gestire, ma controllare la gestione altrui. Quindi è pacifico considerare che anche gli accomandanti possano approvare il bilancio perché ciò è considerato rientrare nei loro poteri di controllo.
Il Cottino dice che se fosse un potere di gestione approvare un bilancio, lo sarebbe anche la nomina degli amministratori, che invece è consentito all'accomandante.
Altra discussione si è avuta nel caso di opposizione ad un atto in caso di amministrazione disgiuntiva. Sull'opposizione decide la maggioranza dei soci calcolata per quote di partecipazione agli utili. L'accomandante può votare o no sull'opposizione? È discusso. La decisione è sulla fondatezza dell'opposizione e non sull'atto da compiere.
Secondo il Cottino se si consentisse all'accomandante di votare ci potrebbe essere un'ingerenza nella gestione. Si discute di questo problema.
Solo nella s.a.s si trova la norma sul
Trasferimento della quota
La regola per le modifiche del contratto sociale è l'unanimità, salvo diversa disposizione nel contratto.
Nelle società di persone, la cessione della quota implica un mutamento del contratto perché cambia la persona del socio. Per cedere la quota è necessaria di norma l'unanimità dei consensi, a meno che non sia diversamente stabilito nei patti sociali.
In caso di morte del socio si liquida la quota in denaro agli eredi, a meno che i soci non preferiscano sciogliere la società o continuarla con il consenso degli stessi.
Per la s.a.s. le regole sono diverse perché la quota dei soci accomandanti si avvicina di più alle quote delle società di capitali.
Art. 2322: "La quota di partecipazione del socio accomandante è trasmissibile per causa di morte. Salvo diversa disposizione dell'atto costitutivo, la quota può essere ceduta, con effetto verso la società, con il consenso dei soci che rappresentano la maggioranza del capitale".
Al pari delle azioni e delle quote di s.r.l., in caso di morte del socio non si applica l'art.2284, a meno che i patti non lo abbiano previsto.
È favorita anche la cessione tra vivi (es. vendita), perché la quota può essere ceduta con il consenso dei soci che rappresentano la maggioranza.
Tutto ciò per la quota dell'accomandante.
Le quota dei soci accomandatari seguono le regole della cessione della quota del socio di s.s. e di s.n.c.: se muore un socio, si applica l'art.2284.
Questo perché le quote del socio accomandatario, che è naturalmente amministratore e investito della responsabilità illimitata e solidale, seguono le sorti delle società peersonali.
La distinzione è nella quota dell'accomandante che è un socio, per sua natura, a responsabilità limitata.
La quota dell'accomandante, proprio perché è quota di un socio di capitale, si trasferisce automaticamente in caso di morte, mentre tra vivi basta il consenso della maggioranza ( e non l'unanimità), salvo quanto diversamente disposto. Sono regole derogabili dall'autonomia delle parti. Se nulla è detto si applica l'art.2322. Se si vuole stabilire una regola diversa, si deve inserire una clausola specifica nell'atto costitutivo.
SCIOGLIMENTO
Cosa succede se vengono a mancare tutti gli accomandatari o tutti gli accomandanti?
Art.2323: "La società si scioglie, oltre che per le cause previste nell'art.2308, quando rimangono soltanto soci accomandatari, sempreché nel termine di 6 mesi non sia stato sostituito il socio che è venuto meno."
Se mancano gli accomandanti i problemi sono minori, perché gli accomandatari possono continuare a gestire. Ma se vengono meno tutti gli accomandatari, l'attività della società sarebbe bloccata. La legge dice al 2° comma: "Se vengono a mancare tutti gli accomandatari, per il periodo indicato dal comma precedente gli accomandanti nominano un amministratore provvisorio per il compimento degli atti di ordinaria amministrazione. L'amministratore provvisorio non assume la qualità di socio accomandatario."
L'amministratore provvisorio ha poteri limitati nel tempo, cioè 6 mesi.
L'amministratore provvisorio potrebbe anche essere scelto tra gli accomandanti. Ma l'accomandante scelto non diventa accomandatario. È solo un modo per evitare dei vuoti di gestione che la legge cerca di colmare.
Se non venisse ricostituita la pluralità dei soci, si potrebbe dire che la società è tacitamente trasformata in una s.n.c. irregolare. Scaduti i 6 mesi i soci superstiti non hanno costituito la pluralità dei soci. Continuano a gestire anche se la società sarebbe già sciolta, e non nominano i liquidatori.
Da s.a.s. regolare si passa ad una s.n.c. irregolare, che non necessita di alcuna formalità.
Per arrivare a questa trasformazione anomala bisogna che non ci sia alcuna soluzione di continuità tra prima e dopo, che si lascino trascorrere i 6 mesi e non si nominino i liquidatori.
Se il notaio non avesse distinto tra atto costitutivo e statuto, ci sarebbe stata un'altra dicitura.
Normalmente, nelle società di persone, si fanno dei patti sociali che contengono atto costitutivo e statuto.
Invece questo notaio ha seguito la stessa regola che si segue per le società di capitali e ha voluto stabilire solo le regole di organizzazione della s.a.s. Inoltre, questa è una bozza e quindi sono previste più clausole. Diventa contratto nel momento in cui si scelgono le clausole.
Art.1.Ragione sociale. La società agisce sotto la ragione sociale: ALDO ROSSI & C. s.a.s.
La regola che almeno un socio accomandatario uri nella ragione sociale è rispettata; inoltre, ci vuole l'indicazione del tipo di società.
Art.2. Sede. La società ha sede in via Lanino 1.
La sede è domiciliata nello studio dei commercialisti, che ad esempio sono in questa via.
Art.3. Durata. Il termine di durata della società è fissato nella data del 31/12/2050.
La durata si proporziona alla vita dei soci che hanno costituito la società.
Art.3. Oggetto. La società ha per oggetto: Settore elettronico, elettrico ed elettromeccanico. Può svolgere le seguenti attività: montaggio e costruzione di componenti ed accessori per auto. Oppure montaggio e lavorazione in conto terzi di componenti ed accessori per auto.
Tranne la s.s. che può solo esercitare attività agricola, la s.a.s. così come la s.n.c. sono società di forma commerciale. Questa forma comporta l'adozione di determinate regole contenute nello statuto dell'imprenditore commerciale. Ma queste società possono anche svolgere attività non commerciale. In questo caso diamo un oggetto commerciale.
Spesso si inserisce che la società, ai fini del miglior raggiungimento dell'oggetto sociale, può compiere tutte le operazioni immobiliari, mobiliari, finanziarie e commerciali necessarie e utili. In questo caso si ha un elencazione più complessa.
Poi il notaio ha voluto essere più preciso ed ha elencato:
Art.5. Atti strumentali all'oggetto
Ha voluto dare un'elencazione esemplificativa, non tassativa, di atti che possono essere compiuti.
Strumentale = si pone come mezzo affine.
Gli atti strumentali sono elemento fondamentale del contratto di società e dello statuto perché segnano i confini dei poteri di amministrazione dei soci che hanno l'amministrazione della società (soci di s.s. e di s.n.c. che non siano estraniati per volontà loro dall'amministrazione; soci accomandatari per la s.a.s.).
È solo un elenco, quindi non si esce dall'oggetto sociale se si compie un atto che non rientra in questi elencati. Di solito sono le banche che vogliono sapere esattamente qual è l'oggetto sociale e quali sono i poteri di coloro con cui contrattano.
L'oggetto sociale è l'elemento fondamentale. Deve essere possibile, lecito, determinato e determinabile.
Art.6. Capitale. Il capitale sociale è di £. 1.000.000 ed è ripartito tra i soci secondo le
quote di partecipazione indicate nell'atto costitutivo o in atti modificativi dello stesso. Alle esigenze finanziarie della società i soci possono provvedere mediante versamenti di denaro a titolo di prestito. Detti versamenti non producono interessi di sorta.
I soci accomandatari sono: Aldo Rossi e Sergio Rossi.
Aldo versa £. 600.000 e Sergio £. 400.000.
Questo principio si trova nell'atto costitutivo.
Se si ha unico atto che contiene sia atto costitutivo sia statuto, si hanno già le cifre.
Nessuno può essere obbligato a fare dei versamenti contro la propria volontà. L'unico obbligo è quello di eseguire i versamenti che i soci si sono obbligati ad eseguire nel momento in cui sono diventati soci facendo il conferimento.
Nulla esclude che i soci per loro volontà possano fare dei versamenti di denaro. Questi sono prestiti e non conferimenti.
Spesso gli statuti prevedono con una clausola che i soci possano fare dei mutui, i quali non sono produttivi d'interessi. Il mutuo può essere anche a tasso zero, ma non perde la sua qualifica di mutuo come contratto tipico.
Il fatto che si tratti di mutui e non di conferimenti comporta che ci sia un diritto di restituzione alla scadenza al socio che li ha effettuati. Invece per i conferimenti non c'è diritto ad avere restituzione durante la vita della società, ma bisogna attendere lo scioglimento.
Nel caso dei mutui il socio è anche creditore: alla scadenza la società gli deve dei soldi.
Quindi nessun socio può essere obbligato ad eseguire altri conferimenti.
Art.7. Responsabilità dei soci. I soci accomandatari rispondono solidalmente e illimitatamente per le obbligazioni sociali; i soci accomandanti rispondono con i soli beni conferiti.
Art.8. Amministrazione. Quando gli amministratori sono più di uno essi hanno poteri disgiunti, salvo diversa convenzione dei soci iscritta nel registro delle imprese. Nell'atto costitutivo o in altro atto iscritto nel registro delle imprese i soci possono stabilire che determinati atti siano preventivamente autorizzati dagli accomandanti. Se vengono a mancare tutti gli accomandatari, per il periodo di 6 mesi gli accomandanti nominano un amministratore provvisorio per il compimento degli atti di ordinaria amministrazione. L'amministratore provvisorio non assume la qualità di socio accomandatario.
Il notaio ha scelto la regola dell'amministrazione disgiuntiva, che applicata agli accomandatari, vuol dire che agiscono disgiuntamente. Se c'è un solo accomandatario questo agisce come amministratore unico.
Se ci sono 2 accomandatari, Aldo Rossi e Franco Nero, sarebbero amministratori in via disgiunta, salvo diversa convenzione.
Determinati atti possono essere autorizzati dagli accomandanti. Questo è uno statuto, ma nell'atto costitutivo si potrebbe dire che ad esempio per l'acquisto o la vendita di un particolare immobile è necessaria l'autorizzazione del socio accomandante.
Però, non bisogna mai violare il divieto d'immistione. Quindi, tramite questa regola, non si può prevedere nell'atto costitutivo una regola del tipo: tutti gli atti di ordinaria e straordinaria amministrazione che superano la cifra di £. 5.000.000 devono essere autorizzati dagli accomandanti. Vorrebbe dire ingerirsi nella gestione. Questa clausola sarebbe nulla.
Dove si trovano gli atti che necessitano l'autorizzazione dell'accomandante? Nell'atto costitutivo o in una sua modifica.
L'amministratore provvisorio potrebbe essere un accomandante o un terzo. Quando la legge dice che l'amministratore provvisorio non diventa un socio accomandatario è come se dicesse che è vietato conferire ad estranei il potere di amministrare una società di persone.
Art.9. Rappresentanza. La rappresentanza della società - anche in giudizio - spetta a ciascun amministratore, salvo diversa convenzione dei soci iscritta nel registro delle imprese. Essa si estende a tutti gli atti che rientrano nell'oggetto sociale. Tuttavia gli atti che risultino esclusi dall'amministrazione disgiuntiva o per quali sia prescritta la preventiva autorizzazione dei soci accomandanti, possono essere compiuti da un singolo rappresentante solo se questi agisce con il consenso degli altri amministratori ed inoltre, quando risulti prescritta, previa autorizzazione dei soci accomandanti.
Consenso ed autorizzazione devono avere la stessa forma richiesta dalla legge per l'atto da compiere.
È il potere di spendere il nome della società in relazione a tutti gli atti compiuti.
Si accetta la regola dell'amministrazione disgiuntiva, ma se per caso nell'atto costitutivo è previsto che per determinati atti è previsto che si debba avere amministrazione e firma congiunta, il singolo amministratore non può spendere il nome della società se non ha anche la firma degli altri amministratori. La legge consente di mescolare l'amministrazione disgiuntiva e congiuntiva. In questo caso si dice che, se nulla è detto, ogni singolo amministratore può firmare da solo purché l'atto rientri nei limiti dell'oggetto sociale. Bisogna però fare attenzione che nello statuto non sia prevista una forma di amministrazione e rappresentanza congiunte per determinati atti, altrimenti la firma da sola non basta. Allora gli atti per i quali è prescritta un'autorizzazione dell'accomandante o che non rientrano nell'amministrazione disgiuntiva possono essere compiuti dal singolo amministratore solo se agisce con il consenso degli altri amministratori o solo previa autorizzazione.
Questa norma si occupa della rappresentanza cioè della firma sociale. Bisogna distinguere tra:
R chi ha il potere di decidere l'atto
R chi ha il potere di portare all'esterno questa volontà
La norma dice che come regola si applica l'amministrazione disgiunta per ogni forma di rappresentanza. Però se il potere di decidere il compimento dell'atto lo avessero congiuntamente ad altri amministratori, è vero che può firmare (perché la firma è disgiunta), ma a monte ci vuole una decisione anche degli altri, ad esempio l'autorizzazione dell'accomandante.
Quindi questa norma, a differenza di quella precedente, si occupa solo del potere di firma.
Se il potere di firma spesso è modellato su quello di gestione, cioè amministrazione disgiuntiva e firma disgiunta, può anche essere che si adotti la firma disgiunta accomnata da amministrazione congiunta.
Art.10. Trasferimento della quota per atto tra vivi. Il socio che intende trasferire ad altri (anche soci) la propria quota (o parte di essa), deve darne comunicazione scritta raccomandata con A.R. agli altri soci che possono individualmente opporsi al trasferimento nella stessa forma della comunicazione anzidetta.
Decorsi 30 gg. dall'ultima delle comunicazioni senza alcuna opposizione il trasferimento può essere liberamente attuato.
In caso di opposizione il socio ha diritto di recedere dalla società.
Non c'è nessuna differenza tra quota dell'accomandante e dell'accomandatario. Per trasferire la quota ci vuole il consenso di tutti i soci.
Il notaio ha reso più agevole il procedimento di trasferimento. Non è necessario chiedere il trasferimento a tutti i soci. Il socio comunica con lettera con avviso di ricevimento, così ha la prova che l'ha spedita, l'intenzione di vendere la sua quota. Se gli altri soci non si oppongono entro 30 gg. il socio trasferisce liberamente al terzo. Ma nella sostanza è come se avesse detto che la quota è cedibile solo con il consenso di tutti. Basta anche solo un socio che si oppone, perché vale l'unanimità dei consensi.
È previsto un diritto di prelazione. Nel caso in cui un socio intenda vendere la propria quota e c'è un terzo compratore, indica la cifra, e comunica agli altri soci che vuole vendere indicando
R prezzo
R quantitativo
prima di vendere al terzo il socio chiede agli altri se qualcuno di loro è intenzionato a comprare.
La conseguenza è che se i soci dicono sì, il terzo resta fuori. Se dicono no, il socio può vendere al terzo. La clausola di prelazione serve a limitare la circolazione della quota perché il proprietario non è libero di scegliere a chi vendere, ma deve prima offrire in prelazione a chi è già socio della società.
Questa clausola si trova nella società di capitali, ma c'è chi la inserisce anche nelle società di persone. Con questa clausola non si obbliga un socio a vendere ad altri soci, ma c'è un obbligo a preferire, a parità di condizioni, gli altri soci rispetto ai terzi. Il socio non è obbligato a vendere, ma se vende ha l'obbligo di preferire i soci, mandando una lettera.
È clausola che serve a mantenere la comine sociale originaria.
Il socio che intende trasferire ad altri (anche soci) la propria quota (o parte di essa), deve notificare a mezzo di lettera raccomandata con A.R. la proposta di alienazione, indicando il prezzo e le generalità dell'acquirente, agli altri soci i quali hanno diritto di prelazione.
Se non si inserire una clausola del genere, gli altri soci non hanno diritto di prelazione, e il socio è libero di vendere a chi vuole. Il diritto di prelazione va specificamente previsto.
Come si esercita tale diritto?
Se i soci che intendono esercitare la prelazione sono più, la quota del cedente va ripartita tra tutti in misura proporzionale alle rispettive quote di partecipazione al capitale sociale.
Il diritto di prelazione deve essere esercitato, a pena di decadenza, entro il termine di 30 gg. dall'ultima delle notificazioni.
Decorso inutilmente questo termine, il trasferimento della quota può essere liberamente attuato entro 4 mesi, decorsi i quali rientra in vigore il regime della prelazione.
Decorso il termine il socio può vendere al Sig. Franco Nero liberamente. Non è più vincolato a preferire i consoci.
Rivediamo l'amministrazione e la rappresentanza.
Nelle società di capitali spesso la rappresentanza è, per atto costitutivo, conferita solo ad alcuni amministratori. Quindi rileva di più la dissociazione tra
R potere di deliberare gli atti di gestione che è un potere amministrativo interno, che per
ipotesi compete al consiglio
R potere di rappresentare la società che è il potere di spendere il nome all'esterno, che
compete per ipotesi al presidente del consiglio e/o all'amministratore delegato
Questa distinzione di poteri è da tenere presente anche nelle società di persone, anche se è più facile trovarle unificate in un'unica persona, ove non sia previsto diversamente.
Nello statuto che abbiamo, quando si parla dell'amministrazione, si parla semplicemente di chi ha il potere di decidere il compimento degli atti sociali. Si deve poi stabilire se ciò avviene congiuntamente o disgiuntamente.
Secondo lo statuto all'art.8 si decide per la regola della disgiuntività se gli amministratori sono più di uno. Quindi si applica l'art.2257, salvo diversa convenzione dei soci iscritta nel registro delle imprese. Se si vuole passare dall'amministrazione disgiuntiva a quella congiuntiva si deve iscrivere la modifica sul registro per rendere l'atto opponibile ai terzi.
Nell'atto costitutivo infatti i soci possono stabilire che determinati atti siano preventivamente autorizzati dagli accomandanti. Questo potere deve essere limitato, cioè per singoli affari, perché non si può concedere un potere autorizzativo così ampio da svuotare di contenuto la regola in base alla quale solo ai soci accomandatari spetta il potere di amministrare, mentre ai soci accomandanti compete un potere di controllo o limitati compiti di amministrazione i quali non devono violare il divieto d'immistione. Ciò vale per qualsiasi atto d'ingerenza non solo interna, ma anche che comporta un contatto con i terzi, e che quindi comporta la violazione del divieto d'immistione, a meno che, per fatti sociali, non siano attribuiti determinati poteri al socio accomandante che fanno sì che s'interessi della gestione, ma limitatamente.
Dunque il potere di autorizzazione è riconosciuto dall'art.2320 al socio accomandante, ma il cui contenuto va circoscritto per non svuotare la regola in base alla quale la direzione degli affari sociali e i generali poteri amministrativi e di rappresentanza devono spettare al socio accomandatario. Comunque il socio accomandante non è mero spettatore delle azioni altrui, perché l'autorizzazione gli comporta un'ingerenza seppur limitata nell'amministrazione.
Quindi bisogna tenere conto non solo di ciò che l'accomandante non può fare, ma anche di quello che può fare.
Queste sono le conseguenze giuridiche della violazione del divieto d'immistione.
Qual è il contenuto di tale divieto? Per saperlo bisogna anche considerare quali sono i poteri che la legge accorda ai soci accomandanti, indicando che la via per conferirli è un'espressa clausola dell'atto costitutivo che fissa i poteri.
L'art.9 riguarda l'altro aspetto, cioè la rappresentanza.
Sia per l'amministrazione sia per la rappresentanza, i poteri degli amministratori hanno un limite generale dato dall'oggetto sociale che è l'attività economica che la società si porpone di svolgere. Lo si trova per la prima volta nell'atto costitutivo, ecco perché si dice che è l'attività economica che la società si propone di svolgere.
Nell'art.9 è prevista la firma disgiunta che è il potere di rappresentanza. Si estende a tutti gli altri che rientrano nell'oggetto sociale. Il potere di firma è dato disgiuntamente, ma la legge afferma che se fosse prevista un'autorizzazione dell'accomandante per il compimento di un singolo atto, il socio accomandatario prima di firmare deve mostrare l'autorizzazione dell'accomandante perché non ha il potere di compiere da solo quell'atto. Non ha otere di gestione interna, ci vuole anche l'autorizzazione.
Se poi per determinati atti ci voglia l'amministrazione congiunta, prima di firmare il socio accomandatario che ha la firma sociale deve dimostrare di avere il consenso preventivo.
Trasferimento della quota.
Per gli accomandatari si seguono le stesse regole per la s.s. e la s.n.c., cioè è necessaria l'unanimità. Ma può esserci pattuizione diversa. Ad esempio la quota degli accomandatari può essere ceduta con il consenso della maggioranza. Ma deve esserci apposita clausola nell'atto costitutivo perché il principio generale è che tutte le modifiche del contratto avvengano all'unanimità.
Per ipotesi si potrebbe prevedere la libera circolazione della quota, ma sempre con una clausola espressa.
Per il trasferimento della quota dell'accomandante il legislatore prevede regola diverse. Nel trasferimento tra vivi, ad es. vendita, è sufficiente la maggioranza.
Per il trasferimento in caso di morte si applica la stessa regola delle società di capitali, cioè la quota è trasmissibile agli eredi. Questo sempre che le parti non stabiliscano regole diverse.
Vediamo lo statuto. Il notaio ha deciso di non fare distinzione tra quote degli accomandanti e degli accomandatari. La regola è unica, su richiesta dei soci.
Art.10.
La raccomandata A.R. si fa per avere la prova che il socio l'ha ricevuta.
Si ha un meccanismo più sofisticato, ma è l'applicazione in altri termini della regola dell'unanimità. Invece di dire che le quote sono trasferibili con il previo consenso di tutti i soci, si dice che il socio deve mandare una raccomandata a tutti i soci in cui indica la sua intenzione di vendere. Se nessuno si oppone entra 30 gg., la vendita è libera. È solo un modo più facile per raccogliere i voti.
In caso di opposizione, il socio ha diritto di recedere dalla società.
La legge prevede delle ipotesi di recesso, ma sono salve ipotesi ulteriori previste nel contratto sociale. Di fatto, lo statuto ha previsto un'ipotesi ulteriore. Questo perché nelle società di persone non è facile disfarsi della propria partecipazione. Non è così facilmente trasmissibile come nelle società di capitali. Di solito sono i consoci che acquistano la quota.
Se il socio che vuole vendere si vede arrivare un'opposizione, si vede prigioniero della società. È come se fosse un diritto di veto la regola secondo la quale è necessario il consenso di tutti i soci. Il notaio ha previsto una valvola di sicurezza. Lascia al socio che vuole vendere la possibilità di recedere dalla società e gli verrà liquidata la quota.
Questa non è un'ipotesi legale di recesso, ma è un'ipotesi di recesso convenzionale.
È diversa l'ipotesi del recesso da quella del trasferimento, soprattuto nelle società di capitali, dove le ipotesi di recesso sono tassative.
Nelle società di capitali, quando si cede la partecipazione si ha un sub ingresso di un nuovo socio rispetto a quello di prima, ma la composizione del capitale resta inalterata.
Quando invece il socio recede, bisogna liquidargli la quota e quindi si ha indebolimento del patrimonio della società.
Nelle società di capitali il capitale ha importanza maggiore rispetto alle persone.
Nello statuto per cedere la quota ci vuole il consenso di tutti, ma il procedimento è semplificato.
In alternativa è prevista una clausola di prelazione. Quando un socio vuole vendere parte o tutta della sua quota deve, prima di vendere ai terzi, deve offrire la quota in prelazione ai soci indicando:
quantità della quota = oggetto della vendita
prezzo di vendita
persona a cui si vuole vendere
L'intenzione di vendere va comunicata ai soci per porli in condizione di essere preferiti, a parità di condizioni, ai terzi.
La prelazione accorda un diritto di preferenza.
Perché a parità di condizioni?
Perché i soci che vogliono comprare comprano allo stesso prezzo e non a prezzo inferiore perché sono già soci. Non sono preferiti nelle condizioni del contratto, ma sono preferiti nell'acquisto.
Il socio che vuole vendere dà un diritto di preferenza agli altri soci. Se tutti i soci dicono no, allora può vendere al terzo.
Ma se ci sono soci disposti a comprare, la quota andrà ad accrescere proporzionalmente la quota dei soci che sono già in società.
Con la clausola di prelazione non si attribuisce al socio un obbligo di vendita, ma un obbligo di preferire.
Il socio che intenda vendere (quindi è libero o no di vendere) ha l'obbligo di preferire a parità di condizioni gli altri soci rispetto ai terzi.
Questo comporta che debba interpellare gli altri soci comunicando l'oggetto del contratto e il prezzo della vendita.
Le clausole del trasferimento all'unanimità e la prelazione sono incompatibili, perché la prelazione è clausola che limita il trasferimento delle quote.
Lo limita perché prima la quota va offerta in prelazione agli altri soci.
Se i soci che intendono esercitare la prelazione sono più di uno, la quota del cedente va ripartita tra tutti in misura proporzionale alle rispettive quote di capitale sociale.
Se ad esempio un socio partecipa al 3%, continua a partecipare nella stessa proporzione accresciuta della quota che viene ceduta.
Se c'è un unico socio, la compra tutta lui.
Il diritto di prelazione va esercitato entro 30 gg. dall'ultima comunicazione.
Decorso il termine, senza opposizione, il socio può cedere la quota al terzo entro 4 mesi decorsi i quali rientra la prelazione.
Secondo questo statuto il socio ha 4 mesi per cedere la quota.
Se non lo fa, ritorna la prelazione e deve fare un'altra notificazione.
Art.11. Morte del socio.
In caso di morte di uno dei soci, gli altri devono liquidare la quota agli eredi, a meno che preferiscano sciogliere la società ovvero continuarla con gli eredi stessi e questi vi acconsentano.
Non si distingue tra accomandante e accomandatario.
Meglio però chiedere ai clienti.
Per agevolare la trasmissibilità della quota del socio accomandante, si può applicare il principio legale per cui le quote si trasferiscono liberamente in caso di morte.
La legge per gli accomandanti prevede la regola della maggioranza nel caso di trasferimento tra vivi.
Qui invece si applica l'art.2284.
L'art.2284 è riferito in realtà ai soli soci accomandatari. La legge è stata derogata.
In realtà per l'accomandante il regime è più semplificato:
libera trasferibilità se per causa di morte
a maggioranza se tra vivi
Qui non è stato applicato l'art.2322 8che è derogabile) perché non si è distinto tra soci di capitali e soci amministratori. C'è uniformità di trattamento per le quote dell'accomandante e dell'accomandatario.
Art.12. Recesso del socio.
Ogni socio può recedere dalla società in qualunque tempo, ma se il recesso avviene prima di un quinquennio da quando egli ha assunto la partecipazione sociale e non è dovuto al verificarsi . della causa indicata all'art.10 del presente statuto di una delle cause previste dall'art.2285 del C.c., la somma determinata per la liquidazione della quota a norma didell'art.14 del presente statuto è ridotta del 15%.
Il recesso è esercitato con dichiarazione notificata a mezzo di raccomandata con AR agli altri soci ed ha effetto decorsi 3 mesi dalla data dell'ultima spedizione.
Il socio che entra in società deve garantire che ci resti 5 anni.
Se recede prima, la regola è quella descritta sopra.
Questo non vale nel caso di recesso all'art.10 e nemmeno nel caso di giusta causa (art.2285).
Bisogna dichiarare il recesso con lettera con AR e ha effetto dopo 3 mesi dall'ultima spedizione.
Qui i soci hanno regolato autonomamente il recesso, come la legge consente loro di fare.
Art.13. Esclusione del socio.
Il socio può essere escluso dalla società nei casi e con il procedimento indicati negli artt.2286-2287 del C.c.; è escluso di diritto nei casi previsti dall'art.2288 del codice stesso.
Si richiama la legge.
Spesso si trovano enunciate nello statuto le norme legali per completezza, poiché non tutti conoscono le leggi.
Art.14. Liquidazione della quota al socio uscente o ai suoi successori.
Il socio uscente, o i suoi successori, sono soltanto creditori di una somma di denaro rappresentativa del valore della quota determinato in proporzione della situazione patrimoniale della società nel giorno in cui i verifica lo scioglimento del rapporto.
Se vi sono operazioni in corso, il socio (o i suoi successori) partecipano agli utili e alle perdite inerenti alle operazioni medesime.
Il amento della quota spettante al socio (o ai suoi successori) dev'essere fatto entro 1 anno dal giorno in cui si verifica lo scioglimento del rapporto, in 3 rate di pari importo senza interessi.
Le disposizioni del presente articolo non si applicano se nei 30 gg. seguenti lo scioglimento del rapporto sociale i soci rimasti deliberano lo scioglimento della società. In questo caso la quota di spettanza del socio uscente (o dei suoi successori) è determinata e ata alla chiusura della liquidazione.
Si applica l'art.2289, il quale però prevede che la quota uscente deve essere liquidata entro 6 mesi, mentre qui hanno messo 1 anno.
Di nuovo prevale lo scioglimento della società su quello particolare del vincolo.
Quando si ha scioglimento del vincolo per esclusione, recesso o morte la quota è liquidata durante la vita della società, quando la società si scioglie bisogna attendere gli esiti delle operazioni di liquidazione per avere liquidata la propria quota.
Prevale lo scioglimento generale della società.
Art.15. Divieto di concorrenza.
Il socio non può, senza il consenso degli altri soci esercitare per conto proprio o altrui un'attività concorrente con quella della società, né partecipare come socio illimitatamente responsabile ad altra società concorrente, salva la presunzione di consenso prevista dal 2° comma dell'art.2301 del C.c.
Il divieto di concorrenza vale solo per le società di persone commerciali.
Quindi non vale per la s.s.
È ripetuta la regola a titolo di completezza. Così come l'art.16.
Art.17. Controllo dei soci e bilancio.
I soci accomandanti hanno diritto di avere dagli amministratori notizia dello svolgimento degli affari sociali, di consultare i documenti relativi all'amministrazione e di ottenere il bilancio annuale entro 3 mesi dalla chiusura dell'esercizio sociale.
Non è ribadito, ma ormai dottrina e giurisprudenza ritengono che l'accomandante abbia anche il potere di approvare il bilancio, poiché ciò non comporta un'ingerenza nella gestione, ma un controllo sull'operato altrui.
Secondo il Galgano sarebbe un atto di gestione, cioè approvare il bilancio comporta un atto di disposizione del patrimonio e quindi un atto di gestione e come tale inibito all'accomandante.
Tutti si sono opposti perché una cosa è gestire e una cosa è controllare l'operato altrui. In quest'ottica il Cottino dice che anche la nomina degli accomandatari sarebbe un atto di gestione.
Art.18. Distribuzione degli utili.
In presenza di perdite di capitale la ripartizione degli utili non è consentita fino a che il capitale non sia reintegrato o ridotto in misura
corrispondente alle perdite stesse.
La percentuale di utili da accantonare a riserva è determinata di comune accordo dai soci.
Gli utili di cui sia decisa la distribuzione spettano ai soci in proporzione delle rispettive quote, salvo diversa percentuale convenuta nell'atto costitutivo o in atti modificativi di esso.
Il medesimo criterio con cui si dividono gli utili vale per la ripartizione delle eventuali perdite.
Questa regola vale per la s.n.c. e la s.a.s. e non per la s.s.
La legge si preoccupa di dettare una tutela minima del capitale.
Se c'è perdita rilevante c'è divieto di distribuzione degli utili fino a che il capitale non sia ridotto o reintegrato.
È la maggioranza che decide se distribuire o accantonare nelle società di capitali.
È la maggioranza assembleare che decide.
Per questo si forma un problema di tutela del socio di minoranza che invece vuole l'utile tutto e subito, poiché ha interessi contrari a quelli della maggioranza. Però la maggioranza non ha potere illimitato.
Se non distribuisce l'utile reiteratamente senza dare adeguata motivazione, questa delibera sarà sottoposta ad un regime di impugnativa da parte dei soci di minoranza.
Qui il problema non si pone perché si decide all'unanimità.
Ad esempio tutti decidono di accantonare a riserva. Se solo uno dice no, allora l'utile va distribuito.
Nelle società di persone, diversamente da quelle di capitali, almeno sulla carta, esiste un vero e proprio diritto alla distribuzione dell'utile.
Art.19. Scioglimento.
Intervenendo causa di scioglimento la liquidazione è fatta da uno o più liquidatori anche non soci nominati con il consenso di tutti i soci, o in difetto dal presidente del Tribunale, a meno che i soci non decidano d'accordo il modo di liquidare il patrimonio sociale o - se non vi sono attività da realizzare né passività da estinguere - l'immediata cessazione della società senza fase di liquidazione.
Non è possibile avere un terzo amministratore, ma è possibile avere un terzo liquidatore perché il liquidatore non è un amministratore.
Per le società di persone il procedimento di liquidazione ci deve essere, ma le modalità possono essere scelte dai soci.
Non è detto che avvenga tramite nomina dei liquidatori, né tramite l'iter previsto dalla legge.
La causa di scioglimento non è decisa dai soci, ma interviene di diritto.
La clausola della mancanza della liquidazione è discussa.
È considerato legittimo omettere il procedimento se non ci sono né attività né passività.
C'è chi sostiene che per dire se non ci sono attività né passività bisogna fare una liquidazione.
La legge dice che è facoltativa la modalità di liquidazione, non la liquidazione stessa.
Art.20. Clausola compromissoria.
Tutte le controversie nascenti dai rapporti sociali, salvo quelle che non possono formare oggetto di compromesso, sono sottoposte ad arbitrato rituale, rapido o tradizionale a seconda del valore, sotto l'osservanza del Regolamento della Camera arbitrale del Piemonte da intendersi qui integralmente richiamato.
È clausola che si trova sia nelle società di persone sia di capitali.
In caso di controversie:
tra soci
tra soci e la società
si va davanti all'arbitro e non la giudice.
La nozione legislativa della società per azioni si trova nell'art.2325:
Nella società per azioni per le obbligazioni sociali risponde soltanto la società con il suo patrimonio.
Le quote di partecipazione dei soci sono rappresentate da azioni.
Il primo dato elencato dal legislatore, quello secondo il quale delle obbligazioni sociali risponde la società con il suo patrimonio, vale a differenziare la S.p.A. dalla S.a.p.a.
In quest'ultima i 2 tipi di soci, gli accomandatari e gli accomandanti, sono entrambi azionisti, ma solo per l'accomandante vale la regola che per le obbligazioni sociali risponde solo la società con il suo patrimonio.
Questa regola non vale per l'accomandatario che è socio illimitatamente responsabile.
Il secondo comma, per cui le quote di partecipazione sono rappresentate da zioni, serve a distinguere la s.p.a. dalla s.r.l., nella quale le quote di partecipazione dei soci non possono essere rappresentate da azioni.
Il modello legislativo della S.p.A. si adatta sia alla piccola, sia alla media sia alle grandi S.p.a., fino ad arrivare alle società quotate.
Tutta la disciplina sulle società quotate è stata recentemente modificata con la legge della "Corporate Governance", per alcuni punti sulla falsa riga della disciplina USA.
Oggi per la società quotata in borsa si deve parlare di sottotipo di società per azioni, perché la società quotata si distingue a tal punto dalla società che non è quotata da conurare all'interno del tipo S.p.A. un sottotipo.
Perché sottotipo?
Perché si segue l'ordinamento corporativo generale della S.p.A., ma con delle differenze così vistose per certi aspetti da conurare un sottotipo.
Tutte le società di capitali godono di autonomia patrimoniale perfetta.
Tranne nel caso dell'unico azionista, delle obbligazioni sociali rispondo le società con il proprio patrimonio.
L'unico azionista si vede addossata la responsabilità illimitata quasi a titolo di sanzione, ma non è un socio istituzionalmente a responsabilità illimitata, come i soci di società di persone.
Con l'iscrizione nel registro delle imprese la società nasce, acquista personalità giuridica e la persona giuridica è persona formalmente distinta dalle singole persone che compongono la società e per le quali vale la regola della spersonalizzazione più assoluta.
Non rileva più la persona del socio, ma si conta in quanto titolari di una frazione del capitale sociale, cioè in quanto proprietari di azioni.
La società è dotata di autonomia patrimoniale perfetta perché i 2 aspetti della:
localizzazione delle obbligazioni sociali nel patrimonio sociale
insensibilità delle obbligazioni del singolo rispetto alle obbligazioni sociali
è talmente accentuata da diventare piena e perfetta.
La regola è che delle obbligazioni sociali risponde la società con il suo patrimonio, dato il sistema di autonomia patrimoniale perfetta che caratterizza la persona giuridica distinta formalmente dalle persone dei singoli soci.
Lo schermo della personalità giuridica è molto importante poiché in certe circostanze viene usato e ci può essere anche un abuso per ottenere determinati vantaggi.
Qui non esiste la garanzia ulteriore offerta dal patrimonio del socio.
Ma i creditori sono salvaguardati con altri mezzi:
1. disciplina della effettività e integrità del capitale sociale: significa, che diversamente dalle società di persone, è dettato un capitale minimo per la costituzione della società
200.000.000 per S.p.A.
20.000.000 per S.r.l.
Ci sono varie norme che mirano a garantire l'effettività del valore del conferimento. Ad esempio tutti i conferimenti in natura vanno stimati per garantire l'effettività del capitale sociale e per garantire anche l'effettiva acquisizione alla società del capitale sottoscritto.
Ci sono poi varie norme volte a tutelare l'integrità del capitale sociale e va seguita obbligatoriamente in caso di riduzione del capitale per perdite.
Tutto ciò non accade per le società di persone.
2. la responsabilità limitata dei soci trovi un proprio bilanciamento nella rigida regola di organizzazione di tipo corporativo della S.p.A.
Necessariamente deve cioè esserci la presenza di più organi:
assemblea
amministratori
collegio sindacale
Questa è l'organizzazione corporativa.
Solo per la s.r.l. il collegio sindacale è facoltativo.
il singolo socio non ha diretti poteri di amministrazione e controllo, però con il suo voto può determinare la scelta dell'organo amministrativo.
Quindi ha poteri indiretti, poiché gli amministratori sono sempre la espressione della maggioranza assembleare che li ha eletti.
Esiste una regola molto importante secondo la quale, in ogni tempo, l'assemblea ordinaria può revocare gli amministratori, salvo il risarcimento del danno quando gli amministratori sono stati ingiustamente revocati e in tal caso rileva la giusta causa.
Se cambia la maggioranza assembleare, gli amministratori possono non piacere alla nuova maggioranza la quale può revocare gli amministratori anche se non hanno compiuto alcun inadempimento ai loro obblighi.
gli organi nominati cioè amministratori e sindaci rispondono in proprio delle loro azioni in quanto persone.
Esiste una responsabilità di amministratori e sindaci, mentre l'assemblea è un organo irresponsabile, non risponde nei confronti di nessuno.
Rispondono amministratori e sindaci a livello civile e penale
5. il funzionamento dell'assemblea è retto dal principio inderogabile della collegialità nella formazione delle volontà sociale e dal principio della maggioranza di capitale; non essendo possibile il conferimento di servizi non c'è maggioranza riferita alla partecipazione agli utili.
6. per facilitare l'adozione delle deliberazioni più importanti per la vita della società come nomina/revoca degli amministratori e approvazione del bilancio, la legge consente che l'assemblea ordinaria deliberi in 2° convocazione con una % minima di voti.
Ciò fa sì che sia più facile adottare delibere, che se non fossero adottate, paralizzerebbero la società.
Cosa sono le azioni?
Le uniche società di capitale che le emettono sono
s.p.a.
s.a.p.a.: anche se esistono 2 tipi di soci, accomandatari e accomandanti, sono entrambi azionisti
Azioni = quote di partecipazione del socio di S.p.A.
Hanno tutte uguale valore nominale (V.N.) e attribuiscono uguali diritti.
Es. V.N. di un'azione FIAT è £. 6.000 ciò vale per ogni singola azione.
Non si possono emettere azioni sotto il loro V.N.
Come avviene la divisione del capitale sociale nella S.p.A.?
La divisione del capitale è in parti e misura i diritti dei soci.
È operata secondo un criterio astratto matematico, cioè a prescindere da
persone dei soci
n° dei soci
Si divide cioè il capitale sociale sottoscritto secondo un'unità di misura che è il V.N. delle azione, il quale è liberamente predeterminato.
Es. capitale sottoscritto = 1.000
V.N. 10 (100 azioni del V.N. di 10)
Ogni parte ottenuta è un'azione ed è un'unità minima e indivisibile.
Significa che se divido l'azione al V.N. di 1.000, vuol dire che non si può scendere al disotto di 1.000 e non si può frazionare questo 1.000.
Se ho un'unica azione che vale 1.000, non si può scindere questo valore.
Semmai ci saranno 2 soggetti comproprietari.
Quindi in una S.p.A. un socio può essere titolare di 1, 100, 1.000 azioni, ma tutte le azioni sono entità distinte, autonome l'una dall'altra e tutte hanno lo stesso V.N. e attribuiscono al socio uguali diritti.
L'unità minima costituisce un valore indivisibile della partecipazione sociale; sotto quella non si può scendere.
Quando si dice che l'azionista possiede 10 azioni vuol dire che possiede 10 titoli di credito autonomi l'uno dall'altro.
Le azioni sono omogenee, hanno uguale V.N. e rappresentano il frazionamento del capitale sottoscritto diviso per il V.N.
E' un criterio astratto matematico che fa dividere il capitale sociale prescindendo dalle persone e dal n° dei soci.
Diverso è il criterio seguito per le s.r.l. che non ha azioni.
La divisione avviene proprio in funzione del n° dei soci e non delle azioni.
Varia a seconda dell'ammontare del capitale sottoscritto.
Es. chi ha sottoscritto capitale per 1.000 avrà un'unica quota che vale 1.000
Per consentire l'esercizio del diritto di voto si stabilisce che la quota sia minimo di £.1.000 e sia, se diverso ammontare, deve rispettare il minimo di £.1.000 e deve essere un ammontare che è un multiplo di £.1.000.
Che differenza c'è tra quota di s.r.l. e azioni?
È diverso il criterio di divisione tra i soci.
Nelle S.p.A. si segue un criterio astratto matematico che prescinde dalle persone dei soci e dal loro n°.
Ogni azione è autonoma rispetto all'altra.
Ogni azione è uguale al V.N. e non può essere emesso al di sotto di esso.
È indivisibile perché il V.N. è un'entità minima al di sotto della quale non si può scendere.
Nella s.r.l., proprio per la più accentuata personalizzazione della società, la divisione è operata in funzione delle persone e del n° dei soci e quindi ogni sottoscrittore diventa titolare di una sola unica quota di s.r.l. che può essere di diverso ammontare.
La quota minima è di £.1.000.
C'è il socio che sottoscrive £.1.000 e quello che sottoscrive £.10.000.
Ma la quota è unica, non ha 10 quote ognuna di £.1.000.
Chi ha sottoscritto capitale che vale 100.000 avrà quota che vale 100.000.
Chi ha sottoscritto solo per 1.000 avrà quota che vale 1.000.
Solo per consentire la determinazione di quanti voti ha un socio in assemblea è previsto che l aquota sia £.1.000 o di un suo multiplo.
Ma non vuol dire avere tante quotine che valgono ognuna £.1.000. Questo si applica alle azioni.
Es. A sottoscrive per £.10.000.
B sottoscrive per £. 1.000.
La quota è unica, ma non è vero che ognuno di noi ha un solo voto perché la quota è unica. Ciò sarebbe contrario a ogni sistema di formazione della volontà sociale.
Al momento del voto A avrà 10 voti perché ogni £.1.000 dà diritto ad 1 voto.
Invece B avrà 1 solo voto.
Ogni azione dà un diritto di voto.
Quindi l'azionista che ha 10 azioni ha 10 voti.
Chi ha una quota di £10.000 ha 10 voti lo stesso ma non perché ha 10 quotine di £.1.000 l'una. Questo significherebbe rafurarsi la s.r.l. come una s.p.A.
La quota della s.r.l. è unica come nelle società di persone, solo che per la votazione in assemblea il legislatore ha stabilito che, per sapere quanti voti ha un socio, la quota ha un valore minimo di £.1.000 e l'ammontare della quota può arrivare fino ad un multiplo di £.1.000.
Inoltre, a differenza dell'azione, la quota può essere divisa purché nella cessione si rispetti sempre la regola del multiplo delle £.1.000.
Così mentre un'azione è indivisibile perché al di sotto di quel V.N. minimo non si può scendere, la quota di s.r.l. di £.10.000 può essere divisa.
Come viene divisa?
Viene divisa o perché il socio cede parte della sua quota ad un altro soggetto o perché a causa di morte la quota va in eredità agli eredi che possono mantenere la quota in comproprietà o dividersela.
La quota può essere di diverso ammontare, mentre le azioni sono partecipazioni omogenee e standard che attribuiscono uguali diritti e hanno uguale V.N.; ne consegue che sono un'unità minima indivisibile e autonoma l'una rispetto all'altra.
Per l'attribuzione del diritto di voto si guarda :
al n° di azioni possedute dal socio nella S.p.A.
all'ammontare della quota nella s.r.l.: è attribuito un voto per ogni £.1.000.
Se un socio ha una quota di £10.000 ha 10 voti.
Se un socio ha 10 azioni avrà 10 voti perché ogni azione ne attribuisce uno.
DIRITTO COMMERCIALE
I conferimenti nelle società di persone si possono definire quali quei beni presunti allo svolgimento dell'attività sociale che i soci intendono vincolare, proprio per effetto dell'autonomia loro consentita, nel momento della stipulazione del contratto. Si trasferiscono dal patrimonio del socio al patrimonio della società e questo vale per tutti i tipi di società. Abbiamo detto che tutti i tipi di società sono dotati di autonomia patrimoniale e questo vincolo di destinazione è o più o meno forte a seconda del tipo di società che si analizza.
Le differenze di disciplina fra le società di persone e di capitali si possono riallacciare al diverso ruolo che svolgono i due tipi sociali del patrimonio sociale.
Nelle società di capitali questo patrimonio rappresenta l'unica garanzia dei creditori sociali, l'unica eccezione riguarda giusta causa accomandatari. Nelle società di persone abbiamo un socio illimitatamente responsabile per le obbligazioni sociali e quindi il patrimonio sociale non è mai l'unica garanzia per i creditori sociali ma accanto ad essa abbiamo la garanzia offerta dal patrimonio personale del singolo socio a responsabilità illimitata.
Ecco perché si spiega come questo viene ad incidere anche sulla differenza profonda in relazione all'oggetto del conferimento. Perché abbiamo già visto nelle società personali che qualunque entità che, sia utile al raggiungimento dell'oggetto sociale conterrà l'oggetto del conferimento. Qual è l'oggetto del conferimenti nelle società di persone? Denaro, beni mobili ed immobili. Si deve ricordare che quando si parla di beni immobili e mobili, un conto è dire che io conferisco .. il mobile è l'oggetto del conferimento, ma è da considerare anche il titolo del conferimento, perché questi immobili possono essere conferiti a titolo di proprietà, di godimento personale o reale, quindi c'è stato un lutto, una cessione della nuda proprietà. Quindi bisogna tenere ben presente che vi è l'oggetto del conferimento che è il bene e il titolo del conferimento.
Mentre nelle società di persone, proprio per questa diversità assunta dal patrimonio, ogni entità è utile al raggiungimento dell'oggetto sociale, questa stessa entità non la troviamo nelle società di capitale perché la disciplina è improntata a forti restrizioni, perché è fatta in funzione della tutela dei creditori sociali.
Nelle società di capitali ci sono delle restrizioni perché si restringono le entità conferibili. Non c'è libertà perché c'è una diversa funzione del patrimonio in relazione alla tutela offerta ai creditori e quindi non c'è altrettanta libertà nell'individuare l'oggetto del conferimento.
Art.2343, 3° comma, vedremo che ci dice che non possono formare oggetto di conferimento le prestazioni di opere e servizi, ma queste le abbiamo trovate quale oggetto illecito di conferimento nelle società di persone, perché avevamo detto che ogni entità utile al raggiungimento dell'oggetto sociale può essere conferito. Ecco una prima restrizione, anche il conferimento di servizi può essere utile al raggiungimento dell'oggetto sociale, però non possono costituire oggetto di conferimento perché non sono ascrivibili a capitale, sono difficilmente monetizzabili e valutabili e quindi non costituiscono un idonea garanzia dei creditori, così come il legislatore ha voluto dettando tutta una serie di regole volte al principio di elevata formazione del capitale.
Insieme ai conferimenti non ascrivibili a capitale delle società di persone, anche la società semplice potrebbe non avercelo il capitale, potrebbe essere formata da tutti i soci che conferiscono servizi ( non potrebbe la S.n.c. in accomandita ma la società semplice, si).
Ci sono dei principi che sono comuni a tutti i tipi di società, e cioè ci sono dei conferimenti che sono essenziali per tutti i tipi di società perché consentono di realizzare la causa del contratto di società. Quindi senza questi conferimenti non è possibile svolgere un'attività economica che si era proposta di compiere al fine poi di conferire e di restituire il lucro secondo la causa del contratto. Ed è giusto altresì che il conferimento faccia carico a ciascun socio. Non ci possono essere soci che non effettuano alcun conferimento. Bisogna spiegare il perché. Ci possono essere anche soci illimitatamente responsabili e questi che garanzia occupano? Il legislatore ha voluto cercare di fare in modo che tutti i membri del gruppo partecipassero al rischio di impresa. Quindi in tutti i tipi di società c'è questa strumentalità del conferimento rispetto alla realizzazione della causa del contratto di società.
Quando si trasferisce un bene o del denaro in capo alla società a titolo di conferimento, tutte le società ne hanno un mutamento qualitativo nell'ambito del patrimonio del socio, perché nel patrimonio del socio non troveremo più quel bene e quel denaro ma troveremo una quota di partecipazione al capitale. Questo perché il trasferimento del bene è un servizio conferito dal patrimonio del socio al patrimonio della società. L'entità bene o denaro viene sostituita dalla titolarità di una quota. Quindi c'è anche un mutamento nei confronti dei creditori personali dei singoli soci.
Abbiamo visto come nelle società di persone si atteggia questo aspetto dell'autonomia patrimoniale, cioè in che modo e se possibile venga aggredita la singola quota dal creditore personale. Perché c'è questa differenza? Il conferimento non può essere mai sottratto da questo suo vincolo della destinazione. Ora se c'è il fallimento della società si arriverà alla divisione del residuo tra i soci, dopo aver ato i creditori sociali. Questo vincolo di destinazione è un vincolo che hanno i conferimenti. Tanto che quando studieremo le voci del patrimonio netto nelle società di capitale vedremo che il capitale sociale nominale è la parte indisponibile del netto. Indisponibile perché non si può disporre in via anticipata del conferimento, può essere sanzionato penalmente,
DETERMINAZIONE E VALUTAZIONE DEI CONFERIMENTI
Per quanto concerne la determinazione e la valutazione dei conferimenti, nelle società semplici la legge ci dice che i conferimenti siano determinati nel contratto, ma non ci dice che devono essere anche valutati, questo lo si desume dall'art. 2263.
Nelle società in nome collettivo (S.a.s.), invece, non si può procedere ad iscrizione nel registro delle imprese in mancanza di una determinazione di valutazione del singolo conferimento.
Nelle società di capitale la determinazione e la valutazione dei conferimenti sono innanzitutto requisiti dell'atto costitutivo, (art. 2338 n° 4-5-6, art. 2475 n° 4-5) quindi la loro mancanza comporta addirittura la nullità della società (art. 2332 n° 5).
Altra regola, già detta, è che i conferimenti vanno stabiliti all'atto di costituzione della società e non c'è un obbligo del socio di effettuare, durante la vita della società, altre prestazioni in aggiunta a quelle alle quali il socio si è obbligato nel momento in cui è stato stipulato il contratto sociale. Quindi non si può obbligare il socio a versare a titolo di conferimento durante la società, prestazione aggiuntive oltre a quelle per le quali si è obbligato inizialmente.
Altra regola che è strettamente enunciata nelle società di capitali, che è però un principio applicabile anche alle società di persone è quello seguente: "nel silenzio del contratto si presume che il conferimento debba essere effettuato in denaro". Regola specifica perché dettata esplicitamente dall'art. 2342, 1° comma, per le società di capitale, ma ad analoga conclusione si arriva anche con riferimento alle società di persone in base al disposto dell'art. 2280, 2° comma: "se i fondi disponibili risultano insufficienti per il amento dei debiti sociali, i liquidatori possono chiedere ai soci i versamenti ancora dovuti sulle rispettive quote e, se occorre, le somme necessarie, nei limiti della rispettiva responsabilità e in proporzione della parte di ciascuno nelle perdite. Nella stessa proporzione si ripartisce tra i soci il debito del socio insolvente". Si parla di versamenti ancora dovuti. Anche se per le società di persone non esiste una norma come quella dell'art. 2342, 1° comma, che dice, con riferimento esclusivo alle società di capitale, che ove nulla è detto il conferimento va fatto in denaro, questo è un principio generale che vale anche per le società di persone. E' un principio generale perché il denaro è l'entità che meglio assolve a questo principio di strumento per la realizzazione dell'attività sociale, è un bene facilmente trasformabile.
CONCETTO DI CAPITALE SOCIALE NOMINALE
In tutti i tipi di società la valutazione iniziale dei conferimenti si riflette nella nozione di capitale sociale nominale. Questo esprime in termini monetari l'ammontare del patrimonio sociale che i soci intendono vincolare allo svolgimento dell'attività sociale e di cui pertanto proprio in funzione di questo vincolo non possono riappropriarsene durante la vita della società (attendendo il fallimento della società o la modifica del contratto). Cos'è che i soci possono suddividersi durante la vita della società? Soltanto l'utile, che è la cifra data dalla differenza tra il patrimonio sociale al netto delle passività e il capitale società nominale. Se questa differenza è negativa si ha una perdita. In questo caso non si può procedere alla distribuzione degli utili tra i soci fino a quando il patrimonio netto non supera di nuovo la soglia del capitale nominale, oppure il capitale nominale non venga ridotto con conseguente assorbimento delle perdite. Quindi per procedere alla distribuzione degli utili tra i soci bisogna che in bilancio le poste attive e reali siano superiori alla somma risultante dalle poste attive e reali aumentate della cifra del capitale sociale nominale. La cifra del capitale sociale nominale è anch'essa una posta ideale del passivo e deve essere compensata da attività reali che abbiano al minimo un valore corrispondente, altrimenti gli utili non possono essere distribuiti.
INDICAZIONE DEL CAPITALE SOCIALE NOMINALE
Nelle società di persone la mancata indicazione del capitale sociale nominale (nella S.n.c. e nella società in accomandita semplice) non incide su problemi di iscrizione dell'atto costitutivo e tanto meno di validità dello stesso. Diventa semplicemente una condizione di irregolarità.
Nelle società di capitali la mancata indicazione dell'ammontare del capitale sociale nominale impedisce l'omologa e l'acquisto della personalità giuridica, art. 2328 n° 4. Se avviene ugualmente l'iscrizione questa provoca la nullità della società ai sensi dell'art. 2332 n°5.
Questa differenza di disciplina è dettata dalla differente disciplina in tema di protezione dei territori che si ha nelle società di persone e di capitale. Quindi dovremo tenere presente che c'è una forte differenza di disciplina tra il patrimonio dell'una e dell'altra e questo concetto di tutela dei territori nel regime dei conferimenti va studiato nelle società di capitele tenendo presente che in queste non esistono società a responsabilità illimitata e quindi esistono società che rispondono esclusivamente con il proprio patrimonio.
CONCETTO DI CAPITALE SOCIALE NOMINALE IN RELAZIONE ALLE SOCIETÀ DI CAPITALE
Prima regola, nelle società di capitale che nelle società di persone, le norme sulla formazione del capitale sociale nominale sono inderogabili, perché il capitale sociale nominale assolve in modo più intenso al suo specifico ruolo di protezione degli interessi dei creditori.
Quindi vedremo tutte le norme e vedremo che il legislatore ha alcune preoccupazione. Si preoccupa che non vi sia una sopravvalutazione del capitale sociale nominale della società. Questo lo fa sia al momento della costituzione della società sia nel prosieguo dell'attività sociale.
Vedremo che il capitale non può essere inferiore a dei limiti stabiliti per legge inderogabilmente e che poi se si va al di sotto di quel minimo vi sono delle procedure inderogabili da seguire.
Innanzitutto vi è questa importanza che non vi sia una sopravvalutazione del capitale sociale nominale. A questo risponde tutta la disciplina legislativa che regola la capitalizzazione dei conferimenti non in denaro nelle società di capitale, cioè i conferimenti dei beni in natura e dei crediti. Proprio perché non vi sia questa sopravvalutazione, vedremo, che la valutazione di questi conferimenti è affidata ad un terzo esperto designato dal presidente del tribunale, non solo ma il procedimento di stima è rigoroso ed inderogabile. In relazione agli stessi beni, nelle società di persone non c'è un procedimento rigido di valutazione, ma la valutazione è rimessa alla discrezionalità dei soci. Come vedremo ci sono poi dei conferimenti e c'è un principio generale che indica che non possono formare oggetto di conferimento le prestazioni di opera e di servizi. La 2° direttiva CEE, poi, in realtà, su possibile oggetto di conferimento parlava di tutti i beni suscettibili di una valutazione economica certa, e questo poi può essere un criterio per vedere quali entità possono essere conferibili o no. La nostra legge ci detta un criterio rigido di ciò che non può essere conferito, non possono formare oggetto di conferimento prestazioni di opere e di servizio, ci detta poi delle regole relative ai conferimenti in natura, non solo per la stima ma anche per l'effettività dell'acquisizione dei beni nei confronti della società.
Anche il patrimonio sociale non deve essere sovrastimato durante la vita della società, quindi per evitare una sovrastima del patrimonio sociale vigono le norme dettate in tema di valutazione delle poste di bilancio periodico. Questi si chiamano criteri legali o prudenziali o di sottostima e mirano ad evitare la sovrastima del capitale.
Di nuovo sono previsti dei minimi di capitale, 200 milioni per la S.p.A., società in accomandita per azioni, e 20 milioni per la S.r.l., nessun minimo è previsto per le società personali. Ecco perché quando vedremo le trasformazioni, una società a responsabilità illimitata con più di 20 milioni potrebbe evitare lo scioglimento trasformandosi in una S.n.c. che non necessita di alcun minimo di capitale.
Dopo la costituzione, se per effetto di perdite di oltre 1/3 del capitale, il patrimonio risulti inferiore a questo minimo di 200 milioni l'art. 2447 ci dice: "Se, per la perdita di oltre 1/3 del capitale, questo si riduce al di sotto del minimo stabilito dall'art. 2327, gli amministratori devono senza indugio convocare l'assemblea per deliberare la riduzione del capitale e il contemporaneo aumento dello stesso ad una cifra non inferiore al detto minimo, o la trasformazione della società". In mancanza di queste delibere si produce lo scioglimento della società. Cosa significa questa norma? Partendo dal minimi di capitale, cosa succede quando in un momento successivo alla fase costitutiva per effetto di perdite di capitale di oltre 1/3, il patrimonio risulta inferiore al capitale sociale nominale minimo? A questo punto l'assemblea deve essere immediatamente convocata dagli amministratori e ci sono deliberazioni alternative: si può o ridurre o aumentare, ricapitalizzare la società o trasformare la società in una società che necessita capitale minore (da S.p.A. in S.r.l.). Se non si adottano le soluzioni precedenti la società è rivolta inevitabilmente verso lo scioglimento. Il capitale sociale nominale non deve neanche trarre in inganno i creditori circa l'effettiva consistenza del patrimonio sociale. Questo deve mantenersi in un valore pari almeno ai 2/3 rispetto al capitale sociale nominale, questo perché se si riduce al di sotto di tale rapporto e vi rimane fino all'esercizio successivo, rispetto a quello in cui la perdita si è verificata bisogna ridurre il capitale obbligatoriamente art. 2446.
A differenza del caso precedente in cui per effetto di perdite di oltre 1/3 si è scesi anche al di sotto del minimo di capitale, in questo caso il minimo non è indicato per legge ma lo si deduce dallo stesso art. 2446 nella delineazione del valore di 1/3. La legge si preoccupa non solo che non sia intaccato il minimo ma anche che del rapporto tra capitale e patrimonio in modo da assicurare, al fine di non ingannare i creditori, di cercare di realizzare l'obbiettiva consistenza del patrimonio sociale. Come lo fa? Il patrimonio sociale deve costantemente mantenersi ad un valore pari almeno ai 2/3 del capitale sociale nominale. Perché pari almeno ai 2/3 del capitale? Perché la legge dice: " se per effetto di perdite di oltre 1/3" art. 2446, vuol dire semplicemente che il patrimonio sociale deve costantemente mantenersi ad un valore pari ad almeno 2/3 del capitale sociale nominale. Se si riduce al di sotto di tale rapporto e vi rimane fino all'esercizio successivo occorre obbligatoriamente procedere ad una riduzione del capitale per adeguarlo al valore del patrimonio effettivo.
Nelle società di persone la riduzione di capitale è sempre facoltativa.
Nelle società di capitale la partecipazione del socio è rappresentata da azioni o quote che sono niente altro che delle frazioni del capitale sociale nominale, quindi non possono essere attribuite ne azioni ne quote, se non si fa un conferimento di capitale, non si effettuano prestazioni non ammissibili a capitale, e non sono ammissibili le prestazioni di opere e servizi, proprio per questo motivo.
Non si potrebbe più dire che si assolve alla funzione di tutela dei creditori se si permettesse il conferimento di prestazioni di opere e servizi. Non solo, ma quando vedremo tutti i poteri dei soci all'interno della società, vedremo che questa frazione di partecipazione al capitale è importante per definire tutti i poteri del socio. Si vota in relazione al numero di azioni possedute nelle società per azioni. Si vota in relazione all'entità della quota conferita nelle S.r.l.. Abbiamo poi visto nelle società personali ed in alcune norme, soprattutto in tema di accomandita semplice, alcune volte si parla di voto per teste. Non solo in altri casi si calcola la maggioranza in base alla quota di partecipazione agli utili e non al capitale in questo caso ci possono essere soci di opera o di servizio che hanno diritto agli utili senza essere soci di capitale. Se si fosse rapportata l'entità della partecipazione al capitale questi soci non avrebbero potuto votare. Nelle società di capitale questo non può accadere in quanto esistono solo soci di capitale e non esistono conferimenti non ascrivibili a capitale. Art. 2342: "conferimenti. Se nell'atto costitutivo non è stabilito diversamente, il conferimento deve farsi in denaro. Per i conferimenti di beni in natura e di crediti si seguono le disposizioni degli art. 2254 e 2255. Le azioni corrispondenti a tali conferimento devono essere integralmente liberate al momento della sottoscrizione. Non possono formare oggetto di conferimento prestazioni di opera e di servizi". Questa regola la troviamo nelle società di capitale ma vale anche per le società di persone, perché in caso di liquidazione, i liquidatori possono chiedere i versamenti ancora dovuti. Quindi non esiste un bene di conferimento in una forma analoga, ma da una lettura sistematica si rileva che anche in quelle società vige lo stesso principio.
Cosa vuol dire che se nell'atto costitutivo non è stabilito diversamente i conferimenti vanno fatti in denaro? Significa che per avere la possibilità di conferire beni in natura bisogna che vi sia una esplicita clausola dell'atto costitutivo o in ogni sua modifica.
Il primo principio ispiratore di queste norme è quello che bisogna garantire che i conferimenti promessi dai soci vengano effettivamente acquisiti dalla società. Vige questo principio di effettività. Bisogna inoltre garantire l'esatta formazione del capitale sociale, che il valore dei beni conferiti dai soci alla società sia veritiero, perché a fronte di questo conferimento vengono poi emesse azioni poi di uguale valore nominale. Per ciò che riguarda il principio di effettività del bene alla società, tutto il principio ispiratore è quello dell'esatta formazione del capitale sociale. Riguardo i conferimento in denaro il principio di effettività è nei 3/10 in cui si richiede l'immediato versamento. Per il resto ci possono essere delle obbligazioni dei soci che secondo il richiamo dei decimi gli amministratori richiedono durante la vita della società. L'organo amministrativo che avendo ancora versamenti da esigere, perché ci sono delle obbligazioni inadempiute, va ad indebitarsi verso una banca senza prima aver richiesto i versamenti ancora dovuti, non sarà certo esente da una responsabilità.
DIRITTO COMMERCIALE
Quando abbiamo parlato dell'ipotesi di autonomia statutaria inteso alle maggioranze di quorum, bisogna guardare all'art.2486 in tema di s.r.l. per confrontarlo con le norme in tema di S.p.A. C'è ancora una profonda differenza rispetto al regime delle delibere della S.p.A.
Per evitare di riconvocare l'assemblea nel caso in cui l'assemblea andasse deserta, è meglio inserire la previsione di una seconda convocazione.
Con riferimento alla S.p.A. la 2° convocazione è prevista dalla legge.
Con riferimento alla s.r.l., non vi è menzione perché la 2° convocazione facilita l'adozione di delibere in un modello improntato prevalentemente dal principio dell'assenteismo dei soci.
Il modello che il legislatore aveva in mente, con riferimento alla s.r.l., era un modello dove viceversa si presumeva che, per la prevalenza dell'aspetto personalistico, il socio dovesse intervenire. Quindi aveva in mente un modello di società dove il socio doveva essere presente. Ecco perché non si è preoccupato Il D.L. 469/97: conferimento a regioni ed a enti locali di funzioni e compiti in materia di mercato del lavoro.
enucleare la 2° convocazione.
È vero che ci possono essere s.r.l. caratterizzate da un maggior presenzialismo dei soci e comunque c'è un maggior presenzialismo che non nelle S.p.A. Comunque è meglio prevedere nello statuto la 2° convocazione.
Non prevedendola la legge, se nello statuto viene inserita una clausola che prevede la 2° convocazione stabilendo dei quorum, non si deve riconvocare l'assemblea in prima convocazione. La legge prevede con riferimento alla S.p.A. proprio la regola della 2° convocazione. Con riferimento alla s.r.l. non c'è un principio legale per cui l'assemblea può deliberare in 2° convocazione. Se la si vuole, è meglio prevederla per statuto.
Procedimento assembleare
L'assemblea delibera a maggioranza, però la volontà non può formarsi in modo qualunque come nelle società di persone.
La formazione della volontà è sottoposta ad un vero e proprio procedimento cioè una serie coordinata di atti preordinati all'adozione di quella determinata delibera, tanto è vero che avviene a formazione progressiva. Inoltre, questi atti sono destinati a succedersi nel tempo secondo una cronologia che va rispettata dai soci quando adottano questa delibera, perché il legislatore la prevede in modo cogente.
Il legislatore dà determinate cadenze:
R convocazione
R riunione
R discussione
R contestuale votazione
R verbalizzazione
Questo meccanismo è inderogabile per le società di capitali e che potrebbe anche essere adottato per le società di persone (ma solo se ci sia un patto sociale, altrimenti il principio è quello della libera formazione della volontà).
Il motivo per cui il legislatore ha sentito il bisogno di scandire le varie fasi della formazione della volontà è stato studiato.
Sono stati individuati vari motivi:
per alcuni la ratio di questo procedimento starebbe in una funzione compositoria, cioè si tende a comporre l'interesse della maggioranza con quello della minoranza, in modo che anche la minoranza abbia il potere di influenzare le sorti delle decisioni.
Questa tesi lascia un po' insoddisfatti perché qualcuno ha obiettato che un'alterità tra maggioranza e minoranza esiste anche nella società di persone
altri hanno detto che questo meccanismo così rigido farebbe da contrappeso al fatto che il potere è esercitato in un regime di responsabilità limitata. Si farebbe corrispondere al fatto che i soci rispondono solo nei limiti della quota conferita un potere limitato nel senso che la loro volontà deve sì formarsi per maggioranza ma secondo iter prestabilito dal legislatore
altra teoria è che il metodo collegiale della formazione della volontà sociale abbia un a funzione ponderatoria, cioè sarebbe uno strumento per garantire ai soci una decisione quanto più ponderata possibile sugli oggetti posti all'ordine del giorno, tenendo conto anche che i soggetti in assemblea non hanno tutti la stessa estrazione né lo stesso peso.
Questa funzione ponderatoria sarebbe svolta nell'interesse della società, cioè dei soci.
In generale la violazione di alcune delle norme che riguardano la formazione della volontà sociale è causa d'annullabilità. Questo vuol dire che solo i soggetti interni alla società possono far valere questo vizio e non i soggetti esterni, perché anche se si tratta di norme imperative, si ritiene che sono norme che portano ad annullabilità e, essendo norme imperative, si ritiene che non possano essere derogate dallo statuto.
Quali sono le singole fasi che scandiscono il procedimento di formazione della volontà, che portano ad arrivare ad una delibera che va qualificata come atto unilaterale plurisoggettivo.
Plurisoggettivo perché proviene da più soggetti, ma alla fine converge in un unico atto, cioè la delibera dei soci.
Vediamo le singole fasi di questo procedimento inderogabile:
CONVOCAZIONE
La finalità è quella di mettere in condizione ogni legittimato che voglia o possa intervenire in assemblea non solo di intervenire in assemblea personalmente o per mezzo di rappresentanza, ma anche di intervenire con conoscenza di causa circa gli argomenti di cui si discuterà in assemblea.
Questa parte è regolata dal legislatore innanzi tutto con l'individuazione dei soggetti cui compete la convocazione. Si tratta degli amministratori. Quando si parla d'amministratori s'intende
R amministratore unico
R o consiglio di amministrazione quando la convocazione avviene ad opera di un organo
amministrativo; quindi si ritiene che la delibera sia collegiale e perciò ci vuole una
delibera del consiglio.
Gli amministratori normalmente hanno la facoltà di provvedere alla convocazione dell'assemblea. Però gli amministratori sono tenuti a perseguire l'interesse della società e, in relazione a ciò, la facoltà può tramutarsi in obbligo.
Per evitare poi che gli amministratori siano inerti per colpa o dolo nel convocare l'assemblea, causando una paralisi dell'assemblea stessa, il legislatore individua una serie d'ipotesi in cui la convocazione è obbligatoria:
art.2364 2° comma: L'assemblea ordinaria deve essere convocata almeno 1 volta all'anno, entro 4 mesi dalla chiusura dell'esercizio sociale.
L'atto costitutivo può stabilire un termine maggiore, non superiore in ogni caso a 6 mesi, quando particolari esigenze lo richiedono.
1° caso in cui la convocazione è obbligatoria: approvazione del bilancio. Il termine può essere superiore, fino a 6 mesi, ma si deve darne motivazione.
art.2367 1° comma: Convocazione su richiesta della minoranza. Gli amministratori devono convocare senza ritardo l'assemblea, quando ne è fatta domanda da tanti soci che rappresentino almeno il quinto del capitale sociale e nella domanda sono indicati gli argomenti da trattare.
Se gli amministratori, o in loro vece i sindaci, non provvedono, la convocazione dell'assemblea è ordinata con decreto del presidente del tribunale, il quale designa la persona che deve presiederla.
Anche questa norma è espressione dei diritti che la legge riconosce alla minoranza. Questa norma viene ripetuta, con riferimento alle società quotate in borsa, dalla Legge Draghi e con % differenti.
Per tutte le società non quotate si applica l'art.2367: la richiesta di convocazione può essere fatta dal 20% del capitale sociale.
Per diritti della minoranza si intendono i diritti esercitati dal singolo socio. Il socio dissenziente nel caso in cui si modifica il contratto sociale ha diritto di recesso, il quale è diritto della minoranza, quest'ultima intesa come tutela del singolo soggetto.
Altre volte il legislatore accoglie una tutela della minoranza, perché c'è una % anche alta di capitale sociale che merita tutela. Uno di questi casi è proprio la convocazione su richiesta della minoranza. Se il 20 % del capitale lo richiede, gli amministratori devono convocare l'assemblea. Se non lo facessero e anche i sindaci fossero inadempienti, interverrebbe il presidente del tribunale.
Ci sono dunque dei casi in cui la legge tutela il diritto di un singolo socio o di una % del
capitale sociale. Quando la richiesta deve essere fatta da tanti soci che rappresentino il 20 % del capitale, il socio può anche essere uno solo. Non è detto che siano delle persone fisiche titolari di tante azioni che rappresentino questa %.
La tutela delle minoranze è data in alcuni casi ad un singolo soggetto, indipendentemente dalle azioni possedute. Quando un socio impugna una delibera perché è dissenziente, la impugna indipendentemente dal n° di azioni possedute. Basta anche una sola azione per poter proporre determinati diritti.
Altre volte il possesso di una sola azione non basta perché ci vuole una determinata % del capitale sociale. Ma anche in questo caso si parla di tutela delle minoranze.
art.2369 1° comma: Se i soci intervenuti non rappresentano complessivamente la parte di capitale richiesta dall'articolo precedente, l'assemblea deve essere nuovamente convocata.
art.2386 2° comma: sostituzione degli amministratori.
Se viene meno la maggioranza degli amministratori, quelli rimasti in carica devono convocare l'assemblea perché provveda alla sostituzione dei mancanti.
Senza la maggioranza non si può deliberare, quindi bisogna convocare obbligatoriamente l'assemblea perché provveda alla sostituzione dei mancanti.
art.2401 2° comma: Sostituzione: Se con i sindaci supplenti non si completa il collegio sindacale, deve essere convocata l'assemblea perché provveda all'integrazione del collegio medesimo.
art.2446 1° comma: Riduzione del capitale per perdite.
Quando risulta che il capitale è diminuito di oltre 1/3 in conseguenza di perdite, gli amministratori devono senza indugio convocare l'assemblea per gli opportuni provvedimenti
art.2447 : Se, per la perdita di oltre 1/3 del capitale, questo si riduce al di sotto del minimo stabilito dall'art.2327, gli amministratori devono senza indugio convocare l'assemblea per deliberare la riduzione del capitale ed il contemporaneo aumento del medesimo ad una cifra non inferiore al detto minimo, o la trasformazione della società.
art.2449: Quando si è verificato un fatto che determina lo scioglimento della società, gli amministratori devono nel termine di 30 gg. convocare l'assemblea per le deliberazioni relative alla liquidazione.
Le espressioni senza indugio si trova con riferimento alle perdite di capitale e con riferimento allo scioglimento della società. Il legislatore si preoccupa di stabilire i 30 gg. perché da quando si verifica un fatto che determina lo scioglimento della società, gli amministratori nono possono più compiere nuove operazioni. Se contravvengono a questo divieto divengono responsabili illimitatamente.
Il legislatore può prevedere che il potere di convocare l'assemblea faccia capo in via sostitutiva ad altri soggetti, nel caso gli amministratori non adempiano. Questi soggetti privati sono i sindaci. Altre volte sono soggetti pubblici, come nell'art.2367, perché se non provvedono né gli amministratori né i sindaci in via sostitutiva, interviene il presidente del tribunale. Ciò avviene proprio per tutelare l'interesse della minoranza. L'intervento del giudice in ambito societario è molto circoscritto perché normalmente sono i sindaci che in vece degli amministratori devono convocare l'assemblea.
Quali sono le modalità per convocare l'assemblea in una S.p.A.?
Bisogna considerare gli artt.2363 e 2366.
Art.2363: Luogo di convocazione dell'assemblea.
L'assemblea è convocata dagli amministratori nella sede della società, se l'atto costitutivo non dispone diversamente.
Art.2366: Formalità per la convocazione.
L'assemblea deve essere convocata dagli amministratori mediante avviso contenente l'indicazione del giorno, dell'ora e del luogo dell'adunanza e l'elenco delle materie da trattare.
Oltre a questo, altre indicazioni possono essere richieste da specifiche indicazioni di legge.
Vi è un caso particolare all'art.2445 2° comma: la norma tratta della riduzione del capitale esuberante. L'avviso di convocazione deve indicare le ragioni e le formalità della riduzione.
Le ragioni, oltre che nella delibera, devono essere contenute nell'avviso di convocazione.
Inoltre, l'aumento di capitale a amento qualora si escluda il diritto di opzione implica una delibera motivata, perché l'assemblea straordinaria deve spiegare perché esclude il diritto di opzione e deve spiegare che questa esclusione serve al fine del raggiungimento dell'oggetto sociale (art.2441).
L'avviso di convocazione nelle S.p.A. deve essere pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale almeno 15 gg. prima del giorno stabilito per l'adunanza. Termine che scende a 8 gg. per le convocazioni successive.
La convocazione effettuata dall'organo amministrativo e avviso sulla G.U. vale anche per la s.r.l.? No le formalità sono più spedite perché
art.2484: salvo diversa disposizione nell'atto costitutivo, l'assemblea deve essere convocata dagli amministratori con raccomandata spedita ai soci almeno 8 gg.
Prima dell'adunanza nel domicilio risultante dal libro dei soci.
La legge parla di spedizione e non di arrivo. Se ci fosse sciopero delle poste, quello che conta è il momento della spedizione e non del ricevimento.
Si sono adottate questi 2 diversi modi di convocare l'assemblea perché si presume che nella s.r.l. i soci partecipino alle assemblea e quindi è più facile farli intervenire in assemblea.
Riguardo l'ordine del giorno è sorta una questione sul grado di analiticità che esso deve possedere.
La funzione dell'ordine del giorno è quella di consentire che i soci arrivino preparati al voto, che sappiano su cosa vanno a votare. Questa funzione verrebbe meno se ci fosse una formulazione estremamente sintetica, come nel caso in cui su un avviso di convocazione c'era scritto solo "modifiche dell'atto costitutivo" senza spiegare di quali modifiche si trattasse. L'espressione è generica, bisogna vedere per quale articolo dell'atto costitutivo si deve votare.
Quindi sull'ordine del giorno deve essere contenuto l'argomento di cui si tratterà. Spesso è consentito che si possa deliberare su questioni strettamente consequenziali rispetto a quella su cui si è chiamati a decidere. Ad esempio si può deliberare l'azione di responsabilità a carico degli amministratori anche se non è prevista nell'ordine del giorno, in occasione dell'approvazione del bilancio.
L'inosservanza delle norme sulla convocazione può essere causa di
R inesistenza
R o annullabilità
della delibera.
Da quali vizi può essere affetta la delibera per problemi inerenti la convocazione?
In genere si ha invalidità della delibera.
C'è un solo caso in cui si parla di inesistenza: quando viene omessa la convocazione.
Quando non viene fatta la convocazione, e nonostante ciò si delibera, la delibera è inesistente perché non è riferibile a quell'adunanza.
Se la convocazione c'è ma è irregolare perché non segue lo schema prestabilito dalla legge, la delibera è annullabile.
Il tutto però potrebbe essere sanato.
L'inesistenza della delibera per mancata convocazione risulta sanata qualora si verifichino i presupposti dell'assemblea totalitaria, perché si è ugualmente raggiunto l'obiettivo che queste norme hanno di mira.
L'assemblea totalitaria è quell'assemblea dove è rappresentato per intero tutto il capitale sociale, sono intervenuti tutti gli amministratori e tutti i sindaci. Così è sanato il vizio della omessa convocazione perché si è raggiunto lo stesso effetto che la convocazione si proponeva di raggiungere. A meno che qualcuno dei soci si opponga alla discussione degli argomenti sui quali non si ritenga sufficientemente informato, in quanto è mancato l'ordine del giorno. Così paralizza anche l'assemblea totalitaria.
Se manca anche solo un socio l'assemblea totalitaria non esiste e la delibera è inesistente.
Lo stesso accade nel caso in cui manchi un amministratore.
Se invece la convocazione è irregolare la delibera è soggetta ad annullabilità.
2. VOTAZIONE
La convocazione è finalizzata ad ottenere una votazione la qual non può avvenire in qualunque modo, ma deve avvenire nel corso di un'adunanza. Questa regola viene oggi messa in forse da un recente provvedimento legislativo.
Questo principio non è rispettato nel caso delle cooperative, per le quali è ammesso il voto per corrispondenza. Quindi il voto non è contestuale perché non avviene nell'adunanza
Vistosa eccezione al principio di necessarietà della formazione del voto in seno a un'adunanza e della contestualità della discussione e della votazione, viene posta con riferimento alle società quotate in borsa. Con la legge Draghi è ammesso il voto per corrispondenza, perché si crede di riuscire ad ampliare l'intento partecipativo del socio assenteista. Per non scomodarlo gli si consente di votare anche per corrispondenza.
Tranne questi 2 casi, si ha convocazione finalizzata alla votazione, la quale avviene in modo contestuale alla discussione e deve avvenire nell'ambito dell'adunanza.
L'adunanza implica la compresenza nello stesso giorno e nello stesso momento di più soggetti e presuppone la legittimazione di questi ad intervenire. Il diritto d'intervento spetta a tutti i titolari del diritto di voto: ai soci innanzi tutto, ma anche a creditore pignoratizio o a usufruttuario che soci non sono.
Ci sono altri soggetti che soci non sono come
R amministratori
R sindaci
che sono abilitati all'intervento.
Se l'amministratore è anche socio assomma le 2 qualità.
Anche il rappresentante comune degli obbligazionisti e il rappresentante comune dei possessori di azioni di risparmio.
Come si è inabilitati a intervenire? Il diritto d'intervento è subordinato dal legislatore ad un requisito importante: occorre che l'azionista, iscritto nel libro soci o non iscritto ma che si dimostri possessore di azioni in base ad una serie continua di girate, abbia depositato le azioni almeno 5 gg. prima rispetto a quello stabilito per l'adunanza, presso la sede sociale o presso l'azienda di credito o società finanziaria indicate nell'avviso di convocazione.
Come dice l'art.2371, tutta la riunione si svolge sotto la presidenza di una persona nominata come presidente dell'assemblea e che è indicata
R nell'atto costitutivo
R o in assemblea, se non è indicata nell'atto
nel caso poi di convocazione su richiesta della minoranza, il presidente dell'assemblea potrebbe anche essere nominato dal presidente del tribunale.
Il presidente dell'assemblea è assistito da un segretario che redige il verbale. Però nell'assemblea straordinaria il verbale è redatto dal notaio.
Il presidente dell'assemblea ha diversi compiti:
R accertare la legittimazione al voto e l'intervento dei presenti
R accertare le condizioni per una valida costituzione dell'assemblea, cioè i quorum
R accertare la sussistenza del potere di rappresentanza
R accertare che il dibattito si svolga in modo ordinato
R deve dare la parola a chi la chiede
R deve garantire ordine nello svolgimento dei lavori dell'assemblea e durante la votazione
R alla fine proclama i risultati della votazione
La discussione è molto importante perché è parte necessaria del procedimento e perché il voto deve essere contestuale alla discussione. La discussione per legge è fondamentale. Ci sono delle norme che la prevedono. L'art.2375 che tratta del verbale dell'assemblea prevede che sia possibile su richiesta dei soci di riassumere nel verbale la discussione e quindi le dichiarazioni dei singoli soci.
Inoltre l'art.2366 3° comma consente al socio, intervenuto nell'assemblea totalitaria, di opporsi alla discussione degli argomenti sui quali non si ritenga sufficientemente informato.
Da queste norme si ricava che, in condizioni normali, non può essere omessa la fase della discussione.
Quando ci si trova in assemblea sorge il cosiddetto diritto d'informazione dell'azionista.
I principi divergono. Esiste un vero diritto d'informazione sia dell'azionista sia del socio di s.r.l., ma le modalità e i limiti sono diversi.
Per diritto d'informazione s'intende il diritto di chiedere informazioni in assemblea agli amministratori circa l'andamento della società. Nel diritto d'informazione si fa rientrare in senso lato anche il diritto d'ispezione dei libri sociali.
In tema di s.r.l. esiste l'art.2489: nelle società in cui non esiste il collegio sindacale, ciascun socio ha diritto di avere dagli amministratori notizia dello svolgimento degli affari sociali e di consultare i libri sociali.
Il collegio sindacale non è organo obbligatorio nella s.r.l.
Sotto il profilo dell'informazione del socio, se esiste un collegio sindacale si applicano alla s.r.l. le stesse norme che si applicano alla S.p.A.
L'espressione "notizia dello svolgimento degli affari sociali" si trova nelle società di persone dove ciascun socio non amministratore ha diritto di avere dai soci amministratori notizie sullo svolgimento della società. Quindi quando non esiste il collegio sindacale sono ampliati i poteri di controllo e informazione dei singoli soci.
Per la S.p.A. non esiste una norma del genere, né per la s.r.l. che ha un collegio sindacale.
Quindi il diritto all'informazione nella S.p.A. e nella s.r.l. con collegio sindacale non si esplica in ogni momento della vita sociale, come vuole l'art.2489 che attribuisce al socio di s.r.l. priva di collegio sindacale di chiedere in ogni momento notizia degli affari sociali.
Per l'azionista, questo diritto è invece circoscritto solo a quella specifica assemblea e si fa riferimento agli specifici punti posti nell'ordine del giorno.
Ci sono dei limiti al diritto d'informazione del socio perché non esiste sempre un obbligo dei soci di rispondere. Innanzi tutto il diritto d'informazione è strumentale al diritto di voto e quindi non si può andare oltre questo punto. Inoltre, l'azionista non deve abusare del suo diritto. Può anche accadere che gli venga posto il segreto aziendale, poiché esiste un reato di divulgazione di notizie riservate a carico degli amministratori. Dunque gli amministratori possono porre il segreto aziendale di fronte a certe richieste dell'azionista.
Riassuntino: con riferimento al diritto d'informazione, bisogna distinguere tra
R S.p.A. e s.r.l. con collegio sindacale
R s.r.l. senza collegio sindacale
Nella s.r.l. senza collegio sono attribuiti ai soci poteri di controllo più penetranti.
L'art.2489 dice che in ogni momento della vita sociale si può estrinsecare il diritto d'informazione chiedendo informazioni sullo svolgimento degli affari sociali.
È la stessa espressione che si trova in tema di società di persone dove i soci che non amministrano possono chiedere ai soci amministratori notizie sullo svolgimento degli affari sociali in ogni momento.
Con riferimento all'azionista e al socio di s.r.l. che ha collegio sindacale la situazione è diversa. Il diritto d'informazione non ha estensione tale da estrinsecarsi in ogni momento della vita della società, ma è circoscritto alla singola assemblea, ed è preordinato all'esercizio del diritto di voto e nei limiti degli argomenti posti all'ordine del giorno.
Il diritto d'informazione non sempre può avere la necessità di una risposta. Ci sono dei limiti derivanti dal fatto di essere strettamente collegato al diritto di voto e alle materie da trattare in quella singola assemblea. Il socio ha diritto d'informazione ma non può abusarne. Inoltre, gli amministratori possono incorrere nel reato di divulgazione di notizie riservate, questi hanno la possibilità di opporre al socio il segreto aziendale.
Come si vota?
Il voto è personale, uguale, libero e segreto. Questo è garantito dall'art.48 della Costituzione.
Nessuna di queste caratteristiche sembra essenziale per il voto in assemblea.
non è personale perché il voto si può esprimere anche per mezzo di rappresentanza
non è uguale perché la maggioranza si calcola per quote e non per teste. Quindi il voto di chi possiede un n° maggiore di azioni conta di più di chi possiede un n° minore
non è libero nel caso di convenzioni di voto previste in patti parasociali; chi fa parte del patto del sindacato di voto, vota secondo l'istruzione del sindacato
non è segreto. L'art.2375 prevede la possibilità che dal verbale dell'assemblea risultino le dichiarazioni dei soci e quindi anche quelle di voto. Indipendentemente da questa norma, dottrine e giurisprudenza sono contrarie al voto segreto. Il voto deve essere palese
3. DELEGHE
Consideriamo le deleghe di voto all'art.2372:
"Salvo disposizione contraria all'atto costitutivo, i soci possono farsi rappresentare nell'assemblea."
Questo vuol dire che se c'è una clausola che impone che il voto debba essere espresso personalmente, questo comma non vale.
La rappresentanza deve essere conferita per iscritto e i documenti relativi devono essere conservati dalla società.
La rappresentanza può essere conferita per singole assemblee, con effetto anche per le convocazioni successive.
Se c'è l'assemblea in 2° convocazione la rappresentanza data per la 1° convocazione è valida anche per la 2°.
La delega non può essere rilasciata con il nome del rappresentante in bianco. Il rappresentante può farsi sostituire solo da chi sia espressamente indicato nella delega.
La rappresentanza non può essere conferita né agli amministratori, ai sindaci, ai dipendenti della società, né alle società da essa controllate e agli amministratori, sindaci e dipendenti di queste, né ad aziende o istituti di credito.
La stessa persona non può rappresentare in assemblea più di 10 persone o, se si tratta di società con azioni quotate in borsa, più di 50 soci se la società ha capitale non superiore a 10 miliardi e non superiore ai 50 miliardi e più di 200 soci se la società ha capitale superiore ai 50 miliardi.
Tutto ciò che riguarda il problema delle deleghe per le società quotate in borsa si legge nella Legge Draghi che ha scavalcato tutte le disposizioni dell'art.2372. A questa norma si era arrivati nel 1964 perché c'era stato un periodo in cui dilagava un eccesso di deleghe.
La delega è un caso di rappresentanza volontaria, cioè il socio volontariamente si sceglie il soggetto che lo rappresenterà in assemblea.
L'evoluzione storica dell'art.2372 è sempre andata verso una limitazione dei soggetti che possono assumere la rappresentanza, con accentuazione delle regole di sostanza e di forma che deve seguire la delega.
Il legislatore ha vietato la concessione di deleghe a certi soggetti, e soprattutto alle banche, per evitare che con il sistema delle deleghe acquistasse maggiore potere il gruppo minoritario di controllo e con esso gli amministratori che di tale gruppo sono espressione.
I titoli erano depositati presso le banche. Veniva rilasciata alla banca una delega in bianco che prima della riforma dell'art.2372 era consentita. Le banche designavano una persone di loro fiducia che era tale anche per il gruppo di comando e degli amministratori.
Con la riforma il legislatore ha intensificato i limiti dell'esercizio della delega di voto per evitare un esercizio di potere non correlato al rischio. Il socio quando vota ha un potere ma ha anche un rischio correlato alla sua qualifica di socio, anche se agisce limitatamente alla propria quota. Il rappresentante non ha questo rischio, per non fanno che aumentare il potere del gruppo di controllo o dei relativi amministratori.
Poi è stato vietato di concedere la delega a tutti quei soggetti che possono essere influenzati dagli amministratori e che possano costituire uno strumento indiretto per aumentare il potere del gruppo di controllo:
R dipendenti che hanno vincolo di subordinazione verso chi li ha assunti
R sindaci che sono sempre espressione del gruppo di comando
R società controllate
R banche le quali hanno la società tra i propri principali clienti. Quindi poteva succedere
che si votasse secondo i desideri del gruppo di comando e non del socio che aveva dato
la delega.
Con la riforma del 1974 il legislatore non ha solo enucleato il divieto di conferire la delega a determinati soggetti, ma ha reso più stretto il rapporto tra delegante e delegato:
È necessario che la rappresentanza sia conferita per iscritto
2. E' determinante la volontà del socio nella scelta del rappresentante stabilendo che non è
possibile che vi sia una delega in bianco
3. La delega deve essere conferita per singole assemblee
Tutto ciò è stato rovesciato con la legge Draghi agli articoli 136 e seguenti.
Esiste di nuovo la possibilità di incetta di deleghe, ma con formalità ben precise che dovrebbero garantire una certa trasparenza e una certa garanzia nei confronti del soggetto che vuole rilasciare la propria delega. Ci si è avvicinati al sistema statunitense.
Art.136
Art.137
Lo stragrande assenteismo dei soci poteva essere raccolto con un sistema di raccolta delle deleghe che l'art.2372 non permetteva.
Art.138
Art.139
Art.140
Art.141
Sollecitazione = sollecitare i soci a farsi dare le deleghe.
Viene coniata una nuova società: la società avente per oggetto esclusivo l'attività di sollecitazione e la rappresentanza di soci in assemblea.
Art.144
DIRITTO COMMERCIALE:
CONVENZIONI E SINDACATI DI VOTO
Particolari patti parasociali sono le convenzioni e i sindacati di voto. Per convenzioni di voto si intendono quegli accordi fra due o più soci con i quali i soci medesimi si obbligano ad esprimersi in assemblea con un voto conforme alle decisioni dei soci preventivamente adottate ad unanimità o a maggioranza dagli aderenti al patto di sindacato. Oppure i partecipanti al sindacato potrebbero investire uno di loro o un terzo di una procura irrevocabile o di un mandato ufficiale in modo che questo eserciti in assemblea un voto conforme alle decisioni del sindacato stesso. Dal punto di vista della struttura queste convenzioni appartengono ad una categoria più ampia, quella dei patti parasociali. Abbiamo già visto l'esempio di patti parasociali, i così detti sindacati di blocco che in realtà non sono che un accordo extra-assembleare in cui si prevede ad esempio la inalienabilità delle azioni, un patto del genere non potrebbe essere inserito quale clausola in uno statuto di S.p.A., ma potrebbe essere inserito in una S.r.l.. Quindi i sindacati di blocco fanno parte anch'essi dei patti parasociali, perché parasociali? Perché sono patti che non vengono tramutati in clausole poi inserite nello statuto, altrimenti sarebbero clausole statutarie, ma sono accordi separati ed autonomi rispetto al contratto di società e rispetto allo statuto. Quindi più soci danno vita a un regolamento di rapporti che non trova riscontro nell'atto costitutivo e nello statuto. E' una sorta di accordo parallelo che sta fuori del sociale, parasociale. Non trova riscontro nell'atto costitutivo, atto costitutivo nel quale gli accordi si differenziano profondamente sotto il profilo dell'efficacia, nei patti parasociali si tratta di efficacia interna o obbligatoria anziché esterna o reale come nello statuto. Questo comporta, anche, una sorta di grossa differenza quando si analizza la prelazione degli obblighi contenuti in un patto parasociale, questo ha efficacia talmente obbligatoria, che essendo i patti parasociali nient'altro che dei contratti innominati, avremo delle soluzioni riguardo la loro prelazione di tipo contrattuale: soluzione del contratto per inadempimento; se ci sono danni, risarcimento degli stessi rispetto agli appartenenti a questo patto. Quindi c'è una grossa differenza, sono contratti innominati, perché non vengono previsti dai contratti tipici previsti dal nostro legislatore, e sono contratti associativi, così come i contratti di società, però parallelamente stanno fuori da tutto ciò che è l'atto costitutivo e le sue clausole. Ecco perché hanno efficacia obbligatoria e non reale oppure efficacia interna e non esterna.
Nei patti parasociali rientrano sicuramente i sindacati di blocco, che abbiamo già visto. Ove si può fare, per escludere il trasferimento di azioni laddove la clausola di questo tipo non contrasta con l'atto costitutivo: si parla di un patto parasociale, così detto sindacato di blocco. Questo vuol dire che una volta che si violi patto, l'efficacia di questo varrà soltanto per gli aderenti al patto.
Sindacati di voto. Nel testo c'è una distinzione sottile tra convenzione di voto vera e propria, che è un accordo che vale sull'esercizio del diritto di voto, che vale per una singola assemblea, e sindacati di voto più generale, che prevede un accordo più duraturo da esercitare più che in una singola assemblea. Ma la distinzione è molto sottile.
Bisogna occuparci di quei patti parasociali che vanno sotto il nome di convenzioni o sindacati di voto, perché, qui, si predetermina il quorum con cui si andrà a votare. Cosa succede? Chi fa parte del patto di sindacato predetermina le decisioni che verranno poi assunte in sede assembleare. Gli aderenti al patto dovrebbero votare ad unanimità o a maggioranza, perché? Quale è il problema? In seno al sindacato di voto ci si obbliga ad esprimere in assemblea un voto conforme a decisioni che sono adottate preventivamente ad unanimità o a maggioranza dagli aderenti al patto. C'è una differenza tra votare queste decisioni ad unanimità o a maggioranza nell'ambito del sindacato, vedremo poi le differenze. In linea generale, all'inizio, questi patti sono stati circondati da molto sospetto da parte della dottrina e della giurisprudenza. Sospetto che è andato sempre più diminuendo alla luce anche dei provvedimenti legislativi che hanno dato per scontato ormai l'esistenza di questi patti all'interno di società quotate e non. Quindi hanno preso atto della loro esistenza prevedendo addirittura la presenza di sindacati di voto quali ipotesi di controllo. ½ sono numerose leggi, ad esempio quella sull'editoria art. 2 della legge 5 agosto 1981 n° 416, il testo unico in tema di sistemi bancari e creditizi approvato con decreto legislativo 1 settembre 1993, l'art. 26 della legge che ha introdotto nel 1991 il bilancio consolidato e via dicendo. Questi sindacati sono stati presi in considerazione sotto il profilo del controllo da numerosi interventi legislativi. Il problema, che verrà poi affrontato con un certo scetticismo riguardo la loro validità generalizzata (nel nostro testo), è questo: sono diffusi a tal punto che alcuni provvedimenti legislativi ne hanno previsto eventuali ipotesi di controllo. Perché hanno previsto la presenza di un sindacato di voto quale ipotesi autonoma di controllo?. Sono diffusi ed il legislatore li ha nominati, però non vuol dire ancora che tutti i tipi di sindacato siano validi.
Bisogna poi vedere se tutti i patti di sindacato esistenti siano validi, legittimi. Sotto alcuni profili alcuni di essi sono stati ritenuti . di legittimità.
A questa parte, sul testo, è dedicato molto spazio perché il prof. Cottino ha fatto una trattativa al riguardo, ma è un atteggiamento molto più restrittivo di altri autori nel senso che quando il legislatore, nei provvedimenti citati, ha preso atto dei sindacati di voto, si sono aperte due strade: una parte degli autori si è schierata a favore della liceità di ogni tipo di sindacato, dicendo che ormai sono talmente diffusi che il legislatore li prevede autonomamente come ipotesi di controllo e quindi dobbiamo inchinarci a questa previsione legislativa e dobbiamo smettere di discutere in ordine alla liceità dei patti sindacali. Un'altra parte della dottrina sostiene che non è che dobbiamo far finta che le prese di posizione del legislatore non esistano, perché questo oramai è un dato di fatto, ma questo non toglie ancora che l'indagine relativa alla liceità del singolo patto, quindi bisogna vedere se il singolo patto preveda dei profili di invalidità o meno. Quest'ultimo atteggiamento è quello del testo e rispetto agli altri è molto restrittivo. Dal canto suo la giurisprudenza è oscillante perché da un primo periodo in cui era molto restrittiva in tema di validità dei sindacati di voto, oggi forse la cassazione sta cambiando orientamento, a giudicare dall'ultima pronuncia del '95 in cui ha detto che i sindacati sono validi pur che siano circoscritti entro i limiti determinati di tempo.
Quali sono i dubbi riguardo alla validità dei patti sindacali? Dubbi, sono gli accordi in base ai quali i soci si impegnano a votare secondo istruzioni che non vengono dall'organo amministrativo e viceversa che attribuiscono al sindacato competenze decisionali che sono proprie degli amministratori, con un inversione rispetto a quelle linee di tendenze che il nostro legislatore ha voluto e che attua all'art. 2364 n°4 e che prevede nelle delibere dell'assemblea gestionale come punto centrale proprio per la definizione delle diverse competenze. Dubbi anche sulla liceità di quei patti che predeterminano quei criteri con cui votare con un assemblea di più organi sociali. Si è detto che l'atto costitutivo può prevedere un organo particolare per la nomina delle cariche sociali, questa è una causa dell'atto costitutivo che non esautora l'assemblea a usare i quorum prescritti dalla legge, tanto che è stato detto che uno di questi modi per predeterminare, il modo di votare le cariche sociali sarebbe inserire una clausola. In questo caso, un accordo parasociale al di fuori dello statuto, in una forma in cui si potrebbe anche votare a maggioranza, in cui si prevedono i criteri per eleggere amministratori e sindaci, pone forti dubbi sul fatto che possa sussistere. Come forti dubbi sussistono con riguardo ai sindacati deliberanti a maggioranza. in questo caso gli aderenti al sindacati si impegnano a votare in assemblea in conformità delle alienazioni raggiunte dalla maggioranza degli aderenti al sindacato. Questa maggioranza poi risulta essere una minoranza in assemblea. Esempio: fanno parte del sindacato due soci, uno al 35% e l'altro al 20%, ed insieme formano il 55% delle azioni sindacali, cosa succede? Si vota all'interno del sindacato con voto a maggioranza, il 35% vota a favore. A questo punto però quando si andrà a votare in assemblea, dove ci vuole almeno il 51% dei soci presenti, il voto portato dal sindacato non riguarderà solo il 35% ma coinvolgerà tutte le azioni sindacali, perchè all'interno del sindacato si è votato a maggioranza perché la maggioranza vincola la minoranza, e risulta che quel 35% che è bastato ad ottenere la maggioranza all'interno del sindacato, portato all'esterno alla volontà di tutti farà si che le delibere verranno adottate non con la maggioranza assoluta dei presenti ma con quel 35%. Diversamente stanno le cose se nel sindacato si vota ad unanimità perché allora, e qui sorgono dubbi relativi alla legittimità, si porta la volontà di tutti e non solo di una residua parte del capitale. Ecco perché il nostro testo, sotto questi profili, considera con poco valore i patti di sindacato deliberanti a maggioranza, perché alterano questo gioco della formazione naturale della maggioranza assembleare così come prevista dal legislatore. Quindi qualcuno ha detto, che, visto che questi patti violano norme imperative, rispetto al tipo sociale scelto, sono da considerarsi invalidi. Ma, non sono invalidi tutti questi tipi di patti, ma solo quello specifico che viola norme imperative di legge, rispetto al tipo sociale scelto. E' una norma imperativa quella che regola le maggioranze per la formazione della volontà sociale nella S.p.A., è una norma imperativa quella che prevede che solo l'assemblea può nominare gli organi sociali, è una norma imperativa quella che prevede la divisione di poteri tra organi amministrativo ed organo assembleare, per cui se il sindacato viola queste norme imperative il contratto è nullo. Qualcuno si è spinto oltre dicendo che visto che questi patti sono quasi tutti segreti, non sono conoscibili, bisogna fare una distinzione fra società non quotate e quotate. Sembra che recentemente la legge Draghi abbia dato voce alla distinzione emersa perché all'art.122-l23-l24 sono previsti i sindacati. In questi art. si dettano delle regole di trasparenza e di pubblicità di questi patti. L'art. 122 dice che: "Patti parasociali. 1 - I patti in qualunque forma stipulati, aventi per oggetto l'esercizio del diritto di voto nelle società con azioni quotate e nelle società che le controllano sono: a) comunicati alla CONSOB entro 5 giorni dalla stipulazione; b) pubblicati per estratto sulla stampa quotidiana entro 10 giorni dalla pubblicazione; c) depositati presso il registro delle imprese del luogo ove la società ha la sede legale entro 15 giorni dalla stipulazione. 2 - La CONSOB stabilisce con regolamento le modalità e i contenuti della comunicazione, dell'estratto e della pubblicazione. 3 - In caso di inosservanza degli obblighi previsti dal comma 1 i patti sono nulli. - 4 Il diritto di voto inerente alle azioni quotate per le quali non sono state adempiuti gli obblighi previsti dal comma 1 non può essere esercitato. ", quindi la legge si preoccupa anche di dire che, in caso di inosservanza di tutte queste regole, i patti di sindacato sono nulli, non solo ma è sospeso il diritto di voto in caso in cui non vengano osservate queste disposizioni e quindi le sanzioni sono molto gravi. Oggi abbiamo un ulteriore presa di posizione del nostro legislatore che si pone accanto a tutti quei mutamenti settoriali di cui vi parlavo prima e che per tutte le società quotate o per le società che controllano società quotate, ha dettato delle discipline in omaggio al principio di trasparenza. Questo perché, questa diffusa segretezza che caratterizzava i patti di sindacato aveva fatto dire ad un autore che vi fosse una loro tendenziale inammissibilità con riferimento alle società quotate, perché questa segretezza contrastava rispetto ai principi fondamentali di tutela del pubblico risparmio, primo fra tutti quello della trasparenza. Il legislatore, così, ha previsto un regime di trasparenza con riferimento ai patti sindacali con riferimento alle società quotate. Questo non vuol dire ancora che tutti i patti, comunque formulati, siano comunque validi e soprattutto bisogna tenere presente che ammesso e non concesso che questa sia una breve disposizione generalizzata riguarda comunque solamente le società quotate, quindi tutti i problemi di cui vi parlavo prima continuano a riguardare le società non quotate.
I sindacati di voto si accomnano speso ai sindacati di blocco nei patti parasociali perché si cerca di fare in modo che le partecipazioni rimangano tra gli aderenti al sindacato. Il testo da un osservazione molto utile: ammesso e non concesso che tutti i patti di sindacato siano validi, questo va ad urtare contro il principio di tipicità delle società, perché se si ammette con un patto di sindacato un voto a maggioranza in cui si predetermina il voto riguardo alla nomina delle cariche sociali, all'approvazione del bilancio, in cui si alterano i rapporti tra organo amministrativo ed assemblea e come se si creasse una società dentro la società. Quindi è come se si avesse un tipo diverso di società per azioni e quindi un tipo caratterizzato dalla presenza di patti di sindacato, rispetto al tipo previsto dal legislatore, quando il patto di sindacato non c'è. Quindi secondo il prof. Cottino si urterebbe contro il principio di tipicità delle società e questi dubbi li nutre ancora oggi nonostante questa nuova legge.
Ritornando alle delibere assembleari, dobbiamo affrontare un altro aspetto che è quello della verbalizzazione. Una volta effettuata la votazione, che può essere contestuale alla discussione in omaggio al principio di collegialità della formazione della volontà sociale, che riguarda una determinata proposta definita nell'ordine del giorno, se tale proposta attraverso la proclamazione dei risultati da parte del presidente ha avuto la percentuale dei voti necessaria per passare, secondo la legge, quindi succede che si è ultimato tutto il procedimento relativo alla formazione della delibera assembleare. Però questa delibera come cita l'art. 2375 deve anche constare dal verbale, sottoscritto dal presidente e dal segretario, redatto da un notaio in assemblee straordinarie. Questo verbale viene poi trascritto in un libro sociale che è il libro delle delibere e delle adunanze della assemblea. Sorge un problema riguardo al verbale perché si è detto se debba essere analitico o sintetico, ossia deve contenere la dettagliata elencazione nominativa di tutti i soci compilata dalle loro dichiarazioni o basta una sintesi ? La giurisprudenza è oscillante sul punto, e siamo ritornati adesso dopo una fase in cui sembrava essersi assestata la tesi del verbale sintetico, pare che adesso siano tornati di nuovo alla tesi della analiticità. Che è meglio per altro, anche se è discusso, per evidenziare determinate ipotesi di conflitti di interesse, di soci dissenzienti ai fini di eventuali diritti di recesso. Quindi è solo da ricordare che il problema è discusso e che le ultime prese di posizione paiono orientate verso la tesi della analiticità del verbale.
Problema della invalidità delle delibere assembleari. Invalidità è un concetto generale che comprende varie forme di invalidità, quelle previste dalla legge sono due. Quindi sotto il genere invalidità abbiamo diverse forme di invalidità e queste forme sono con riguardo alle delibere dell'assemblea sono la annullabilità della delibera e la nullità della delibera. Non è una forma di invalidità la così detta inefficacia della delibera. Perché l'inefficacia può accomnarsi tanto alla delibera nulla quanto ad una delibera falsa, che è valida ma visto che ha toccato i diritti individuali del singolo socio non può produrre effetti. Quindi la categoria dell'inefficacia non è una categoria che si può accumunare alla nullità ed alla annullabilità, cioè non è una forma di nullità o annullabilità, perché l'inefficacia per le delibere così come nei contratti può accomnarsi anche ad una delibera valida. Il contratto nullo è un contratto inefficace, ma un contratto può essere valido ed inefficace se sottoposto a condizione sospensiva. Quindi l'efficacia così come l'inefficacia implica l'attitudine di un altro a produrre i suoi effetti. Quindi un contratto nullo non è atto a produrre alcun effetto, quindi un contratto nullo è inefficace, ma anche un contratto valido potrebbe essere inefficace se nel produrre i suoi effetti era stato posto in condizione sospensiva. Quindi la categoria dell'inefficacia è una categoria a sé stante e significa che una delibera inefficace non è atta a produrre effetti e se è invece efficace è idonea a produrre effetti. Il contratto nullo è per definizione inefficace, non può produrre effetti, anche la delibera nulla è per definizione inefficace, non può produrre effetti. Facciamo l'ipotesi della delibera annullabile, fino a quando commerciali con una sentenza costitutiva non vengono rimossi gli effetti che nel frattempo si sono prodotti, la delibera produce questi effetti, così come il contratto. In un contratto che può essere annullato, fino a quando non venga impugnato per un determinato vizio che abbia chiamato l'annullamento, produce i propri effetti i quali vengono poi tramutati con una sentenza che agisce retroattivamente facendo salvi i diritti dei terzi. Quindi la delibera può essere annullabile, ma può produrre degli effetti per quel limitato periodo di tempo che intercorre tra l'adozione di quella delibera e la preposizione dell'impugnazione e fino all'esito di quel giudizio a meno che non vengano sospese prima. Una delibera valida può essere inefficace perché può essere la delibera di un assemblea generale che ha dimenticato i diritti dei soci di categoria, per cui una delibera valida è inefficace. Quindi la forma generale è l'invalidità che comprende la nullità e la annullabilità. L'inefficacia è una categoria a sé stante.
La legge all'art. 2377 parla di annullabilità delle delibere. Al comma1° dice: "Le deliberazioni dell'assemblea, prese in conformità della legge e dell'atto costitutivo, vincolano tutti i soci, ancorché non intervenuti o dissenzienti" quindi questo è un principio che non altera il principio di votazione a maggioranza che prevede che la maggioranza vincola la minoranza, purché però la maggioranza abbia adottato una delibera conforme ai dettami della legge dell'atto costitutivo, se la delibera è legittima la delibera vincola anche i soci di minoranza.
Ora, perché sono partita dalla delibera annullabile? Perché a differenza di quello detto nei contratti, dove quando si studiano le forme di invalidità, la categoria generale è la nullità, l'annullabilità è prevista solo per i contratti relativamente a specifiche ipotesi, esempio, vizi della volontà. Quindi l'elemento generale dei contratti è quello della nullità, mentre l'elemento residuale è quello della annullabilità. Ora nel sistema societario troviamo un inversione di tendenza, l'ipotesi generale è quella della annullabilità e l'ipotesi residuale è quella della nullità. La delibera non conforme alla legge o all'atto costitutivo è annullabile, la medesima delibera non è che fin dall'origine sia libera dagli effetti, è solo suscettibile di perderli, quando a seguito di una sentenza costitutiva del giudice questi effetti decadono. Ci potrebbe poi essere da parte dell'impugnante della sospensione degli effetti, però per avere questo vi è un provvedimento cautelare che va richiesto al giudice.
Legittimati a far valere l'annullabilità sono i soggetti indicati dal 2° comma del 2377: "Le deliberazioni che non sono prese in conformità della legge o dell'atto costitutivo possono essere impugnate dagli amministratori, dai sindaci assenti o dissenzienti, e quelle dell'assemblea ordinaria altresì dai soci con diritto di voto limitato, entro tre mesi dalla data della deliberazione, ovvero, se questa è soggetta ad iscrizione nel registro delle imprese, entro tre mesi dall'iscrizione", io non vi ho detto che vi sono alcune delibere che vanno iscritte nel registro delle imprese, quali sono? in linea generale sono tutte le delibere che modificano l'atto costitutivo. Quindi tutte le delibere che modificano l'atto costitutivo sono sottoposte a dei limiti o collocazione ed iscrizione nel registro delle imprese così come avviene per l'iscrizione e l'omologazione dell'atto costitutivo stesso, perché, così come ci vuole il procedimento di omologa ed iscrizione per costituire una società, tute le volte che si modifica le basi previste nell'atto costitutivo bisogna seguire lo stesso procedimento. Quindi le delibere dell'assemblea straordinaria che modificano l'atto costitutivo vanno omologate ed iscritte allo stesso modo in cui va omologato ed iscritto l'atto costitutivo stesso. Quindi il termine di 3 mesi decorre con l'emanazione della delibera o dall'iscrizione a seconda che si tratti di una delibera dell'assemblea ordinaria o dell'assemblea straordinaria. La legge dice anche che la delibera può essere impugnata dagli amministratori e dai sindaci, ora si intende che l'impugnazione debba provenire dall'organo inteso collegialmente, potrebbe provenire dal singolo amministratore solo quando vi sia una delibera diretta in capo a quel amministratore (delibera che revoca la carica dell'amministratore sig. Rossi). C'è un brevissimo termine, il diritto di domandare l'annullamento delle delibere può essere fatto valere in un termine brevissimo di decadenza, 3 mesi decorrenti dalla data della delibera o dall'iscrizione della medesima quando prevista. Spirato questo termine gli effetti della delibera si consolidano definitivamente. Quindi se non si impugnano entro 3 mesi, questi effetti che potevano essere posti nel nulla da una sentenza costitutiva di annullamento, si consolidano definitivamente, anche se la delibera è viziata.
Anche se l'impugnazione viene fatta entro i 3 mesi, l'interessato non ha nessuna garanzia di vedere caducati tutti gli effetti diretti ed indiretti della delibera. Questo lo si deduce dall'art. 2377, 3° comma: " L'annullamento della delibera ha effetto rispetto a tutti i soci ed obbliga gli amministratori a prendere i conseguenti provvedimenti, sotto la propria responsabilità. In ogni caso sono salvi i diritti acquistati in buona fede dai terzi in base ad atti compiti in esecuzione della deliberazione". La delibera produce effetti ed è eseguibile, a meno che non venga dichiarata l'annullamento della stessa. Allora, visto che produce effetti ed è eseguibile, trascorsi i 3 mesi questi effetti si consolidano. Ma ci sono degli effetti che si consolidano ugualmente e sono quelli che riguardano i terzi di buona fede. Quindi anche se l'impugnazione è tempestiva, l'interessato all'impugnazione non ha alcuna garanzia di vedere tramutati tutti gli effetti della delibera.
Non solo il diritto di ottenere l'annullamento è vincolato, secondo l'art. 2377, 4° comma: "L'annullamento della deliberazione non può aver luogo, se la deliberazione impugnata è sostituita con altra presa in conformità della legge e dell'atto costitutivo".
Cosa si ricava dalla norma 2377? E' una soluzione. E la soluzione proposta dal nostro legislatore è quella che prevede del contrasto fra interesse alla eliminazione dal mondo giuridico delle conseguenze scaturenti da atti viziati e l'opposto interesse alla conservazione di atti. Il nostro legislatore propende per quest'ultima soluzione. Questo perché non solo viene contrassegnata la sentenza di annullamento, la caducazione degli effetti della delibera annullabile, non solo viene messo nelle mani della maggioranza un forte potere quello di evitare anche la caducazione o sostituzione delle delibera ma vengo anche ridotti i numeri dei soggetti legittimati ad attaccare la lettera perché i legittimati sono solo quelli previsti dalla legge. Non solo ma ci sono delle categorie di effetti che non vengono proprio travolti e sono quelli che riguardano i diritti acquistati da terzi di buona fede. Quindi il nostro legislatore ha voluto risolvere il contrasto fra due tipi di interesse cioè quello dell'eliminazione dal mondo giuridico delle conseguenze scaturenti da atti viziati e l'opposto interesse alla conservazione delle delibere, ha scelto per la conservazione degli effetti delle delibere.
Perché c'è un capovolgimento rispetto al regime dei contratti? Le delibere dell'assemblea sono atti unilaterali plurisoggettivi, ma una norma del codice l'art. 1324 ci dice che per gli atti unilaterali con contenuto patrimoniale si applicano le stesse norme dei contratti, e cioè la categoria generale è la nullità e la categoria specifica l'annullabilità. Quindi essendo le delibere atti unilaterali dovrebbero seguire le norme dei contratti, ma grazie alle norme speciali 2377-2379 alle delibere vengono applicate norme diverse.
Queste sono norme speciali che valgono per le delibere degli organi collegiali delle società di capitali, questo è un favore del legislatore riguardo alla conservazione degli effetti delle delibere che parte dal riconoscimento, nel nostro sistema, generale dell'annullabilità a scapito della nullità. Non solo ma anche lo stesso processo di impugnazione è regolato dettagliatamente dal nostro legislatore perché l'art. 2377 riguarda la disciplina sostanziale della delibera, l'art. successivo prevede la disciplina processuale, il processo di impugnazione art. 2378. Questo art. prevede l'onere per il socio che impugna, di depositare in cancelleria almeno un azione e questa è una condizione di procedibilità dell'impugnativa stessa perché senza il deposito non si può provare la legittimazione del tribunale, non solo, al socio opponente può essere imposta la prestazione di un idonea garanzia, non solo, la legge ci dice anche che tutte le impugnazioni relative ai soggetti legittimati che riguardano la stessa delibera devono essere istruite congiuntamente, devono essere decise con un unica sentenza e la trattazione della causa non può avere inizio prima dello scadere del termine di decadenza previsto dall'impugnazione della delibera stessa.
Ci sono delle delibere di natura tale da non poter essere neanche presuntivamente conosciute dal soggetto che intende procedere all'impugnazione. Esempio: se non c'è stata una convocazione come farebbe il socio a sapere che c'è stata una delibera, come farebbe il socio dissenziente, da che cosa! visto che non ha avuto l'ordine del giorno.
Allora bisogna analizzare come questa ura dell'annullabilità, in realtà, abbia dei limiti ben precisi, per cui non sia sempre percorribile. Per cui studiamo le ure diverse rispetto a quelle dell'annullabilità della delibera. Quand'è che una delibera è nulla? Art.2379: "Deliberazioni nulle per impossibilità o illiceità dell'oggetto. Alle deliberazioni nulle per impossibilità o illiceità dell'oggetto si applicano le disposizioni degli art. 1421, 1422, 1423", quindi la nullità della delibera è ammessa solo per impossibilità o illiceità dell'oggetto. E' una forma di invalidità questa della nullità che risulta a differenza dell'annullabilità e grazie al richiamo delle norme del 1421, 1422, 1423, una nullità assoluta e cioè eccepibile da chiunque vi abbia interesse e addirittura nei casi di ufficio, una nullità imprescrittibile e cioè opponibile senza limiti di tempo, insanabile cioè insuscettibile di convalida.
Questa norma della nullità prevede una notevole rottura del sistema iperprotettivo che il legislatore si è creato con gli art.2377, 2378, a favore della società. Anche se poi questo sistema iperprotettivo riguarda due casi particolari, due ipotesi tassative di nullità.
La giurisprudenza ha ulteriormente fatto una distinzione. Noi possiamo dire che l'illiceità o l'impossibilità dell'oggetto sono comunque due casi tassativi di violazione di norme imperative, ma sono due casi tassativi che riguardano l'interesse generale. Allora, cosa ha detto la giurisprudenza? La giurisprudenza pur partendo dall'equazione illiceità dell'oggetto della delibera = violazione di norme imperative, opera costantemente una distinzione fra norma imperativa e norma imperativa, affermando che solo il contrasto con norme dirette a tutelare un interesse generale o di terzi ma non dei soci può impedire una deviazione dallo scopo economico pratico del contratto di società e suscettibile di portare la nullità della delibera. Quindi tutta la violazione di norme imperative che non rientrano in questa disciplina e che non riguardano comunque un interesse generale ma un interesse interno alla società, fanno si che si parli di annullabilità della delibera, giammai di nullità. Questa distinzione è stata fatta dalla giurisprudenza.
Quindi la nullità: impossibilità o illiceità dell'oggetto. Esempio: bisogna vedere da quali vizi può essere affetta una delibera che approvi il bilancio non valido. Si è detto che una delibera che approvi un bilancio falso è una delibera nulla, oggi si dice anche che una delibera che approva un bilancio non solo non veritiero ma anche non chiaro è una delibera nulla. Un primo orientamento della cassazione invece dice un'altra cosa, che la violazione del principio di chiarezza comporta la nullità della delibera che approva il bilancio sotto il profilo dell'illiceità dell'oggetto, solo se la chiarezza sia travolta da un bilancio falso. Oggi invece con la nuova disciplina dei bilancio pare che l'orientamento della dottrina ma anche quello della giurisprudenza si stia leggermente modificando, e si stia seguendo l'orientamento che ha sempre sostenuto la giurisprudenza del tribunale di Milano, secondo il quale sia la violazione autonoma del principio di chiarezza sia la violazione del principio di verità, comportano la nullità di una delibera che approva il bilancio.
La legge Draghi dice che si applicano delle norme relative alla nullità dei contratti, quindi la nullità può essere fatta valere da chiunque ne abbia interesse, sotto questo profilo è sorta una discussione. Si è detto: se un socio vuole far valere la nullità della delibera basta che dichiari la sua qualità di socio? Cioè il fatto di avere interesse alla dichiarazione di nullità è insita nella qualità di socio o bisogna un ulteriore interesse? Questo è stato molto importante soprattutto con riferimento alle delibere che hanno approvato un bilancio falso. La giurisprudenza ha ritenuto che ci volesse un interesse ulteriore, identificando questo interesse in un completo pregiudizio patrimoniale che potrebbe ricevere il socio dall'esecuzione della delibera, in un momento successivo e forse più correttamente in un interesse del socio ad avere informazioni più corrette riguardo al bilancio.
C'è un altro problema che è quello di analizzare ipotesi macroscopiche di invalidità che non essendo previste nelle ipotesi tassative di cui all'art.2379 andrebbero a confluire nel 2377. Esempio: se non c'è la convocazione e non c'è neppure l'assemblea totalitaria e ciò non di meno la delibera viene adottata, cosa avviene di questa delibera? Se guardassimo solo a questi due art. non è nulla, perché non è impossibile o illecito l'oggetto.
Sappiamo che rispetto a questo che prevede due ipotesi tassative di nullità per la categoria generale dell'annullamento, è sorta un'interpretazione della dottrina e della giurisprudenza, che ha creato una categoria ulteriore, quella della inesistenza delle delibere assembleari. La categoria dell'inesistenza con vizio che affetta l'invalidità di un atto o di un contratto è stata inventata dai francesi per supplire alle loro ipotesi tipiche tassative di nullità in capo di diritto di famiglia, relativa alla nullità del matrimonio. Questo perché? Perché si è sentito il bisogno di creare la categoria dell'inesistenza laddove il sistema prevedeva ipotesi tassative di casi di nullità. Allora si diceva, visto che nel caso di nullità le ipotesi tassative sono nulle, quando c'è un vizio grave, talmente grave da essere più grave ancora dalle ipotesi di nullità previste dal legislatore, e visto che le ipotesi sono tassative e quindi non posso dire che la delibera è nulla perché il legislatore non me lo consente, affinché non si applichi un regime meno grave del vizio, si è creata una categoria nuova. Allora la categoria dell'inesistenza è stata creata dai francesi per supplire a un sistema di ipotesi tassative di nullità in caso di disciplina di diritto di famiglia, è stato creato dalla nostra dottrina e giurisprudenza con riferimento alle delibere assembleari il cui vizio era talmente grave da non potersi parlare nemmeno di delibera, ma nonostante questa gravità non poteva dirsi nemmeno delibera nulla perché i casi di nullità sono tassativi. Il problema è sorto dopo, perché, si diceva che c'erano dei vizi così gravi che non si poteva dire neanche di essere in presenza di una delibera. Però poi, dalla categoria generale dell'inesistenza ai singoli vizi, cioè un conto è parlare di una categoria generale dell'inesistenza ed un altro è dire quando una categoria è inesistente. A questo punto la dottrina e la giurisprudenza sono d'accordo su un punto: la delibera adottata in assenza assoluta di convocazione e senza che vi sia un'assemblea totalitaria non è valida, perché la convocazione è il primo anello della formazione collegiale della volontà sociale, omesso il quale, in assenza di una assemblea totalitaria, non si può neanche parlare di delibera, ciò che si è deciso non è riferibile ai soci. Quindi la mancanza assoluta di convocazione comporta l'inesistenza della delibera, l'irregolarità di una convocazione che c'è stata ma non è stata conforme ai canoni legislativi comporta l'annullabilità della delibera.
Gli interpreti poi si sono veramente divulgati nell'enucleare le varie forme di inesistenza. Qualcuno ha detto che la delibera è inesistente quando partecipano al voto soggetti che sono privi della legittimazione primaria al voto, esempio: ha votato un azionista di risparmio che è privo del diritto di voto; qualcun altro ha detto che è inesistente la delibera che non è stata verbalizzata o ove vi è mancata la discussione. E via dicendo. Sul testo ci sono altri esempi. Proprio perché la categoria non è prevista dalla legge, i controlli sfuggono ad ogni enucleazioni di casi di inesistenza.
Vi è poi il problema della così detta categoria dell'inefficacia, quand'è che una delibera è inefficace? Esempio: la delibera dell'assemblea generale degli azionisti che decide di abbattere il privilegio riconosciuto alle azioni privilegiate. La delibera è valida ma inefficace, quindi inidonea a produrre effetti riguardo ai possessori di azioni privilegiate, perché quei possessori sono riuniti in un'apposita assemblea che si chiama assemblea speciale e solo con il voto favorevole di quell'assemblea ( delibera con il quorum di voto dell'assemblea straordinaria) si potrà dire che la delibera dell'assemblea generale è efficace, altrimenti sarà valida ma inefficace perché ha contratto i diritti degli azionisti di categoria, diritti di cui solo la categoria debitamente intesa e votante a maggioranza può disporre. Altro esempio è quello della delibera dell'assemblea straordinaria che introduca a maggioranza una clausola di gradimento e prelazione estranea alla conurazione originaria dell'atto costitutivo. Anche questa si dice delibera inefficace se non c'è il consenso di tutti i soci. Questo perché soltanto i soci possono disporre del diritto in questione, quindi ci sono delle delibere dell'assemblea, che l'assemblea delibera a maggioranza ma la maggioranza può disporre dei diritti di cui può disporre la maggioranza assembleare, non può disporre dei diritti indisponibili dalla maggioranza. L'enucleazione di questi diritti è stata fatta dalla dottrina e dalla giurisprudenza. La giurisprudenza dice che per introdurre successivamente una clausola di gradimento ci vuole l'unanimità dei consensi perché la maggioranza non può disporre, così come la giurisprudenza dice che per revocare la liquidazione non basta una delibera dell'assemblea straordinaria adottata a maggioranza ma occorre il consenso dei soci perché solo loro possono disporre di quel diritto alla liquidazione della quota che oramai sorge solo col verificarsi di una causa di scioglimento, è discutibile questa opinione ma è un opinione della giurisprudenza. la maggioranza assembleare si ferma laddove siano individuati dei diritti invulnerabili dalla maggioranza assembleare, ma disponibili solo dal singolo socio interessato. La categoria dei diritti individuali è una categoria che è stata recentemente sottoposta a una dura revisione critica proprio perché non sono previsti dal legislatore. Il legislatore solo una volta ci parla di delibere unanime a proposito della modifica delle azioni con connesso l'obbligo delle prestazioni accessori (2345). Per tutte le altre delibere prevede una regola maggioritaria, dicendo però che bisogna fare attenzione a non essere in presenza di un diritto inviolabile del soci. Ma la categoria dei diritti inviolabili non è di origine legale ma solo giurisprudenziale. Certo ci sono dei diritti che sono inviolabili in assoluto quali il diritto di voto, il diritto di recesso, però questo vuol dire che non li potrebbe violare neanche il socio. Quindi il nostro testo distingue tra diritti assolutamente indisponibili, quali il diritto di voto e il diritto di recesso, questi non possono essere disposti ne dall'assemblea di maggioranza ne tanto meno dal singolo socio e i diritti relativamente indisponibili che possono essere disposti solo dal socio ma non dalla maggioranza assembleare. L'enucleazione dei vari diritti individuali è lasciata alla dottrina e alla giurisprudenza.
Conflitto di interessi (art. 2373). Quando si parla di conflitto di interesse si intende quando ci sia in assemblea, un azionista portatore di un interesse che confligge con l'interesse della società. In questo caso il conflitto di interesse deve emergere in seno all'organo assembleare, perché, vedremo poi, che si parla anche di conflitto di interesse con riferimento alle delibere del consiglio di amministrazione. Quando si parla di interessi della società, esistono due nozioni di interesse sociale: la teoria così detta contrattualistica, che dice che l'interesse sociale non è niente altro che l'interesse comune dei soci all'esercizio comune di un attività al fine dividerne gli utili (interesse sociale =interesse comune dei soci, è la causa delibera contratto art.2243). A questa teoria, che è la teoria dominante, se ne contrappone un altra: la teoria istituzionalistica. Questa dice che l'interesse sociale non è solo l'interesse comune dei soci ma è qualcosa che va oltre, è l'interesse dell'impresa in sé. E' un interesse che coinvolge anche gli interessi dei creditori. Comunque, qualunque sia la concezione che si abbia dell'interesse sociale, questo non riguarda il problema dell'art. 2373, perché, una volta risolto il concetto di interesse sociale, il legislatore si chiede cosa succeda quando un socio è portatore di un interesse confliggente con un interesse della società.
Art.2373. Per interpretare la cornice entro la quale si muove questa norma bisogna dire, che l'organo amministrativo per legge è tenuto a perseguire l'interesse sociale, l'amministratore in conflitto di interessi compie una condotta addirittura sanzionata penalmente. Il conflitto di interessi è previsto tra le norme penali che regolano il conflitto dell'amministratore. A differenza dell'amministratore comunque dell'organo amministrativo che è tenuto a perseguire l'interesse sociale, ci si chiede se il socio quando vota, la maggioranza quando vota in assemblea, è tenuta a perseguire l'interesse sociale? O è obbligata a perseguire l'interesse sociale così come gli amministratori? No, qui si vede la differenza tra i due organi. Il socio e con esso la maggioranza assembleare può votare come vuole pur che non si ponga in contrasto l'interesse sociale, cioè i soci potrebbero anche perseguire un interesse personale pur che non confliggente con quello sociale.
Quali dubbi interpretativi ha provocato questa norma?
Art. 2373: "conflitto di interessi. Il diritto di voto non può essere esercitato dal socio nelle deliberazioni in cui egli ha, per conto proprio o di terzi, un interesse in conflitto con quello della società.
In caso d'inosservanza della disposizione del comma precedente, la deliberazione, qualora possa recare danno alla società, è impugnabile a norma dell'art. 2377 se, senza il voto dei soci che avrebbero dovuto astenersi dalla votazione non si sarebbe raggiunta la necessaria maggioranza.
Gli amministratori non possono votare nelle deliberazioni riguardanti la loro responsabilità.
Le azioni per le quali, a norma di quest'articolo, non può essere esercitato il diritto di voto sono computate ai fini della regolare costituzione dell'assemblea".
Abbiamo prima parlato della forma di invalidità delle delibere e abbiamo visto che in alcuni casi la non conformità alla legge, all'atto costitutivo, che normalmente provoca l'annullabilità della delibera, è causa di invalidità solo se a essa si aggiungono altri presupposti quali la potenziale dannosità della delibera alla società ( 2373,comma 2) o l'essenzialità del vizio per la formazione della medesima. Cosa vuol dire essenzialità del vizio? Vedremo che la delibera non è sempre annullabile, è annullabile solo se possa arrecare danno alla società ed in oltre quando imponendo un conflitto di interessi, ha comunque superato la prova di esistenza. cioè che ha un voto marginale, ossia senza quel voto non si sarebbe potuta raggiungere la maggioranza.
Quindi la non conformità alla legge o all'atto costitutivo di una delibera comporta l'annullabilità della stessa soltanto se avesse avuto altri presupposti quali la potenziale dannosità della delibera per la società e l'essenzialità del vizio che vuol dire che il voto deve essere marginale e deve essere superata positivamente la così detta prova di esistenza. Cosa vuol dire che il voto deve essere marginale? Che senza il voto espresso in conflitto di interesse non si sarebbe raggiunta la maggioranza richiesta per ottenere la delibera.
Come va interpretata questa norma? la norma esordisce dicendo: "Il diritto di voto non può essere esercitato quando il socio ha un interesse in conflitto", questo significa che il socio può perseguire anche un interesse personale pur che non si ponga in conflitto con l'interesse sociale. La lettera della norma è chiara: il diritto di voto non può essere esercitato. L'altra lettera della norma parrebbe, e questa è opinione di Cottino, che la norma sancisca un vero e proprio divieto di voto. A questo c'è una conseguenza che se in tale situazione si trovasse un socio di maggioranza, questo non dovrebbe votare ma dovrebbe lasciar decidere alla minoranza. Non solo, ma secondo la tesi del prof. Cottino e di altri (parlano di un vero e proprio errore letterario della norma), se c'è un vero e proprio diritto di voto, o almeno parrebbe, il presidente dell'assemblea dovrebbe inibire al socio di votare, escluderlo dal voto. A questa tesi che è una tesi radicale si contrappone l'orientamento predominante in dottrina e di tutta la giurisprudenza, che dice che questa norma non prevede un divieto assoluto di voto ma un semplice limite all'esercizio di voto. E' vero che la legge dice che il socio non ha il diritto di votare ma peccato che non c'è una sanzione immediata prevista dalla legge per chi vota in conflitto di interesse. La sanzione c'è ma è prevista in seconda battuta dal 2° comma. Se è così, il 1° e 2° comma vanno letti con una lettura sistematica, quindi le cose non stanno così. La delibera adottata dal socio in conflitto di interesse non è annullabile di per sé ma è annullabile anche se si aggiungono determinati presupposti e cioè la potenzialità di danno e la prova della marginalità del voto. Ma se così è, vuol dire che la norma non prevede un divieto assoluto di voto, non prevede un potere del presidente di escludere dal voto il socio in conflitto, ma modifica l'esercizio di voto. La legge non dice che il socio in conflitto non può votare ma che il socio non può votare quando con il suo voto andrebbe a pregiudicare il patrimoniale sociale o arrecare un possibile danno.
Sono stati fatti vari esempi. Nel caso di un socio che è anche amministratore, è l'assemblea che determina il compenso dell'amministratore stesso, quando si decide sul compenso degli amministratori, l'azionista che è anche l'amministratore, secondo la giurisprudenza non si deve solo astenere dal voto, ma solo se si giudica su un compenso esagerato, questo perché un compenso esagerato potrebbe essere dannoso per il patrimonio sociale. ½ è poi un caso in cui il legislatore valuta in astratto il conflitto di interesse senza nessun altro elemento. Il 3° comma 2373: "gli amministratori non possono votare nelle delibere riguardanti la loro responsabilità", in questo caso il conflitto è previsto dal legislatore, non bisogna andare a vedere se c'è conflitto o se non c'è. E' un ipotesi in cui il legislatore ha già stabilito che è dannoso che voti un socio amministratore quando si delibera sulle azioni sociali di responsabilità. Esempio: Azionista in conflitto di interesse con la società, si deve decidere riguardo l'acquisto di un immobile di proprietà dell'azionista, e la società deve decidere di comprare questo immobile. L'azionista tenterà di lucrare il maggior profitto possibile e la società tenterà invece a spendere meno. Applicando la teoria di Cottino l'azionista non può votare applicando la 2° teoria si guarda alla congruità del prezzo. Quindi si dice che la delibera è annullabile soltanto se potrebbe provocare un giudizio al patrimonio sociale ma anche se il socio in conflitto è stato marginale.
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