I conflitti si possono
risolvere eliminando l'avversario, tradizione ancora viva, modalità non
tollerata dall'ordinamento, pensiamo ad esempio all'ipotesi di una persona
giuridica passibile di essere acquisita ed incorporata tramite oblazioni di
spirito di mercato azionario e così eliminata dal mercato insieme alla
persona fisica che si valeva. Ma attualmente si tratta di casi estremi,
più facile è pensare all'idea che i conflitti possano essere
risolti mediante accordi. La domanda è che se anche abbiamo raggiunto un
accordo a parte la conclusione un po' ambigua, è razionale rispettarlo?
Anche se abbiamo raggiunto un accordo un po' ambiguo, e violare l'accordo
appena l'avversario ha volto le spalle? È chiaro che, il suo dilemma
è delle decisioni razionali, come il dilemma del prigioniero.
Si immaginano due
persone arrestate dalle forze dell'ordine tenute in due celle separate, e a
ciascuna delle due viene fatta la proposta di confessare a discapito del suo
e e le alternatine a disposizione dei due soggetti è o cooperare
col suo e, serbare l'omertà., o denunciarlo, e le possibili
soluzioni, premettendo che i due soggetti sono isolati e non possono
comunicare, hanno esiti diversi come si combinino tra le due parti. Infatti se
tutti e due cooperano al fine di denunciarsi a vicenda, soffriranno un po' di
custodia cautelare per poi essere liberati per mancanza di prove.
Se tutti e due
confessano verranno entrambi condannati a una pena non durissima. Ma se solo
uno dei due tradisce il comno, verrà liberato immediatamente e
l'altro dovrà soffrire una lunga pena detentiva. Questo è il
classico esempio per cui si può immaginare che il caso in cui entrambi
cooperino guadagnano; se entrambi si tradiscono a vicenda guadagnano un punto,
se uno solo dei due tradisce, il tradito guadagna zero punti, il traditore ne
guadagna cinque perché viene liberato immediatamente, quindi dal punto di vista
collettivo conviene cooperare, permettendo a tutti e due di guadagnare tre
punti, ma l'impossibilità di sapere come si comporterà il
e, rende più razionale la strategia della limitazione del danno e
comporta che la strategia individualmente razionale sia di tradire il comno,
sicché il risultato complessivo dei comportamenti individuali razionali
è collettivamente irrazionale perché comporta che entrambi guadagnino
soltanto un punto ed entrambi si tradiranno a vicenda.
I giuristi si sono
interrogati a lungo su questo problema, e alla fine si è trovata una
soluzione per capire come mai invece l'esperienza pratica sembra suggerire che
sia razionale cooperare come mai di fatto perché gli umani sono animali
razionali di solito copre la ragione.
Si è capito che in realtà a
certe condizioni può risultare individualmente vincente una strategia
tendenzialmente cooperativa, è una strategia detta "occhio per
occhio..", si coopera salvo che si sappia di avere a che fare con un traditore
nel qual caso si tradisce. E come si può sapere con chi si ha a che fare
? Basandosi sui precedenti! Cioè la cooperazione diventa razionale se le
condizioni di gioco variano, per cui si giocano diverse partite consecutive, si
conserva a memoria come l'avversario ha giocato negli incontri precedenti.
Esistono più giocatori e vi è una percentuale di giocatori
cooperativi all'interno del gruppo sufficiente, può essere anche una
percentuale minoritaria e anche molto ridotta se il numero dei giocatori
complessivamente è abbastanza ampio. La percentuale necessaria per poter
prevalere la strategia cooperativa diminuisce col crescere dell'ampiezza del
gruppo.
In pratica, quando ci
si ritrova in condizioni più simili a quella della normale interazione
sociale, quando esiste una interazione specifica è possibile serbare
memoria delle interazioni precedenti.
A quelle condizioni
è anzi possibile addirittura verificare il risultato in prospettiva
risolutiva e anche quello è stato fatto, cioè immaginando che vi
siano generazioni successive di giocatori, e che nelle successive generazioni
siano rappresentati in misura maggiore coloro che abbiano avuto maggior
successo nelle tornate di gioco. Quest'esperimento ha provato che su un lungo
periodo le strategie non cooperative sono destinate all'estinzione. Anche in
presenza di giocatori che eccessivamente cooperativi, cioè vittime nate,
perché queste consentono ai predatori, diciamo, di sopravvivere un po'
più a lungo, ma probabilmente anche le vittime nate si estinguono, sono
le prime che si estinguono, e con l'estinzione delle vittime nate anche i
predatori.
La cooperazione quindi
può dirsi razionale se le interazioni interpersonali sono ripetute fra
soggetti riconoscibili in un contesto sociale in cui i soggetti in cooperativa
almeno inizialmente sono presenti in una sufficiente percentuale. In queste
condizioni si possono raggiungere accordi non solo per la soluzione di
conflitti individuali. Soggetti non cooperativi diventano evolutivamente
perdenti e si possono formare istituzioni sociali, istituzioni non
delegittimate dal dissenso individuale, istituzioni che progressivamente
tendonoa monopolizzare quella forza e a
sanzionare se stessi comportamenti non cooperativi in particolare le violazioni
degli accordi, e ancora, queste istituzioni tenderanno a lungo periodo a
favorire il raggiungimento degli accordi prevedendoove l'accordo non si raggiunga
spontaneamente, il conflitto venga risolto in una serie sempre più vasta
di casi dall'autorità costituita, ovviamente sanzionando anche con la
forza ed in ultima analisi ancora con determinazione chi non rispetti la
soluzione del conflitto così conseguita.
I modi
istituzionalizzati per risolvere il conflitto possono non essere procedure, ad
esempio è sempre valida la regola per cui ha sempre ragione il re! Qui
non c'è bisogno di procedure! Oppure possono esserepuramente procedurali e non avere niente a
che fare con i fatti in cui il conflitto ha trovato origine, il caso più
evidente è quello delle ordalie (giudizio divino richiesto in vertenze
giuridiche che non si potevano regolare con mezzi umani), però, tende ad
affermarsi l'idea che la procedura migliore, quella più efficace, per
delegittimare l'assenso della soluzione autoritariamente imposta, sia quella
che consente di capire come gli avversari si sarebbero accordati se fossero
stati più cooperativi. La procedura, quindi, che comporta un'indagine
intorno ai fatti che hanno dato origine al conflitto, e intorno alla soluzione
che sarebbe poi stata trovata, crea preclusioni.
Ci potremmo ancora
domandare. Come individuare quale accordo sarebbe stato raggiunto se di fatto
nessun accordo è stato raggiunto? La prima soluzione è indagare
come si risolvano spontaneamente i conflitti di quel tipo di solito. Quando si adotta
questa tecnica, le prassi sociali acquisiscono forza normativa, ma anche questa
soluzione di solito non è ritenuta sufficiente, anzi, in realtà
non è mai accaduto che una società affidasse completamente alla
prassi sociale spontanea il compito di determinarei criteri per la risoluzione del conflitto.
Si è sempre ritenuto in vario modo, in misura più o meno marcata,
che ciò comporterebbe dinamiche sociali disarmoniche o ingiuste nei
confronti dei più deboli, sulla base di teorie religiose, etiche,
economiche e politiche.
Ovviamente l'adozione
di criteri diversi da quelli operanti nella prassi spontanea può
comportare delle difficoltà, perchéi soggetti coinvolti nel conflitto possono essere indotti proprio dal
timore di dover sottostare alla soluzione divergente da quella attivata nella
prassi, a sottrarsi in vario modoal
meccanismo risolutivo istituzionale. Il fenomeno più volte osservato su
cui torneremo.
Per ora cominciamo a
concentrare l'attenzione su un aspetto diverso : quanto deve durare la
procedura per risolvere il conflitto? Sicché se il termine per la risoluzione
del conflitto è un duello all'ultimo sangue terminerà abbastanza
rapidamente e non ci saranno riesami. Altrimenti, potremo anche immaginare che
la procedura possa protrarsi indefinitamente e sembra bizzarro perché a questo
punto il conflitto non si risolverà mai! Qualsiasi parte soccombente
limiterà la prosecuzione, perché sarebbe sufficiente prevedere, come di
fatti avviene di norma, appunto negli ordinamenti che seguono questo tipo di
soluzione, perché ce ne sono, e la parte soccombente possa si ulteriormente
coltivare il procedimento ma in una posizione aggravata, per esempio
affrontando dei costi sempre superiori.
Nella pratica
prevalente la cosa giudicata comportava che il soccombente dovesse are il
doppio delle spese e successivamente il doppio del doppio e così via. In
generale nei sistemi in cui l'organizzazione del potere è relativamente
meno strutturata e anche nei sistemi in cui si ritiene molto importante che la
controversia sia risolta in modo accurato, cioè applicando in modo
esatto il criterio di risoluzione previsto, si tenga premettere un riesame
senza limiti per la soluzione del conflitto. Nei sistemi come il nostro,
però, tende a prevalere l'idea diversa giustificata in vario modo, e si
può riassumere così: la risoluzione della controversia imposta
dall'autorità costituita si soggetta al controllo e al riesame di vario
genere entro limiti di tempo ristretti ed in numero limitato. Una volta che
indagini e controlli non siano stati richiesti entro tali ristretti limiti
ovvero siano stati esperiti ed esauriti nel loro limitato numero, una volta
quindi per esempio, in particolare che la soluzione sia stata ritenuta esatta
dall'organo posto al vertice della piramide dell'organizzazione
dell'autorità preposta a risolvere le controversie, ogni ulteriore
riesame è tendenzialmente escluso e a tale fenomeno si da il nome di cosa
giudicata.
Quest'istituto
è a tal punto un asse portante del sistema in cui si risolvono i
conflitti nel nostro ordinamento ed intorno ad esso verterà gran parte
del corso e in particolare ci soffermeremo su questo problema sulle lezioni
introduttive. In particolare cercheremo d capire che cosa indichi quello strano
avverbio, infatti per capire in cosa consista il fenomeno della cosa giudicata
è importante avere innanzi tutto in mente in quali casi una diversa
soluzione della controversia da parte dell'autorità preposta sia ancora
possibile.
Questi casi si possono
raggruppare in varie categorie, anzitutto ci sono quei casi in cui la legge
attribuisce particolare importanza all'accuratezza della decisione sicché si
può sempre dimostrare che essa era sbagliata. A volte
l'opportunità di fornire tale dimostrazione sono concessi in modo
asimmetrico così particolarmente evidente in sede penale. Ora per
ragioni che comprenderete studiando altre materie l'efficacia vincolante della
cosa giudicata in sfavore dell'imputato è assai più tenue di
quella in suo favore.
Poi ci sono casi in
cui la legge attribuisce importanza alla correttezza della procedura, anche
indipendentemente dall'esattezza della soluzione raggiunta, sicché,
tipicamente, la successiva scoperta di una frode nel processo consente di
ottenere un nuovo giudizio. Ancora poi ci sono casi specialmente in ordinamenti
meno fortunati del nostro in cui il potere di risolvere autoritariamente i
conflitti è ancora più rallentato, e poi è facile che si
faccia valere in ogni tempo la violazione dei criteri di riparto di tale
potere, per cui ci si può rivolgere all'organo appartenente alla
giurisdizione concorrente per chiedere a lui il riesame della decisione sul
presupposto che in realtà lui avrebbe dovuto decidere.
In tutti questi tipi
di casi avremo modo di riparlarne più avanti, per ora ci limitiamo ad
accennare all'esistenza di questi aspetti, di queste ipotesi in cui viene
eliminata l'efficacia del giudicato.
Più importante
è pero da subito, è capire come quel "tendenzialmente", questo
avverbio limitativo, possa alludere a quelli che si suole denominare limiti
di efficacia della cosa giudicata.
Qui non ci poniamo il
problema di eliminare l'efficacia vincolante formatasi, ma di individuare fino
a dove si spinga l'efficacia vincolante. Possiamo ripartire ancora in tre
categorie i limiti di efficacia della cosa giudicata, si parla tradizionalmente
di limiti soggettivi dell'efficacia della cosa giudicata per alludere
alla circostanza che nuovo giudizio, nuovo esame della controversia e la nuova
soluzione del conflitto sia impedita ad alcuni soggetti, ma non ad altri.
Ora immaginiamo un mondo dove esistano solo due
avversari. Poi ci sono dei limiti oggettivi di efficacia della cosa
giudicata, con questa espressione si allude alla circostanzache un nuovo giudizio, un nuovo esame sia
escluso intorno a certi aspetti del conflitto e su questo ritorneremo fra
breve.
Da subito affrontiamo il caso, forse, più
semplice da capire, cioè quelli che si possono denominare limiti
cronologici dell'efficacia della cosa giudicata, si allude al caso
più semplice dei casi, "Tizio viene condannato a are 100 lire a Caio"
si forma un efficacia vincolante su questo accertamento dell'effetto giuridico
per cui Tizio è debitore di Caio di 100 lire, ma poi, magari le a e
dopo che le ha ate non è più debitore di 100 lire. Ossia a
monte si usa un'espressione un po' equivoca, quella del giudicato rebus
istantibus , equivoca perché in realtà il giudicato è sempre rebus
istantibus, ovvero sia, l'effetto giuridico accertato la soluzione della
controversia imposta dall'autorità costituita vale come soluzione del
conflitto sorto da tutti quei fatti che si siano verificati in tempo utile per
farsi valere nel processo. Si dice ancheche il giudicato copre il dedotto e il deducibile soprattutto per
alludere alla circostanza che ciò che può essere dedotto è
precluso anche se non è stato dedotto, ma è agevole sottolineare
il contrario per ottenere ciò che non era deducibile perché non ancora
verificatosi non può essere precluso.
I fatti successivi alla formazione del giudicato e gli
effetti giuridici prodotti da fatti successivi alla formazione del giudicato
non sono coperti da tale efficacia vincolante, questo sta nella regola che
consente di risolvere il noto paradosso dell'insegnante di diritto, che
è un paradosso fallace. Ci sono insiemi nella logica, ovviamente, ci
sono insiemi che sono membri di se stessie insiemi che non sono membri di se stessi, l'insieme degli insiemi
è vincolo di se stesso perché è pur sempre un insieme, mentre gli
insiemi del codice di procedura civile non è membro di se stesso perché
il codice di procedura civile non è un insieme.
Ora, l'insieme di tutti gli insiemi che non sono
membri di se stessi è membro di se stesso? È sbagliato dire si
come dire no, questo è un paradosso che porta ad una contraddizione
logica perché la pregiudizialità sono insolubili ed insuperabili. Gli
insiemi di tutti gli insiemi che non sono membri di se stesso fosse membro di
se stesso, sarebbe un insieme che non è membro di se stesso e non
potrebbe far parte degliinsiemi che non
sono membri di se stessi, ovviamente se lo fosse, viceversa, è questo un
paradosso realmente non risolvibile.
Invece è molto noto e molte volte descritto un
paradosso fallace per l'insegnante di diritto, cioè nel momento in cui
è noto: Caio insegna a Tizio a diventare avvocato con il patto che
verrà ato non appena Tizio vincerà una causa. Concluse le
lezioni Tizio non fa la professione di avvocato, quindi non soddisfa mai la
condizione di aver vinto una causa. A questo punto è il maestro che lo
trascina in giudizio per il amento della somma. E qui ci sembra di essere di
fronte ad un paradosso insolubile, perché, se appunto la domanda viene
rigettata ecco che viene soddisfatta la condizione per cui la domanda dovrebbe
essere accolta, ma il paradosso fallace si risolve facilmente sul piano dei
limiti cronologici del giudicato, la domanda è rigettata per mancato
avveramento della condizione, ma può essere ovviamente riproposta
facendo valere la circostanza che appunto la condizione si sia avverata a
seguito della precedente soccombenza dell'attore.
In quanto tale soccombenza realizzata attraverso la
definizione del primo giudizio non era deducibile in quel primo giudizio,
sicché l'effetto giuridico prodottosi in un tempo tale da non potere essere
fatto valere in quel primo giudizio potrà essere fatto valere in un
secondo nel quale il maestro potrà ottenere quanto gli spetta.
Quale è il momento esatto nel quale dobbiamo
determinare la formazione del limite cronologico del giudicato civile? Dato che
vedremo che esistono sistemi di preclusione alla deduzione dei fatti del
processo civile, in realtà il momento a cui faremo riferimento per
distinguere ciò che era deducibile da ciò che non lo era non
sarà, come nel caso che abbiamo descritto ora quello della pronuncia
della sentenza, ma sarà un momento ancora precedente cioè
sarà l'ultimo momento in cui sarebbe stato possibile dedurre quel fatto,
esiste naturalmente uno iato (interruzione) cronologico dal momento in cui la
sentenza è pronunciata e in quello in cui non è più
possibile dedurre nuovi fatti e quindi il giudice esaminerà i fatti
dedotti.
Quindi può accadere che si consideri
cronologicamente successivo il fatto prodottosi precedentemente alla pronuncia
della sentenza. E per quel che riguarda le norme? Fino ad ora abbiamo parlate
delle sopravvenienze di fatto, ma immaginiamo che ci si una sopravvenienza di
norma. Cambia il diritto sostanziale applicabile alla fattispecie e ovviamente
cambia con effetto retroattivo, cioè in misura tale di risultare
applicabile anche a rapporti perfezionatisi precedentemente all'entrata in
vigore della nuova legge, cosa che può capitare, perché la legge
può essere retroattiva. Qui in certo senso va all'incontrario alla legge
si applica d'ufficio la iura novit curia è la regola, il giudice
applica la legge vigente senza bisogno che le parti glielo richiedano.
L'efficacia vincolante del giudicato civile è
generalmente ritenuta tale da far si che la sopravvenienza di leggi in corso di
giudizio venga appunto applicata d'ufficio dal giudice e quindi non si possa
più lamentare l'inesattezza della sua applicazione dopo la formazione
del giudicato e per converso la sopravvenienza di nuove leggi anche retroattive
investe si rapporti sostanziali, salvo però che si sia formato su di
essi la cosa giudicata, perché in questo caso l'attribuzione del bene della
vita assurge a diritto acquisito intangibile anche da parte del legislatore,
fatta eccezione della nota ipotesi della legge sempre favorevole al reo che si
applica sempre retroattivamente anche prevalendo sul giudicato penale di
condanna, ma fatta eccezione per questa ipotesi lo ius superveniens non
può prevalere sul giudicato, nemmeno quando si tratti di declaratorie di
legittimità costituzionale che appunto non si possono prevalere sul
giudicato penale di condanna.
Questa è la regola generale, però, salvo
ovviamente la coincidenza delle sopravvenienze con fattispecie eliminative
dell'efficacia del giudicato, cioè se si dimostra la prova e viene
quindi meno l'efficacia del giudicato a quel punto la controversia verrà
risolta applicando anche il superveniens.
Questa è la soluzione classica lineare,
però abbiamo già l'occasione di confrontarci con una delle
classiche dinamichedi cui ci dobbiamo
impadronire se vogliamo fare il giurista.
Classica dinamica è quella per cui c'è
una regola chiara, semplice, facile da applicare, che però la diretta
facile applicazione della regola comporta un risultato ingiusto. Allora il
compito del giurista dev'essere quello di riuscire a riformulare la regola in
modo più sofisticato in modo da conservarle il carattere di
generalità ed astrattezza senza che però comporti un risultato
ripugnante.
Ora facciamo un esempio: Tizio, lavoratore
subordinato, Caio lo licenzia per motivo discriminatorio, ci si costituisce in
giudizio per far dichiarare l'illegittimità di licenziamento e vince la
causa con sentenza che passa in giudicato. Il giorno dopo il passato in
giudicato della sentenza, Caio licenzia nuovamente Tizio per lo stesso motivo.
Alché viene trascinato in giudizio, e si pensa che ci sia poco da discutere in
quanto c'è già il giudicato! Il convenuto oppone un'eccezione che
dà da pensare e cioè stiamo discutendo di un effetto giuridico
prodotto da una fattispecie perfezionatasi successivamente,perché stiamo improntando un licenziamento
diverso, che si è perfezionato dopo la formazione di quel giudicato e
quindi su di esso non può prodursi alcun effetto vincolante.
Sul piano tecnico dà da pensare e la soluzione
preferibile è quella di ritenere che l'effetto del giudicato copra anche
quelle fattispecie che si siano perfezionate successivamente alla sua
formazione quando queste fattispecie a formazione progressiva si erano
interamente perfezionate in maniera tale da poter essere dedotte nel precedente
giudizio, fatte eccezione soltanto per un elemento costituito dalla mera
manifestazione di volontà che avrebbe potuto essere resa
precedentemente.
Le ipotesi in cui sia successiva alla formazione del
giudicato esclusivamente una manifestazione di volontà che avrebbe
potuto essere resa in tempo utile per essere fatta valere nel precedente
giudizio, si dice allora, in realtà, questo elemento della fattispecie
era deducibile nel precedente processo perché sarebbe stato sufficiente
manifestare la volontà in tempo utile e quindi dedurre l'effetto nel
processo, e se ciò non è stato fatto la parte interessata stessa
ne porta la responsabilità, non può quindi avvantaggiarsi della
sua inutile dilazionedell'emanazione
della manifestazione di volontà.
Cominciamo ad introdurre, allora, i limiti oggettivi
della cosa giudicata. Quali sono i fattori che maggiormente rilevano il
determinare dei limiti oggettivi della cosa giudicata? Almeno due diversi sono
i fattori più importanti. Uno è il caso di accuratezza
dell'accertamento del fatto in relazione all'eventualità che
l'efficacia vincolante del giudicato si produca oltre che sui diritti anche sui
fatti.
Possiamo concepire un'efficacia del giudicato sul
fatto in ipotesi in cui si abbia un accertamento del fatto particolarmente
accurato, quindi il giudicato civile non concerne i fatti, non ha per oggetto i
fatti come regola generale, perché l'accertamento del fatto nel processo civile
è largamente convenzionale, poco curato, poco preciso e quindi ad
eccezione forse per alcune fattispecie particolari in cui, per altro, si fa
luogo ad un accertamento accurato del fattocome quella della querela di falso. In linea generale il giudicato
civile non concerne i fatti, ma appunto i diritti, cioè le situazioni di
vantaggio attributive dei beni della vita, questo non vuol dire che non si
debba fare riferimento ai fatti per individuare la portata del giudicato perché
in realtà, come vedremo, occorre fare largamente riferimento ai fatti
per individuare quali situazioni di vantaggio siano state dedotte, conosciute,
giudicate nel processo.
Un altro fattore costituito dal grado di
frammentazione del potere in relazione all'eventualità che l'efficacia
del giudicato copra oltre che i diritti, cioè quelle situazioni di
vantaggio protette dall'ordinamento sostanziale attributive del bene della
vita, incidentalmente potremo discutere se tale attribuzione debba o meno
giudicare anche il cosiddetto ius escludendi, cioè il diritto di
escludere altri dalla frizione dello stesso bene della vita, i diritti
soggettivi della tradizione occidentale individualista sono caratterizzati
tecnicamente dallo ius escludendi ossia l'apogeo della rivoluzione
borghese, però, soprattutto gli ultimi decenni si sono via via
riscoperte situazioni sostanziali di vantaggio qualificati come diritti
soggettivi e meritevoli della correlata protezione costituzionale anche in
situazioni di vantaggio non passibili di appropriazione esclusiva, il che
comporta numerose complicazioni di diritto processuale su cui ritorneremo, ma
adesso dobbiamo pensare ad un altro problema, cioè se oggetto
dell'efficacia vincolante sia non solo queste situazioni di vantaggio siano
anche le cosiddette questioni.
Cosa sono le questioni? Si allude specialmente,
parlando di questioni di fatto, questioni di diritto, quelle fattispecie, pur
essendo giuridicamente rilevanti, non attribuiscono il bene della vita.
Se in processo si discute davanti a più ragioni
concorrenti per attribuire o negare il bene della vita, circostanza che si neghi
la fondatezza di una ragione non implica necessariamente che il caso sia
risolto. Ebbene esiste davvero un nesso fra la disciplina del giudicato sulle
questioni e il grado di frammentazione del potere? È un idea venuta
dalla dottrina tradizionale e rappresenta un'intuizione abbastanza corretta sul
piano atistico, perché effettivamente ordinamenti caratterizzati da
sistemi giurisdizionali più frammentati e come dicevamo prima può
facilmente capitare che il giudicato sia contestato in ogni tempo attraverso la
contestazione della violazione dei criteri di riparto nell'attribuzione del
potere di risolvere i conflitti, sistemi dall'esigenza di equilibrare in
qualche modo questa maggiore instabilità o debolezza del giudicato
attribuendo al giudicato, validamente formatosi, l'effetto vincolante oltre che
sui diritti anche sulle singole questioni, con vari aggiustamenti solo quando
le questioni siano state discusse e decise, anche ai confronti di terzi.
Negli ordinamenti dell'Europa continentale il
giudicato civile è frutto di accertamento di fatti poco accurato, per
altro verso è abbastanza difficile eliminare il giudicato rivolgendosi
ad un giudice concorrente per l'organizzazione dell'amministrazione della
giustizia cheè competitiva al
suo interno più cooperativa o corporativa se vogliamo.
Quindi si afferma, nella tradizione dell'Europa
continentale, la regola contenuta e denunciata forse nel modo più chiaro
nell'art. 332 del c.p.c. tedesco. Cosa dice questo articolo? Dice che la cosa
giudicata si forma sull'accertamento contenuto nella sentenza che pronuncia
sulla pretesa fatta valere con la domanda, ossia la sentenza che accoglie o
rigetta la domanda, cioè sulla sentenza che attribuisce o nega
l'attribuzione del bene della vita.
Nella dottrina tradizionale italiana in realtà
non si basava sul confronto con gli ordinamenti di common law, e anche
quell'episodio del più celebre processualista del secolo scorso, il
Chiovenda, sosteneva tesi che potevano essere in larga misura corroborate da
un'analisi della disciplina del processo dei paesi anglosassoni. In una sua
opera e la nota "..do conferma delle mie idee anche dalla prassi delle
corti inglesi che ho potuto frequentare..". In realtà questa connessione
tra casi di burocratizzazione del potere giudiziario e disciplina del giudicato
questa correlazione veniva rintracciata soprattutto attraverso lo studio delle
esperienze del diritto romano.
Alcune curiose impressioni dettate dalla cura
razionalistica del tempo, perché Chiovenda voleva sostenere la portata della
soluzione tedesca, e voleva sostenere che era profondamente sbagliata, perché
in effetti è profondamente sbagliato,un brocardo che si sente nominare: "la cosa giudicata non e bianca o
nera e quadra il cerchio ecc.". questo diceva Chiovenda non è assolutamente
vero e in effetti no è vero, l'efficacia del giudicato è molto
più leggera, e soprattutto non copre fatti come essere una cosa bianca o
nera, o quadrata anziché rotonda.
Per sostenere però, in pieno nazionalismo, che
bisognava adottare la regola tedesca, non questo brocardo romanistico dove si
spingeva a dimostrare che la regola veramente romana era quella tedesca e
quindi il brocardo in realtà era frutto di una corruzione medioevale dei
costumi romani. La sua tesi non era proprio priva di fondamento nel senso che
effettivamente il brocardo era di epoca tarda per un verso e per altro verso
che in Germania si era adottato il diritto romano come diritto vigente ed il Corpus
iuris è stato fondamento del diritto germanico e quindi più
romanistico del diritto italiano.
In realtà la regola romana del giudicato era
ancora diversa da quella detta prima di quella della possibilità del
riesame senza limiti con sanzioni pecuniarie e progressivamente aggravanti a
favore della parte soccombente.
Cosa dice il diritto positivo italiano a proposito di
questo tema? Chiaro che il punto di partenza è l'art. 2909del c.c.
spiega che cos'è la cosa giudicata che è l'accertamento contenuto
nella sentenza fa stato tra le parti. Il primo problema a cui accenniamo
è una delle eventualità che la cosa giudicata possa formarsi su
accertamenti contenuti in provvedimenti aventi forma diversa da quella della
sentenza.
Abbiamo poi un articolo 324 del c.p.c. che ci indica
il momento in cui la sentenza passa in giudicato, ossia il momento in
cui l'accertamento contenuto nella sentenza diventa idoneo a fare stato, e poi
abbiamo l'art. 279 del c.p.c. che ci dice quando il giudice pronuncia sentenza
e questo incide direttamente sul problema di oggi, perché l'art. 279 ci dice
che il giudice pronuncia sentenza anche quando non definisce il giudizio e
cioè anche quando non attribuisce il bene della vita. Questo può
accadere, infatti, tutte le volte in cui sorga una questione idonea a definire
il giudizio, come prevede l'art 187, la causa venga quindi rimessa in decisione
e la pronuncia di una sentenza dove questa questione risulta infondata, per
esempio viene sollevata eccezione di prescrizione, la causa è rimessa in
decisione e la sentenza è di rigetto per eccezione di prescrizione ma
non ancora di accoglimento della domanda. Qui abbiamo una sentenza, ma è
una sentenza che pronuncia sulla mera questione e non contiene una pronuncia di
accoglimento di rigetto della domanda, ma di accoglimento di rigetto solo
dell'eccezione, cioè di un effetto giuridico che può concorrere
con altri per giustificare l'accoglimento col rigetto della domanda ma che in
questo caso non ha concordato il rigetto della domanda. Ma questa è una
storia bislacca! Il giudice rimetterà la causa in decisione, se ritiene
che l'eccezione sia fondata, altrimenti non la rimette in decisione
prima di sentire o magari di assumere le prove per sapere se il credito esiste.
La rimette in decisione per la prescrizione quando
intende accoglierla, è chiaro che questa è la formalità
dell'ipotesi ed è senz'altro strano che il giudice cambi idea, ma in
realtà succede.
Oggi sono, a dire il vero, i casi tipici indicati
dalla legge, ma una volta addirittura si trattava della regola generale,
succede che il giudice che decide quando decide non coincide completamente con
il giudice che decide per varie ragioni storiche legate al problema di
contemperare l'aspirazione alla collegialità della decisione per quanto
possibile e le esigenze di razionalità nella gestione delle risorse umane,
e le risorse umane nell'apparato giudiziario.
Nel codice del '42 era previsto, come regola generale,
che le cause di competenza dei tribunale in composizione collegiale, la
causa venisse istruita davanti ad uno solo dei componenti del collegio, il
cosiddetto giudice istruttore, e mentre la decisione veniva resa dal
collegio, la decisione su quando decidere veniva resa dal giudice istruttore,
quindi, accadeva in realtà, assai di frequente, che il giudice
istruttore ritenesse che una questione potesse essere decisa in modo da
definire il giudizio e il collegio, invece, la risolvesse a maggioranza in
senso tale da non definirlo giudizio, e si aveva così la pronuncia della
cosiddetta sentenza non definitiva.
Fenomeno che è rimasto in realtà ancora
molto frequente per varie ragioni, che vedremo man mano.
Il sistema delle sentenze non definitive ha
soprattutto una grossa controindicazione pratica, cioè la circostanza
che si affermi poi, ma non sarebbe necessario affermarla però di fatto
si è affermata la regola dell'impugnabilità immediata della
sentenza non definitiva che comporta la pubblicazione dei procedimenti,
necessità di coordinare procedimenti pendenti in primo grado e
procedimenti pendenti in sede d'impugnazione della sentenza non definitiva resa
nel corso dal giudice di primo grado.
Ma soprattutto, per il discorso che stiamo facendo
adesso, il problema è delicato, perché una lettura lineare delle norme
che abbiamo enunciato prima, 2909, 324, 279, ci porta a concludere che tutte le
sentenze su questioni, anche se non attribuiscono un bene della vita, ne
risultano idonee.
La regola posta dall'art. 322 del codice tedesco,
sembrerebbe completamente disattesa, perché l'art. 2909 non fa menzione alcuna
alla distinzione fra sentenze definitive e non definitive, non dice solo le
sentenze definitive, niente affatto, non dice l'accertamento contenuto nella
sentenza che accoglie o che rigetta la domanda, un accertamento contenuto nella
domanda che attecchisce un bene della vita o nega l'attribuzione di un bene
della vita, dice solo che la sentenza è passata in giudicato, e la
sentenza non definitiva, pacificamente, è impugnabile, la dove
l'impugnazione così proposta passa in giudicato. Ma stanno proprio
così le cose? Qual è la regola per le sentenze che pronunciano su
questioni che rigettano eccezioni, o che comunque, non pronunciano sulla
domanda?
Un primo aspetto importante è distinguere le questioni
di merito dalle questioni di diritto. La faccenda è delicata
perché il codice usa l'espressione "merito" in modo sovente ambiguo, perché
cambia di volta in volta il termine soprattutto nelle questioni di merito,
appunto, che le questioni vengono contrapposte, per esempio, a volte, si parla
di questioni di merito in contrapposizione alle questioni di competenza
e allora si intende per merito qualsiasi questione diversa da quella di
competenza. In prima approssimazione definiamo come questioni di merito quelle
che riguardano il conflitto dal quale ha avuto origine la controversia e
questionidi diritto quelle che
riguardano lo svolgimento del processo, mediante il quale si intende risolvere
la controversia stessa.
È una distinzione dalla quale possiamo trarre
molte implicazioni, ad esempio in tema di modalità di prova dei relativi
fatti, perché quello che avviene nel processo viene verbalizzato, quindi in un
certo senso, la prova dei fatti processuali è nel fascicolo del processo
stesso, sicché, come vedremo, ad esempio, la generale regola per cui la
Cassazione non è giudice del fatto, in quanto, dinanzi la Cassazione non
può aver luogo l'istruzione probatoria, cioè non può aver
luogo assunzione di prove costituende, non si possono sentire testimoni in
Cassazione, trova eccezione rispetto ai fatti processuali, perché rispetto a
questi fatti, invece la Cassazione è giudice del fatto quale accertato
attraverso il fascicolo d'Ufficio.
Ancora c'è una distinzione
nell'applicabilità della legge straniera dal punto di vista del
diritto internazionale privato, altro è la lex fori che vale
sempre per il processo. Molte complicazioni sorgono dall'ambiguità che
caratterizza, sia la distinzione tra la legge sostanziale e la legge
processuale, sia la distinzione fra fatti processuali e fatti sostanziali,
perché dal secondo punto di vista si può notare che attraverso atti del
processo si possono anche compiere negozi. Dal primo punto di vista si
può anche notare distinguere la legge processuale da quella
sostanziale è spesso difficile, non solo perché senza il processo
l'unica legge possibile e quella della jungla, la legge del più forte,
vediamo ad esempio una questione del genere. Qual è l'autorità
preposta a risolvere il conflitto? Sembra proprio una questione attinente solo
al processo, però e facile indicare due diversi tipi di complicazioni;
anzitutto, può darsi che la soluzione dipenda da caratteristiche del
conflitto da cui dipende anche a debba attribuirsi il bene della vita. E in
questo caso, la questione attiene sia la rito, sia al merito. Bisogna stabilire
se magari si possa deciderla in modo diverso a seconda se la si decide ai fini
del rito o ai fini del merito, a secondo se la si decida solo per indicare
quando l'autorità debba risolvere il conflitto o ancheverificare a chi debba attribuirsi il bene
della vita.
Inoltre, può darsi ancheche si debba dire che nessuna autorità
è preposta a risolvere il conflitto, perché non tutti i conflitti sono
meritevoli si una soluzione autoritativa. Spesso si dice che lo sviluppo
sociale rende giustiziabili sempre più conflitti, ma questi tendono ad
essere come i bisogni tendenzialmente illimitati, mentre le risorse sono
limitate e quindi esigenze di efficienza nell'avocazione delle risorse
impongono vari modi di escludere l'intervento dell'autorità nella
risoluzione dei conflitti meno importanti, come , dare la precedenza
nell'entrare in un portone, o salutarsi con la stretta di mano. La legge non
conferisce un diritto soggettivo alla stretta di mano. È chiaro che la
conclusione, secondo cui nessuna autorità è preposta a risolvere
il conflitto? E una decisione sul processo che però non può non
essere anche risolutiva del conflitto, perché il bene della vita, la
precedenza, il rifiuto di stringere la mano, rimane attribuito a chi già
lo possiede e negato a chi ne ha fatto richiesta all'autorità preposta.
Quindi non si può neppure decidere in modo diverso a seconda se si
decide ai fini del diritto o ai fini del merito.
Ciò premesso, chiariamo perché si è
introdotta questa distinzione, fra questioni di diritto e questioni di merito,
prendendo in esame la tipica o forse più importante , la questione
chiave tra le questioni di diritti, cioè, quella relativa
all'individuazione dell'organo a cui spetta il potere di risolvere la
controversia e l'ipotesi che si discuta che almeno a qualche organo tale potere
deve spettare sia quel tipo di questioni che si definisce come questioni di
competenza in senso stretto.
Ebbene, rispetto a questi problemi, esiste un
argomento molto corposo a favore di quanti vogliono negare che il giudicato si
formi sulle questioni, almeno per questa ipotesi un argomento molto forte
è fornito dall'art. 210 del c.p.c.
Questa norma fa riferimento all'ipotesi in cui il
processo si estingua, e cioè, l'ipotesi in cui il processo si concluda
senza una pronuncia attributiva del bene della vita per esempio può
accadere che il processo civile soggetto all'impulso delle parti interessate e
quindi se queste parti si astengono dal coltivare il processo, questo appunto
si estingue e quindi viene definito senza una pronuncia definitiva di merito
alla controversia.
L'art. 310 ci dice che in quest'ipotesi
l'estinzione del processo non estingue l'azione intendendo dire con ciò che è possibile
riproporre la domanda, cioè che la parte interessata si rivolga
nuovamente al giudice per ottenere la risoluzione autoritativa del conflitto,
quando ciò non le sia impedito dalla circostanza che il processo si sia
estinto in precedenza, e aggiunge l'art. 310, che in questo caso gli atti
compiuti perdono effetto tranne le sentenze di merito e quelle che regolano la
competenza.
Il significato della norma è che nell'ipotesi
in cui, appunto, venga nuovamente proposta domanda è egualmente
esercitata l'azione si chieda al giudice di risolvere il conflitto, si
potrà ridiscuteretranne
ciò risulti coperto specificamente da una sentenza sul merito da una
sentenza che regoli la competenza; e per sentenza regolatrice la competenza
si intende, tradizionalmente, esclusivamente la sentenza sulla competenza
pronunciata dalla Corte di Cassazione, cioè dall'organo di vertice della
piramide dell'organizzazione giudiziaria, adita a seguito di regolamento di
competenza o di ricorso ordinario, ma sempre purché sulla questione di
competenza vi è pronunciato la Cassazione. A queste sentenze sono
equiparate quelle della Cassazione sulla giurisdizione, mentre tutte le
altre sentenze su questioni di rito diverse dalla questione di competenza,
ovvero su questioni di competenza o di giurisdizione, ma rese da giudici
diversi dalla Cassazione, diventerebbero inefficaci e quindi prive, anche se
passate in giudicato perché non tempestivamente impugnate nel corso del
procedimento in cui sono state rese, inefficaci ed inidonee a produrre alcun
effetto vincolante nel contesto del giudizio successivamente proposto.
Sembra che la soluzione si giustifichi perché questo
è un processo diverso, se una sentenza ha dichiarato la nullità
di un atto del processo in un processo diverso, che importanza avrà
l'efficacia vincolante di quella sentenza? Nessuna, perché concerne la
nullità di un atto di un diverso processo, ma non è sempre così
facile! Perché non ha senso richiedere che la sentenza possa produrre effetto
dopo tanti anni dalla soluzione del diverso processo. In particolare se
è stata risolta con sentenza passata in giudicato la questione della
competenza del giudice, almeno una delle parti potrebbe trovare interessante
poter utilizzare quella sentenza per impedire che si discuta ulteriormente se
il giudice adito la volta successiva sia davvero competente e invece questa
norma la esclude, perché permette di discutere la questione di competenza in
tutte le ipotesi in cui non sia stata la questione risolta, o da una sentenza
di Cassazione ovvero da una sentenza sul merito perché, secondo l'opinione
dominante, esiste un ordine logico di priorità tra le questioni di
diritto e le questioni di merito per cui un giudice non può pronunciare
sul merito se esistono eccezioni di rito impeditivo di accoglimento della
domanda e quindi nel momento in cui pronuncia anche parzialmente sul merito,
anche solo allo scopo di rendere pronuncia non definitiva di rigetto di un
eccezione, almeno implicitamente esclude che esistano fondate eccezioni di
rito.
Quindi il passaggio in giudicato di sentenza anche non
definitiva di merito impedisce che possa ridiscutersi la questione di
competenza nel successivo giudizio, nel giudizio avviato a seguito
dell'estinzione. Però, se invece non si è verificato nulla di
tutto questo, cioè non c'è stata ne una sentenza sul merito, ne
una pronuncia regolatrice della Corte di Cassazione, sembra che la questione di
competenza possa essere chiaramente ridiscussa, e quindi si possa giustificare
la conclusione dominante secondo cui solo le sentenze di merito sono passibili
di produrre effetti di giudicato sostanziale e quindi anche di giudicato
esterno cioè di un giudicato vincolante in un diverso processo. Mentre
sulle questioni di rito il giudicato è meramente interno,
cioè operante soltanto all'interno del medesimo processo in cui si
è formato.
Vediamo gli artt. 44, 45 e 50 de codice di rito,
perché , immaginiamo che il giudice adito non volendo pregiudicare l'attore che
abbia ragione del merito e che per errore si sia rivolto al giudice
incompetente. Sicché l'art. 50 prevede che a seguito dell'eliminatoria
competenza, definisce appunto la sentenza con il quale il giudice si dichiara
incompetente, la causa possaessere
riassunta dinanzi al giudice indicato come competente , ottenendo così
l'effetto che il processo continui dinanzi a quel giudice, e ciò
comporta che restino fermi gli effetti derivanti dalla proposizione della
domanda giudiziale e sono numerosi effetti processuali e sostanziali tutti
tendenti ad attuare il principio secondo cui la durata del processo non deve
tornare a pregiudizio dell'attore che abbia ragione del merito.
Questi effetti sono: ad esempio l'effetto
interruttivo, sospensivo della prescrizione, la domanda giudiziale non
soltanto interrompe il corso della prescrizione coma accade a qualsiasi atto
anche stragiudiziale di costituzione in mora, ma ne sospende anche il corso per
tutta la durata del procedimento, salvo che il giudice si estingua.
La sentenza passa in giudicato, e se il processo viene
tempestivamente riassunto continua attraverso il tribunale adito, e il
giudicato è un giudicato interno ad uno stesso processo, eppure gli
artt. 44, 45 ci dicono che la questione della competenza, almeno sotto certi
profili, cioè con riferimento all'ipotesi che il giudice indicato
come competente sia però, in realtà, incompetente per ragioni di
materia o per ragioni di territorio inderogabile, come si dice, la
questione di competenza possa ancora essere decisa diversamente.
Il giudice successivamente adito può,
cioè d'ufficio, dubitare della propria competenza e in tal caso promuove
d'ufficio un procedimento per il regolamento della competenza allo scopo di
conseguire, appunto, una pronuncia della Corte di Cassazione intorno alla
questione di competenza, ossia una pronuncia che essa sola in realtà sia
in grado di produrre i propri effetti anche in processi diversi. Sicché nell'ipotesi
di sentenza declinatoria della competenza, addirittura, la pronuncia non
è passibile nemmeno di giudicato interno, neppure all'interno dello
stesso processo si producono effetti vincolanti il giudicato per una pronuncia
che pure non è stata impugnata dalle parti. Un istituto su cui
ritorneremo, perché ha tanti aspetti interessanti costituisce lo sviluppo in
una attenuazione di un'idea abbastanza sofisticata, espressa per chiamarla in
una locuzione tedesca "competens-competens", che sarebbe il principio secondo
cui ciascun giudice è competente a giudicare della propria competenza,
è un principio che in realtà ha un suo senso logico con
riferimento ad un problema del tutto diverso, cioè ci si pone il
problema se rispetto ad una causa per la quale il giudice sia incompetente,
egli possa dichiararsi incompetente, deve avere la competenza per riscontrare
la propria competenza, non può non averla, questo, certo sul piano
logico è indefettibile, magari non è banalissimo, però,
non può che essere così, salvo che ci sia un giudicato di una
competenza.
Si può benissimo tenere fermo quanto vi
è di logico necessariamente di principio, senza con ciò
consentire che addirittura una sentenza passata in giudicato sulla competenza
possa impedire ad un giudice di essere competente a giudicare la propria
competenza.
Qui si è trovata una soluzione di compromesso
per quei fatti, giudice della riassunzione non è che il tutto competente
a conoscere della propria competenza, perché può conoscere solo di
alcuni profili di competenza, solo rispetto ad alcuni profili può ancora
coltivare il dubbio, promuovere regolamento d'ufficio per ottenere una diversa
decisione da parte della Corte di Cassazione, è una soluzione di scelta
di compromesso. Perché, comunque, almeno sotto altri profili si è risaputo
che il qualche modo si giustificasse questa soluzione anche per evitare di
incentivare lo scarica barili!
In realtà alcune limitazioni ci sono; solo
alcuni profili possono essere sollevati, inoltre, il dubbio del secondo
giudice, si ritiene oggi che debba essere sollevato definitivamente
In passato ritenevano che la violazione dei criteri di
competenza inderogabili per accordo delle parti, potesse essere fatta valere in
ogni tempo, anche al di la della formazione della cosa giudicata sostanziale,
sulla base del codice previgente, e questa, è appunto, una logica
caratteristica di sistemi più frammentati di amministrazioni della
giustizia per far valere, in ogni tempo, le violazioni dei criteri di riparto.
La tendenza odierna è, nel senso che la possibilità
di discutere a lungo delle questioni di competenza debba essere fortemente
limitata e anche la legislazione è orientata verso questo senso, e
qualcuno ha sostenuto, quindi, che anche questo sistema, il sistema del
regolamento di competenza d'ufficio sia stato abrogato implicitamente, sicché
oggi, invece risulterebbe sempre possibile lo "scarica barile " del primo
giudice, se non sono le parti a richiedere un controllo sulla declaratoria di
competenza del giudice inizialmente adito.
Così, si giungerebbe alla conclusione che le
pronunce sulla competenza diverrebbero, in questo caso, a giudicato interno,
sempre idonee, però, in realtà, l'interpretazione di questo
genere è difficile da accogliere, perché si prospetta un'abrogazione implicita
da parte di una disciplina parte di una legge che è stata molto precisa
ad indicare anche le abrogazioni delle norme incompatibili con le sue
disposizioni, e non tanto per sia in gioco la garanzia del giudice naturale,
perché è sempre conferita alle parti la possibilità di conseguire
un controllo, anche in Cassazione, anche in sede di legittimità della
decisione sulla questione della spettanza ad uno o all'atro giudice del potere
di risolvere la controversia.
Se poi entrambe sono d'accordo di eludere la
disciplina della competenza, almeno un giudice gli regge il gioco, anche se si
eludono criteri di competenza importanti, non è un dramma!
Però, fondamentalmente si è ritenuto che
i presupposti dell'abrogazione implicita non si potesse riscontrare, quindi, a
livello del diritto positivo, le pronunce declinatorie della competenza non
producono nemmeno un pieno giudicato interno e quindi sono inidonee a produrre
gli effetti del giudicato sostanziale, al punto che, quando si vuole descrivere
la particolare efficacia vincolante delle pronunce regolatrici, cioè
delle pronunce rese dalla Corte di Cassazione, non ci si spinge a dire che
queste si, hanno efficacia di giudicato sostanziale, bensì che il loro
giudicato esterno è un effetto di giudicato quasi processuale.
E per quanto riguarda
le sentenze non definitive di merito che dobbiamo dire? Una volta che
l'art. 610 ci ha seccamente indirizzato a ribadire, che sulle questioni di rito
non si formi efficacia di giudicato sostanziale.
Qui, la cosa si fa più delicata, perché
appunto, l'art. 310 contempla la sopravvivenza degli effetti delle sentenze di
merito, e posto che si parla di sopravvivenze di vecchie sentenze di merito,
rese prima dell'estinzione del giudizio, non può trattarsi che di
sentenze non definitive, perché se fossero sentenze definitive il giudizio
sarebbe definito dalla sentenza e non come conseguenza dell'estinzione
derivante dall'inattività delle parti nel coltivare il processo fino
all'emanazione della sentenza definitiva.
Ebbene, qui occorre, ovviamente muovere dalla premessa
che esistono vari tipi di interconnessione tra rapporti sostanziali che si
tratti poi di nessi di connessione fra controversie.
Alcune forme di connessione possiamo
definirle come connessioni che consistono in una comunanza di fatti materiali.
Esempio: Tizio e Caio viaggiano insieme in automobile, Tizio alla guida
è palesemente ubriaco, il furbone di Caio lo convince a concludere un
contratto, nel momento in cui concludono il contratto vanno a sbattere" e ne
seguono due controversie. Una avente ad oggetto l'impugnazione del contratto
concluso in condizioni di incapacità naturaleche ovviamente si chiede l'annullamento, e
l'altra avente ad oggetto la responsabilità civile nei confronti del passeggero
che guidava in stato di ebbrezza.
È chiaro che in entrambe le controversie
è rilevante il fatto materiale che Tizio fosse ubriaco, ma la
circostanza che in una controversia Tizio sia ritenuto ubriaco e nell'altro no,
non crea particolari problemi per la giustizia civile, perché qui abbiamo un
diverso accertamento di fatti materiali, ma il giudicato non copre i fatti
materiali, se non forse in particolarissime ipotesi, quindi in nessun modo
l'eventuale contrasto si conura come contrasto di giudicati reprimibile e
non si pone quindi un vero problema di coordinamento dei giudicati. Certo! Si
potrebbe fare un unico processo per tutte quelle controversie per risparmiare
costi, per fare in modo di poter assumere in una sola volta le prove dello
stato di ebbrezza.
Altre volte però nessi di connessione
sono più intensi e si conurano addirittura come nessi di
pregiudizialità allorché una certa fattispecie è produttiva di un
effetto giuridico, e tale effetto giuridico, a sua volta, è un elemento
costitutivo di un'altra fattispecie produttiva di effetti giuridici. Rispetto a
questo tipo di ipotesi gran parte della dottrina richiama il disposto dell'art.
34.
Cosa dice l'art. 34? Dice, che quando per legge o per
volontà delle parti occorre accertare con efficacia di giudicato una
questione pregiudiziale appartenente alla competenza per materia o per valore a
un giudice superiore, il giudice adito rimette l'intera causa a quest'ultimo
assegnando alle parti un termine perentorio per la riassunzione davanti a lui.
Secondo l'opinione prevalente, il fine del nostro discorso
è molto rilevante ciò che si dovrebbe dedurre al contrario del
disposto dell'art. 34, cioè, la possibilità che le questioni
pregiudiziali possano essere decise senza efficacia di giudicato. Si dice!
Tutte le volte che vi è una norma di legge con iniziativa di parte,
l'accertamento della questione pregiudiziale non è un accertamento
incidentale, ma un accertamento in via incidentale, oppure, si dice, incidenter
tantum, ed è quindi senza efficacia di giudicato anche quando si
pronuncia una sentenza sulla questione, se con tale sentenza, che è pure
di merito, non si giunge a definire il giudizio.
Che cosa intendiamo per volontà delle parti?
Secondo una diffusa opinione non è sufficiente, per innescare il
meccanismo dell'accertamento incidentale per volontà delle parti
con effetto di giudicato in mero dedurre o prospettare la questione, occorre
che l'effetto giuridico invocato sia un effetto attributivo del bene della vita
invocato dalla parte legittimata, solo in questo caso avremo una volontà
delle parti idonea a provocare un accertamento con efficacia di giudicato.
Così, per esempio, nel Mandrioli trovate
scritto che l'art. 35 conura uno dei casi in cui si ha accertamento
incidentale per volontà di legge. Cosa dice l'art. 35? Che se viene
posto in compensazione un contro credito e questo contro credito viene
contestato, allora il giudice applica l'articolo precedente e cioè
rimette l'intera causa al giudice superiore, assegnando alle parti un termine
perentorio per la riassunzione davanti a lui, e ha quindi luogo un accertamento
incidentale con efficacia di giudicato sul contro credito.
Perché, questo, secondo il Mandrioli è un
accertamento incidentale ex lege? Son ben due parti a chiedere che si
accerti l'esistenza del contro credito, ma del contro credito si discute in
quel processo in primo luogo perché questo viene opposto in compensazione,
cioè viene fatto valere in via di eccezione e al solo scopo di ottenere
il rigetto della domanda attoria, sicché se per ipotesi l'ammontare del contro
credito posto in compensazione fosse superiore all'ammontare del credito fatto
valere in via d'azione, il giudice no potrebbe condannare l'attore al amento
della differenza, ma dovrebbe esclusivamente limitarsi a rigettare la sua
domanda, perché il contro credito è stato speso nel processo solo in via
di eccezione.
La circostanza che il contro credito sia speso in via
di azione o in via di eccezione è ovviamente rilevante ad altri fini,
perché ci sono diversi requisiti di tempestività al fine di far valere
una situazione di vantaggio tramite una domanda giudiziale, al fine di ottenere
un provvedimento attributivo del bene della vita rispetto a quella situazione
di vantaggio, ovvero ad ottenere il rigetto della domanda attoria. C'è
più tempo per sollevare l'eccezione! Quindi se mi sono dimenticato di
proporre in tempo la domanda riconvenzionale ho ancora qualche margine
per spendere questo contro credito tramite l'eccezione di compensazione.
Ragionando al
contrario del testo della norma si giunge alla conclusione per cui; se questo
contro credito posto in compensazione, fatto valere solo in via di eccezione,
la pronuncia che rigetta quell'eccezione dicendo che il contro credito non
esiste, con pronuncia non definitiva di merito, riservando la prosecuzione
della causa a trattazione e istruzione intorno all'esistenza del credito
principale, questa sentenza non è idonea al giudicato.
Ovvero, è possibile un'altra
ricostruzione: cioè che, magari, che questa sentenza sia idonea al
giudicato e non lo sia quella che accoglie l'eccezione. Sta di fatto, comunque,
che dal punto di vista che interessa a Mandrioli, quel che rilevante e che il
meccanismo dell'accertamento con efficacia di giudicato, scatti se e quando la
controparte contesta il contro credito. Se non vi è contestazione del
contro credito si potrebbe dire, appunto, non passa in giudicato la sentenza
che rigetta l'eccezione, naturalmente muovendo dal presupposto che possa
comunque non accogliersi l'eccezione allorché il contro credito non sia
contestato, perché, torneremo sul problema, ma realtà la tesi
preferibile è che rimanga saldo sempre il potere del giudice di
dichiarare l'inesistenza dell'effetto giuridico anche in mancanza di
contestazione.
Soprattutto quel che rileva per definire
l'accertamento, come accertamento incidentale ex lege, e la circostanza
che da manifestazione di volontà determinativa della necessaria
produzione degli effetti del giudicato da parte della statuizione intorno al
contro credito, sia un'iniziativa che proviene dal titolare del contro credito,
ma dal suo titolare passivo, da una persona che non sarebbe legittimata a
ottenere in via di azione una pronuncia su quel credito, è la compensazione
a farsi captare a rendere necessario l'accertamento con efficacia di
giudicato e posto che possiamo parlare di accertamento incidentale per
volontà delle parti solo quando è il titolare della situazione
soggettiva di vantaggio a chiedere che su di essa si formi il giudicato e
l'ipotesi in cui questo titolare la fa valere solo in via d'eccezione, è
invece la volontà del suo avversario a rendere necessario l'accertamento
con efficacia con giudicato questo sarebbe un accertamento incidentale ex
lege.
La teoria si fonda su una visione asimmetrica
sostanzialmente del rapporto di pregiudizialità, perché, si ritiene per
un verso che gli effetti di giudicato formatisi in cause pregiudiziali,
producano un effetto conformativo vincolante anche nelle cause dipendenti,
perché si dice, nella causa dipendente non si può disconoscere
l'attribuzione del bene della vita compiuta dalla sentenza pregiudiziale,
quindi si citano a sostegno di questa conclusione norme sostanziali, come
l'art. 595 c.c. o norme processuali come gli artt. 295, 336 del codice di rito.
Ma non viceversa!
La decisione della causa dipendente non produce,
invece, effetti conformativi allorché si tratta di decidere la causa
pregiudiziale.
Si potrebbe discutere se davvero nel caso di decisione
di compensazione si possa parlare di rapporto di pregiudizialità, e in
un certo senso potremo dire che qui c'è una pregiudizialità
reciproca, il fenomeno della inidoneità al giudicato della sentenza che
rigetti la domanda o accolga solo in parte l'eccezione di compensazione, si
ricollega a questa asimmetria.
Dal punto di vista dei beni della vita, immaginiamo
per esempio un caso che si è presentato nella pratica quando c'era
ancora l'equo canone; capitava che il locatore pretendesse un canonesuperiore alla misura legale, mettendolo per
iscritto nel contratto di locazione, e a seguito del mancato amento di una o
più rata del canone, agisse per il rilascio dell'immobile per
morosità e a quel punto l'inquilino, eccepiva di aver anzi ato
precedentemente in misura superiore al dovuto e in via riconvenzionale
chiedeva la differenza. È una strategia processuale che in passato aveva
un terribile effetto dilatorio, perché rispettavano la competenza per due
controversie a giudici diversi quindi si innescava immediatamente un problema
di pregiudizialità, qui e chiaramente pregiudiziale l'accertamento della
misura del canone rispetto all'accertamento della morosità, il cui
contenuto era direttamente influenzato dall'accoglimento o meno della domanda
di accertamento dei fatti e quindi il procedimento per il rilascio veniva poi
sospeso per pregiudizialità sino addirittura al passaggio in giudicato
del procedimento avendo ad oggetto l'accertamento dei fatti.
In realtà dal punto di vista dei beni della
vita si potrebbe pensare che qualunque delle due cause sia decisa per prima si
conuri sempre un contrasto, nei termini della compensazione si potrebbe
pensare che non vi sia comunque mai una negazione diretta, però,
ammettere il caso della compensazione è davvero difficile anche
stabilire quale tra le due sia logicamente prioritaria nell'ipotesi in cui si
renda necessario un accertamento incidentale di contro credito, la differenza
di far rispettare il giudizio sul canone e il giudizio sulla morosità o
viceversa, si può forse spiegare perché nella difesa della parte è
più facile accorgersi delle implicazione che delle premesse, sicché
è più ragionevole che il vincolo si produca sulle prime, anche se
non sono state esplicitate, e che invece abbia perso su premesse non discusse
abbia ancora la possibilità di discuterle, magari ottenendo la
caducazione della decisione ottenutasenza discutere e che non possa invece discutere delle implicazioni,
rimettere in discussione delle premesse già discusse.
La circostanza che distingue tra questioni
pregiudiziali e questioni dipendenti, possa rispondere anche al buon senso, non
vuol dire che si debba necessariamente seguire la teoria dottrinale che abbiamo
detto, e che , anzi, si può criticare sotto molti profili, sia
affermando che gli effetti delle cause dipendenti non sono dei veri e propri
effetti di giudicato, ma effetti veramente imperativi che non impediscono una
decisione difforme , purché si dimostri che la pronuncia sulla causa o
questione pregiudiziale è ingiusta, ne è possibile impedire che
si pensi piuttosto, che l'art. 34 in realtà la norma non sul giudicato
ma sulla competenza, la sua sede infatti è quella sulle norme sulla
competenza, o meglio sulle modificazioni della competenza per ragioni di
connessione, e che quindi, l'art. 34 possa anche essere inteso nel senso che
non sia affatto escluso che comunque, quando la questione pregiudiziale
è oggetto di una sentenza non definitiva possa formarsi il giudicato
sostanziale.
L'accertamento senza efficacia di
giudicato si potrebbe considerare limitato all'ipotesi cui la questione
pregiudiziale in realtà è stata decisa soltanto implicitamente e
non sia stata affatto discussa, e allora c'èche non si forma il giudicato su ciò
che non è stato ne discusso ne deciso.
Alcune recenti monografie tendenti a rafforzare questa
tesi tradizionale evocano questa osservazione come un'osservazione a sostegno
della tradizionale interpretazione dell'art. 34, lo dicono anche loro che ci
possono essere questioni pregiudiziali senza efficacia di giudicato, nel senso
di decise implicitamente ma in realtà non decise, semplicemente di
effetti giuridici che non si è parlato nel processo ed allora si che non
si forma l'efficacia di giudicato.
Magari si può pensare all'ipotesi in cui il
giudice non abbia ottemperato al dovere relativo di sottoporre la questione al
contraddittorio delle parti ex art 183, nel caso in cui il giudice, si, l'abbia
decisa, ma senza che la questione sia stata discussa, perché l'ha decisa nella
cosiddetta sentenza della terza opinione quando gli è venuta in
mente soltanto in sede di decisione.
Ma qual è la posizione della giurisprudenza su
questo tema?
L'opinione sembra abbastanza distante da quella della
dottrina maggioritaria, in particolare di Mandrioli, ed è ben lungi dal
negare l'efficacia di giudicato sostanziale delle sentenze su questioni preliminari
di merito, anzi, la giurisprudenza tende a superare sia i limiti correlati alla
distinzione di buon senso tra questioni pregiudiziali e questioni dipendenti
sia quelle correlati alla distinzione non meno sensata tra questioni discusse e
decise esplicitamente e questioni affrontate implicitamente, trascurando
persino i dubbi che possono porsi a proposito dell'elusione della disciplina
della competenza, magari della garanzia del giudice naturale quando la
questione pregiudiziale sia questione passibile di trasformarsi in controversia
pregiudiziale spettante alla competenza di un giudice diverso, quindi questione
che farebbe scattare il meccanismo dell'art. 34 se ci fosse l'istanza della
parte legittimata ad ottenere l'efficacia di giudicato.
In questa direzione, la giurisprudenza, viene anche un
po' sospinta dall'ancora diversacorrente dottrinale, e va prendendo piede ispirandosi ad una corrente
della dottrina tedesca che prende le mosse da un ragionamento di questo tipo.
Il processo in Italia dura molto, è lungo, e
siccome è lungo dobbiamo cercare di spremere da questo processo
più effetti vincolanti possibili.
Sulla base di questa premessa non si nega in astratto
al possibilità dell'accertamento incidenter tantum pero si
estende al massimo il valore vincolante dell'accertamento implicito sulle
questioni pregiudiziali, e ciò, anche quando esse non abbiano provato
oggetto alcuna esplicita decisione in sede di sentenza definitiva o non
definitiva, e intendendo il bene della vita protetto dalla decisione della
questione nel modo più ampio possibile.
Per capire quale direzione abbia questa teoria,
bisogna riprendere il tema della rilevanza dei fatti nella determinazione dei
limiti oggettivi del giudicato.
Abbiamo detto che il giudicato civile non opera sui
fatti, però, i fatti rilevano, per la determinazione dei diritti
oggettivi del giudicato, perché , dicevamo, in base ad essi che si stabilisce
quale situazione di vantaggio sia stata fatta valere, quindi su quale diritto
si formi il giudicato sostanziale.
È ricorrente in dottrina la distinzione tra i
cosiddetti diritti autodeterminati e diritti eterodeterminati.
I secondi, i diritti eterodeterminati, sono quelli che
possono sussistere contemporaneamente più volte tra le stesse persone.
Come per esempio i diritti a una prestazione di consegna di beni determinati
solo nel genere, la somma di denaro è il caso più facile. Io
posso essere creditore di Tizio di 100 lire perché gliele ho prestate,
creditore di Tizio di 100 lire a titolo di risarcimento danni, sono crediti
diversi, diritti diversi, anche se l'oggetto è sempre 100 lire. Quello
che rileva qui, è il fatto costitutivo che è individuativo del
diritto fatto valere.
Abbiamo invece, però anche situazioni
soggettive di vantaggio che in riferimento ad un certo oggetto non possono
sussistere più volte contemporaneamente fra le stesse persone, in
particolare, i diritti di proprietà su beni specificamente determinati;
io sono proprietario l'immobile X chiedo l'accertamento del mio diritto di proprietà
nei confronti di tizio che io sia proprietario perché l'ho acquistato per
contratto, che io sia proprietario perché l'ho acquistato per usucapione, qui
è sempre lo stesso diritto.
In questo il contenuto del diritto è
determinato esaustivamente dal suo oggetto e per individuarlo non occorre fare
riferimento ai suoi atti costitutivi.
La prima indicazione di queste teorie molto estensive
di diritti oggettivi del giudicato, quella secondo quella dove si chieda il
amento di una rata di un'obbligazione.
Il giudicato si formi intorno all'esistenza
dell'ubicazione, questa conclusione è stata, da molti a lungo negata ai
sostenitori delle teorie restrittive delle teorie del giudicato leggero,
soprattutto dall'invocato del disposto dell'art. 12, dice che al fine della
determinazione della causa allorché si debba decidere intorno alla competenza
del valore a riparto verticale del potere di risolvere le controversie per
valore tra il tribunale e il giudice di pace, non appena si controverta intorno
all'obbligazione, il valore della causa sia determinato solo da quella parte
dell'obbligazione che è in contestazione, quindi sulla base del
collegamento fra regole sulla competenza e sulla formazione del giudicato,
tradizionalmente si diceva che il giudicato si forma soltanto sulla parte di
obbligazione che è in contestazione, cioè solo sulla singola rata
pretesa.
Ora, questa impostazione fortemente liberistica,
poteva luogo a qualche abuso, perché,si
tendeva a concludere, da parte dei sostenitori di questa impostazione
leggera ai fini del giudicato, che la parte fosse abilitata, per esempio,
la dove fosse creditrice di 100 lire a chiedere anchela condanna della controparte al amento di
una lira alla volta. Evidentemente questo tipo di strategia aveva uno scopo
esclusivamente abusivo e vessatorio, quindi i sostenitori della teoria del giudicato
pesante tendono a dire; questo non è possibile, c'è una
minima unità azionabile nel processo! La situazione soggettiva forma
oggetto nel processo si dice sempre comunque nella sua globalità e
quindi, anzi se io, delle mie 100 lire ne faccio valere una sola alla volta, ne
otterrò solo una! Perché la volta successiva il convenuto condannato al
amento di 1 lira ridirà, in quel processo è stata dedotta
l'intera obbligazione e io sono stato condannato a are 1 lira, perché tu hai
chiesto 1 lira, sulle altre non puoi ottenere un nuovo giudizio, perché si è
formata la preclusione del giudicato. In realtà, il tipo di
strategia consistente nel chiedere 1 lira alla volta andrebbe disanzionato ma
con tecniche di tipo diverso da questa. Perché questa presenta forti contro
indicazioni, ma è legittimo dire che non si può risolvere il
problema dei limiti del giudicato esclusivamente al disposto dell'art. 12,
anche con riferimento all'art. 12, come con riferimento all'art. 34, si
può dire che questa è norma che riguarda la competenza e non i
limiti del giudicato.
Nella parte in cui essa indica che nelle cause
relative a diritti autodeterminati, questi formino rigetto del giudizio
qualsiasi siano i loro fatti costitutivi e che nella parte in cui si riferisce
ai diritti eterodeterminati, una volta individuati i fatti costitutivi la situazione
di vantaggio non sia frammentabile e non sia spezzettabile, implica delle
difficoltà purché si ricolleghi ai problemi posti al sistema delle
preclusioni.
Da tempo, si sostiene che ciò che allunga il
processo è specialmente la possibilità di cambiare le sectiune in
tavola partita in corso. Questo è un tema molto dibattuto, ma direi che,
l'idea che una parte strategicamente si riservi di far valere le proprie
eccezioni, le proprie prove il cui ritardo ha lo scopo di complicare il
processo non è realistica. Le preclusioni non riguardano problemi
dilatori, riguardano il problema di chi colpevolmente si dimentica di far
valere eccezione alla prova. Perché se incorre nella preclusione
incolpevolmente c'è sempre la rimessione in termine e se lo fa
colpevolmente ne herà le conseguenze, anche se non è doloso il
ricatto ed è pur sempre colposo, è sempre un titolo di
responsabilità, perché il prezzo e il costo di questo ritardo lo ano
gli altri! Lo a il sistema che nel suo complesso diventa inefficiente, lo a
chi è in coda in attesa di poter parlare col giudice.
Qui si finisce di applicare la legge in modo poco
accurato, meno accurato di come la si applicherebbe se fosse possibile far
valere tutto in ogni tempo, a dire il vero, però la legge si applica
comunque in modo poco accurato nel processo civile, che è largamente
ispirato all'iniziativa di parte ad un accertamento dei fatti largamente
convenzionali e quindi non dovremo preoccuparci più di tanto
dell'eventuale inesattezza dei risultati! Ma dobbiamo preoccuparci molto,
invece, dell'effetto che ha sulla giurisprudenza, la prospettazione che si stia
per applicare la legge in modo in accurato, perché poi, gli argomenti giuridici
tendono agli argomenti del cuore, e quando la parte dice al giudice che si è
dimenticata di una prova, che facciamo perdere la parte perché mi sono
dimenticato la prova? Nascondendosi dietro lo schermo che l'errore l'ho
commesso io (avvocato) ma che a le conseguenze chi è assistito,
è facile che poi le norme finiscano per essere interpretate in modo
lasso, in modo da permettere di far rientrare dalla finestra ciò che
doveva essere tenuto fuori dalla porta.
Ebbene, tante più sono le eventualità
che la formazione della preclusione comporti l'inesattezza nell'applicazione
della legge, quanto più sono ampi gli effetti del giudicato, cioè
quanto più ampie sono le ipotesi che la decisione precluda la
possibilità di discutere cose non discusse, cose non decise, quindi
proprio più, quanto più sono ampi i limiti oggettivi del
giudicato dal punto di vista dell'implicito, tanto più risulta difficile
gestire il sistema delle preclusioni, difficile, costoso, emotivamente
inaccettabile, tant'è che il famoso fantasma che viene sventolato sempre
quando si parla delle preclusioni, fantasma cosiddetto del principio di
eventualità, cioè la circostanza che le parti, per il timore
di vedersi precluse le loro iniziative le facciano limite litis in modo
sovrabbondante quindi deducano tutto il deducibile per timore di non poterlo
più dedurre, è un rischio che si presenta soprattutto quando i
limiti del giudicato tendono ampli al di la di ciò che è
esplicitamente discusso e deciso, quindi, questa dottrina finisce per essere
controproducente, perché muovendo in realtà dal presupposto che il
processo sia lungo, anziché combattere la lunghezza del processo, ne prende
atto, ne trae le conseguenze, e aggrava il problema della durata stessa.
·Riflessioni sul giudicato pesante e giudicato leggero.
A considerare che quanto più si permette che
sia possibile far valere un diverso giudizio, situazione oggettiva permessa,
tanto minore è la pressione da un lato, sulle parti, a dedurre tutto il
possibile, quindi a creare il problema chiamato principi di
eventualità, in tanto la migliore persona è il giudice ad
interpretare il sistema delle preclusioni in modo tale da consentire
alla parte colpevolmente tardiva nelle sue iniziative processuali di ottenere,
comunque, giustizia sostanziale per il suo cliente, ma se non gli si consente
di spendere in questo processo l'iniziativa processuale, non avrà altra
maniera per farlo.
Queste considerazioni possono giustificare, in
relazione alla disciplina del giudicato di tipo leggero, soprattutto con
riferimento alle preclusioni di carattere implicito.
Ma si può andare oltre, e in particolare si
pone il seguente problema. Il processo civile serve per risolvere i conflitti
fra le parti. Può essere interessante considerare di che cosa davvero,
le parti intendono conseguire rivolgendosi al giudice. Certamente ha importanza
la circostanza che la decisione possa produrre un effetto preclusivo, un
effetto vincolante conformativo anche nelle cause dipendenti, però,
può darsi, ed è legittimo sospetto, che alle parti possa in
qualche occasione interessare altro.
In particolare è molto plausibile l'idea che
alle parti interessi sovente più che la formazione del giudicato, il
conseguimento di un titolo esecutivo. Cioè ottenere un provvedimento del
giudice che a prescindere dal problema se gli effetti di accertamento convenuti
in tale provvedimento siano più o meno stabili, un provvedimento che
consenta di valersi dell'ausilio della forza pubblica per ottenere la
realizzazione del creditoa prescindere
dalla volontà del creditore.
È lecito domandarsi se, in qualche misura sia
possibile per le parti che hanno bisogno del giudice limitarsi di richiedere al
giudice soltanto un titolo esecutivo e non necessariamente un
accertamento produttivo di un aspetto vincolante stabile. Perché è
plausibile l'ipotesi che la parte soccombente su cui venga fatto gravare
l'onere per evitare gli effetti del provvedimento a lei sfavorevole, facendo un
calcolo costi - benefici, a un certo punto si fermi indipendentemente dalla
circostanza che il provvedimento sia ormai provvisto di un effetto vincolante
stabile.
Se la parte attrice, che ha bisogno della giustizia,
per ottenere un titolo esecutivo, lo ha ottenuto e può accontentarsi di
quel titolo, l'eventualità che l'avversario continui a contestare ed a
opporsi, c'è senz'altro, ma ciò non è detto che accada in
tutti i casi e in tutti casi dove ciò non accade, in qualche modo noi
abbiamo già conseguito la risoluzione del conflitto, senza chiedere in
tale atto il provvedimento provvisto della stabilità della cosa
giudicata.
·Rapporto di tutela di cognizione ordinaria e la tutela di cognizione
sommario
Esistono varie ipotesi in cui la parte può
procurarsi un titolo esecutivo, può procurarselo con procedimenti
semplificati ed accelerati rispetto al procedimento ordinario, che sono provvedimenti
non provvisti della stabilità della cosa giudicata.
Primo caso da esplorare, da questo punto di vista,
è quello del provvedimento per decreto ingiuntivo, disciplina che
troviamo, oggi, negli artt. 636 e ss. del c.p.c..
La parte attrice munita di una prova scritta,
possa conseguire dal giudice un provvedimento provvisto dell'efficacia di
titolo esecutivo e quindi, come si diceva, può o non valersi
dell'esercizio della forza pubblica per la realizzazione a conseguire
l'obbligazione. Si diceva che il possessore di una prova scritta poteva
rivolgersi al giudice per ottenere questo provvedimento ed otteneva,
addirittura, inaudita altera parte, senza nemmeno che venga sentita.
Provvedimento che è ovviamente notificato
all'avversario e al seguito di questa notificazione l'avversario ha la
possibilità di opporsi entro untermine, che salva la rimessione in termini dell'ipotesi di non
imputabilità della decadenza, e in mancanza di opposizione e in alcuni casi
sin dal momento della sua emanazione e in atri casi sempre in pendenza di
condizione al demerito ingiuntivo stesso, questo è provvisto di effetti.
Ma c'è una cosa strana in questa disciplina,
cioè, quando si parla di prova scritta sulla base delle quali si ottiene
il decreto ingiuntivo sono prove che in un giudizio di cognizione ordinario non
farebbero prova. Perché il sistema concede ad alcuni soggetti la
possibilità di formare unilateralmente la prova scritta, se
l'opposizione viene al giudizio ordinario le prove documentali operano contro
colui che le ha formate, magari, si operano in parte contro e in parte a
favore, vale base alla regola del principio della deducibilità delle
dichiarazioni documentali, per il quale producono effetto probatorio e lo
producono sia contro che a favore. Ma chi sono questi soggetti?
Consideriamo che questa disciplina è stata
conurata nella codificazione del '42, quindi cerchiamo di calarci nel
contesto del 1942. Se diciamo lo Stato è il pubblico ufficiale, il
notaio, ma non in quanto pubblico ufficiale, l'avvocato, ma non in quanto
pubblico ufficiale, se non in forza della pubblica fede attribuita alle loro
dichiarazioni, ma solo perché sono delle "personcine per bene"! e quindi gli
imprenditori. Es. se faccio fare dei lavori di ristrutturazione e
l'imprenditore invece di aggiustarmi la casa me la spacca tutta, lui per
ottenere il amento della retribuzione prevista può valersi del decreto
ingiuntivo, mentre io per ottenere il amento dei danni risarcibili per
aver male eseguito il contratto mi devo rifare ad un giudizio ordinario di
cognizione. C'è una certa asimmetria, perché questo è il codice!
Un codice classista, perché lo è esplicitamente, e dà fiducia ai
notai, avvocati, imprenditori, a coloro la cui parola vale di più di
quella del normale cittadino. Le altre persone, se hanno prove scritte,
andrebbero bene anche in un giudizio ordinario, è una forma di tutela
privilegiata, e quali stabilità ha questo provvedimento non opposto,
è idoneo ad acquisire gli effetti del giudicato? Per quanto è
legittimo opporsi secondo, una tesi abbastanza diffusa, la stabilità di
questo provvedimento non è analoga del tutto a quella contenuto nella
sentenza, avremo qui non un effetto di giudicato, ma come si dice una preclusione
promidica, la quale comporterebbe stabilità dell'accertamento solo
con riferimento alla questione della somma, sicché, nel caso che facevamo in
cui si chieda una singola rata di un obbligazione, la stabilità del
decreto ingiuntivo implicherebbe stabilità dell'accertamento della
credenza di quella somma, ma non della sussistenza dell'intera obbligazione,
così ulteriori rate della stessa potrebbero formare oggetto di diverso
giudizio in cui la domanda potrebbe essere respinta anche in base alla ragione
dell'insussistenza dell'obbligazione, benché in sede di decreto ingiuntivo
altra rata sia stata considerata inesistente.
È una tesi discussa, soprattutto, ovviamente, i
sostenitori del giudicato leggero, quelli che portano a negare che anche una
sentenza conclusiva di giudizio di cognizione piena intorno ad una singola rata
dell'obbligazione, implichi necessariamente giudicato intorno all'esistenza
dell'obbligazione intera. Costoro sono portati a pensare, che l'efficacia
vincolante del decreto ingiuntivo non opposto a quel punto sia equivalente a
quello della sentenza.
Più discutibile è l'atteggiamento della
giurisprudenza quando tende a equiparare gli effetti di giudicato del decreto
ingiuntivo loro opposto, a quelli della sentenza, ma sulla base della premessa
che il giudicato che si forma sull'accertamento contenuto nella sentenza, abbia
limiti oggettivi, la portata oggettiva, diciamo, molto più vasta come
del resto è l'atteggiamento della giurisprudenza.
Ma non è solo questo, lo strumento privilegiato
a disposizione degli avvocati, c'è ne anche un altro, che è
interessante prendere in visione. È quello previsto dell'art. 29, qui si
prevede che da dove si faccia valere il credito vero e onorari derivanti da
prestazioni giudiziarie, l'avvocato può anche utilizzare lo strumento di
tutela sommaria ed accelerata, costituito da procedimento in camera di
consiglio, è un rito che si distingue dal rito ordinario, soprattutto
per la maggiore informalità del procedimento e consente di giungere
celermente alla definizione del giudizio, qui, c'è un contraddittorio
perché la parte avversa viene perseguita, ma si tratta sempre di una corsia
preferenziale rispetto alla cognizione piena preferenziale.
Qualcuno potrebbe dire ma è meglio avere a
disposizione l'utilizzo a cognizione piena con tutte le possibili garanzie da
spendere che avere un giudizio accelerato dove le notizie si assumono in modo
sommario? È meglio per chi? Dipende! Per l'attore plausibilmente
è meglio il procedimento informale perché ha bisogno del provvedimento
se potesse scegliere e succede anche che laddove l'avvocato si sia avvalso del
procedimento ingiuntivo, l'eventuale opposizione dell'avversario, con in
riferimento a quest'ipotesi degli onorari per prestazioni giudiziarie, la
condizione dell'avversario, come nella generalità delle ipotesi avrà
un giudizio a cognizione piena, bensì un procedimento in camera di
consiglio accelerato e semplificato.
Quest'ipotesi è in realtà molto
importante per la storia del nostro diritto processuale, perché il confronto
con riferimento a quest'ipotesi, è sorto in giurisprudenza un istituto
che ha finito per assumere un'enorme rilevanza applicativa, cioè
l'istituto del ricorso straordinario per cassazione per violazione di
legge.
Infatti, l'art. 11 della Costituzione, dispone che sia
sempre ammesso ricorso in Cassazione nei confronti di tutte le sentenze. Nei
primi anni successivi all'entrata in vigore della Costituzione la Corte
Costituzionale non era operante, la giurisprudenza della Corte di Cassazione
veniva ad interpretare la forza normativa del disposto costituzionale,
seguì questo generale indirizzo.
Dovevano distinguersi, secondo la Cassazione, norme
passibili di immediata applicazione precettiva dalle altre, le norme passibili
di immediata applicazione precettiva possedevano un'automatica forza abrogativa
delle disposizioni incompatibili. Sicché, ai fini della disapplicazione di
queste ultime, si riteneva necessaria una declaratoria di illegittimità
costituzionale, bensì, poteva direttamente interpretarsi al legge
attribuendo prevalenza al disposto costituzionale, e aggiungeva la
giurisprudenza, il disposto dell'art. 111 va considerato norma d'immediata
applicazione precettiva, e tale disposto non può essere eluso dal
legislatore, ragiona la Cassazione, con l'escamotage di attribuire ad un
provvedimento provvisto dell'efficacia della sentenza, la veste formale di un
provvedimento di vitale efficacia non fosse provvisto.
Ordinanze e decreti, che sono provvedimenti del giudice di norma
sprovvisti dell'efficacia di sentenza, laddove si trovino ad assumerla, vanno
considerate come sentenze in senso sostanziale, secondo la giurisprudenza,
quindi, nella misura in cui non sia prevista un'impugnazione nei confronti di
un provvedimento così conurato, si rende inevitabilmente applicabile
la disciplina dell'art. 111 ed il provvedimento risulta ricorribile per
Cassazione al fine del suo controllo di legittimità.
Quando ad un provvedimento può essere
attribuito l'efficacia di sentenza?
Anzitutto deve trattarsi di un provvedimento non
passibile di revoca, cioè, rispetto al quale non sia possibile
richiedere un riesame che implichi anche una nuova valutazione dell'effetto
giuridico da fatti già conosciuti nel precedente provvedimento in cui si
richiede per ipotesi la revoca.
Poi, occorre che non sia altrimenti impugnabile,
perché, è chiaro che l'immediata applicazione precettiva dell'art. 111
si rende necessario di extrema ratio, cioè giungere in Cassazione
attraverso il sistema ordinario dell'impugnazione, e poi, c'è
l'aspetto probabilmente più delicato, cioè la circostanza che il
provvedimento, per usare la formula ricorrente, incida sui diritti soggettivi,
e qui bisogna fare attenzione ad entrambi gli aspetti.
Per un verso la questione è di diritto
soggettivo, perché l'individuazione di quali situazioni di vantaggio si
conurino come diritti soggettivi in senso proprio, e quali no, spesso e
tutt'altro che agevole, soprattutto con riferimento ai cosiddetti nuovi
diritti, alle situazioni di vantaggio meritevoli di tutela non passibili di
appropriazione esclusiva, ma in realtà è pure lecito anche con
riferimento a situazioni di vantaggio affatto tradizionali, come quella del
possesso, insegnamento che per secoli si è tramandato in cui la
situazione soggettiva del possessore non ha la consistenza del diritto
soggettivo.
È la situazione di fatto corrispondente
all'esercizio del diritto soggettivo che viene tutelata come tale , non
è propriamente un diritto soggettivo, eppure, tra breve parleremo di
cosa è accaduto nel complesso della riforma del diritto possessorio, ed
ancora, l'altro capo problematico dell'espressione è quello della parola
incidere.
Quando si incide sui diritti soggettivi? Incide sui
diritti soggettivi, soltanto, un provvedimento provvisto della forza vincolante
del giudicato. Se si desse questa risposta, si finirebbe probabilmente per
pretermettere alcune realtà pratiche difficili da digerire, perché, il
terreno privilegiato dell'applicazione di questa disciplina finisce per poi
essere soprattutto quello delle procedure concorsuali, e accade che la
circostanza che sia possibile ottenere un esame a condizione piena della
situazione di vantaggio con l'opera di un procedimento sommario, spesso
può essere il "pettine del calvo". Perché?
Le procedure concorsuali, sono caratterizzate da
aspetti di sommarietà, perché, occorre affrontare una complessa crisi di
spesa, e una volta esaurito il patrimonio, il fatto che la somma si possa
ancora chiedere, la condizione d'incidenza sul diritto soggettivo viene spesso
intesa in modo abbastanza ampio anche tenendo conto degli aspetti di irreversibilità
pratica della statuizione a dispetto della sua reversibilità giuridica.
Fermo restando che le forme di tutela sommaria,
passibili di dar luogo all'incidenza del diritto soggettivo, difficilmente
possono sfuggire comunque ad un controllo di legalità dinanzi alla
Cassazione. Ma è legittimo domandarsi se oggi non si possa ampliare di
molto le possibilità di ricorrere a forme di tutela sommaria consentendo
anche quando ci sia un potenziale pratica degli effetti per il ricorso in
Cassazione.
Si è immaginato, per diverso periodo, che si
potesse estendere l'ambito di applicazione se non in quei procedimenti che si
definiscono come accertamenti a prevalente funzione esecutiva modellati su un
sistema della pronuncia del provvedimento inaudita altera parte salva
tempestiva opposizione dell'avversario, che certo, qualche riserva la
susciterà, perché sembra poco bello che si provveda ancor prima di
sentire l'avversario, almeno, di forme di tutela sommaria semplificate in
contraddittorio, idonee ad acquisire quel grado di stabilità che sia
sufficiente a soddisfare l'interesse delle partì.
Fin qui si è ipotizzato che si estendesse
l'ambito d'applicazione del cosiddetto procedimento camerale.
La cosa ha destato molte riserve e perplessità,
perché il procedimento in camera di consiglio che si diceva, è il
procedimento pensato per i cosiddetti affari di volontaria di giurisdizione,
ossia, non già propriamente per risolvere controversia, non per
risolvere conflitti, difatti, anche la realizzazione della garanzia del
contraddittorio discende da alcune pronunce di carattere interpretativo della
Corte Costituzionale, perché, il tenore letterale delle norme di riferimento
evoca fortemente l'idea di procedimento di carattere unilaterale.
L'espressione di giurisdizione volontaria evoca
due aspetti diversi se vogliamo di contrapposizione alla giurisdizione
contenziosa.
Da un lato la circostanza che non vi sia uno scontro
ma magari un incontro di volontà, e dall'altra la circostanza che si
tratti spesso di attività integrative a manifestazioni di
volontà, insomma il caso più chiaro è quella
dell'autorizzazione alla vendita dei beni del minore, si prevede che in questo
caso occorra un provvedimento giurisdizionale autorizzativo, che nella normalità
dei casi non vi è un conflitto da risolvere per ottenere questo
provvedimento, il provvedimento deve essere per integrare la volontà del
minore, quindi, si dice, questo procedimento è un procedimento poco
garantistico, che mal si adatta alle necessità della attività di
vera e propria risoluzione dei conflitti. E finisce per conculcare garanzie
processuali, salvo che poi, siano sempre garanzie processuali del convenuto e
naturalmente questo tipo di osservazioni, tendono, facilmente a provenire dalla
classe forense che sembra essere molto sensibile al problema delle tutele delle
garanzie, soprattutto nei confronti del convenuto.
Il problema della giurisdizione volontaria non
si adatta alla giurisdizione contenziosa, perché il quelle occasioni, il
giudice non è perso. Cosa voleva dire? Intendeva alludere al fatto che
può trattarsi di procedimenti con una sola parte quindi il giudice non
è perso perché è il solo il secondo? Se invece il processo
è litisconsortile diventa quarto, etc.. abbiamo qui la nozione di
terzietà che giuridicamente ci interessa, cioè di
estraneità rispetto all'oggetto della lite certo che il giudice è
terzo anche in questi casi, cioè non è uno dei soggetti
direttamente interessati alla risoluzione della controversia.
Questi procedimenti, si attagliano alla tutela di situazioni
soggettive che non abbiano la consistenza del diritto soggettivo.
Per un verso, ora, dobbiamo dire che la giurisprudenza
della Consulta, ha detto chiaramente che nella misura in cui sia comunque
concessa alla parte interessata la facoltà di interloquire sulla
formazione della decisione per produrre i mezzi di prova idonea a dimostrare la
fondatezza delle sue ragioni, l'eventuale semplificazione del procedimento non
desta alcun problema, e men che meno desta problemi la circostanza che gli
effetti di giudicato possano essere più tenui di quelli ordinari in
relazione alle caratteristiche della situazione soggettiva da dedursi in
giudizio.
Per esempio in presenza di situazioni soggettive
intrinsecamente caduche, quanta utilità può avere la
stabilità dell'impianto?
Il caso più eclatante è stato,
probabilmente, quello dei provvedimenti intorno alle condizioni patrimoniali
della separazione fra coniugi, perciò dal punto di vista sostanziale che
la statuizione è inevitabilmente instabile, perché quando l'effetto
è propriamente l'effetto del giudicato mai potranno essere coperti gli
effetti giuridici prodotti da fattispecie verificatesi successivamente alla
formazione del giudicato, e in questo campo è molto facile che questo si
verifichi, perché la disciplina dell'obbligo alimentare, dell'assegno di
mantenimento, di tutte le conseguenze patrimoniali della separazione, e la
disciplina assegna un'enorme rilevanza alle sopravvenienze e le
successive modifiche delle condizioni patrimoniali dei coniugi giustificano
comunque una modifica del contenuto del provvedimento.
Visto che la statuizione molto facilmente dovrà
essere ridiscussa sulla base delle sopravvenienze, perché affrontare i costi e
complicazioni necessarie ad escludere che si ridiscuta anche del passato? A
quel punto tanto vale ridiscutere di tutto! Cioè tanto vale che il
provvedimento reso, in realtà, abbia certo efficacia di titolo
esecutivo, magari anche la ricorribilità per vessazione, però
considerato che non è necessario ai fini dell'incidenza del diritto
soggettivo che si producano i veri e propri effetti di giudicato, ma perché il
giudizio a cognizione ordinaria chiede le sue formalità?
Perché, non è un procedimento sommario
accelerato e nell'applicazione giurisprudenziale questa soluzione è
stata accettata, e siamo arrivati ad una vicenda che ha illustrato i limiti
entro i quali si può contare sull'interpretazione giurisprudenziale.
Tanto è il regime della tutela delle situazioni
possessorie, qui riprendiamo in mano le lezioni di dritto privato, come
è perché si tutela il possesso, si dice, ne cives ad arma rua.
Le ragioni fondamentalmente di ordine pubblico, si
vuole evitare l'esercizio arbitrario delle proprie ragioni e si prevede nel
c.c., una dizione che evoca sistemi medioevali si tutela, per cui il
provvedimento di reintegrazione va concesso senza dilazione sulla semplice
notorietà del fatto.
Si prevede in pendenza di procedimento possessorio,
le ragioni petitorie, cioè la circostanza che il preteso spogliatore,
sia magari, il vero proprietario del bene, non possono essere conosciute dal
giudice perché la domanda petitoria, dice la legge, addirittura improponibile e
improcedibile in guisa tale da consentire che almeno vengano fatti saldi gli
effetti della proposizione della domanda e almeno la proposizione della domanda
sia possibile, comunque non si può conseguire un accertamento della
situazione di vantaggio petitoria finché non è stato eseguito il provvedimento
possessorio e salva l'ipotesi in cui la parte possa dimostrare che la mancata
esecuzione del provvedimento dipende dal fatto che il possessore procrastina ad
arte la prosecuzione del provvedimento, la procrastina volutamente.
La Corte Costituzionale è intervenuta su questa
disciplina precisando che deve comunque ritenersi possibile, in vero, anche in
pendenza di procedimento possessorio, la tutela delle ragioni petitorie, quando
sussiste il presupposto della tutela cautelare urgente, cioè
quando vi sia il pericolo di subire un pregiudizio grave ed irreparabile per
effetto della dilazione della condizione delle ragioni petitorie.
Resta il fatto che, quando non sussistano queste
specifiche ragioni d'urgenza, la tutela petitoria rimane bloccata e tutto
prescinde dall'apparenza di fondatezza delle ragioni possessorie e se colui che
sta esercitando l'azione possessoria è palesemente in torto e in mala
fede, si manifesta ugualmente l'effetto preclusivo, perché spogliatus ante
omnia restituendus.
Il senso di tutto questo sistema
è che il procedimento possessorio sia celere e originariamente, questo
procedimento è conurato in maniera tale da prevedere l'emanazione
immediata di un provvedimento provvisto di efficacia esecutiva, definito come provvedimento
interdittale, e la contestuale fissazione di un'udienza a seguito della
quale il giudizio doveva automaticamente proseguire nel giudizio a condizione
piena.
Però, in una delle riforme
degli anni '90, venne introdotta una riforma della disciplina dei procedimenti
cautelari, e quindi dei provvedimenti di tutela sommaria.
Qualsiasi sorta di situazioni
soggettive in contraddittorio per ridurne addirittura la stabilità,
caratterizzati da due aspetti di strumentalità, rispetto al giudizio di
cognizione piena. Cioè quella che possiamo definire come strumentalità
funzionale e quella che potremo definire come strumentalità
strutturale.
Per funzionalità funzionale,
intendiamo che il provvedimento cautelare ha la funzione di anticipare gli
effetti di un procedimento sul merito ovvero di conservare la situazione
esistente in attesa della stessa sentenza di merito, quindi il tipico
procedimento cautelare anticipatorio è il provvedimento d'urgenza.
Tipico provvedimento cautelare conservativo è il sequestro
attraverso il quale si conserva la situazione esistente in attesa
dell'emanazione della sentenza di merito.
Entrambi questi provvedimenti,
però, nella disciplina introdotta da queste riforme degli anni '90, sono
caratterizzate anche da una strumentalità strutturale nel senso che essi
possono produrre effetti soltanto e in quanto venga, in un tempo breve, avviato
un giudizio a cognizione piena.
Se questo giudizio non viene attivato
o coltivato il provvedimento perde la sua efficacia, in un certo senso non sta
in piedi da solo, quindi diversamente da quando accade col sistema del decreto
ingiuntivo, a seguito dell'ottenimento del titolo esecutivo grava ancora, sulla
parte che l'ha ottenuto, coltivare il procedimento, mentre, ovviamente, nel
decreto ingiuntivo, questo onere grava sulla parte nei cui confronti è
stato ottenuto il provvedimento.
Perché se ne parla con riferimento
alla tutela del possesso? La disciplina della fase interdittale del
procedimento possessorio costituiva la normativa di riferimento per individuare
la disciplina applicante al procedimento cautelare d'urgenza, chi aveva una sua
disciplina e anche nei provvedimenti cautelari di carattere conservativo con
una particolarità, che il provvedimento d'urgenza si è rivelato
importantissimo nella pratica applicativa, soprattutto nell'esperienza
applicativa del codice allorquando hanno cominciato a crescere a dismisura i
tempi della cognizione ordinaria e quindi, si sono visti realizzare sempre
più spesso i presupposti dell'indispensabilità del provvedimento
d'urgenza.
Ma all'epoca della codificazione, lo
si pensava come un rimedio di carattere marginale e la sua disciplina era
formulata in modo spesso largamente sommario.
Il provvedimento di sequestro, invece,
era già molto più importante nella prassi applicativa, e aveva
quindi una sua disciplina positiva molto più complessa. E si prevedeva,
ai fini del sequestro, che la sua efficacia fosse condizionata non soltanto
alla coltivazione di un giudizio di merito avente ad oggetto la sussistenza del
diritto soggettivo per il quale si era conseguito il provvedimento di
sequestro, ma era anche richiesto che si coltivasse un giudizio a cognizione
piena,avente ad oggetto, come diceva la
legge, la convalida del sequestro, ossia la verifica della sussistenza
delle condizioni di ammissibilità all'emanazione del provvedimento in
quanto giudizio a cognizione piena.
·Disciplina dei procedimenti
cautelari
La riforma degli anni '90 ha inteso
unificare la disciplina dei procedimenti cautelari prevedendo, sia per il
provvedimento d'urgenza, sia per il sequestro, che fosse sempre necessario a
pene d'inefficacia avviare e coltivare in giudizio a cognizione piena avente ad
oggetto il diritto a tutela del quale era stato richiesto e concesso il
provvedimento cautelare.
Ma eliminando invece il giudizio di
convalida del sequestro perché si riteneva insensato, si riteneva fosse
giustamente un inutile superfettazione che si dovessero sopportare i costi di
un giudizio a condizione piena, solo per verificare la sussistenza delle
condizioni per l'emanazione di un provvedimento che comunque non sarebbe stato
provvisto di efficacia di giudicato, i cui effetti sarebbero comunque stati
assorbiti dalla sentenza sul merito e cioè sulla sussistenza del diritto
a tutela del quale il provvedimento cautelare era stato emanato.
Eliminato quindi il giudizio di
convalida.
Questa riforma del '90, ha posto il
problema del procedimento possessorio come disciplina, e qui troviamo
soltanto la succinta indicazione secondo cui i procedimenti a tutela del
possesso si applicano, per quanto compatibili, le norme previste per i
procedimenti cautelari.
Il procedimento a tutela del possesso,
non è un procedimento cautelare, non è diretto a tutelare in via
urgente il diritto soggettivo di cui si dovrà conoscere la cognizione
piena in un giudizio ordinario. Qui si tratta solo di tutelare una situazione
di fatto, anzi, il provvedimento avente ad oggetto un diritto soggettivo era
quello che aveva reso improcedibile e non viene eseguito il provvedimento
possessorio. Sicché, la fase a cognizione piena, conurata dalla disciplina
previgente, come naturale prosecuzione del provvedimento interdittale, fa totalmente
divario con il giudizio di convalida di sequestro.
Anche in questo caso avremmo avuto la
necessità di coltivare il giudizio a cognizione piena, ma non per
conoscere di un diritto soggettivo, bensì, per conoscere solo della
legittimità dell'emanazione del provvedimento urgente. É chiaro che in
un sistema di controlli, deve essere previsto il riesame presso un giudice
diverso del provvedimento urgente ai fini della verifica delle condizioni di
ammissibilità della sua emanazione, ma per far questo, non è
necessario un giudizio a cognizione piena con tutti i suoi tre gradi, è
sufficiente quello che ha previsto, infatti, il legislatore del '90 nei
confronti della generalità dei provvedimenti cautelari, cioè il rimedio
del reclamo in un unico grado di riesame, presso un giudice diverso,
applicabile pacificamente anche ai provvedimenti possessori e accomnato,
naturalmente dall'idoneità della sentenza sul merito nel giudizio avente
ad oggetto il diritto soggettivo vero e proprio, è l'idoneità
della sentenza di merito ad eliminare automaticamente o ad assorbire, a seconda
del suo contenuto, gli effetti del provvedimento sommario.
La conclusione più logica
è l'analisi della disciplina emersa dalla legge del '90 avrebbe dovuto
essere che il procedimento di tutela del possesso conosceva una forma sommaria
, era passibile di reclamo nelle forme del reclamo previsto nei confronti dei
provvedimenti cautelari, ma non doveva più, necessariamente, formare
oggetto anche di un giudizio a cognizione piena.
Però, è successo che
buona parte della dottrina è scesa in campo, per difendere il cosiddetto
merito possessorio, sia per sostenere che anche a seguito della riforma, si
rendeva necessario coltivare il giudizio a cognizione piena, aventi ad oggetto
la verifica della ammissibilità dell'emanazione del provvedimento
possessorio a prescindere dalla condizione di qualsiasi diritto soggettivo.
A sostegno di questa tesi, in
particolare di fronte all'obiezione che così si finiva per dotare
proprio la situazione soggettiva possessoria, cioè quella che non
avrebbe la consistenza del diritto soggettivo e che procrastina la tutela del
diritto soggettivo stesso, una conurazione ancor più complessa e
ramificata di quella prevista per la tutela dei diritti soggettivi, perché qui,
finiremmo per avere normalmente cinque gradi d'istruzione, perché abbiamo la
parte sommaria, il reclamo contro il provvedimento sommario, la fase a
cognizione piena con primo, secondo e terzo grado.
Almeno nei casi di diritti soggettivi
normali, le due fasi a cognizione d'urgenza sono facoltativi in un certo senso,
cioè l'attore le utilizza se è il caso, può scegliere
anche di non avvalersene pur in presenza dei presupposti dell'urgenza, mentre
qui non si potrebbe nemmeno scegliere di non avvalersi della fase sommaria che
è anzi necessaria a fase introduttiva del provvedimento, di fronte a
questo tipo di obiezione.
Qualcuno ha detto, che la parte ha
sempre possibilità di ricorrere all'autotutela.
Era proprio quello che il
provvedimento voleva impedire! Tanto che la possessoria si giustifica proprio
per evitare che i cittadini ricorrano all'autotutela, ma più
sottilmente, si è osservato, sì, questa distinzione tra i diritti
soggettivi e situazioni di vantaggio che non ne hanno la consistenza, la
distinzione è incerta, e dovremmo muovere dal seguente presupposto, se
il legislatore conura una situazione di vantaggio, prima di dire che non
è un diritto soggettivo ci vogliono prove convincenti!
Cominciamo a qualificarla come diritto
soggettivo e poi vediamo!
Ed ecco che allora scatta, assieme a
questo ragionamento, l'esigenza della tutela a cognizione piena, almeno
se si pretermette la circostanza che la Consulta abbia detto che il legislatore
può benissimo, con riferimento a situazioni soggettive caduche, quale
evidentemente è la situazione soggettiva possessoria, che più
caduca di quella non esistono, con riferimento a questa situazione soggettiva
può il legislatore semplificare il procedimento e alleggerire gli
effetti preclusivi del giudicato.
Sta di fatto, però, che questa
tesi pur così debolmente argomentata, è quella che ha finito per
prevalere e così oggi la giurisprudenza ha affermato e ritiene che ai
fini della tutela del possesso il procedimento deve necessariamente articolarsi
addirittura in queste cinque fasi, fenomeno che potremo definire metastatico.
Allora, la prospettiva migliore sembra essere, oggi, è quella di
intervenire in via generale sul problema della necessaria strumentalità
strutturale dei provvedimenti cautelari, cioè, dei provvedimenti sommari
di carattere cautelare.
Accanto a questa, vi è la via,
invece della moltiplicazione delle forme della tutela sommaria non cautelare.
Questa seconda strada è stata
in qualche misura percorsa durante gli anni '90, in cui, in vario modo, si
è tentano di ampliare l'ambito di applicazione degli accertamenti a
prevalente funzione esecutiva introducendo tre diverse importanti forme di provvedimento
anticipatorio.
Anzitutto, si è introdotta la
prospettiva di ottenere un provvedimento provvisto di effetti largamente
equivalenti a quelli del decreto ingiuntivo anche in corso di causa, ma questo
lo si è fatto soprattutto per ovviare ad un problema pratico che
brevemente si illustra. È quello derivante secondo cui non si poteva
concedere un provvisoria esecuzione parziale del decreto ingiuntivo. E allora
cosa accadeva? Tizio, creditore di 100 milioni, ottiene decreto ingiuntivo
contro Caio, ma aio conosce il suo numero di conto corrente e Tizio non da
disposizioni sufficienti ad impedire amenti parziali. Sicché il convenuto
a 100 lire. Si oppone al decreto ingiuntivo e il creditore Tizio risulta non
più creditore di 100 milioni, ma creditore di 99.999.900 lire e dato che
non può essere concessa la provvisoria dilazione parziale del decreto
ingiuntivo nessuna provvisoria esecuzione viene concessa.
Per rendere inutile questa strategia,
si è introdotta la possibilità di chiedere nel giudizio di
opposizione un provvedimento equivalente, con riferimento alla somma che nel
frattempo era rimasta residua con riferimento allo stesso credito.
La disciplina del provvedimento
ingiuntivo prevede che la parte che sia in possesso di un titolo esecutivo di
formazione stragiudiziale, per esempio un atto notarile, che può
costituire titolo esecutivo con riferimento alle somme di danaro conservate
nell'atto stesso, e anche una prova scritta sufficiente a conseguire un decreto
ingiuntivo ed è ovvio che il decreto ingiuntivo possa essere conseguito
da chi è pure già provvisto di titolo esecutivo, ovviamente, allo
scopo di munirsi di un titolo esecutivo potenzialmente più stabile di
quello di formazione giudiziale, soprattutto, perché, in sede esecutiva
allorquando si innesca l'ausilio della forza pubblica, per ottenere la
realizzazione coattiva dell'obbligazione, è sempre data la possibilità
al debitore di promuovere un giudizio a cognizione piena idoneo, in particolare
quando l'iniziativa appaia fondata anche a bloccare da subito l'esecuzione,
contestando la sussistenza del diritto di procedere all'esecuzione forzata.
È questo il rimedio che al nome di opposizione ad esecuzione,
è contemplato dal legislatore come un rimedio che consentendo di far
valere l'inesistenza del diritto di procedere ad esecuzione forzata, permette
non solo di far valere l'eventuale inesistenza o invalidità del titolo,
ma anche l'inesistenza del diritto a tutela del quale si è conseguito il
titolo.
Ovviamente questa possibilità
non è data allorquando il titolo è di formazione giudiziale,
perché i casi sono due; o il titolo è un provvedimento passato in
giudicato e quindi dell'accertamento della sussistenza del diritto non è
più contestabile grazie agli effetti della cosa giudicata, ovvero un
provvedimento passibile di impugnazione ordinaria e in questo caso la parte
deve avvalersi dell'impugnazione ordinaria per muovere questo tipo di
contestazioni e non le può muovere, invece, tramite opposizione
all'esecuzione.
Dobbiamo tener presente quest'aspetto
per poter capire in quale misura il titolo di formazione giudiziale possa
interessare alla parte più di un titolo di formazione stragiudiziale.
Contestualmente si è introdotto
un provvedimento anticipatorio avente ad oggetto il amento delle somme
non contestate, e questo è un altro caso abbastanza illustrativo,
perché, durante gli anni '50, '60, quando si parlava di riforma del processo,
si faceva spesso un'osservazione. Capita che il convenuto si costituisca in
giudizio e contesti solo in parte la somma dovuta. Perché non introdurre un
provvedimento anticipatorio che consenta di ricostituirsi il titolo esecutivo
rispetto a quelle somme che non siano contestate, di tutte queste ipotesi di
contestazioni parziali?
Un provvedimento di questo tipo ha
senso soltanto se può essere emanato nei confronti della parte che non
si costituisca in giudizio, cioè che non si renda parte attiva del
procedimento e quindi, scelga di non affrontare i costi e le spese della difesa
in quel procedimento. Perché è plausibile quest'ipotesi: è chiaro
che la contumacia si presuma volontaria, in caso
d'involontarietà, c'è sempre la rimessione in termini.
È lecito presumere che, di rado
la parte che non si costituisce, non si costituisca perché talmente sicura di
aver ragione, che è certa di vedersela dare dal giudice senza bisogno di
rendersi parte attiva del procedimento. La parte che non si costituisce
è pur normale che ragioni in questo modo, cioè; non mi
costituisco perché sono soldi sprecati per difendermi in un processo in cui
sono sicuro di perdere. Quindi, in questo caso può restare ferma l'idea
che il nostro ordinamento non ammetta la confessio in iure, quindi non
può attribuire valore dispositivo, ne, ad un atteggiamento confessorio
della parte che vincola il giudice rispetto all'accertamento dei fatti, ma non
alla valutazione dell'effetto giuridici derivante da quei fatti stessi, ne, ad
un atteggiamento di tipo passivo, come la mancata contestazione non
potrà certamente avere un'efficacia dispositiva, e resterà sempre
salda la possibilità, comunque, in altra maniera risulti agli atti
l'infondatezza della pretesa, la possibilità di rigettare la domanda
anche in contumacia della parte convenuta.
Però, non c'è nulla di
male, se nei confronti della parte non costituita, può essere ugualmente
reso un provvedimento anticipatorio, magari non provvisto dell'efficacia della
cosa giudicata. Ma se noi, come ha fatto il legislatore, prevediamo tra i
presupposti della concessione dell'ordinanza, la circostanza che la parte sia
costituita, sul presupposto che la non contestazione rilevi solo quando non sia
completamente un comportamento omissivo, bensì, un'omissione ricollegata
ad un comportamento attivo di difesa, l'unico risultato che otteniamo è
quello di far sparire il fenomeno delle contestazioni parziali, perché, una
volta che la parte ha scelto di affrontare i costi della difesa, e che questa
parte sa che in caso di contestazione parziale rischia di subire l'emanazione
del provvedimento anticipatorio, e se, come purtroppo è da noi, di fatto
la difesa di mala fede non è sanzionata in sede di cognizione. Perché?
Sì, l'art 96 prevede forme di
responsabilità aggravata nei confronti della parte che si difenda
sapendo di aver torto nei casi di mala fede o colpa grave, ma risponde
esclusivamente dei danni, e di quali danni può trovarsi a rispondere la
parte che si sia difesa in malafede?
Può trovarsi a rispondere dei
costi derivanti dall'esigenza di affrontare il processo, ma in forza della regola
della soccombenza, di questi, in larga parte, occorre rispondere anche se
la difesa è in buona fede, quindi la differenza, ciò che di cui
effettivamente si risponde a causa della mala fede è modestissima, e
sostanzialmente priva di valore dissuasivo di efficacia deterrente nei
confronti della litigiosità in mala fede.
In presenza di tutti questi
presupposti, la parte che si costituisce, a quel punto, contesta tutto! Sicché,
di fatto, questa disciplina, è rimasta sostanzialmente sprovvista di
seria applicazione.
Va ricordato nel panorama dei provvedimenti
anticipatori, l'ordinanza successiva alla chiusura dell'istruzione, qui la
portata anticipatoria del provvedimento è molto più modesta
perché sostanzialmente si risparmiano i tempi della redazione della motivazione
della sentenza.
Un fattore di recente introduzione
accomuna alcune caratteristiche è quella di essere classificati come
provvedimenti pienamente revocabilie
ciò con l'obiettivo di evitare che si renda possibile, nei loro
confronti, l'esperimento del riscorso straordinario per Cassazione, ma
restano provvedimenti il cui ambito di applicazionepare o molto ridotto come nel caso di
ordinanza di amento delle somme non contestate, o sostanzialmente
discriminatorio come accade nei provvedimenti di carattere ingiunzionale,
sperequando in favore di certe categorie di cittadini aventi un accesso
privilegiato alla prova, che poi si potrà dire, in seguito di
opposizione nei confronti del provvedimento ingiuntivo, il debitore laddove sia
falsa la prova unilateralmente formata dall'imprenditore o dall'avvocato,
può conseguire il rigetto della domanda, non è ribaltato l'onere
della prova, di questa prova che non farebbe prova nel giudizio ordinario non
fa prova nemmeno nel giudizio di opposizione del decreto ingiuntivo,
però, seppure non ha ribaltato l'onere della prova, questa formazione
unilaterale del documento scritto, ha se non altro ribaltato l'onere
dell'iniziativa processuale, facendo gravare sull'avversario il costo di
un'iniziativa processuale diretta a provocare un esame sulla base di regole
ordinarie e di prova della sussistenza del diritto vantato dall'avversario.
Ovvero, ancora, di modesta portata
anticipatoria, come accade per l'ordinanza successiva alla chiusura
dell'istruzione che presuppone che comunque si sia espletato il grosso
dell'attività processuale prevista dal procedimento a condizione piena.
La prospettiva più interessante
per il futuro, è quella di arrivare a un regime che sia, da questo punto
di vista omogeneo, in paesi dove la giustizia civile funziona molto meglio che
da noi!
L'esempio più significativo
è quello dell'ordinamento processuale francese, che è molto
simile al nostro per tantissimi punti di vista, e forse la più
importante delle differenze è che il provvedimento sommario, nella
generalità delle ipotesi, non è caratterizzato da
strumentalità strutturali, quindi , anche il provvedimento concesso in
via sommaria per l'urgenza di provvedere, sulla base del cosiddetto pericolum
in mora, conserva i suoi effetti senza bisogno della instaurazione del
giudizio a cognizione piena.
Sono effetti non giudicato,
cioè sono effetti esecutivi; il provvedimento rimane pienamente
passibile di revoca anche sulla base di un nuovo esame delle circostanze
già dedotte prima della sua emanazione ed il riesame a cognizione piena
ed esauriente tramite procedimento ordinario, della sussistenza del diritto,
rimane sempre possibile, salvo che , ovviamente eccezione di decadenze di
carattere sostanziale.
In direzione di questa soluzione si
sta effettivamente muovendo il legislatore, nel senso che la più recente
delle riforme processuali, che ha avuto per oggetto il contenzioso in materia
societaria, ha previsto che sia possibile, sia ottenere un provvedimento
cautelare caratterizzato da questo grado di stabilità, prima di
prescindere dall'instaurazione di un procedimento a cognizione piena, sia
ottenerlo nel corso di tale procedimento, senza che l'eventuale estinzione di
quest'ultimo, dovuta alla mancata coltivazione da parte delle parti
interessate, comporti la caducazione della misura cautelare concessa.
Il provvedimento conserva i caratteri
di piena revocabilità, ovviamente, deve anche ritenersi che si tratti di
un titolo esecutivo di formazione giudiziale, tale per cui, la contestazione
della sussistenza del diritto di procedere all'esecuzione forzata, non possa
ricomprendere quelle ragioni, che, potrebbero giustificare un riesame, una
revoca del provvedimento, attraverso gli strumenti previsti per il suo riesame
e la sua revoca in sede di cognizione piena, cioè, dovrebbero operare un
meccanismo per il quale l'opposizione all'esecuzione risulterà
proponibile per far valere che la somma sia stata già ata dopo
l'emanazione del provvedimento, non per far valere le fattispecie verificatesi
successivamente all'emanazione del provvedimento.
Ma annunciate quelle contestazioni che
avrebbero potuto essere mosse nel procedimento che ha condotto all'emanazione
di quel provvedimento, perché, quelle contestazioni potranno essere mosse, ma
non tramite il rimedio dell'opposizione all'esecuzione, bensì, tramite
la richiesta della revoca del provvedimento, ovvero, attraverso la richiesta di
un giudizio a cognizione piena sul diritto oggetto della tutela cautelare.
Questo sistema, plausibilmente,
finirà per essere prodotto in tempi brevi, anche come strumento generale
per la tutela dei diritti soggettivi, con il vivo auspicio che l'abbandono
della tralatizia idea, secondo cui la strumentalità funzionale del
provvedimento rispetto al provvedimento del merito debba accomnarsi nella
sua strumentalità strutturale, l'abbandono di questa idea consenta di
alleggerire il carico di lavoro gravante sull'amministrazione della giustizia
civile, e quindi di realizzare in modo più efficace il precetto
costituzionale che impone di garantire al cittadino una tutela in tempi
ragionevoli nei suoi limiti soggettivi.
Questo, può anche consentire di
rendere interessante di quanto a lungo apparso un altro possibile percorso, che
pur in un certo tempo si è coltivato, che è quello di promuovere
le cosiddette modalità alternative di risoluzione delle controversie.
Di cui occorre esaminare, in
particolare, un paio di forme una è quella del cosiddetto arbitrato.
Il sistema dell'arbitrato consente di
conseguire la soluzione della controversia da parte di soggetti privati, scelti
per accordi tra le parti sulla base di una clausola compromissoria, un
compromesso vero e proprio, che può in vario modo incentivante, ci sono
stati molti interventi di apertura in favore di questo strumento che si
è reso utilizzabile in misura sempre maggiore anche la tutela di
situazioni soggettive limitatamente disponibili, in particolare nelle materia
del diritto del lavoro, e sia nelle forme del cosiddetto arbitrato rituale
che è quello esplicitamente disciplinato dal codice di procedura civile
e che contempla la possibilità di richiedere un riesame del
provvedimento innanzi al giudice, però, in un unico grado di merito, sia
deforme del cosiddetto arbitrato irrituale, istituto non direttamente
contemplato dal codice, e che secondo una tradizionale interpretazione
dottrinale giurisprudenziale, segue diverso regime, in quanto, equivarrebbe ad
una travisazione come tale impugnabile sotto il profilo
dell'impugnabilità del negozio, e quindi impugnabile davanti al giudice,
che questa volta neanche in unico grado di merito, ma intero giudizio a
condizione piena con tutti i suoi ordinari svolgimenti, per una serie di
ipotesi abbastanza limitata.
I modi per incentivare questo
strumento sono diversi, ma si è prospettato l'ipotesi di favorirne
l'utilizzazione attraverso delle modalità di istituzionalizzazione del
sistema della risoluzione delle controversie tramite arbitrato.
Cioè prevedendo che possa
essere il giudice adito dalle parti, ad inviarle dinanzi ad un arbitro.
L'istituzionalizzazione del sistema si
rivelerebbe, nella circostanza, che gli arbitri a cui il giudice invierebbe le
parti, dovrebbero essere iscritti in un elenco, ovviamente abilitati in varia
forma e scelti dal giudice anziché dall'accordo delle parti.
La soluzione della controversia
fornita dall'arbitro così designato da giudice, sarebbe pienamente
suscettibile di riesame a cognizione piena innanzi al giudice in cui la parte
soccombente, intenda successivamente rivolgersi, però con una previsione
in termine di disciplina delle spese, tale per cui, la parte vincitrice, non
conseguirebbe la condanna alle spese dell'avversario soccombente,tutte le volte in cui il risultato conseguito
davanti al giudice non fosse migliore da quello conseguito accontentandosi
della pronuncia arbitrale.
Per fare un esempio concerto; la parte che
abbia agito chiedendo 100 lire, si veda riconoscere dall'arbitro soltanto 50,
proseguisse il giudizio per ottenere le 100 e si dovesse riconoscere dal
giudice le 50, non avrebbe diritto a conseguire le spese pur risultando
soltanto parzialmente soccombente e in realtà parte vincitrice del
giudizio.
Si tratta di incentivo poco incisivo,
e devo dire, anche un incentivo che opererebbe nella materia lavoristica in
modo asimmetrico, perché in realtà c'è un'asimmetria non scritta
nella disciplina delle spese del processo in materia lavoristica, perché, è
prevalente la prassi secondo cui il lavoratore alle spese non viene condannato
mai! Per varie ragioni equitative, non sempre condivisibili, ma sta di fatto
che solo il lavoratore ad avere solo la prospettiva di avere una condanna.
Analogamente, fa fatto per quei
incentivi che si prevedono, ai fini della risoluzione delle controversie
tramite il metodo conciliativo, consistente nel raggiungimento di una
soluzione di carattere transativa della controversia tra le parti, pur sempre
dinanzi all'organo che assicuri che la soluzione non sia manifestamente iniqua
nei confronti di una delle due parti.
Qui parliamo di conciliazione, quando
la soluzione transativa si è raggiunta dinanzi al giudice o innanzi ad
una commissione di conciliazione.
Anche qui, la previsione di incentivi
di questa sorta, finisce per cooperare in maniera asimmetrica.
Il sistema degli incentivi economici
all'accettazione dell'offerta transative, ovvero, delle soluzioni fornite da
arbitrati istituzionalizzati, è ispirato ad esperienze straniere che non
si sono colte in tutti gli aspetti. Per esempio, questi incentivi esistono nel
diritto processuale statunitense dove la percentuale delle condizioni
conciliative sia elevatissima.
Nel nostro ordinamento, questo limite
è molto forte! E non solo perché ci sono soggetti che difficilmente
vengono condannati alle spese anche perché, molte volte si tratta di soggetti
insolventi, ma soprattutto, perché, la condanna alle spese copre, in
realtà, una parte modesta dei costi affrontati dal vincitore.
In questa sorta di casi, la parte che
aveva torto, ha abusato del processo, e il problema non è quello di non
prevedere la condanna alle spese, perché, chi vuole rendere la vita difficile
all'avversario consegue comunque il suo obiettivo, infliggere costi che nel
peggiore dei casi, risarcirà solo in parte. La condanna alle spese muove
da un presupposto chiovendiano, il principio per cui, il processo deve fornire
alla parte che ha ragione, per quanto possibile, tutto quello che questa
avrebbe conseguito se il suo avversario si sarebbe comportato come diritto!
I costi affrontati per vedersi dar
ragione, sono costi da cui parte deve essere tenuta indenne e per tanto viene
d'ufficio attribuita alla parte soccombente.
Tutto questo ragionamento muove da un
presupposto e che cioè la parte che ha ragione, che ha vinto la causa,
abbia vinto la causa proprio perché aveva ragione! Quindi, considerato che nel
processo anlgo-americano, il divario tra spese per la difesa e spese che si
possono conseguire per effetto della condanna della parte soccombente è
moto elevato, diventa ancora più importante disincentivare la
temerarietà della lite e per disincentivarla, una responsabilità
civile per danni non è sufficiente.
Può funzionare come contro
incentivo la responsabilità per danni nei confronti di iniziative
processuali molto più aggressive di quelle consistenti nella difesa di
mala fede nel giudizio di cognizione. Tant'è che il secondo comma
dell'art. 96 nel prevedere, sulla base di un elemento psicologico più
tenue cioè soltanto della normale colpa, anche laddove si sia agito
senza la normale prudenza e si risponda dei danni cagionati da iniziative
aggressive nei confronti del patrimonio dell'avversario come il pignoramento,
l'esecuzione di un sequestro, l'iscrizione d'ipoteca giudiziale, si risponda
dei danni, e qui la disciplina è efficacemente dissuasiva perché queste
iniziative possono causare danni elevati e quindi la responsabilità
civile è un sistema dissuasivo abbastanza efficace.
Rispetto, invece, alla malafede
nella difesa in sede di cognizione è difficile immaginare quale
ulteriori danni possano essere provocati rispetto a quelle consistenti alle
spese di giudizio e c'è un primo fattore che spiega perché occorre
prevedere nei confronti di litigiosità di mala fede, non sanzioni
detentive, ma sanzioni pecuniarie che prescindano dalla prova del danno, e in
questa direzione si muovono i più recenti progetti di riforma che
prescrivono la possibilità di condannare la parte soccombente al
amento di somme rapportate al valore della causa senza bisogno della prova
di aver subito danni per effetto della litigiosità temeraria.
Il secondo aspetto, prende in
considerazione che nel processo civile si pone, e ciò deve essere
ritenuto presente in sede di conurazione degli incentivi, un classico
problema che viene ricondotto alla rappresentanza. Ossia si pone spesso
il problema seguente.
Un soggetto compia nell'interesse di
un altro soggetto senza che il soggetto nel cui interesse gli atti sono
compiuti, sia in grado di controllare efficacemente se gli atti compiuti
rispondano davvero al suo migliore interesse. È un problema molto serio,
su cui si potrebbe sprecare la metodica, perché risulta spesso impopolare che
avvocati suggeriscano ai clienti iniziative giudiziarie temerarie. Autorevoli
studiosi dicono che questa è un'invenzione, e quando mai!
Ma verrebbe da pensare che forse loro
non lo fanno perché sicuramente se lo fanno loro avversari non lo vanno a
raccontare a loro! Però in quello che viene riferito, questo succede,
eccome! E succede proprio perché il cliente, in realtà, ha modeste
possibilità di capire se davvero l'iniziativa giudiziaria è o
meno valida. Allora, qui, occorre dire che un sistema sanzionatorio della
litigiosità temerarietà può funzionare soltanto in quanto
si faccia attribuire sanzioni soprattutto sul difensore, anche per rendere
più comprensibile, più accettabile, la regola del dell'obbligo di
patrocinio.
Considerando che, in realtà, in
nessun modo può giungersi alla conclusione che, la regola
dell'obbligo del patrocinio sia la regola per cui, nelle generalità
delle cose, e salvo eccezioni, non si può stare in giudizio se non
tramite il patrocinio di un procuratore legalmente esercente. Non c'è
alcun modo di arrivare alla conclusione che questa regola sia giustificata dal
migliore interesse delle parti assistite. Questa regola non è
nell'interesse delle parti, caso mai, forse nell'interesse dell'efficienza
dell'amministrazione della giustizia, e allora, se la regola è posta in
questo interesse, bisogna che anche coloro che ne traggono vantaggio siano
anche responsabili degli atti e dei poteri che esercitano in conseguenza di
questa regola, e quindi possano essere essi stessi direttamente sanzionati per
gli abusi commessi nell'esercizio di quel potere.
Un altro aspetto da considerare nella
disciplina processuale statunitense riferito all'altro tipo di ipotesi in cui
si presentano difficoltà a raggiungere ad un accordo transativo. Quello
in caso in cui, entrambe le parti in buona fede pensano di avere ragione.
Ovvero, diciamo che entrambe le parti contano di vincere e esiste una
divergenza di valutazione delle probabilità di vincere.
Se questa divergenza si attenua, il
raggiungimento dell'accordo conciliativo è più facile, nel senso
che se entrambe le parti ritengono che l'attore abbia il 70% di
probabilità di vincere è naturale che si raggiunga un accordo
conciliativo del 70% della somma richiesta. Negli Stati Uniti accade che nel
corso della fase preliminare preparatoria del procedimento, la parti siano
assoggettate al dovere di esibirsi reciprocamente i mezzi di prova. Ciò
comporta non soltanto la preclusione all'utilizzazione del mezzo di prova
conteso nel processo, ma può comportare specifiche sanzioni di carattere
pecuniario nei confronti della parte che non sia cooperativa in quest'obbligo
di esibizione.
Il risultato di questo meccanismo
è che nel corso di questa fase preliminare, le divergenze di valutazione
intorno alle probabilità di vincere si riducono progressivamente nelle
fasi di picco delle conciliazioni, che avviene alla conclusione del
procedimento di preventiva esibizione del materiale probatorio.
Da questo punto di vista, sembra abbastanza
comico che si sostenga che la recente riforma del processo societario che
costituisce la anticipazione della generale riforma del processo civile in
corso, abbia introdotto un meccanismo analogo a quello americano nel prevedere
una fase preliminare preparatoria del procedimento costituito dallo scambio di
atti direttamente fra le parti, prima di rivolgersi al giudice, perché, in
realtà, della fase preparatoria del processo civile americano, si
è preso proprio la parte che non serve, che serve meno, anche volendo
immaginare che non sia utile far si che le parti si confrontino immediatamente
con il giudice sin dall'avvio della fase preparatoria.Idea discutibile anche sul piano
atistico, perché è vero che la fase preparatoria comporta
un'esibizione reciproca delle prove che però non è anche
acquisizione delle stesse a giudizio, diversamente da quanto accade da noi, ove
l'esibizione del materiale probatorio ne implica anche l'acquisizione al
processo, mentre nella fase preliminare anglo-americana, le prove vengono
esibite reciprocamente dalle parti negli studi legali dei difensori, ma questa
esibizione non comporta acquisizione a giudizio e nel caso in cui si giunga al
dibattimento le prove dovranno essere nuovamente assunte per poter essere utilizzate
ai fini della decisione.
Finché rimane, come di fatto rimane,
la possibilità di riservare ad un momento successivo la fase
preliminare, la deduzione dei mezzi di prova a se favorevoli, sembra
impossibile che lo svolgimento della fase preliminare, in quanto tale, possa
favorire il raggiungimento della conciliazione. Quindi se si vuole incentivare
questo tipo di strumenti bisogna pensare, a prescindere dal problema
dell'utilizzazione della fase preliminare come strumento per l'indagine
privata, quanto meno all'introduzione di una regola che preveda la
necessità dello scambio preliminare a pena di preclusione dei mezzi di
prova, altrimenti questa fase preliminare altro non è che mera
dilazione, perdita di tempo, e atti processuali che vengono fatti are alle
parti e al sistema, nel suo complesso, senza nessuno scopo; in un sistema che
favorisce un ceto professionale, chissà quale, come al solito sempre
quello! Senza che ne derivi alcun vantaggio all'efficienza dell'amministrazione
della giustizia.
Si può andare oltre a questa
considerazione, se sia sensato, in effetti, raggiungere una conciliazione, come
in Germania, dove il giudice si pronuncia dopo sei mesi, quindi perché devo
raggiungere una conciliazione?
·La giurisdizione
La prima cosa da domandarsi, parlando
di questo argomento, è quale sia esattamente il significato della parola
"giurisdizione".
Nel linguaggio codicistico,
l'espressione viene utilizzata per fare riferimento a cose diverse, anzitutto
possiamo intendere la giurisdizione come attività di attuazione della
volontà concreta della legge, possiamo però anche intendere
l'espressione come riferita al potere di compiere validamente tale
attività, e ancora per fare riferimento al complesso degli organi
provvisti del potere di compiere tali attività.
Orbene, prendendo le mosse della
concezione della giurisdizione come attività, tradizionalmente è
abbastanza facile distinguere la giurisdizione dalla legislazione che impone
norme generali astratte, nonché sul versante positivo opposto, dalle attività
meramente materiali attuative dell'ordinamento.
Tradizionalmente meno facile, è
distinguere la giurisdizione dall'amministrazione, perché entrambe
concretizzano norme astratte.
Si sono proposte diverse soluzioni,
per esempio si è immaginato che la giurisdizione si caratterizzi perché
sussiste nella tutela di diritti soggettivi, cioè, di situazioni di
vantaggio attributivi di beni della vita, però, prevalentemente si
ritiene che questo criterio di distinzione finisca per essere troppo restrittivo,
che si debba qualificare come giurisdizione anche altre attività non
propriamente l'organo di tutela di diritti soggettivi, posizioni di vantaggio
aventi consistenza diversa, per esempio, come abbiamo accennato, quella della
tutela del possesso.
Ancora, secondo alcuni si potrebbe
individuare il tratto dell'attività giurisdizionale nella sua
idoneità alla formazione dell'effetto della cosa giudicata, ma anche
qui, l'opinione prevalente è che il criterio sia fin troppo restrittivo,
poiché, come abbiamo visto, la giurisprudenza della Consulta esclude che vi sia
una garanzia costituzionale del giudicato civile e permette che
l'attività di tutela, anche di situazioni di vantaggio dei un diritto
soggettivo, possa tradursi in provvedimenti provvisti di gradi di stabilità
diversi da quello caratteristico della cosa giudicata in senso sostanziale in
senso pieno.
Ancora! Si potrebbe immaginare che
l'attività giurisdizionale si qualifichi per la presenza del
contraddittorio delle parti interessate, ma a sua volta questo criterio non
può ritenersi accettabile perché è troppo ampio e può
anche essere, inoltre, ritenuto un criterio troppo restrittivo, laddove lo si
intenda che sia caratteristico della giurisdizione un contraddittorio a
struttura bilaterale.
Forse c'è questo tipo d'idea,
dietro alle concezioni di chi nega il carattere propriamente giurisdizionale
dell'attività detta di giurisdizione volontaria, come accennato,
che il giudice non sarebbe terzo.
In realtà, il criterio
distintivo dell'attività giurisdizionale è fondamentalmente
quello di essere l'attività svolta dagli organi qualificati come
giurisdizione.
Questa soluzione è imposta dal
sistema di rapporti fra i poteri dello Stato, in particolare in relazione alle
esigenze del controllo incidentale di legittimità costituzionale della
legge, perché questo controllo, sì, può essere promosso da organi
di vertice del potere esecutivo in certi casi, ma il meccanismo privilegiato
è quello del sindacato incidentale di legittimità
costituzionale promosso da qualsiasi organo giurisdizionale nel corso dello
svolgimento della sua attività, in ragione della indipendenza assicurata
dalla stessa Costituzione a tali organi, sia nei confronti degli altri poteri
dello Stato, sia reciprocamente.
Ne consegue che, come la Consulta ha
sottolineato, l'attività svolta da tali organi va qualificata come
giurisdizionale anche se non tutela diritti soggettivi ma situazioni di
vantaggio di consistenza diversa, tali da suggerire che su di essi non si formi
il giudicato sostanziale o che su di essi si provveda senza contraddittorio
bilaterale, perché manca la bilateralità del conflitto, come accade nel
procedimento di autorizzazione alla vendita dei beni del minore, ferma restando
la salvezza del diritto al contraddittorio bilaterale, comunque è
l'unica in qualsiasi parte direttamente interessata al contenuto del
provvedimento richiesto è certamente costituzionalmente garantito.
Ciò perché, per evitare che
altrimenti il legislatore possa, come n effetti in alcuni contesti dittatoriali
è avvenuto, eliminare il controllo di legittimità costituzionale
con il semplice escamotage di qualificare le situazioni soggettive
giuridicamente protette come situazioni diverse dal diritto soggettivo. Quindi,
il legislatore, per un servo, è tenuto a prevedere che esistano organi
indipendenti provvisti del potere di tutelare le situazioni di vantaggio
giuridicamente protette mediante la concretizzazione dello norme astratte, e
non può impedire che tale attività sia qualificata come
giurisdizionale e sia come tale idonea a dar luogo al sindacato di
legittimità.
Ma non è chiaro quali siano gli
organi giurisdizionali, questo potrebbe sembrare vero, magari adesso alla luce
della proliferazione delle cosiddette autorità indipendentidi cui si discute se abbiano o meno carattere
giurisdizionale e coloro che lo affermano lo fanno per sostenere
l'ammissibilità della promozione del sindacato in via incidentale del
controllo di legittimità costituzionale già in quella sede.
In vero, appare preferibile
l'interpretazione secondo cui l'ordinamento non è affatto ambiguo in
questa materia, la qualificazione degli organi come giurisdizionali si
ricollega ad indicazioni precise da cui discendono regole ineludibili in tema
di selezione, di progressione di carriera, dirette a proteggere l'indipendenza
degli organi stessi, queste indicazioni consentono di individuare gli organi
giurisdizionali e quindi di parlare della giurisdizione come complesso di
organi, oltre che come attività e potere, nonché di comprendere la portata
dei molti aggettivi che sovente accomnano l'espressione "giurisdizione".
Da questo punto di vista, occorre
riprendere la varietà di significati che l'espressione può
assumere, sotto il profilo del tipo di attività che abbiamo già
visto.
In qualche misura, gli aggettivi che
connotano la giurisdizione contenziosa distinguendola da quella volontaria
ed è appena il caso di accennare che riguarda sempre il tipo di
attività svolta alla distinzione tra giurisdizione civile e giurisdizione
penale.
Concerne, invece il potere
giurisdizionale e anche il complesso degli organi a cui spetta, la distinzione
fra giurisdizione ordinaria e giurisdizione speciale, sicché si
parla anche, dal punto di vista degli organi, di giudice ordinario e giudici
speciali, per esempio nell'art. 1 del codice di rito, dove si dice che la
giurisdizione civile intesa come attività è esercitata dai
giudici ordinari, e dal punto di vista del potere, si può parlare di difetto
di giurisdizione del giudice ordinario nel disposto dell'art. 37 del codice.
Questo rapido excursus lessicale, ci
consente di affrontare la lettura dell'art. 37 esaminando i diversi tipi di
difetto di giurisdizione contemplati dall'ordinamento, ossia specialmente la
differenza tra di difetto di giurisdizione nei confronti dei giudici speciali e
difetto di giurisdizione a causa dei poteri attribuiti alla pubblica
amministrazione.
Si tratta di una distinzione
tutt'altro che priva di rilevanza applicativa esaminando l'art.41, ma
preliminarmente bisogna chiedersi in cosa consista in difetto di giurisdizione
a causa dei poteri attribuiti alla pubblica amministrazione.
La prima importante osservazione e che
questa fattispecie non concerne qui casi in cui il potere giurisdizionale
è attribuito giudici amministrativi, che come vedremo tra breve,
i giudici amministrativi sono giudici speciali.
La questione relativa al riparto della
giurisdizione, del potere giurisdizionale, tra giudici ordinari e giudici
amministrativi, è diversa da quella di difetto di giurisdizione a causa
dei poteri attribuiti alla pubblica amministrazione, poiché, quest'ultimo
difetto, comporta non già che la causa debba decidersi da parte di altra
giurisdizione, di altro complesso di organi previsti dal potere
giurisdizionale, bensì comporta che nessun giudice, quindi nessuna
giurisdizione possa risolvere il conflitto tramite l'esercizio del potere
giurisdizionale.
Si tratta del caso in cui la questione
di giurisdizione è una questione di merito, perché trattata come
questione di rito ai fine di produzione di effetti di giudicato, si ritiene che
non si producano gli effetti di giudicato sostanziali in particolare ai fini
della produzione di effetti vincolanti nelle controversie dipendenti, si
ritiene quindi, che la sentenza che dichiara il difetto assoluto di giurisdizione,
possa produrre effetti a dispetto dell'estinzione del processo in cui è
stata resa, soltanto se essa provenga dalla Corte di Cassazione, cioè si
idonea a produrre gli effetti del giudicato panprocessuale.
Però è una decisione che
comporta che la domanda non possa accogliersi neppure dinanzi ad altro giudice,
dato che essa dipende dai profili sostanziali del conflitto e non da aspetti
attinenti allo svolgimento del processo.
In che senso dipenda da profili
extraprocessuali? Nel senso che secondo la concezione prevalente, nel momento
in cui la norma è stata concepita, essa alluda al caso in cui si impugni
un atto insindacabile, ma il problema che oggi questo istituto pone in sostanza
è il seguente.
Ai sensi dell'art. 113 della
Costituzione, la tutela giurisdizionale non può mai essere esclusa per
particolari categorie di atti della P.A., quindi sembra lecito domandarsi se la
norma nella misura in cui alludeva alla insindacabilità dei cosiddetti
atti politici di governo, possa ritenersi implicitamente abrogata o, perlomeno,
costituzionalmente illegittima.
Il dubbio è sensato! Infatti,
questo non comporta automaticamente che in concreto si possa ottenere tutela di
situazione di vantaggio rispetto ad atti come la nomina del presidente del
consiglio.
Ma perché questo accade? Rispetto a
questi atti non sussistono posizioni giuridiche differenziate di vantaggio,
cioè, non sussistono situazioni di vantaggio ascrivibili ad un soggetto
particolare rispetto alla generalità dei consociati, sicché manca la
legittimazione a far valere gli eventuali vizi di questo atto.
Il problema è che parliamo di
difetto di legittimazione e se parliamo di difetto di giurisdizione parliamo di
due cose diverse! Tant'è vero che, questo tipo di difetto di
legittimazione consistente in una carenza di posizione soggettiva di vantaggio
tutelata dall'ordinamento, può verificarsi anche in controversie tra
privati, infatti, la giurisprudenza della Cassazione per lungo tempo ha
ritenuto che questo tipo di ipotesi fosse soggetta ad identico regime, cioè
anche in questa ipotesi si potesse invocare la sussistenza di un difetto
assoluto di giurisdizione del giudice ordinario.
In particolare ai fini della
possibilità di esperire il regolamento preventivo di giurisdizione,
perché si riteneva, soprattutto nel periodo immediatamente successivo
all'emanazione del codice di rito, che questa impostazione permettesse di
conseguire risultati di economia processuale, in quanto, la decisione sul punto
poteva fondarsi anche sulla prospettazione attoria, ovvero sia, poteva essere
resa in iure sulla base dell'applicazione del diritto vigente al caso
concreto prospettato dalla parte, senza bisogno di provvedere all'assunzione di
mezzi di prova intorno ai fatti dedotti in giudizio.
Risultava sensato permettere, secondo
la Cassazione, alle parti di avvalersi del regolamento di giurisdizione, perché
questo permetteva di ottenere immediatamente una decisione da parte della
Cassazione addirittura preventiva rispetto alla decisione del giudice di
merito, e di giungere celermente alla definizione della causa.
Questa interpretazione, però,
è stata abbandonata, soprattutto allorché ci si è resi conto di
come lo strumento del regolamento preventivo di giurisdizione, in
realtà, lungi dal permettere il conseguimento di risultati di economia
processuale, poteva essere utilizzato con finalità abusive e dilatorie e
l'ampliamento in via interpretativa del suo ambito di applicazione si rivelava
controproducente.
Per la Cassazione è stato
più facile ammettere che non si qualificasse come questione di
giurisdizione, la questione della cosiddetta improponibilità assoluta
della domanda fra privati, e ammettere che non si qualificasse come questione
di giurisdizione deducibile tramite regolamento preventivo, ovvero sia, che non
fosse più applicabile nell'ordinamento italiano la disciplina del
difetto di giurisdizione rispetto a particolari categorie di atti della P.A.
come gli atti politici o di governo. Perché? C'è dietro una vicenda
legata ai rapporti fra giurisdizioni, ossia, la Cassazione ha continuato a
qualificare l'ipotesi di questa sorte, come ipotesi di difetto di
giurisdizione, soprattutto perché queste si presentavano nel contesto di
procedimento promossi dinanzi la giurisdizione amministrativa.
Perché questa circostanza induce la
Cassazione ad intendere in senso ampio il concetto in questione di
giurisdizione comprendendovi anche ipotesi in cui sussista un difetto di
legittimazione ad agire rispetto all'impugnazione dell'atto della P.A.?
La risposta si trova nell'art. 11
della Costituzione, che ci spiega che la Cassazione, intende in senso ampio la
questione di giurisdizione, quando si tratti di procedimenti verso il giudice
amministrativo.
Dato che la Cassazione può
esercitare il suo sindacato sulle decisioni della giurisdizione amministrativa
soltanto per motivi inerenti la giurisdizione ecco che in quel contesto, la
mozione di motivo inerente la giurisdizione rescinde. Quest'orientamento si
spiega considerando che le sentenze dalla Corte di Cassazione non sono
ulteriormente impugnabili per motivi di legittimità, di fatto, se la
Cassazione interpreta una norma di legge in modo illegittimo non ci sono
strumenti di reazione a disposizione della parte che vi sia vittima, quindi
occorre prendere atto, nella circostanza che la Cassazione, ha piacere di
esercitare i propri poteri di sindacato anche al di la dei limiti previsti
dalla legge per l'esercizio di questi stessi poteri.
Secondo il piano teorico, questa
interpretazione è scorretta ed molto più attendibile
l'interpretazione, secondo la quale, il difetto assoluto di giurisdizione
a causa dei poteri attribuiti alla P.A. non può essere sopravvissuto
all'entrata in vigore della Costituzione.
Ritornando al tema generale, possiamo
riprendere il concetto di giurisdizione sottolineando come l'attuazione della
volontà concreta della legge mediante organi che l'ordinamento
qualifichi come giurisdizioni tali che costituzionalmente doveroso costituire
garantendo l'indipendenza e conferendo il potere di risolvere i conflitti non
solo tra individui, anche tra essi e lo Stato ovvero anche rispetto alle
formazioni sociali in cui si manifesti la personalità individuale e
così via.
Qui possiamo concepire una garanzia
della giurisdizione, la qualifica che siano organi giurisdizionali così
conurati, cioè che fosse garantita indipendenza ad essere provvisti
del potere di risolvere i conflitti attuando la volontà concreta della
legge, che è una garanzia complementare alla garanzia dell'azione la
quale implica rispetto ad ogni situazione di vantaggio sostanziale protetta
dall'ordinamento attributiva di un bene della vita, si possa conseguire una
tutela attuativa della volontà concreta della legge attraverso queste
garanzie.
Quindi la proliferazione di metodi
alternativi di risoluzione di conflitti alternativi rispetto a quello
giurisdizionale non sia in diretto contrasto con queste garanzie costituzionali
quando tali metodi si affiancano a quello giurisdizionale senza mai impedire
che il metodo giurisdizionale possa comunque utilizzarsi.
Però corra anche il rischio di
svuotarle di contenuto, sicché anche tale tecnica sembra potersi criticare,
perché invece di affrontare il problema dell'inefficienza del processo sembra
prenderne atto per ovviarvi per vie traverse.
Ciò premesso, possiamo
immaginare anche una garanzia della giurisdizione ordinaria?
La Costituzione vieta l'istituzione di
giudici speciali. Ma in cosa consistono i giudici speciali?
In prima approssimazione potremo
pensare che il giudice speciale sia un giudice particolarmente versato in una
certa materia a cui sia conferito in via esclusiva di risolvere conflitti
attuando la volontà concreta della legge nelle controversie attinenti a
tale materia. Si tratta di una buona idea?
La soluzione affermativa è meno
pacifica di quel che può sembrare a prima vista!
Nell'ordinamento italiano la selezione
dei magistrati avviene in ragione delle loro competenze tecniche, sicché tutta
l'amministrazione della giustizia è un compito specialistico è
non è alla portata del cittadino comune, però in altri paesi,
tutt'altro che arretrati, prevale un ideale di segno opposto per cui ogni
cittadino può assurgere a qualsiasi tipo di carica pubblica.
Nel campo dell'amministrazione della
giustizia, è fondamentale l'istituzione della giuria che da
modalità di partecipazione popolare all'amministrazione della giustizia
molto diversa da quelli delle Corti d'Assise dell'Europa continentale, perché
nelle Corti di Assise i giudici popolari partecipano ad un collegio in cui sono
presenti anche i giudici togati o professionisti, i quali guidano la decisione
e nella remota eventualità che finissero in minoranza possono vanificare
la decisione della maggioranza con la tecnica della motivazione suicida.
Invece la giuria è un
giudice unico del fatto, un fatto inteso come aspetto di qualificazione
giuridica, perché la giuria anglosassone non si limita a dite che Tizio ha
ucciso Caio, dice Tizio è colpevole di omicidio! Poi, la giuria non
motiva, perché la motivazione richiede e premia competenze giuridiche di tipo
tecnico anche perché la funzione è quella di fornire un resoconto per
giungere ad una decisione. È piuttosto, la sua funzione è di
dimostrare a posteriori che esisteva un iter logico suscettibile di condurre
alla decisione.
Ora, il pro e il contro della
tecnicizzazione dell'amministrazione della giustizia sono abbastanza ovvi! I
professionisti del diritto sono capaci di applicare più accuratamente
norme generali ed astratte e sono più abili a dare l'impressione di
farlo quando non lo fanno, agli organi sopraordinati che provvedano al riesame
della decisione attraverso tecniche di qualificazione della fattispecie.
I giudici dilettanti, decidono
più visibilmente in base a considerazioni emotive, non standardizzate.
Il grande vantaggio della diffusione
della partecipazione popolare all'amministrazione della giustizia al prezzo di
una visibile imprecisione nell'attuazione della volontà concreta della
legge, considera la circostanza che i cittadini siano meno portati a vedere il
diritto come un corpo estraneo ad essi imposto, rispetto al quale le più
ammirate abilità si dimostrino nell'individuare falle che consentano di
eludere l'applicazione, un ordinamento che si partecipa attivamente ad attuare
tramite proprie decisioni, può facilmente essere sentito come un valore
proprio e condiviso, sicché la partecipazione popolare all'amministrazione
della giustizia, può aiutare nel lungo periodoa diffondere la cultura della
legalità.
Altrettanto ovvio e che nell'ordinamento
italiano l'amministrazione della giustizia sia fortemente deficizzato e burocratizzato,
che ci viene dall'eredità napoleonica rispetto alla quale in Italia si
sono fatti dei progressi, perché il metodo del reclutamento dei magistrati
tramite concorso per prove ed esame è stato inventato in Italia dal
ministro Zanardelli, perché i francesi avevano elaborato il sistema del
concorso, ma era un concorso per titoli.
È naturale che in Italia si
sviluppi una specializzazione estrema sia forme specializzazione giuridica al
quadrato, cioè specializzazioni in speciali branche del diritto, sia
forme di specializzazioni interdisciplinari, per esempio abbiamo psicologi
componenti del Tribunale per minorenni, funzionari del genio integrare la
composizione dei Tribunali delle acque pubbliche.
Quindi, è naturalissimo che la
ripartizione del potere giurisdizionale si fondi largamente sul criterio della
materia, mentre gli ordinamenti che apprezzano maggiormente il dilettantismo
giudiziario, tendono a preferire una ripartizione del potere giurisdizionale su
base territoriale, perché si concepiscono le giurisdizioni come espressioni
delle comunità.
È naturale domandarsi, se la
tendenza dell'ordinamento italiano è verso la specializzazione, perché
la Costituzione vieta l'istituzione di giudici speciali? Per favorire il
dilettantismo e la partecipazione popolare all'amministrazione della giustizia
non davvero! Certamente no! E nemmeno basta del tutto, la ragione storica
dettata dal timore che sia più facile attentare all'indipendenza dei
giudici speciali, perché si potrebbe rispondere che anche l'indipendenza di
quest'ultimi è garantita dalla Costituzione.
Il vero problema, perché la
tendenziale unitarietà del potere giurisdizionale, deve considerarsi
necessaria affinché il potere giurisdizionale possa, se necessario,
contrapporsi efficacemente agli altri poteri nel gioco di pesi e contrappesi
che caratterizza il sistema democratico.
Se il legislatore potesse liberamente
frammentare la giurisdizione, potrebbe creare una competizione interna al
potere giurisdizionale che finirebbe per indebolirla nel disegno dei quadri
costituenti.
Tuttavia, il legislatore costituente
non si è spinto fino ad eliminare tutte le giurisdizioni speciali, anzi,
ne ha addirittura costituzionalizzate alcune, e soprattutto ha previsto una
regola che non esclude affatto la specializzazione del giudice.
Il divieto d'istituzione di giudici
speciali, è del tutto compatibile con l'istituzione di forme di
giustizia specialistica, purché queste facciano salvo il principio della
tendenziale unitarietà del potere giurisdizionale, sia forme di
specializzazione al quadrato, sia forme di specializzazione interdisciplinare,
quindi, si possono introdurre creando le cosiddette Sezioni specializzate
nell'ambito della magistratura ordinaria.
Se ci troviamo al cospetto di un
giudice, competente a risolvere conflitti attuando la volontà concreta
della legge in particolari materie! E magari, caratterizzato da una
composizione integrata da specialisti di discipline non giuridiche! Come
facciamo a capire se è un giudice speciale appartenente ad una diversa
giurisdizione, o è un giudice specializzato facente parte della
magistratura ordinaria?
Anche qui ci viene in aiuto la
Costituzione! La questione è importante ovviamente, perché occorre
impedire che il legislatore istituisca tutti i giudici speciali che vuole
chiamandoli specializzati, inoltre, è importante perché la questione del
riparto del potere di risolvere il conflitto fra giudici ordinari e giudici
speciali, è, come vedremo, profondamente diversa da quella del riparto
del potere fra giudice ordinario e giudice specializzato.
Perché la prima è propriamente
una questione di competenza giurisdizionale, rilevabile in ogni stato e grado
del processo e deducibile tramite regolamento preventivo di giurisdizione,
mentre la seconda si qualifica come questione di competenza non
giurisdizionale, quindi rilevabile in giudizio in prima udienza di trattazione,
e deducibile tramite regolamento di competenza soltanto in via d'impugnazione
contro una sentenza che abbia pronunciato sulla questione stessa, in quanto,
non si discute sulla spettanza del potere giurisdizionale, alla giurisdizione,
intesa come complesso di organi ordinari.
In prima battuta, il criterio è
esclusivamente formale, consiste nella regolamentazione dell'organo giudiziario
specialistico in quella legge che è denominata ordinamento giudiziario,
però, naturalmente attraverso il sistema delle riserve costituzionali,
che prescrivono che sia una riserva di legge in materia di ordinamento
giudiziario.
Alla luce del sistema costituzionale,
questo criterio ha una valenza importante perché l'inquadramento dell'organo
nell'ambito della legge denominata "ordinamento giudiziario", a sua volta
implica l'attribuzione a tale organo delle garanzie che spettano ai giudici
ordinari.
Abbiamo un esempio concreto,
illustrativo di come si applichi questo criterio pensando ai Tribunali delle
acque pubbliche. Si hanno Tribunali Regionali delle acque pubbliche e un
Tribunale Superiore delle acque pubbliche, per alcune categorie di
controversie, il Tribunale Regionale delle acque pubbliche (organo giudiziario
di 1° grado), e la sentenza si impugna presso il Tribunale Superiore delle
acque pubbliche. In altre ipotesi il Tribunale Superiore delle acque pubbliche
è l'unico giudice di 1° grado, ebbene, nella legge sull'ordinamento
giudiziario troviamo disciplinato il Tribunale Regionale delle acque pubbliche
e non il Tribunale Superiore delle acque pubbliche, pertanto, il Tribunale
Superiore delle acque pubbliche si qualifica come giudice speciale, mentre il
Tribunale Regionale delle acque pubbliche è giudice ordinario
specializzato.
Pertanto, se dinanzi al Tribunale
Superiore delle acque pubbliche si discuta se la controversia rientri o meno
tra quelle attribuite in primo grado allo stesso Tribunale Superiore delle
acque pubbliche, ovvero, al giudice ordinario la questione si qualifica come
questione di giurisdizione.
Se invece, anche dinanzi al Tribunale
Superiore delle acque pubbliche, ma adito quale giudice d'appello, si discute
se la causa spettasse già in primo grado al Tribunale Regionale delle
acque pubbliche, ovvero al giudice ordinario, anche se la questione, a questo
punto, viene coltivata dinanzi al Tribunale Superiore delle acque pubbliche,
che pure sarebbe un giudice speciale, tale questione rimane una questione di
competenza e non di giurisdizione perché relativa al riparto del potere
giurisdizionale fra Tribunale Ordinario e Tribunale Regionale delle acque
pubbliche.
·I giudici speciali
Un problema abbastanza delicato si
è posto a proposito delle commissioni tributarie, istituite con D.lgt.
546/92, abbiamo violato il divieto d'istituzione dei giudici speciali?
Parrebbe di sì, ma si riesce a
dire di no, osservando che questa nuova disciplina ha solamente trasformato una
giurisdizione speciale preesistente attraverso nuove regole sulla selezione dei
componenti, sul procedimento, ma senza introdurre un riparto su di una nuova
materia, ossia, rispetto a quella materia già esistevano giudici
speciali diversi, adesso ci sono giudici speciali aventi altre caratteristiche,
ma, siccome i confini della materia attribuita alla giurisdizione speciale non
sono mutati, si è giunti alla conclusione che questa nuova disciplina
non crei un nuovo giudice speciale, anche se in questo caso non si è
introdotta a nuova giurisdizione speciale, ma soltanto intesa come riferita
all'oggetto dell'attività giurisdizionale, quindi non più ne
all'attività ne al complesso degli organio al potere, ma soltanto alla materia che
forma oggetto delle decisioni di quel potere.
I giudici speciali più
importanti sono quelli costituzionalizzati, la Corte dei Conti, il Consiglio di
Stato, e in particolare ci interessa la giurisdizione amministrativa sugli
interessi legittimi costituzionalizzata dall'art. 103.
In cosa consiste la tutela degli
interessi legittimi contemplata anche dall'art. 24, il presupposto, ovviamente,
e che in ordinamenti come il nostro, storicamente non esiste pari ordinazione
tra Stato e cittadino.
Il primo si trova in una posizione di
supremazia che rende, in linea di massima, superfluo utilizzare il processo
come mezzo per risolvere il conflitto, perché lo Stato può incidere unilateralmente
sulla sfera giuridica del cittadino attraverso i propri atti. Non ha bisogno
del giudice! Perché gli atti della P.A. sono intrinsecamente esecutori, sicché
i conflitti fra Stato e cittadino sottoponibili alla giurisdizione, sono
essenzialmente asimmetrici, perché, fondamentalmente è il cittadino ad
vere bisogno di tutela.
Questa tutela può provenire
dall'autocontrollo della stessa P.A., quindi si possono prevedere vari
meccanismi che permettono al cittadino di chiedere il riesame o la revoca dei
provvedimenti che lo riguardano, soprattutto ai superiori gerarchici, coloro
che li hanno emanati, ma questa è una tutela interna non è
una tutela giurisdizionale, perché non proviene da un organo terzo in
senso proprio, perché è un organo che persegue gli stessi fini
dell'organo che aveva emanato l'atto impugnato in ipotesi contrastanti con
quella del cittadino.
In questa materia, occorre seguire
l'evoluzione storica della disciplina per riuscire a fare ordine! Ed il primo
intervento, immediatamente successivo alla nascita di questa Nazione, legge
2148del 1865 allegato E, in cui si
prevede che la tutela dei diritti soggettivi del cittadino nei confronti della
P.A. sia ammessa dinanzi al giudice ordinario con alcune limitazioni, in
particolare escludendo che il giudice ordinario possa annullare atti
amministrativi, sulla base di una particolare concezione della separazione
dei poteri dello Stato.
Nell'esercizio dell'attività
amministrativa rientrano necessariamente dei margini di discrezionalità
che non debbono essere invece propri dell'attività giurisdizionali in
senso stretto, però si ammetteva anche che questa tutela potesse aver
luogo sia pure in presenza di un atto amministrativo, allorché, l'atto
amministrativo fosse stato illegittimo, perché il giudice ordinario poteva in
via incidentale conoscere dell'illegittimità dell'atto amministrativo e
quindi disapplicarlo al fine di condannare la P.A. al risarcimento dei danni.
Il passo successivo è costituito dalla
legge 5992 del 1889, con cui viene costituita una quarta Sezione del Consiglio
di Stato e viene introdotto un meccanismo generale di ricorso per
l'annullamento dell'atto amministrativo illegittimo a tutela degli interessi
del cittadino, cioè di una posizione di vantaggio differenziata, tale da
rendere il cittadino istante, più direttamente interessato, rispetto
alla generalità dei consociati, allo svolgimento dell'azione
amministrativa secondo il canone di legalità. L'esempio classico noto a
tutti è quello del concorso pubblico! Il candidato al concorso è
titolare di una posizione differenziata che lo rende maggiormente interessato
rispetto alla generalità dei cittadini allo svolgimento del concorso
secondo il canone di legalità.
Si fa vedere quindi la coincidenza
dell'interesse differenziato del privato con l'interesse pubblico allo
svolgimento dell'azione amministrativa immune da vizi di competenza, eccesso di
potere o in generale violazione di legge.
Dopo un acceso dibattito dottrinale,
si giunse a concludere che questo rimedio previsto dalla legge del 1889, si
dovesse considerare non già come un rimedio puramente interno,
bensì propriamente giurisdizionale. L'attività di questa
giurisdizione amministrativa andò complessivamente ad espandersi fino ad
entrare in competizione con la giurisdizione ordinaria, sulla base di un
argomento riassumibile in questi termini.
Finché c'è soltanto la tutela
interna è logico che il giudice ordinario disapplichi l'atto
amministrativo illegittimo, ma ora c'è una giurisdizione amministrativa
di annullamento per conoscere dell'illegittimità dell'atto, e questa
valutazione spetta al giudice amministrativo e non al giudice ordinario in via
incidentale.
Correlativamente, si andò
formulando la teoria secondo cui il diritto soggettivo in presenza di un atto
amministrativo si affievolisce, degrada, diventa un interesse legittimo e solo
una volta dichiarata l'illegittimità dell'atto, ma da parte della
giurisdizione amministrativa, ridiventa un diritto soggettivo spendibile
dinanzi al giudice ordinario, e anche non volendo assumere una posizione
così forzata, resta il fatto che risulta difficile negare in questo tipo
di situazioni la sussistenza di una pregiudizialità della controversia
presso il giudice amministrativo rispetto alla controversia presso il giudice
ordinario, perché ricordiamo il ragionamento fatto intorno all'art. 34 ecco che
questa fattispecie sembra rientrare in una di queste ipotesi, perché
l'accoglimento della domanda presuppone la risoluzione di una questione
pregiudiziale e almeno allorché, qualcuno chieda al giudice amministrativo che
tale questione pregiudiziale, quella dell'illegittimità dell'atto
amministrativo, venga risolta con efficacia di giudicato dinanzi a
quell'organo, ecco che il giudice ordinario diventa costretto a sospendere il
giudizio dinanzi a se sino al passaggio in giudicato della decisione
sull'impugnazione dell'atto amministrativo davanti ad altra giurisdizione.
Avremo quindi, in molte ipotesi quella
che sembra essere una ridondanza giurisdizionale, cioè l'attore titolare
di un diritto soggettivo inciso da un atto amministrativo illegittimo, sembra
avere a disposizione due strumenti di tutela e quindi di godere di una tutela
forzata.
In realtà l'attore può
giovarsi delle ridondanze giurisdizionali soltanto in sistemi in cui non si
abbia un controllo regolare e sistematico del riparto della giurisdizione
perché, in questo caso può darsi che si riesca ad ottenere una doppia
tutela, ma in un sistema come il nostro, in cui, proprio sulla violazione dei
sistemi di riparto è regolare, sistematico, ufficioso, la teoria che
secondo cui l'istituzione della giurisdizione amministrativa ha favorito il
cittadino, vale soltanto per quell'ipotesi in cui il cittadino era titolare di
un vero interesse legittimo, non nel caso del titolare del diritto soggettivo
degradato, perché costui, invece, per effetto della pubblicità del
binario si trova costretto, per avere una tutela piena, ad affrontare due
processi, anziché uno solo! E dando che fare i processi costa, la situazione
è sfavorita dalla duplicità giurisdizionale.
Perché il giudice amministrativo non
condanna al risarcimento e il giudice ordinario può tutelare solo previo
l'annullamento dell'atto.
Infatti succede che l'ordinamento
caratteristico del regime previgente precostituzionale in alcuni casi questo
non era necessario. In quali casi, ossia quali erano i casi della cosiddetta
giurisdizione esclusiva in cui si poteva ottenere dinanzi ad un unico giudice
la tutela sia del diritto soggettivo sia del dell'interesse legittimo senza
limitazione alcuna?
Il settore delle controversie del
pubblico impiego, perché il grande bacino di consenso del regime, i cocchi di
Mussolini i pubblici dipendenti! A loro sì, basta un processo solo!
Poi con la Costituzione, il regime del
doppio binario è andato via via attenuandosi.
Si è riconosciuto che non
poteva prodursi alcun affievolimento del diritto soggettivo e quindi doveva
ritenersi possibile conseguire una tutela piena della situazione di vantaggio
dinanzi al giudice ordinario in una buona serie d'ipotesi.
Innanzi tutto si è detto che i
casi di carenza del potere amministrativo è da distinguersi rispetto ai
casi di cattivo esercizio del potere amministrativo, si è detto ancora,
con altra formulazione, che allorquando si fosse affermata la violazione da
parte della P.A. di norme regolanti la relazione tra Stato e cittadino anziché
di norme regolanti l'azione amministrativa.
Ancora! Affermando che la degradazione
del diritto soggettivo presuppone l'esercizio di una discrezionalità
amministrativa ispirata ai criteri dell'efficienza del buon andamento della
P.A. e quindi, non si verifica non soltanto tutte le volte in cui
l'attività della P.A. è veramente materiale e non giuridica,
questo è banale! Addirittura si esclude l'esercizio di discrezionalità
amministrativa tale da rendere necessario l'annullamento dell'atto tutte le
volte che l'atto si compie in base a valutazioni squisitamente tecniche.
Ancora! Riconoscendo che sussistono
diritti soggettivi fondamentali insuscettibili di degradazione alcuna per
effetto dell'azione amministrativa e naturalmente il campo privilegiato
d'applicazione di questa teoria è stato quello del cosiddetto "diritto
alla salute".
Ultimo fronte, che si va affermando
è quello della tutelabilità nei confronti della P.A. dinanzi al
giudice ordinario persino in quelle situazioni soggettive qualificabili come
situazioni veramente possessorie e quindi nemmeno qualificabili come diritti
soggettivi tuttavia, parrebbe essere tutelabili presso il giudice ordinario.
Per quanto la giurisdizione
esclusiva, è accaduto col tempo che molti dei privilegi attribuiti
dalla legislazione precostituzionale, ai pubblici dipendenti, sono venuti meno
sia in termini assoluti, per esempio la Consulta ha progressivamente ampliato
la sfera della pignorabilità dei loro stipendi, la vecchia regola era
che non poteva pignorare nulla perché era esercizio dell'attività
amministrativa anche are lo stipendio, sia soprattutto in termini relativi
man mano che si estendeva la tutela dei lavoratori nel sistema privato.
Dapprima, la Consulta ha svolto un
certa funzione riequilibratrice modificando la disciplina del procedimento
dinanzi al giudice amministrativo in materia di tutela di diritti soggettivi
dei pubblici dipendenti, estendendo i margini della tutela cautelare in
quel settore, mossa questa resa inevitabile dall'aumento del contenzioso e
dall'introduzione del giudice amministrativo.
Prima esistevano limiti alla tutela
cautelare dinanzi al giudice amministrativo che era prevista solo per le
posizioni soggettive di contenuto positivo, cioè esisteva solo la
sospensione dell'atto e non anche per quelle di contenuto pretensivo.
Sia prevedendo che in materia di
tutela di diritti soggettivi non potessero applicarsi i limiti all'istruzione
probatoria che caratterizzavano invece la tutela degli interessi legittimi che
si svolge su base prettamente documentale.
Con la riforma del pubblico impiego la
giurisdizione sul contenzioso relativo a questa materia e stata attribuita al
giudice ordinario.
Salva la necessità di ricorso
al giudice amministrativo in ipotesi di atti macro organizzativi, soprattutto
affermando che mai può essere subordinata, la tutela, alla rimozione
dell'atto amministrativo presupposto, questo, se illegittimo, si dispone che
possa sempre essere disapplicato senza attendere la declaratoria del giudice
amministrativo e inoltre che possa sempre pronunciarsi, nei confronti della
P.A., sia provvedimento di condanna sia anche provvedimento di carattere
costitutivo di accertamento ai fini della tutela della posizione soggettiva del
singolo.
C'è qualcosa di strano nel
giudice amministrativo! Il C.S.M. aveva vietato ai magistrati ordinari di
ricevere incarichi stragiudiziali, perché è ovvio che si prendano soldi!
Per i giudici amministrativi questa
decisione non era chiara. A quel tempo, anzi era indiscutibile, in base alle
disposizione del loro autogoverno, che i giudici amministrativi potessero
riceverli, e tuttora, in qualche misura, è ancora possibile. Ovviamente,
quando è pericoloso l'incarico stragiudiziale? È pericoloso
quando crea un rapporto privilegiato, con il soggetto che lo conferisce, il
quale potrebbe essere un soggetto che si trova ad essere parte in un giudizio
dinanzi allo stesso magistrato.
Al giudice amministrativo è
stata sottratta la giurisdizione sulle controversie del pubblico impiego, pero
per compensarli è stata loro attribuita giurisdizione su alcuni altri
settori del contenzioso in materia di appalti pubblici servizi, in materia
urbanistica.
È più probabile
imbattersi in una parte che in un momento o nell'altro possa conferire un
incarico stragiudiziale, quando si gestisce il contenzioso dei dipendenti
pubblici o quando si gestisce il contenzioso sugli appalti di pubblici servizi?
E in questo contenzioso è stato
conferito loro il potere di condannare al risarcimento dei danni, in sostanza
si è cercato di eliminare i casi di raddoppiamento del processo
rispettando sia la riserva di legge posta dall'art. 103, in materia di
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, sia quella posta dall'art.
113 ultimo comma ai fini del conferimento al giudice ordinario del potere di
annullare atti amministrativi, dei quali pure sussiste una riserva di legge che
gia in passato era stata utilizzata.
La regola generale è che spetti
al giudice ordinario il potere di annullamento di quegli atti amministrativi
che abbiano un contenuto sanzionatorio, in base alle disposizioni della legge
di depenalizzazione 689/81, infatti nei confronti di questi atti la tutela
anche di annullamento spetta al giudice ordinario, è la regola generale,
e ci sono alcune eccezioni particolari, per esempio: i provvedimenti
sanzionatori dell'autorità di vigilanza sulle telecomunicazioni.
Resta aperto il problema alla luce di
questa disciplina il problema di portata sostanziale della risarcibilità
della lesione all'interesse legittimo che non sia un diritto soggettivo
degradante, sondo alcuni, infatti, si potrebbe evincere dal nuovo sistema di
riparto, ma sembra preferibile l'interpretazione secondo cui questo tipo di
questione deve risolversi sulla base delle norme sostanziali in particolare
dell'art. 2043 del c.c. e non di quelle che riguardano il riparto della
giurisdizione e quindi i cosiddetti limiti esterni del potere giurisdizionale
ovvero riguardano i cosiddetti limiti interni del potere giurisdizionale con
riferimento al divieto di annullamento di atti amministrativi da parte del
giudice ordinario, ovvero intorno ai limiti del potere di condannare al
risarcimento del danno del giudice amministrativo.
Ma non riguardano direttamente la
disciplina della responsabilità civile da fatto illecito, che
deve essere rinvenuta nelle disposizioni sostanziali che regolano la materia.
·Della residenza
La maggior parte dei criteri
determinativa la sussistenza della giurisdizione, ad esempio in riferimento
alle controversie che presentino un carattere d'internazionalità alla residenza
del convenuto, si dice, avere carattere statico sulla base della
distinzione dottrinale applicata alla questione di competenza in senso stretto,
ma pienamente applicabile anche a fattispecie riconducibili alla disciplina
della giurisdizione e lo si dice per contrapporre questi criteri a quelli che
sono di particolare interesse per il processualista, meritevoli di
approfondimento, si possono dire di avere carattere dinamico alludendo alla
circostanza che assuma rilevanza, ai fini della sussistenza della competenza
della giurisdizione, la stessa pendenza del processo, e si può
ravvisare un primo esempio di come questo possa verificarsi, prendendo in esame
il caso della residenza errata, cioè un ipotesi in cui la parte
convenuta voglia tentare di sottrarsi al processo modificando la propria
residenza nel corso del giudizio. Può essere una buona tecnica?
La cosa è stata dubbia
abbastanza a lungo, finché la giurisprudenza degli anni '20 ha preso nettamente
posizione e si è finito per recepire nel codice una regola di cui, si
è pensato potesse trovaretracce
dal diritto romano da un paio di brocardi uno dei quali è:
percitationem perpetuato in iurisditio e l'altro è: ubi iudicium
aceptum ibi et finem accipredetet.
Entrambe si giustificano, modernamente
ad un principio generale, che deve considerarsi principio riformatore del
nostro codice di tanti aspetti della sua disciplina positiva, non quello che
abbiamo tra breve a parlare, ma anche la disciplina della successione del
diritto controverso nel corso del giudizio e più in generale, la
disciplina degli effetti della domanda, cioè la regola per cui la durata
del processo non deve tornare a pregiudizio dell'attore che abbia ragione,
sicché, si è introdotta nel codice la regola per cui la sussistenza
della competenza giurisdizionale si valuta al momento della proposizione della
domanda, anziché tra gli effetti della proposizione della domanda giudiziale
rientra anche la cosiddetta perpetuatio iurisditio, consistenti in una
situazione di vantaggio che ha un contenuto processuale e consente alla parte
di conservare il proprio diritto ad una pronuncia sul merito della causa
nonostante siano sopravvenute, nel corso del procedimento, situazioni di fatto
o modifiche normative che in teoria potrebbero escludere la sussistenza della
competenza giurisdizionale del giudice adito.
Nella teorizzazione compiuta nella
dottrina precodicistica, già si dovevano individuare alcune ovvie eccezioni
a questo principio, in particolare vanno prese in esame un paio di ipotesi.
Una, quella che diventa problematica
nell'ipotesi in cui immaginiamo che la parte attrice voglia scegliersi il
giudice, potrebbe farlo immaginando che la domanda venga inizialmente
prospettata in modo artificioso, in guisa tale da giustificare la sussistenza
della competenza del giudice e poi modificata nel corso del procedimento in
modo da avere ad oggetto ciò che realmente, fin dall'inizio, interessava
all'attore.
Si tratterebbe di una modalità
per realizzare una forma di forum schooping, per cui bisogna stare in guardia,
perché il principio del giudice naturale non impedisce che l'attore non abbia qualche
margine di scelta tra più diversi fori, per la risoluzione del suo
conflitto, ma non consente che questa scelta possa essere completamente libera
ed arbitraria.
L'altra ipotesi, quella in cui vi sia
un fermo intendimento del legislatore di evitare che dinanzi ad un certo
ufficio giudiziario possono rendersi pronunce di merito, intendimento talmente
fermo da manifestarsi attraverso una vera e propria soppressione dell'ufficio
giudiziario.
Il legislatore del '42, ha recepito
questa teoria un po' a modo suo, distinguendo ai fini della rilevanza delle
sopravvenienze, in tema di sussistenza della competenza della giurisdizione,
fra sopravvenienze di fatto e sopravvenienze di diritto,
modificazioni della legge vigente.
La distinzione era non del tutto identica
a quella formulata dalla dottrina, perché l'ipotesi in cui la modificazione
dell'oggetto del giudizio sia determinata da iniziative di parte rivelatrici
dell'iniziale artificiosità della prospettazione della domanda,
faticosamente si qualificano come modificazioni della legge vigente per un
verso, per altro verso, questo tipo di formulazione rendeva immediatamente
applicabile in corso di giudizio le modificazioni normative incidenti sulla
competenza e sulla giurisdizione, anche quando queste non si traducevano nella
vera e propria soppressione dell'ufficio giudiziario, e tutto sommato, se ci
caliamo nella mentalità del tempo, non è strano che un
legislatore autoritario abbia inteso in questa maniera il principio della perpetuatio
iurdisdictio, perché mano libera al legislatore di cambiare giudice a
partita in corso era uno sport preferito del Duce, come leggi penale
retroattive, e così la formulazione del codice del '42.
Nel corso dell'esperienza applicativa,
questo limite di applicabilità della perpetiatio iurisdictionis
rispetto allo ius superveniens, cominciò a destare qualche
difficoltà, anche operativa, perché, in tutte le occasioni in cui il
legislatore si trovava ad introdurre modificazioni, anche indirette,del regime della competenza giurisdizionale,
doveva sempre ricordarsi di aggiungere disposizioni transitorie che facessero
salve le risultanze dei procedimenti pendenti, ma quando la produzione
legislativa ha iniziato a proliferare in materia, sempre più spesso
capitava che il legislatore si dimenticasse di inserire disposizioni
transitorie di salvaguardia, determinando consistenti sprechi di
attività processuale, poiché, la giurisprudenza era ferma nell'idea che
persino laddove si fosse prodotto un giudicato formale affermativo della sussistenza
della competenza e della giurisdizione, avendo, questo giudicato una portata
non propriamente sostanziale, ma esclusivamente processuale, lo stesso doveva
ritenersi inidoneo a prevalere sullo ius superveniens, perché la
prevalenza del giudicato sullo ius superveniens è, si diceva,
caratteristica propria del giudicato sostanziale e non di quello meramente
interno di assistere la pronuncia sulle questioni attinenti al diritto comune.
Dato che il clima politico, sembrava
non giustificare più certi tipi di azione, si giunse che fosse opportuno
riformulare la disciplina, come in effetti è avvenuto attraverso la
riforma del '90 che ha portato alla formulazione vigente dell'art. 5 del codice
di rito in base al quale non incidono sulla giurisdizione ne le modificazioni
dello stato di fatto, ne quelle della legge vigente successive alla
proposizione della domanda.
Questa nuova formulazione, ha destato
qualche riserva in una parte della dottrina, in quanto, appariva impeditiva di
un'interpretazione, comunque affermatasi nel rigore del testo previgente,
secondo la quale, nell'ipotesi in cui venisse adito un giudice incompetente o
privo di giurisdizione e nel corso del giudizio sopravvenisse una modificazione
normativa che rendesse questo giudice effettivamente provvisto della competenza
della giurisdizione, di tale efficacia sanante delle sopravvenienze si poteva
tener conto.
Una riflessione accurata sulla ratio,
che informa la disciplina della perpetuatio iurisdictionis, importa a
concludere che l'efficacia sanante delle sopravvenienze, possa convivere con il
principio generale dell'applicabilità della regola della perpetuatio
iurisdictionis anche allo ius superveniens, perché nel momento in
cui la ratio della disciplina consiste nell'assicurare il diritto di una
pronuncia sul merito in tempi ragionevoli, il suo effettivo significato
è dato per cui questa non possa essere impedita da una pronuncia sul
rito fondata su norme sopravvenute, o su situazioni di fatto sopravvenute alla
proposizione della domanda. Ma non impedisce, invece, che una pronuncia sul
merito possa rendersi, allorquando questa sia giustificata dalle sopravvenienze
normative.
Per cui, il senso dell'art. 5 deve
essere inteso in maniera tale che la giurisdizione e la competenza non possano venir
meno per effetto di modificazioni dello stato di fatto della legge vigente,
senza che ciò impedisca che queste possano validamente sopravvenire per
effetto di queste normative e di queste modificazioni.
Diversa è l'ipotesi in cui la
disciplina sopravvenuta entri in vigore nel corso di un procedimento di
Cassazione, o a seguito di un giudizio di Cassazione, in questo caso,
l'applicabilità della vecchia o della nuova disciplina, non comporta
accelerazione dei tempi del processo, perché in Cassazione non potrà che
essere comunque la Cassazione e ai fini dell'individuazione del giudice
competente per il rinvio, non accelera di ritenere competente quello fosse tale
in base alla vecchia disciplina o quello che lo fosse in base alla nuova.
In questo contesto entrambe le
soluzioni sono accettabili e più in generale, devono ritenersi
preferibili anche le interpretazioni che comunque implichino una ridondanza
della competenza giurisdizionale, perché implichino che ci siano fasi in cui la
parte può ragionevolmente attendersi, per conseguire una pronuncia di
merito da due giudici diversi, sia quello che è competente al momento
della proposizione della domanda e già si sa che tra pochi mesi
diverrà incompetente, perché sta per entrare in vigore una disciplina
modificativa del relativo regime, sia quello che a breve diverrà
competente pur non essendolo al momento della proposizione della domanda,
purché abbastanza breve da diventare competente prima che la competenza stessa
venga declinata.
Perché, è perfettamente compatibile
con la garanzia del giudice naturale che vi posa no essere margini limitati di
scelta a nel foro da parte dell'attore.
In che misura siano accettabili
disposizioni transitorie, specificamente derogratrici della regola della
perpetutio! Disposizioni transitorie, mediante le quali, il legislatore
escluda che il giudice validamente adito, possa pronunciare sul merito della
cause pendenti avanti a se.
Si può, fare alla Mussolini di
sottrarre il giudice a processo in corso? La Corte Costituzionale si è pronunciata
sull'argomento non limitando troppo il legislatore.
Ha escluso che la regola della perpetuatio
iurisdictionis, in quanto tale debba ritenersi costituzionalmente
garantita.
La sentenza che più aiuta,
quanti amerebbero vedere limitate le facoltà legislative in questo
settore, riguarda i magistrati, che riteneva incostituzionale una disciplina
impeditiva di un esame del merito di cause ritualmente avviate, almeno che,
questa disciplina non avesse contenuto satisfattivo delle pretese opposte dalle
parti, perciò, si dice poterebbe togliere il giudice, purché si dia
ragione alle parti.
In realtà, quello che è
una questione di legittimità costituzionale debba porsi, ma dobbiamo
capire quale! Anzitutto, possiamo osservare, che, molto diverse sono le implicazioni
di uno ius superveniens, immediatamente operativo sulle cause perdenti
in materia di competenza e in materia di giurisdizione, perché? Perché, se, si
incide solo sul riparto della competenza all'interno della giurisdizione
ordinaria, può rendersi applicabile la regola dell'art. 50, chè
attraverso il meccanismo della tempestiva riassunzione del processo innanzi al
giudice ritenuto competente, ci si può valere degli effetti conservativi
della traslatio iudicii, rendere applicabile il disposto dell'art. 50,
nella parte in cui dice che il processo continua dinanzi a quel giudice, e
quanto meno conservare gli effetti dell'iniziale proposizione della domanda,
soprattutto ai fini sostanziali di interruzione a sospensione della
prescrizione, impedimento della decadenza, l'obbligo della corresponsione dei
frutti del possessore in buona fede, etc..
Il problema si fa più delicato,
quando, la normativa incida sul riparto della giurisdizione, perché,
qui, l'orientamento costante della giurisprudenza si ritiene che il principio
della traslatio iudicii non sia applicabile, quindi, si perdano gli
effetti conservativi derivanti dalla composizione della domanda.
In prima battuta, si può
pensare che il legislatore non può cambiare la giurisdizione in corso di
causa, forse ha la competenza, ma non la giurisdizione! Però, se ci
pensiamo bene, dobbiamo tener conto, del fatto che lo ius superveniens,
non è sempre l'intervento di un legislatore arbitrario e prepotente, a
volte lo ius superveniens, consiste in una declaratoria di
illegittimità costituzionale, perché e successo e può succedere
che, ad esempio, una certa giurisdizione sia dichiarata incostituzionale, che
per una ragione o per l'altra, la previsione di una certa regola di riparto
giurisdizionale è proprio quella sia costituzionalmente illegittima, e
allora sembrerebbe che dall'illegittimità costituzionale non si possa
scappare, o ci si adatta a sopportare di vedere decidere un giudice che ripugna
la costituzione, oppure, dobbiamo togliere il giudice alle parti del processo
in corso? In realtà esiste una soluzione, per salvare capre e cavoli,
che è quella di ritenere che, di fatto, anche nell'ipotesi in cui si ha
spostamento della giurisdizione, possano prodursi gli effetti dalla
transaltio iudicii e assicurarsi la conservazione degli effetti della
domanda.
Rispetto all'art. 50, che nel corso
del dubbio di illegittimità costituzionale, nella parte in cui non
prevede che la riassunzione possa validamente effettuarsi con effetti
continuativi del processo, anche dinanzi ad un giudice appartenete a una
diversa giurisdizione rispetto a quella originariamente aditata.
Rimane da discutere, a proposito di
questa regola, un'altra eccezione, cioè, quella che riprende l'ipotesi
considerata dalla dottrina precodicistica, cioè, l'ipotesi del
mutamento dell'oggetto del giudizio derivante da iniziative processuali di
parte.
Il tema ha avuto anche una certa
attualità applicativa , in fenomeni come quello della privatizzazione
del pubblico impiego, perché in correlazione alla trasformazione dell'oggetto
del rapporto determinativa del mutamento della competenza giurisdizionale, si
giustificava una modificazione dell'oggetto del giudizio che tenesse conto, nel
corso del procedimento, gli effetti derivanti dallo ius superveniens.
Qui, il caso che alcuni hanno
equiparato a quello immaginato da Chiovenda, deve essere valutato diversamente,
perché altra è l'ipotesi in cui la modificazione dell'oggetto del
giudizio venga introdotta arbitrariamente dalla parte e faccia sospettare
l'iniziale artificiosità della prospettazione iniziale, altro, è
il caso dell'ipotesi in cui questa modificazione sia giustificata proprio
dall'esigenza di tener conto dello ius superveniens.
In queste ipotesi, è congruo
che si possa applicare la regola perpetuatio, quindi di consentire alle
parti di modificare l'oggetto del giudizio senza perdere il giudice adito.
D'altronde, nello stesso art. 394 del
codice di rito, sia pure con riferimento ad un'ipotesi lievemente diversa, si
esprime il principio per cui, quando una corte esterna alle parti qualifica
diversamente il rapporto dedotto in giudizio, sia congruo consentire alle parti
di modificare le loro conclusioni coerentemente rispetto a questo diverso
inquadramento della fattispecie.
L'art. 394, esclude, che a seguito di
cassazione con rinvio proprio, le parti possono modificare le loro conclusioni,
a meno che, tale modificazione sia resa necessaria proprio dal contenuto della
sentenza di Cassazione.
Si è detto, che in
realtà, i modelli cognitivi delle diverse giurisdizioni sono a tal
punto, incompatibili, da non giustificare che l'oggetto di un giudizio civile
possa validamente conoscersi presso il giudice amministrativo e viceversa, ma
pare che questa posizione sia frutto di una questione di principio tralatizia
rispetto ad epoche in cui era molto marcata la diversificazione della
disciplina anche procedimentale tra giudizi civili e amministrative, è
un epoca in cui, era ancora fondamentale ai fini del riparto della
giurisdizione la distinzione tra situazioni soggettive qualificabili come
diritti soggettivi e situazioni qualificabili come interessi legittimi, ma
ormai la centralità di questo criterio di ripartizione è
largamente venuta meno, il riparto giurisdizionale si fonda molto di più
sulla materia controversa, sempre più vaste sono le ipotesi di
giurisdizione esclusiva, e del giudice civile, e del giudice amministrativo
sicché, pare che in questa incompatibilità si vadano ormai perdendo le
tracce, ed è vero che faranno fatica, queste giurisdizioni, ad adattarsi
al contenzioso caratteristico dell'altra.
La disciplina positiva prevista
dall'art. 37, sembra in qualche modo, più difficile da accettare che una
causa sia risolta nel merito da un giudice appartenete ad una giurisdizione
diversa da quella individuata staticamente dal legislatore, rispetto che
accettare che a decidere sia un giudice provvisto di una competenza diversa,
perché la questione di competenza è rilevabile soltanto in limite
litis, mentre, la questione di giurisdizione, è rilevabile d'ufficio
in ogni stato e grado del giudizio.
Il difetto di giurisdizione
rispetto al giudice straniero incontra limiti alla
rilevabilità d'ufficio per effetto di forme tacite di proroga della
giurisdizione italiana, comunque, anche nell'ipotesi di cui all'art. 37 di
rilevabilità d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio è
impedita dalla formazione di un giudicato interno anche implicito sulla
questione di giurisdizione, secondo l'orientamento costante della
giurisprudenza.
Si potrebbe dire, che più di
una giurisdizione in senso dinamico c'è un accertamento vincolante sulla
giurisdizione, però, se consideriamo che questo accertamento può
essere anche implicito, la differenza concettuale sembra marcata meno di quel
che sembra.
Inoltre, vale la pena di riflettere su
quanto sia davvero vincolante la pronuncia in tema di giurisdizione, ai fini
della pronuncia sul merito, qui, la norma di riferimento che possiamo
individuare è quella posta dall'art. 386, dove si dice che, la pronuncia
intorno alla questione di giurisdizione non pregiudica la questione
sull'appartenenza del diritto e sulla proponibilità della domanda,
perciò, non sembra impedire, affatto che si pronunci sul merito della
situazione soggettiva pur avendola riconosciuta come tale da aspettare una
diversa giurisdizione, riconoscendola, comunque, compatibilmente con i limiti
dei poteri decisori della giurisdizione adita, con riferimento alla questione
dei limiti interni del potere giurisdizionale.
Si deve rimarcare, che questo discorso
intorno alla prescribilità sulla decisione sul merito, vale in tanto e
in quanto, la pronuncia sulla giurisdizione non abbia quel tipo di contenuto,
che la farebbe, di fatto, una pronuncia sul merito.
Si allude all'ipotesi del difetto
assoluto di giurisdizione a causa dei poteri attribuiti alla P.A., tuttavia, in
misura tenue, anche per le ipotesi di difetto di giurisdizione rispetto al
giudice straniero, perché, la pronuncia sulla giurisdizione è vincolante
intorno alla giurisdizione, e nel contempo non esclude l'accoglimento della
domanda, e anzi, impone che il suo esame nel merito non possa più essere
impedito da tutti, intorno alla giurisdizione, in quanto, si affermi la
giurisdizione di un giudice dell'ordinamento italiano, magari diverso da quello
adito, ma pur sempre dell'ordinamento italiano.
Perché, se si afferma la giurisdizione
del giudice straniero attraverso lo spazio giuridico comunitario, il giudice
straniero non può subire alcun vincolo dalla pronuncia che gli
attribuisca la giurisdizione proveniente da un giudice dell'ordinamento
italiano.
L'affermazione del difetto di
giurisdizione, conura un difetto assoluto della giurisdizione italiana
che nella sostanza equivale al caso del difetto assoluto a causa dei poteri
attribuiti alla P.A., comporta sostanzialmente un diniego di tutela: " non
avrai il giudice e nemmeno hai guadagnato un giudice di un ordinamento
straniero!", perché è ancora tutto da guadagnare, potrebbe a sua volta
ritenere che la giurisdizione spetti al giudice italiano, non vi sarebbe uno
strumento per dirimere questo conflitto negativo, assicurando la parte che
almeno qualcuno dei due la sua domanda nel merito, la conosca.
Per questo motivo, la disciplina del
fenomeno, può andare incontro a qualche dubbio di legittimità
costituzionale, ma soprattutto, in relazione ad una dinamica che comporta la
disciplina positiva del trattamento processuale delle questioni di giurisdizione,
possa risultare, ai fini del difetto di giurisdizione rispetto al giudice
straniero, ancor più gravemente lesiva delle garanzie costituzionali,
nel trattamento processuale del difetto di giurisdizione a causa dei poteri
attribuiti alla P.A..
A questo punto, occorre prendere in
esame l'art. 41, l'istituto previsto dal regolamento preventivo di
giurisdizione, va spiegato, in larga misura prendendo le mosse dalla sua
origine storica.
Il legislatore, l'aveva introdotto,
già alla fine dell'800, come privilegio della P.A., con riferimenti ai
casi del difetto assoluto di giurisdizione a causa dei poteri alla stessa
attribuiti, lo strumento era diretto a impedire che il giudice potesse
intervenire, con l'attività amministrativa, financo esaminando l'effetto
della causa, già quella, per indebita interferenza.
Di tale istituto, si trova ancora
traccia nell'art. 41 comma 2°, nella parte in cui si prevede, che in ogni stato
e grado di giudizio la P.A., che non sia parte in causa può adire la
Corte di Cassazione, per ottenere dalla stessa una pronuncia dichiarativa del
difetto di giurisdizione del giudice adito per il merito. Questa norma è
stata applicata pochissimo, perché il regime democratico si è premurato
di impedire che venisse esercitato la giustizia civile.
Il legislatore del '42, pensò
di estendere la facoltà di avvalersi del rimedio del regolamento anche
alle parti, con l'idea di avvalersene come strumento di economia processuale,
quindi, conservando l'idea che il mezzo non costituisse un'impugnazione contro
una sentenza, ma un mezzo preventivo della pronuncia della sentenza stessa,
anzi, ai fini della proposizione di istanza di parte necessariamente
preventivo, poiché, contestualmente si poneva una preclusione alla sua
proposizione, allorché il giudice fosse pervenuto a una pronuncia sul merito
della causa. Quindi, non un mezzo diretto a correggere l'errore del giudice, ma
per prevenire l'esame del merito, e ciò vale per tutti i casi di difetto
di giurisdizione, non solo nell'ipotesi di difetto di giurisdizione a causa dei
poteri attribuiti alla P.A., ma per la generalità di queste fattispecie
impeditive dell'esame del merito della causa.
Dov'è l'idea di economia
processuale? Nell'obiettivo di accelerare una pronuncia sulla questione
suscettibile di definire il giudizio da parte dell'organo, che su quella
questione, possa pronunciare con efficacia di giudicato panprocessuale.
In quel momento, l'entusiasmo per
quello strumento, fu tale che lo applicò estensivamente, includendovi i
casi di infondatezza in iure della domanda proposta
Ragionando così, perché
dobbiamo svolgere un'attività di istruzione probatoria, di raccolta
delle prove, di esame nel merito, quando la domanda è infondata in
diritto e per dichiararla infondata in diritto può provvedere la Cassazione
senza aver bisogno di raccogliere alcun mezzo di prova! Col tempo, la prassi ha
rivelato diverse falle tecniche della disciplina.
La mera proposizione del regolamento,
comportava un effetto sospensivo immediato della trattazione del merito della
causa, perché, l'esame del merito si doveva prevenire, ma tale sospensione si
rendeva necessaria a seguito della proposizione del regolamento infondato, del
tutto a prescindere dall'esame di apparenza di fondatezza del ricorso.
È chiaro che, se sono convenuto
in mala fede, sono immediatamente incentivato a farne uso allo scopo dilatorio,
ma c'è di più! Ai sensi dell'art. 387, il ricorso per
Cassazione, dichiarato inammissibile o improcedibile, non può essere
più riproposto, è il principio della consumazione dell'impugnazione
di cui troviamo traccia anche nell'art. 358 con riferimento all'appello, ma il
regolamento di giurisdizione non è un mezzo d'impugnazione.
Pertanto il principio è
inapplicabile, così, anche se la parte propone appositamente il
regolamento, guisa tale da farlo dichiarare inammissibile, questa parte ha
piena facoltà di riproporre a piacimento il regolamento stesso,
sfruttando l'effetto sospensivo dilatando, quindi, anche potenzialmente in
eterno l'esame del merito della causa.
Si prospettò, ovviamente,
l'applicazione della disciplina della responsabilità aggravata ex
art. 96, ma lo abbiamo già rilevato, quando il comportamento processuale
di mala fede si svolge nel corso del procedimento di cognizione, la sanzione di
una mera responsabilità risarcitoria per i danni, non ha alcun effetto
dissuasivo, perché quali danno ci sono? I danni ci sono se si può creare
un comportamento di mala fede che realizzi un pignoramento immobiliare, che
promuova un processo esecutivo, ma rispetto al comportamento di male fede nel
giudizio di cognizione, i danni consistono, sostanzialmente, nei costi del
processo i quali, a maggior parte, sono posti a carico della parte soccombente,
anche se soccombente in buona fede e quindi, il differenziale determinato dal
comportamento di mala fede è scarso, la sua capacità dissuasiva
è modesta.
La Cassazione, cominciò ad
affermare che se il regolamento era manifestamente inammissibile, allora il
giudice del merito poteva rendersi conto di trovarsi al cospetto non già
di un vero e proprio regolamento, ma di solo un suo simulacro, e si prospetta
la sospensione e procedere nell'esame del merito della causa. Questa
sembrerebbe una buona risoluzione, ma è soltanto un palliativo di un
provvedimento che quest'istituto può presentare, così come,
quello realizzato dalla riforma del '90, che ha esplicitamente subordinato la
sospensione della trattazione del merito della causa a una delibazione da parte
del giudice adito per il merito della non manifesta inammissibilità e
anche della non manifesta infondatezza dell'istanza di regolamento.
Questo sistema, può funzionare,
magari, soprattutto se lo si correla ad altra conclusione, cui la Cassazione
era giunta a un certo punto, ma ora non è chiaro se intenda conservarla,
cioè l'idea che il regolamento possa essere reso improcedibile dalle
sopravvenienze processuali.
Abbiamo appena fatto il discorso per
cui, il giudice adito non può esserci sottratto dalle sopravvenienze, ma
se parliamo do sopravvenienze ablative della competenza della giurisdizione,
d'accordo, ma se no in linea generale, delle sopravvenienze, si tiene conto ne
processo, addirittura, anche delle sopravvenienze di fatti processuali.
Questa, è la regola generale,
eccezionale è il regime dell'irrilevanza dei mutamenti che incidono
sulla competenza e sulla giurisdizione.
Appare dunque, non insensata l'idea
prospettata dalla Cassazione, secondo cui nell'ipotesi che il giudice di
merito, avesse validamente omesso la sospensione, perché l'istante aveva omesso
di depositare presso la cancelleria del giudice di merito, copia del ricorso
per Cassazione proposto, sicché il giudice di merito, non avendo innanzi a se
traccia alcuna della proposizione del regolamento aveva proceduto all'esame del
merito, giungendo sino alla pronuncia prima che la Corte di Cassazione si
pronunciasse a sua volta sul ricorso proposto; prodotta dalla parte resistente,
la sopravvenuta pronuncia davanti al giudice di cassazione, la stessa ritenne
ormai preclusa la pronuncia sul regolamento, perché, inidonea a svolgere una funzione
preventiva rispetto all'esame del merito della causa.
Tanto premesso, se si ammette che, il
regolamento possa rendersi improcedibile per effetto degli sviluppi processuali
avvenuti nel giudizio di merito, a seguito di una regolare omissione della
sospensione stessa, per effetto di una valutazione erronea, ritualmente
compiuta di manifesta infondatezza dell'istanza, o che manifesti
l'ammissibilità dell'istanza, ecco che la procedibilità del
regolamento finirebbe per dipendere da una valutazione discrezionale del
giudice di merito, il che avrebbe certamente senso.
Nel nostro ordinamento sembra strano,
formato come è nei principi gerarchici, che un giudice gerarchicamente
sottordinato abbia il potere di selezionare l'accesso al giudice preposto al
riesame delle sue stesse decisioni.
È frequente un sistema di
questo genere in ordinamenti a matrice meno burocratizzata, negli ordinamenti
di common law è ritenuto normale che l'accesso alla corte di grado
superiore sia subordinato ad una autorizzazione discrezionale del giudice
inferiore, le cui decisioni sono soggette al riesame presso il giudice
superiore.
Ultimamente la Cassazione, sembra non
voler richiamare questa capacità delle sopravvenienze procedimentali del
giudizio di merito incidere sulla ammissibilità o procedibilità
del regolamento.
Tuttavia, ulteriori orientamenti
restrittivi della giurisprudenza in tema dell'ammissibilità del
regolamento preventivo, sono emersi e meritano di essere segnalati, per cui,
soprattutto in anni recenti, si è affermato che il regolamento è
ammissibile solo se proposto nel contesto di un procedimento di cognizione
idoneo a sfociare in un provvedimento che possa incidere in via definitiva sui
diritti soggettivi, quindi, esso non sia proponibile ne nel contesto di procedimenti
esecutivi, bensì eventualmente nei procedimenti di cognizione avviati in
relazione al procedimento esecutivo stesso nel contesto del procedimento di
opposizione all'esecuzione, ma non del mero procedimento esecutivo, e men che
meno possa essere proposto nel contesto dei procedimenti cautelari, ove la
giurisprudenza aveva ritenuto proponibile con curiose argomentazioni
giuspolitiche dove era diffuso, prima della riforma del '90, opinione della
tutela d'urgenza i giudici di merito usassero per frenare questi abusi, si
giustificasse la proponibilità del regolamento preventivo alla
giurisdizione nel corso del procedimento cautelare, questa è stata
abbandonata e oggi la giurisprudenza è costante nell'ammettere che non
possa aversi regolamento di giurisdizione nel contesto del procedimento
cautelare.
Si è giunti alla conclusione di
interpretazione fortemente correttiva del dettato legislativo e la proposizione
del regolamento sia preclusa non soltanto dalla pronuncia di una sentenza sul
merito della causa, bensì dalla pronuncia di qualsiasi sentenza anche se
vertente su questioni di rito da parte del giudice del merito, con ciò
ribaltando l'interpretazione che, era stata consolidata secondo cui la
pronuncia di merito preclusiva per la proposizione del regolamento era
pronuncia che concernesse questioni attinenti al merito perché, provviste di
effetti idonei a sopravvivere all'estinzione del processo, così si
ragionava!.
La cassazione per giungere a questa
conclusione ha seguito un ragionamento un po' contorto, se viene resa una
pronuncia, anche se pronuncia sul rito, questa pronuncia è impugnabile.
Se rispetto a una questione possono
concorrere più rimedi, la legge si premura di regolarne il concorso, ma
questa è una petizione di principio, perché non è proprio
così, però posta questa petizione di principio, la Cassazione
osserva che il legislatore regola il concorso fra l'appello e il regolamento di
competenza, ma non dice niente sul concorso tra appello e regolamento di
giurisdizione, e se non dice niente, significa che non possono concorrere.
Sicché, resa una pronuncia appellabile, la proponibilità
dell'appello impedisce la proponibilità del ricorso per regolamento
preventivo di giurisdizione.
Il ragionamento è forzato,
resta abbastanza opinabile che le norme codicistiche possano essere
interpretate in modo così lontano da quel che può pensare il
lettore in prima battuta, c'è poco rispetto per consumatore e la marca" class="text">il consumatore del
diritto, che deve essere in grado di capire cosa dice la norma senza bisogno di
approfondire troppo l'esame delle interpretazioni giurisprudenziali,
interpretazioni fortemente controintuitive del dettato letterale della norma
sono sempre discutibili, per usare una espressione che piace agli economisti
del diritto, aumentano i costi transativi.
Inoltre, la giurisprudenza, sempre in
via interpretativa, ha in larga misura ridotto l'ambito delle questioni
deducibili tramite regolamento preventivo, evitandole, progressivamente sempre
più a quelle soltanto che fossero espressamente previste dall'art.
37,escludendo che si potessero qualificarsi come questioni deducibili al
concetto di giurisdizione, magari, come quella di sussistenza di un'eccezione
di giudicato, o di un'eccezione di compromesso per arbitrato libero.
Tutte queste questioni, che in
astratto si potrebbero ricondurre, così come l'improponibilità
assoluta della domanda fra privati, non sono ritenute questioni deducibili
tramite regolamento preventivo.
Su quest'ultimo fronte, però,
si è avuta una battuta d'arresto, benché si è persa un'occasione
allorquando è entrata in vigore la nuova disciplina del diritto
internazionale privato con l. 218/95, perché prima di questa legge la questione
del difetto di giurisdizione rispetto al giudice straniero, trovava la sua
regolamentazione nell'art. 37, ma questa legge ha conferito una disciplina
nuova ed autonoma a questa materia, anche collocandola in una sede extra
codicistica, alché il dettato, attualmente vigente, dell'art. 37 non contiene
riferimento alcuno a questioni di giurisdizioni rispetto al giudice straniero.
Pertanto, l'ingenuo consumatore del
diritto, che legge il codice, all'art. 41 nella parte in cui prevede che sia
deducibile, tramite regolamento la questione di cui all'art. 37, e legge l'art.
37, mai e poi mai, è indotto a pensare che possa farsi valere, tramite
regolamento preventivo, una questione che nell' art 37 non è prevista,
perché prevista nella legge 218/95.
Però, una parte della dottrina,
ha detto che il rinvio all'art.37 da parte dell'art.41, doveva qualificarsi
come rinvio ricettizio? Qualificarlo come rinvio ricettizio, vorrebbe dire, che
nella perte in cui rinvia all'art. 37, l'art. 41 dovrebbe essere letto come
norma rinviante all'art. 37 nella sua formulazione originale, e non nella sua formulazione
attuale.
Il fenomeno del rinvio ricettizio, si
presenta in qualche occasione nel contesto internazionalprivatista, ma in
realtà è un fenomeno abbastanza anomalo, chiede della ragioni
giustificative, certo, quando il richiamo è tra fonti promananti da
poteri molto diversi, si può immaginare che alcuni indici possano
suggerire il carattere ricettizio del rinvio, possiamo immaginare che, le parti
nel concludere un contratto e rinviare per la determinazione della sua
disciplina a certe fonti normative, abbiano manifestato una volontà di
riferirsi a quelle disposizioninel loro
contenuto nel momento in cui il rinvio è stato compiuto, e non di
volerne eccepire tale disciplina anche nelle sue successive modificazioni.
Pensiamo alla faccenda della disciplina
del riconoscimento delle sentenze ecclesiastiche! Il Concordato fa riferimento
alla disciplina del riconoscimento delle sentenze precedente alla legge 218/95.
Effettivamente, è questa la
disciplina applicabile al riconoscimento di quelle particolari sentenze, perché
qui, la fonte di produzione è espressione di una volontà politica
diversa, e sarebbe, comprensibile che non possa, lo Stato italiano,
unilateralmente incidere sul contenuto dell'accordo attraverso la modificazione
di quelle norme del suo proprio ordinamento a cui l'accorda aveva fatto rinvio.
Ma, quando ci troviamo al cospetto di modificazioni normative provenienti dalla
stessa fonte, addirittura nello stesso codice dovremmo avere un rinvio
ricettizio?
Sul piano tecnico, questa è
un'asinata! Un asinata, di cui è molto triste riscontrare che la
Cassazione abbia recepito a tracce. Ma perché lo ha fatto? Molti, hanno
sostenuto che conservare questo rimedio, è importante per un verso,
perché, dicevano, che le sue potenzialità dilatorie sono state
disinnescate dalle riforme del '90, ma in realtà questo è
ottimistico come ragionamento, altri hanno detto che questa disciplina è
importante e complessa e abbiamo bisogno di ottenere il più rapidamente
possibile la formazione di una giurisprudenza autoritativa su queste nuove
norme.
È fondata sul piano tecnico
questa invocazione? Ovviamente è sballata! Perché, esistono, in altri
ordinamenti, istituti diretti ad assolvere a questa funzione, a quella di
favorire la rapida formazione di una giurisprudenza autoritativa sulle nuove
norme, il diritto processuale francese conosceva il giudice amico, cui si
può adire in cassazione per ottenere interpretazioni di norme di nuova
emanazione, ma primo per qualsiasi norma, perché solo per quelle li, perché solo
quelle in tema di giurisdizione? Allora tutte! E secondo, il rimedio del
regolamento di giurisdizione no risulta applicabile solo nell'imminenza
dell'entrata in vigore della nuova disciplina.
Così, come conurato, si
applica anche se la disciplina non è più nuova, continuerà
ad applicassi anche tra cento anni, risulta utilizzabile anche per dedurre
questioni, la cui interpretazione sia ormai pacifica, e quindi, questa
giustificazione sul piano tecnico è completamente sballata, ma è
la giustificazione di un grande giurista, perché funziona!
E funziona, perché, noi abbiamo
già cominciato a capire come funzionano le teste dei magistrati della
Cassazione, se gli si dice loro, che abbiamo bisogno della loro giustizia,
possono loro sottrarsi? Vellicare la loro vanità, questo funziona
benissimo! La Cassazione ha preso sul serio questa serie, completamente
bislacca, di argomenti, e per giunta la folle conclusione, appunto, che il
rinvio dovesse qualificarsi come rinvio ricettizio e l'intendimento chiaramente
manifestato dal legislatore del '95, dal punto di vista del significato
oggettivo delle parole, secondo la connessione propria di esse, la
volontà di escludere che tali questioni fossero deducibili dal
regolamento.
Perché, si dice che il problema
è più grave di quello che si presenta nei casi di difetto
assoluto? Perché qui, la decisione non è in iure.
Ai fini della sussistenza della
giurisdizione, rilevano fatti ad esempio sulla residenza di una persona,
rilevano fatti che possono essere non rilevanti per il merito, e quindi non si
può risolvere la questione di merito sulla base della prospettazione,
l'attore dice che è così.poi vedremo ai fini del merito se
è proprio così, e se non è così respingeremo la
domanda, no!
Su questi fatti rilevanti ai fini
della sussistenza della giurisdizione, o le prove si assumono ai fini della
pronuncia sulla giurisdizione, o non si assumono più, perché, poi, non
sono più rilevanti, e quando le assumiamo le prove? Se, il regolamento
è preventivo dell'esame del merito preventivo anche dell'istruzione
probatoria, si adisce immediatamente la Cassazione e ne è escluso, che
dinanzi alla Cassazione possano raccogliersi mezzi di prova.
A questo punto, i casi sono due; o
accogliamo l'eccezione e togliamo una parte al giudice senza darle la possibilità
di provare che il suo convenuto, effettivamente, risiede nel territorio
italiano, o diamo ragione all'attore, e togliamo al convenuto il diritto di
provare la sussistenza di un'eccezione impeditiva dell'esame del merito della
domanda e cioè dell'eccezione del difetto di giurisdizione.
A chiunque diamo ragione, facciamo un
torto all'altro, perché gli facciamo il torto, di dargli torto senza sentire le
prove che può addurre in argomento.
Dal punto di legittimità
costituzionale, questa questione è serissima, la Corte Costituzionale,
investita del problema molti anni fa, asseriva che c'era un certo problema di
diritto alla prova, ma il problema non era nella disciplina del regolamento
preventivo, bensì, nella disciplina del procedimento di cassazione nella
parte in cui impediva che si svolgesse istruzione probatoria innanzi alla
Cassazione, perciò, la questione doveva essere sollevata dalla
Cassazione e non da un giudice di merito, la cassazione è l'ultima a
dover sollevare questioni di legittimità costituzionale, leggimato
è il giudice di merito, che si veda precluso l'esame delle prove dalla
proposizione del regolamento preventivo.
Secondo l'orientamento più
recente, il regolamento è ancora ammissibile in questa materia, ma
laddove la decisione di prendere i fatti non rilevanti per il merito, e vengano
dedotti mezzi di prova rispetto a tali fatti, il regolamento è
ammissibile, soltanto dopo che tali mezzi di prova siano stati raccolti, se,
proposto prima della raccolta dell'assunzione di questi mezzi in prova,
è temporaneamente inammissibile.
Così, la Corte di Cassazione,
ha ridotto i tempi per la proponibilità del regolamento, lo spazio far
il dies a quo ed il dies a quem, è diventato contenuto,
perché bisogna aspettare che si concluda l'istruzione probatoria, e questa
materia ha naturalmente posto che la questione idonea a definire il giudizio e
che l'effetto preclusivo dei vanti della pronuncia sul merito, scatta sin dal
momento in cui la causa è rimessa in decisione per la pronuncia stessa.
Praticamente, i tempi di
proponibilità, potrebbero esaurirsi nel corso dello svolgimento di
un'unica udienza, rendendo di fatto, tecnicamente impossibile alla parte la
proposizione del regolamento, che rimarrebbe in astratto e soltanto sulla carta
proponibile. E se poi, a questa interpretazione si accomnasse l'idea della
capacità delle sopravvenienze processuali ad incidere sul regolamento
ritualmente proposto, ecco che ci saremmo disfatti del regolamento preventivo
di giurisdizione, con riferimento al difetto di giurisdizione nei confronti del
giudice straniero, sia pure, attraverso un percorso interpretativo, a dir poco
tortuoso della lettura giurisprudenziale. È l'unico che consenta di
salvaguardare alcune garanzie costituzionali, e in prospettiva futura finirà
per affermarsi che il regolamento preventivo se non integralmente soppresso,
debba essere trasformato in un mezzo d'impugnazione proponibile direttamente
alla Cassazione, ma pur sempre dopo la pronuncia di una sentenza sul punto,
quindi, senza capacità di impedire che il giudice di merito possa in
prima battuta, pronunciare sulla questione, ovviamente a seguito della raccolta
dei mezzi di prova rilevanti dedotti dalle parti sui fatti determinativi della
sussistenza della giurisdizione.
·Riparto della competenza
nella giurisdizione civile ordinaria
La competenza è una misura
della giurisdizione, ma è molto diverso il trattamento processuale
dell'eccezione d'incompetenza rispetto a quello di eccezione di difetto di
giurisdizione, intendendo l'eccezione come mezzo per conseguire la pronuncia
del giudice sulla questione passibile di definire in giudizio, è diverso
il regolamento di competenza rispetto a quello del regolamento di
giurisdizione, intendendo entrambi come mezzi per conseguire una decisione sul
punto passibile di produrre effetti anche in procedimenti diversi da quelli in
cui è stata resa, cioè di procurare effetto nel cosiddetto
giudicato panprocessuale.
Dobbiamo distinguere il riparto
verticale della competenza dal riparto orizzontale.
Il riparto verticale è quello
che opera ripartiamo il carico di lavoro fra giudici di gradi diversi, operanti
in ambiti territoriali omogenei, in particolare fra tribunale e giudice di
pace, dopo la soppressione delle Preture, il problema si è semplificato,
ma sussiste il fatto verticale della competenza va operato sui criteri della
materia, nel senso che in casi in cui la legge, espressamente, attribuisce la
competenza ad un certo giudice, con riferimento ad una certa materia, è
quello il criterio che deve prevalere, in via residuale, in tutte le ipotesi in
cui la controversia non rientri in alcuna delle materie espressamente
attribuite dalla legge alla competenza di un certo giudice, opera il criterio
di riparto per valore della causa.
Per riparto orizzontale della competenza,
ci si riferisce a quelli degli ambiti territoriali, sicché si tratta di
stabilire se la competenza sia del tribunale di Pesaro piuttosto di quello di
Ancona, cioè, nel caso che il riparto orizzontale della competenza,
dobbiamo notare che possono conurarsi fori concorrenti, che rispetto ad una
certa causa, sia legittimo rivolgersi a più Uffici giudiziari a
insindacabile, arbitraria scelta dell'attore, cioè della parte che
promuove il giudizio.
Mentre il riparto verticale della
competenza è conurato in maniera esclusiva, per cui se la competenza
è attribuita al giudice di un certo grado non può essa spettare
ad un giudice di un grado diverso.
Il riparto orizzontale della
competenza, in via generale è derogabile per accordo delle parti, a
differenza del riparto verticale, rispetto al quale ogni accordo delle parti
è da ritenersi irrilevanti agli effetti del rinvio attributivo della
competenza al giudice intorno alla quale le parti siano d'accordo.
Per regola generale, il riparto
orizzontale può essere oggetto di clausole derogatorie, perciò
possono adire che la competenza spetti attribuire al tribunale di Pesaro,
attribuirle al tribunale di Ancona, tenendo presente che clausole di questo
tipo, sono vessatorie e sono soggette alla disciplina restrittiva che si
applica in questo tipo d'ipotesi, sia dal punto di vista dell'art. 1469/bis del
c.c., sia degli artt. 1341 e 1342 del c.c., pertanto, possono darsi casi in cui
tale clausola sia valida, tuttavia, nell'ipotesi prevista dalla legge ai sensi
dell'art. 28, anche il riparto territoriale della competenza può
risultare inderogabile, in cui la competenza territoriale inderogabile, si dice
avere carattere funzionale.
Cosa si intende dire? Ci si ricollega
alla dottrina precodicistica, secondo la quale, alcune norme distributive della
competenza non rivestivano solo la funzione di ripartire il carico di lavoro
tra il diverso giudice giudiziario e il diverso magistrato, ma li ripartivano
attraverso la diversità della controversia, per cui un certo giudice era
competente, e non altri, perché, avrebbe avuto un miglior accesso alle prove,
in quanto il suo contatto con il territorio gli rendeva possibile una
più accurata decisione della causa.
Addirittura, la cognizione
pregiudicisticadiceva, che nell'ipotesi
del riparto funzionale della competenza, si determinasse una nullità
della sentenza, che poteva essere fatta valere in ogni tempo, quindi, persino,
al di là della formazione del giudicato formale.
Il codice del '42 non ha recepito
quest'idea! È senz'altro, escluso, che possa farsi valere in ogni tempo
la regolazione del riparto, anche funzionale della competenza. I termini per
farla valere, sono quelli previsti dalla legge che ora vedremo! Questa è
una idea che ricorda quelle soluzioni meno strutturali in cui è ammesso
che si faccia valere in ogni tempo la regolarizzazione delle regole
dell'impatto.
Ma questo non accade nel nostro
ordinamento! Resta fermo, che, in quest'ipotesi nessuna clausola prerogativa
della competenza fra le parti può produrre effetti attributivi della
competenza al giudice diverso, da quello indicato dalla legge.
Nel sistema originario della
disciplina della rilevabilità della questione di competenza, a queste
tre diverse ipotesi di incompetenza, veniva attribuito un diverso rango,
prevedendosi, che l'incompetenza per territorio, fuori dei casi dove fosse
prevista l'inderogabilità sull'accordo delle parti l'attribuzione di
poter risolvere la controversia, dovesse essere eccepita, a pena di decadenza,
e non potesse la competenza per territorio rilevata d'ufficio.
Nelle altre ipotesi, restasse ferma
l'irrilevabilità d'ufficio della questione, coerentemente con
l'inefficacia degli accordi derogatori compiuti dalle parti, e questa
irrilevabilità d'ufficio, si ammettesse in ogni stato e grado del
giudizio con riferimento all'ipotesi d'incompetenza per materia e soltanto nel
corso del primo grado di giudizio di merito per incompetenza per valore, in
quanto, si riteneva il criterio distributivo del valore avesse un carattere di
arbitrarietà, e quello del valore sembra meno significativo tra
controversia e giudice.
L'incompetenza per territorio è inderogabile ed equiparabile ai
casi per materia, in quanto, espressive di un carattere funzionale della
competenza stessa e quindi, di nuovo, l'eccezione poteva essere rilevata anche
d'Ufficio in ogni stato e grado di giudizio. Questo nella formulazione
originaria del codice del '42.
Nel corso del tempo, nei confronti
della fase applicativa operante in materia di disciplina della competenza, si
sono sollevate delle riserve!
Alcune facili da comprendere, e si
è cominciato a dire, come spostarsi di 50 km, nel '42 poteva capirsi!
Ma, oggi, nella circostanza in cui si disciplina la competenza, in qualche
modo, costituisce espressione di un principio costituzionale, quella della
naturalità della costituzione del giudice. Quali implicazioni ha
esattamente questo principio?
Nella giustizia civile, in principio
della naturalità della costituzione per legge del giudice debba svolgere
un qualche ruolo.
Per un verso, che le contestazioni
intorno alle questioni di competenza, devono essere coltivate sino al giudizio
di Cassazione e in guisa tale da assicurare che, alle parti, per ciascun grado
di giudizio, sia resa una pronuncia da parte del giudice competente a dare
quella pronuncia.
Se, invece, qualifichiamo la
violazione della regola di riparto, come non una violazione delle norme sulla
competenza, ma come una mobilità, cambia molto, perché il sistema
processuale attribuisce alle parti il diritto di ottenere almeno un grado, che
giunga la pronuncia di merito esente da attività processuale, ma non
tutti i gradi, perché, la regola generale in materia di nullità,
è che, laddove il procedimento di primo grado sia viziato da
nullità, questa può essere sanata attraverso gli atti in grado
d'appello, senza che il giudice d'appello debba rimettere la causa al giudice
di primo grado, affinché, egli stesso pronunci sul merito a seguito di
rinnovazione degli atti di conclusione di giudizio, senza che si producano
nullità impeditive sulla pronuncia del merito stesso.
Ritornando in primo grado, possiamo
direttamente sanare attraverso la rinnovazione in appello, garantendo
almeno un grado di giudizio privo di nullità, non necessariamente tutti
e due gradi di merito.
Quindi, se teniamo conto di questo
aspetto, capiamo come sia articolata la strategia seguita in questi anni dal
legislatore nel ridurre l'importanza delle questioni d'incompetenza nel
processo civile, perché è una strategia che si è sviluppata su più
fronti! Per un verso, riducendo le possibilità di far valere le
questioni di competenza qualificate come tali nel corso del giudizio, e per
altro verso qualificando diverse ipotesi, che pure astrattamente sarebbero
riconducibili alla disciplina della derivazione delle norme sulla competenza,
alla disciplina delle nullità processuali.
Cominciamo a quest'ultimo punto di
vista. È questione di competenza, quale magistrato debba decidere la
causa nell'ambito di uno stesso ufficio giudiziario? Su questo punto si
è sempre detto di no! Questo è un aspetto sul quale operano
criteri di riparto non necessariamente contenuti in disposizioni legislative,
criteri di riparto che si ha la possibilità di far valere in vario modo
nel corso del giudizio di primo grado, perché la causa andava adita a quel
giudice, e non all'altro, ma qui, non centra la disciplina della competenza, ci
sono espedienti che per assicurarsi la decisione da parte di un certo
magistrato, anziché un altro nell'ambito dello stesso ufficio giudiziario.
Negli anni '70 si usava una prassi,
che poi fu abbandonata, che funziona quando l'introduzione della causa avviene
tramite il sistema del ricorso. In questo sistema si prevede che la parte
depositi l'atto introduttivo contenente la composizione della domanda in
cancelleria, ed il giudice fissi la prima udienza con decreto, e la parte
notifichi al convenuto, che solo in quel momento viene a sapere della
promozione di un giudizio nei suoi confronti, il ricorso unitamente al decreto
di fissazione dell'udienza, e l'attore compie questo atto al momento in cui sa
già quale magistrato è stato incaricato di trattare la
controversia stessa.
Il trucco è facile,
specialmente quando l'ufficio è ampio e non ci sia un controllo
sull'applicazione dei criteri tabellari, ecco che basta presentare una
pluralità di ricorsi! E si notifica solo quello assegnato al giudice a
cui si voleva accedere.
È un trucco di corto respiro,
perché, sul lungo periodo se ne accorgono tutti, ed è sconsigliabile
usarlo!
Per ovviare a questo tipo di
stratagemma, basti pensare che già il primo ricorso depositato, produca
gli effetti della litisdipendenza e quindi, rispetto a tutti gli altri
può essere eccepita la litisdipendenza stessa. Ci sono alcune
difficoltà! Anzitutto bisogna reinterpretare il disposto dell'art.39
ultimo comma, che, dispone esplicitamente, che la litispendenza è
determinata dalla notificazione dell'atto introduttivo. A questo, ci potremo
arrivare perché si tratta di notificazione della citazione, ma se l'atto
è in ricorso la litisdipendenza deve essere determinata già dal
suo deposito, che è il primo atto con cui si crea un contatto tra almeno
due dei soggetti del processo, non più l'attore e il convenuto, ma in
questo caso, l'attore e il giudice.
Avremo un problema pratico, e
cioè, nella circostanza che vi sia stato un ricorso preveniente, chi la
sotterra l'eccezione di litisdipendenza? La litisdipendenza è rilevabile
anche d'ufficio, specialmente se tutte sono state assegnate allo stesso
giudice, se operano criteri tabellari per materia c'è un solo giudice,
un solo magistrato incaricato di trattare gli affari di una certa materia.
In sezioni dello stesso ufficio
giudiziario, l'attribuzione a una sezione rispetto ad un'altra dello stesso
ufficio giudiziario può conurare una questione di competenza? La
risposta dominante è no! Il riparto fra più sezioni dello stesso
ufficio giudiziario, Sezione Lavoro, piuttosto che Sezione Ordinaria, non
conura una questione di competenza, è vero che l'art.439 consente
previa ordinanza di trasformazione del rito, di sanare in grado di appello e
senza dimostrare in primo grado il vizio derivante dalla trattazione della
causa tramite rito del lavoro anziché rito ordinario o viceversa. Fatta
eccezione, però, nelle ipotesi in cui, la giurisprudenza ha ritenuto l'applicabilità
della disciplina della competenza, per due categorie d'ipotesi, rispetto ai
casi di rinvio alle sezioni specializzate
Anzitutto, quelle in cui, si trattava
di sezioni specializzate integrate nella loro composizione da esperti non
magistrati, e quindi, il Tribunale per i minorenni, per esempio, rispetto ai
tribunali ripartiti tra sezioni ordinarie e sezioni per i minorenni, la
giurisprudenza ha ritenuto applicabile il principio della competenza, e lo ha
ritenuto in quelle ipotesi in cui la regola di riparto implicava anche una
diversa qualità della cognizione con riferimento al riparto di
competenza tra la sezione ordinaria e la sezione fallimentare, ma qui, il
ricorso al concetto di competenza spesso è improprio, perché, si tratta
di questioni da risolversi in tema di procedibilità della domanda in
sede ordinaria in pendenza di procedimento fallimentare.
Da queste premesse si capisce il senso
delle prime operazioni compiute in questo campo!
Il c.p.p., prevedeva nll'85, presso le
allora Preture, l'istituzione di un ufficio di pubblico ministero in ogni
ufficio di Pretura. Venne fuori una leggina, che organizza le attribuzioni
territoriali delle preture, prevedendo che siano Preture quelle dei capoluoghi
di provincia e tutte le altre sono sedi distaccate della stessa pretura,
così il riparto del carico di lavoro, tra sede principale e sede
distaccata, si qualifichi non più come questione di competenza, ma come
questione di riparto.
Però, si pone un problema
interpretativo perché, altro è dire un magistrato al posto di un altro,
una sezione al posto di un'altra, altro è dire una sezione al posto di
un'altra e anche in luogo diverso, sa d'incompetenza, a questo punto, perché mi
cambia anche il luogo del processo.
Abbiamo potuto assistere ad una manifestazione
diretta della diversa importanza che viene attribuita al principio di giudice
naturale in sede penale e in sede civile, perché la giurisprudenza penale
ritenne che la disciplina del riparto tra sede principale e distaccata dovesse
comunque qualificarsi come disciplina della competenza del giudice, in un
contesto del diritto penale in cui, in realtà, la disciplina delle
questioni di competenza è difficilmente utilizzata a scopo puramente
minatorio, in questo caso, dall'imputato anziché dal convenuto.
Mentre, il rito civile si presta molto
di più alla giurisprudenza civile, infatti, è giunta alla
conclusione opposta, cioè che la violazione di queste regole di riparto,
non si qualificasse affatto come questione di competenza, quindi, il
correlazione al regime speciale applicabile alla violazione di questo tipo di
criterio di riparto, potesse essere fatta valere nel corso del giudizio di
primo grado e con sanatoria del vizio in grado d'appello attraverso eventuale
rinnovazione degli atti ritenuti viziati, in quanto, svoltisi dinanzi ad un
giudice diverso, ad un magistrato a una sezione diversa, da quella presso la
quale avrebbe dovuto svolgersi il procedimento.
Questa disciplina era prevista per le
antiche sedi distaccate, la quali non avevano una propria autonomia funzionale,
talché succedeva che, il pretore stabilmente incardinato ad Ancona, per
esempio, un giorno alla settimana era ad Urbania, dove non c'è un
cancelliere stabile, ma solo un ufficio e il giudice si portava il suo
cancelliere per tenere l'udienza lì. Ma queste sedi distaccate, queste
nuove, sono ben altra cosa, perché erano vecchie sedi autonome, qui ci sono
magistrati e cancellieri incardinati stabilmente in quel luogo, perciò,
la trattazione della causa in un luogo diverso assume, anche istituzionalmente,
un'altra valenza. La giurisprudenza ha ritenuto da escludere decisamente che in
questa disciplina potesse essere qualificata come disciplina attinente alla
competenza.
Un'altra obiezione! Ma, se noi
seguiamo questo percorso, permettiamo al legislatore di svuotare di significato
la garanzia del giudice naturale, perché il legislatore potrebbe dire! In quel
territorio abbiamo un unico ufficio giudiziario; il Tribunale di Roma, tutte le
altre sono sedi distaccate alle quali non si applica la disciplina della
competenza. Se si arrivasse a questo punto, avremo eliminato la garanzia del
giudice naturale surrettiziamente, e non sarebbe costituzionalmente accettabile
una disciplina di questo genere, ma stiamo parlando di ben altro, non si parla
di eliminazione sostanziale del riparto della competenza, bensì, di
riduzione del suo ambito d'applicazione, scongiurando un tribunale unico presso
la capitale.
Questa stessa politica, si è
seguita, allorquando, si è introdotta la disciplina della decisione
monocratica di tribunale. Il tribunale, nel sistema del codice del '42 è
un organo giudiziale a composizione collegiale, ed ad un certo punto si
è ritenuto che questo sistema fosse costoso per il dispendio di risorse
giurisdizionali e dal punto di vista organizzativo, e si è ritenuto di
conservare, alla decisione collegiale soltanto in primo grado le ipotesi
espressamente previste dal codice all'art.50 ter.
Oggi ritroviamo alcune ulteriori
ipotesi di collegialità, rispetto a quelle previste dall'art.50 bis,
nell'ipotesi in cui vi sia contestazione, se la causa aspetti al tribunale in
composizione monocratica o a quello in composizione collegiale, si conura
una questione di competenza?
Si tende ad escluderlo, a prevedere
che il vizio può essere fatto valere, ma che la violazione della regola
non possa comportare la remissione al giudice di primo grado da parte del
giudice d'appello che ritenga fondata la contestazione ritenuta infondata in
primo grado, intorno alla violazione della regola di riparto.
Altra strategia è stata quella
della semplificazione del riparto della competenza verticale, la soppressione
delle preture ha eliminato dal novero delle questioni di competenza, in
particolare in passato, era rilevantissimo, sotto il profilo della competenza,
determinare se la casa fosse ordinaria o causa di lavoro, perché ne discendeva
la competenza pretorile anziché ordinaria rispetto alle cause che avessero un
valore economico. Oggi, questo problema è superato attraverso la
soppressione dell'atto intermedio nel riparto verticale della competenza,
ancora, fa parte di questa strategia la novellazione dell'art.38 del codice di
rito che ha disciplinato in maniera diversa il sistema delle preclusioni ala
sollevazioni delle questioni competenza, valorizzando quel concetto di
competenza in senso dinamico ampliando la sfera delle ipotesi in cui la
pendenza stessa del processo, costituisce un elemento costitutivo della
competenza del giudice adito, competenza del processo, combinata alla
formazione della preclusione alla sollevazione della questione di competenza.
Si è previsto che, nell'ipotesi
in cui l'incompetenza sia rilevabile d'ufficio, quindi tanto i casi di
incompetenza per materia, quanto quelli d'incompetenza per valore o del
territorio funzionale, la questione può essere sollevata anche d'ufficio
ma a pena di decadenza entro la prima udienza.
Può sembrare strano che abbiamo
in alcuni casi, trattazione dinanzi all'istruttore e decisione da parte del
collegio e l'istruttore è privo del potere decisorio, ma la prima
udienza si svolge dinanzi al giudice istruttore, è lui che omette di
eccepire l'incompetenza dell'ufficio giudiziario adito, pregiudicando
l'esercizio dei poteri decisori del collegio.
L'obiezione è stata sollevata,
ma si presta a una replica facile! Cioè, con riferimento a questioni di
rito, di carattere impedente, questo è l'unico caso che può
verificarsi, perché, già nel codice del '42, l'art.40 prevedeva, e
prevede, la connessione della causa pendente con altra pendente dinanzi ad un
giudice diverso, nella fattispecie determinativa di una pronuncia
d'incompetenza per connessione, sia possibile soltanto, se la questione di
connessione sia rilevata entro la prima udienza.
Perciò, anche in questo caso la
traslatio iudicii, spostamento della causa presso altro giudice,
è condizionata dal tempestivo esercizio dei poteri di rilievo
dell'eccezione da parte del giudice istruttore, pur essendo privo di poteri
decisori.
Una serie di complicazioni, e ne
vediamo una, discende dalla sovrapposizione di questa riforma, compiuta nel
'90, con la controriforma del '94, '95, che ha introdotto la scissione in due
della prima udienza, distinguendo tra udienza di prima izione ex
art.180 e prima udienza di trattazione ex art.183, prescrivendo che
sia l'udienza di prima izione ad avere per oggetto l'individuazione di
questioni attinenti al rito, e la prima udienza in trattazione colei che ha la
funzione della determinazione dell'oggetto del contendere attraverso la
precisazione delle domande, delle conclusioni, delle eccezioni, via via
formulate. È vero che la questione di competenza è senz'altro una
questione di rito, ma soluzione dominante è secondo cui la preclusione
matura a seguito della conclusione della prima udienza di trattazione, perché
la decisione della questione di competenza dipende anche da come si conura
l'oggetto del giudizio, quindi è sensato che sia dato facoltà
alla parte di risollevare l'eccezione stessa alla luce delle risultanze proprio
dell'attività compiuta nel corso della prima udienza di trattazione (ex
art.183), quindi, per prima udienza dobbiamo intendere senz'altro quella.
Nell'ipotesi in cui l'incompetenza sia
rilevabile soltanto a istanza di parte, cioè si tratti di un riparto
orizzontale della competenza, il nuovo art.38 prescrive, che l'istanza vada
eccepita su istanza di parte a pena di decadenza della sa di risposta.
Cambia qualcosa se si dice: nel primo
atto difensivo, nella sa di risposta?
Sembrerebbe di no, perché il primo
atto difensivo è la sa di risposta, eppure. L'intendimento del
legislatore era, attraverso questa formula, di cambiare le cose, perché in
applicazione della formula previgente, si riteneva che l'eccezione potesse
essere validamente sollevata dal convenuto che si costituisse in giudizio
tardivamente, purché lo facesse nel suo primo atto.
Nella riforma del '90, questo disposto
aveva un significato ben diverso, perché si correlava a quanto allora disponeva
l'art.167, che prescriveva, che a pena di decadenza dovessero, nella sa
di risposta, sollevarsi anche tutte le eccezioni non rilevabili d'ufficio,
quindi, la prescrizione che l'eccezione venisse sollevata nella sa di
risposta, ricollegata a quanto disponeva l'art.167, rendeva tardiva ed
inefficace l'eccezione proposta nella sa di risposta, ma a seguito di
costituzione tardiva del convenuto, perché doveva non solo sollevare la
sa di risposta, ma costituirsi tempestivamente per poterla sollevare in
quella sede.
A seguito della controriforma del '94
- '95, è stata fatta slittare in avanti la preclusione alla sollevazione
delle eccezioni non rilevabili d'ufficio e oggi, non scatta più con il
termine della preventiva costituzione in giudizio del convenuto, bensì a
seguito dell'udienza di prima izione, poiché il secondo comma
dell'art.180, prescrive che il giudice assegna alle parti un termine per
sollevazione delle nuove eccezioni non rilevabili d'ufficio, date che queste
nuove eccezioni possono essere sollevate anche successivamente al deposito della
sa di risposta, si è giunti alla conclusione che è anche di
competenza per territorio derogabile, potesse validamente essere eccepita entro
quel termine.
Il convenuto può sollevarla in
questo termine, anche quando ha già depositato la sa di risposta?
Sarà pure ammesso sollevare l'eccezione nell'appendice all'udienza, ma
da parte di colui che solo in quel momento si costituisca, dal soggetto che
solo allora depositi la sua sa di risposta, ma chi l'ha già
depositata non dovrebbe avere la possibilità di sollevare l'eccezione di
incompetenza per territorio derogabile al di fuori della sa di risposta,
ancorché sia ancora pendente il termine generale per la sollevazione di
eccezioni non rilevabili d'ufficio.
Altro è la generale disciplina
delle eccezioni non rilevabili d'ufficio, altro è la disciplina
specifica delle eccezioni d'incompetenza derogabile, per espresso disposto di
legge deve essere sollevata nella sa do risposta e non in altri atti,
altrimenti avremo una situazione tale da consentire al convenuto di far valere
l'incompetenza del territorio derogabile, più facilmente di quanto
avvenisse in passato, poiché, in passato, con la prescrizione che l'eccezione
andasse sollevata nel primo atto difensivo non si poneva dubbi che questa non
poteva essere sollevata in un momento successivo a quello in cui la parte
avesse depositato la sua sa di risposta.
Rimane fermo, invece, sia la
completezza dell'eccezione di incompetenza per territorio derogabile, in
relazione al problema della concorrenza dei fori, ma per effetto della
concorrenza dei fori, che in realtà e la concorrenza dei criteri
attributivi della competenza, questi indicano lo stesso giudice, il luogo dove
sia stato concluso il contratto sia lo stesso in deve compirsi l'obbligazione,
allora, in questo caso, il tribunale che sia competente in forza della
concorrenza di più criteri, al tribunale la cui competenza dev'essere
contestata e si vuole eccepire l'incompetenza stessa, contestando che nessun
criterio di competenza è attributivo della competenza al giudice stesso,
quindi se voglio sostenere che il tribunale di Ancona non è competente,
ho l'onere nel sollevare l'eccezione non soltanto di sostenere e provare che,
l'obbligazione non è sorta lì, ma devo anche negare che sia da
adempiere, ossia devo contestare l'attribuzione della competenza sotto tutti i
possibili criteri.
Un altro, onere di completezza
dell'eccezione d'incompetenza per territorio derogabile, previsto dall'art.38,
che l'eccezione deve essere accomnata dall'indicazione del giudice che si
ritiene competente a pena di inefficacia dell'eccezione stessa, ciò al
fine di rendere possibile quello che in dottrina viene chiamato regolamento
convenzionale della competenza, che si verifica quando le altre parti aderiscono
a questa indicazione, si tratta sempre di riparto della competenza derogabile,
risulta accettata, attraverso un accordo derogatorio che si perfeziona nel
corso del processo, la competenza del giudice indicato dal convenuto attraverso
la sua eccezione a cui abbiano aderito le altre parti.
In questo settore è cambiata
una sfumatura, la precedente dizione dell'art.38 prevedeva che l'accordo si
perfezionasse con l'adesione di tutte le parti, la nuova lettura prescrive che,
questo si perfezioni con l'adesione di tutte le parti costituite. Che cosa
cambia? È più facile raggiungere l'accordo! In passato, non
poteva concludersi alcun regolamento convenzionale di competenza in tutte le
ipotesi in cui una delle parti fosse contumace, perché non era possibile
ottenerne l'adesione e quindi automaticamente risultava impossibile
perfezionare l'accordo., mentre oggi, questo è possibile anche quando
una delle parti sia contumace perché la sua adesione, o meno, all'accordo
è divenuta irrilevante.
La novità risulta apprezzabile
nella misura in cui muove da un presupposto che la parte contumace è
tale, perché sa di avere torto! Secondo questa logica, il contumace rinuncia
anche ad incidere sulla determinazione della competenza, consentendo alle altre
parti di raggiungere l'accordo derogatorio, questo, però, non implica
che si modifichi la disciplina, nell'ipotesi in cui l'eccezione di incompetenza
sia sollevata da alcuni soltanto fra più litisconsorti necessari, e
l'ipotesi di litisconsorzio necessario, la pluralità di parti in uno
stesso processo non può venirne meno nel corso del procedimento stesso,
a differenza dei casi di litisconsorzio facoltativo, in cui in alcune ipotesi
è possibile la separazione dei giudizi, quindi dove sono alcuni dei
litisconsorti sollevino eccezione d'incompetenza territoriale, sia possibile
accoglierla con riferimento a quella causa di cui sia parte il soggetto che ha
sollevato l'eccezione, mantenendo ferma la competenza per la causa connessa
cumulativamente proposta rispetto alla quale tale eccezione non venga
sollevata, previa separazione della cause stesse.
Quando il litisconsorzio è
necessario, la separazione non è possibile e quindi che fare se alcuni
dei litsconsorti sollevino eccezione di competenza? Se l'eccezione di
competenza è rilevabile d'ufficio, l'eccezione è validamente
proposta e decisa.
A proposito dell'espressione "resta
ferma", peraltro la competenza del giudice indicato nell'eccezione di
competenza viene denutrito da altre parti, vale la pena di osservare
incidentalmente che anche in questa ipotesi, il giudice davanti al quale la
causa venga riassunta ha la facoltà di sollevare il regolamento
d'ufficio. Ricordiamo quanto detto per i limiti di efficacia del giudicato
interno sulle questioni di competenza, posto che il regolamento di competenza
d'ufficio può essere sollevato anche quando il giudice adito in
riassunzione, si sia visto attribuire la competenza da una vera e propria
sentenza, a forziori esso deve essere promosso, in base al sistema accolto dal
legislatore, quando tale attribuzione gli provenga soltanto da questo
regolamento convenzionale.
Nell'ipotesi in cui, quindi, il
giudice della riassunzione ritenga di essere comunque incompetente per materia,
tale eccezione potrà essere sollevata in linea di principio.
Bisogno tener conto, e da questo punto
di vista, abbiamo avuto alcune pronunce giurisprudenziali di non semplice
lettura, soprattutto dal punto di vista delle loro ubicazioni, resta dubbia la
misura in cui la modifica dell'art.38 incida sul regime del regolamento di
competenza d'ufficio, per esempio potremmo porci questo dubbio; il giudice
della riassunzione può porsi il dubbio della sua incompetenza per
materia, e per quanto tempo? Entro la prima udienza del procedimento da
svolgersi dinanzi a lui a seguito della riassunzione, certamente non oltre!
Ma può farlo anche se il
profilo d'incompetenza per materia non è stato affatto sollevato nel
corso del procedimento innanzi al primo giudice? Se per esempio, fosse, nel
frattempo, maturata la preclusione del procedimento innanzi al primo giudice
alla sollevazione alla questione d'incompetenza rilevabile d'ufficio, sia
stata, invece, soltanto coltivata quella che l'incompetenza rilevabile su
istanza di parte? Questa preclusione opera davanti al giudice della riassunzione?
Secondo la giurisprudenza sembrerebbe
di sì! Ed è una conclusione che si potrebbe condividere,
considerando che in dottrina si è prospettato, anche per effetto della
riforma dell'art.38 sull'art.45 fosse ancora più vasta.
Il disposto del comma terzo dell'art.38,
recita che la decisione della competenza, ovviamente, non pregiudica la
decisione sul merito e il giudice pronunci sulla questione allo stato degli
atti, ovvero, quando ciò sia reso necessario dall'eccezione del
convenuto da rilievo ufficioso, assunte sommarie informazioni, il problema
è complicato, perché, abbiamo casi in cui il criterio attributivo della
competenza del giudice non ha nulla a che vedere con il merito della causa,
come il domicilio del convenuto che individua solo quale giudice sia
competente, ma abbiamo anche molte ipotesi, di cui, invece, i fatti attributivi
della competenza del giudice sono rilevanti anche per il merito.
Se il rapporto su cui si fonda la
domanda, sia o meno un rapporto di lavoro subordinato, indiceva sulla
competenza del giudice, perché a seconda se, si tratti di controversia
attinente ad un rapporto di lavoro subordinato o meno, si applicano regole
attributive della competenza diverse, ma rivela anche per il merito, perché,
rientra nella normalità delle ipotesi, che la stessa fondatezza della
domanda dipenda dalla circostanza che il rapporto sia effettivamente un
rapporto di lavoro subordinato, ad esempio un rapporto di lavoro autonomo.
Certamente ha senso stabilire che la
decisione in punto di competenza non pregiudichi la decisione sul merito.
Abbiamo ritenuto che il giudice fosse
competente quando la controversia era di lavoro, allorquando decidiamo sul
merito della controversia ci accorgiamo che non è un rapporto di lavoro,
quello tenuto in giudizio, il giudice che ha visto efficacemente radicata, la
propria competenza, eventualmente attraverso una decisione resa a seguito
dell'accertamento sommario, deve essere ancora ritenuto competente a
pronunciare sulla causa pur qualificandola come causa per la quale egli non
doveva essere ritenuto competente.
Alcuni, si spingono a dire, che in
quest'ipotesi, non c'è motivo per un accertamento sommario di questi
fatti. In genere questa tesi viene promulgata soprattutto enunciando che deve
esserci un giudice competente anche per il rigetto della domanda, e qui, si
giunge a dire, che tutti i fatti che siano rilevanti tanto ai fini della
competenza, quanto ai fini del merito, devono essere considerati veri, come
affermati dall'attore, allorquando si decide intorno alla competenza, perché si
potrà verificare ed eventualmente attestare la falsità di questi
fatti solo al momento della pronuncia sul merito allo scopo di poterla elidere.
Non dobbiamo farci confondere e fare
chiarezza sull'argomento, capire quando si abbia effettivamente un'eccezione
d'incompetenza, perché di questa si può parlare intanto, in quanto, la
contestazione proveniente dal convenuto, se fondata, porterebbe
all'individuazione di un diverso giudice competente per accogliere la domanda.
È chiaro che tutte le
contestazioni del convenuto che non sono compatibili con l'accoglimento della
domanda, non sono eccezioni d'incompetenza. Per far riferimento al caso, che di
solito si fa; il convenuto per il amento di 100 lire, che dice non sono
debitore di nulla, scoperta, che non si vanti in via sommaria se è
debitore o meno di 100 lire al fine di pronunciare sulla domanda stessa, perché
questa eccezione, non è d'incompetenza, perché non porta
all'individuazione di un diverso giudice competente per l'accoglimento della
domanda.
Se intendiamo per eccezione
d'incompetenza, quelle che portano all'individuazione di un diverso giudice
competente per l'accoglimento della domanda, il discorso cade, perché, la legge
non fornisce alcun elemento per giungere alla conclusione che in via di regola
generale, debbano darsi per vere le azioni attorie.
Al contrario è applicabile
anche la regola dell'onere della prova in materia d'incompetenza, regola
che viene applicata, che gravi sull'attore la prova della sussistenza dei fatti
attributivi della competenza, fatta eccezione per l'ipotesi in cui si tratti di
una questione d'incompetenza per territorio derogabile, in questo caso si
rovescia il ragionamento, ritenendosi che il giudice sia competente, salvo che
tempestivamente e validamente il convenuto renda l'iniziativa di far valere la
diversa competenza di un giudice diverso, e se ne fa discendere la conseguenza,
quindi, che gravi sul convenuto l'onere della prova dell'incompetenza per
territorio derogabile.
Però non esiste una regola
generale di presunzione di competenza di giudice adito nella legge, o
addirittura una regola secondo la quale, al fine di proteggere le competenze
degli uffici giudiziari a composizione specializzata per alcune materie, ma dev'essere,
qui, l'eccezione di incompetenza a dover essere presa per buona, a dover essere
accolta senza verifica della fondatezza del fatto su cui si fonda, con
riferimento all'incompetenza del giudice ordinario nei confronti delle sezioni
specializzate agrarie, molte volte la giurisprudenza è giunta a questa
conclusione, nessuna di queste regole è compatibile con il dettato
legislativo.
Invece prevede, per regola generale,
che il giudice decida allo stato degli atti, che non vuol dire affatto sulla
base della prospettazione attoria; allo stato degli atti significa
semplicemente, che il giudice può tener conto soltanto delle risultanze
precostituite, cioè si vuole che il giudice decida con celerità e
che prenda in considerazione soltanto risultanze di carattere documentale,
perché per assumere prove costituende si perde più tempo, perciò,
quando il legislatore vuole una decisione, certo, passibile di revoche, di
riesame, soprattutto ai fini sulla pronuncia sul merito, ma quando dice questo
non vuol dire che debba prendere per buono quello che l'attore dice, vuol dire
che il suo esame si basa solo su queste risultanze, applicandosi, tra l'altro,
la disciplina dell'onere della prova che si è poc'anzi detto.
Ovvero, quando sia reso necessario
dall'eccezione del convenuto, o dalle vie ufficiose, assunte sommarie
informazioni, acquisendo anche risultanze non precostituite, per esempio
dichiarazioni orali di persone informate sui fatti, senza procedere alla
formale assunzione di prova testimoniale, perché implicherebbe complicazioni e
lungaggini, e si vuole, invece, raggiungere celermente una decisione, quindi
attraverso un'assunzione deformalizzata di risultanze di carattere non
precostituito, e ciò sarà necessario, tutte le volte che tali
risultanze siano rilevanti, perciò tutte le volte che, l'attore o il
convenuto deducano a sostegno della propria posizione questo tipo di
risultanze.
L'attore dice di sentire Tizio, Caio,
Sempronio, che vedono Giuseppe uscire ogni mattina da quell'edificio, per
dimostrare se lui è o meno domiciliato lì! Non necessariamente
assumiamo prove testimoniali con tutte le formalità, ma sentiamo cosa
hanno da dire prima di decidere che Giuseppe in quel posto non ci abita!
Poi, ci sono casi particolari soggetti
a regole diverse. Per esempio, noi abbiamo già fatto l'esempio delle 10
lire! Ora, in realtà, per le cause relative a somme di denaro o beni
mobili, opera un disposto speciale, previsto dall'art.14, in base al quale
conto solo quello che dice l'attore, indipendentemente dalla sua fondatezza, cioè
il valore dalla causa nelle cause relative a beni mobili, si determina in base
alla somma domandata. Qui sì! Sostanzialmente l'attore ha una completa
discrezionalità e libertà di scegliere, quando la causa poterebbe
rientrare nella competenza del giudice di pace, scegliere di adire validamente
il tribunale dicendo di essere creditore di una somma maggiore di quella che
è effettivamente creditore, e nessuno può sindacare questa
scelta.
Io sono debitore solo di 100 lire,
dico di essere creditore di 1 miliardo e creo, in questo modo, unilateralmente
la competenza del tribunale in luogo di quella del giudice di pace.
È chiaro che questo tipo di
scelta è compatibile con la garanzia del giudice naturale, accettabile
anche in vista, tra l'altro, di numerosi aspetti di residualità, che
vedremo, della competenza del giudice di pace è una competenza
particolarmente fragile, che viene meno molto facilmente, perché il
legislatore, nei confronti del giudice non togato ha un grado di fiducia molto
diverso da quello che ha nei confronti del giudice togato, e non vede male che
ci si sposti davanti al togato.
Ma le cose cambiano non appena la
causa riguardi beni mobili e non più seccamente somme di denaro. Per
esempio: io voglio farmi restituire una bottiglia d'acqua, per il valore
c'è il giudice di pace! Ma se io dico che questa bottiglia d'acqua vale
un miliardo? Potrebbe, come ha voluto dire, che questa bottiglia vale al
massimo 1000 lire e quindi la competenza è del giudice di pace?
Sì! In questo caso lo può fare, l'art.14 lo prevede! Certo,
prevede anche che il convenuto abbia l'onere di contestare il valore della
prima difesa, deve contestarlo immediatamente, ma se è tempestiva la
contestazione del valore, il giudice può procedere all'accertamento di
quale sia, in via sommaria allo stato degli atti, verificare quale sia il
valore effettivo del bene mobile oggetto del giudizio.
Così, pure la decisione allo
stato degli atti, ma senza possibilità di acquisire risultanze non
precostituite, sono contemplate all'art.15 in materie di cause relative a beni
mobili, dove si fa riferimento a criteri che possono essere dimostrati
esclusivamente per via documentale, intorno ai quali, la decisione, ha detto,
necessariamente avviene allo stato degli atti.
Si ribadisce che queste sono regole
particolari, di alcuni aspetti della disciplina della competenza, e non si vede
come possano essere generalizzate in guisa tale da essere interpretate come
regole generali applicabili a tutta questa materia.
Sia, ancora, l'art. 14, nella parte in
cui prescrive che, quando non vi sia da parte dell'attore l'indicazione del
valore della causa, questo si presuma essere, entro i limiti della competenza
del giudice adito, e sembra sbrigativo ribadire, come alcuni fanno, la regola
della presunzione di incompetenza del giudice adito, perché questa regola ha un
significato completamente diverso, cioè quello di dire se non determino
la somma, non è già, il giudice di pace a presumersi competente,
bensì, è il valore a presumersi entro i limiti della competenza
del giudice di pace con effetti discendenti dall'applicazione della regola del
principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, tali per cui il
giudice non può accogliere la domanda in misura superiore nei limiti
della sua competenza, che è cosa diversa da quella di presumere che sia
competente il giudice adito in quanto tale fino a prova contraria.
L'idea sulla decisione sulla
competenza può farci venire un dubbio, può darsi che questa
regola implichi che si debba sempre decidere sulla competenza prima di decidere
sul merito? Ci sono due possibili significati, un primo problema è
quello della priorità logica fra le questioni, cioè se
esista un ordine logico in esame delle questioni.
Si può, decidere sulla
competenza quando si è in dubbio la sussistenza della giurisdizione?
Rigettare la domanda per incompetenza prima di avere risolto il problema della
giurisdizione? O la questione di giurisdizione è logicamente prioritaria
rispetto a quella di competenza? Potremmo decidere sul merito senza aver deciso
sulla questione di competenza, cioè rigettare la domanda per la
fondatezza dell'eccezione di prescrizione senza valutare se effettivamente il
giudice adito sia quello competente?
Il problema è complesso,
perché, occorre considerare quelle stesse ragioni di economia che abbiamo visto
emergere quando abbiamo cominciato ad esaminare il problema della sentenza non
definitiva, sembrerebbe che quando vi sia una ragione di guida per rigettare la
domanda, sia inutile continuare il processo per prendere in esame le altre! Si
afferma il cosiddetto principio del primato della ragione più
liquida sull'azione dell'economia decisoria.
Alcuni si spingono fino a sostenere
che il primato della ragione liquida si applichi nei rapporti fra questioni di
rito e questioni di merito, ma la giurisprudenza costante dice che non ci si
possa spingere a questo punto, quindi nessuna pronuncia sul merito possa essere
resa se non sull'implicito presupposto che non sussistano ragioni impedienti
l'accoglimento della domanda sotto il profilo del rito e questo ragionamento,
che ha le basi in tema di giudicato implicito, di formazione progressiva del
giudicato.
Se una sentenza pronuncia sul merito e
viene impugnata soltanto in parte, sicché si forma un giudicato parziale di
merito, non è più possibile il rilievo ne ufficioso, ne di
istanza di parte del difetto di giurisdizione, perché un giudicato parziale sul
merito, si dice implicitamente comporta un accertamento positivo sulla
sussistenza della giurisdizione del giudice.
Con riferimento, invece, ai rapporti
tra diverse questioni di merito non c'è dubbio che sia ragionevole
applicare il primato della ragione più liquida, con riferimento ai
rapporti fra pari questioni di rito, pure, se il trattamento processuale,
l'eccezione di litispendenza, nel diritto positivo italiano nella parte in cui
rende irrilevante ai fini della fondatezza dell'eccezione, la circostanza che
il giudice, preventivamente adito sia o meno competente sembra qualificare la
questione di litispendenza come logicamente prioritaria, rispetto alla
questione di competenza.
Però, potemmo raggiungere la
conclusione che non vi sia un necessario ordine logico di esame delle
questioni, ma il problema della priorità delle decisioni sulla
competenza, rispetto a quella sul merito, non è soltanto un problema di
priorità logica, perché di priorità logica possiamo parlare anche
all'interno di un'unica sentenza, possiamo porci il problema se debba anche
esserci una priorità cronologica della pronuncia, ovvero, se una volta validamente
sollevata e coltivata un eccezione di incompetenza, il giudice possa o meno, in
applicazione dell'art. 187, riservarsi di pronunciare sulla questione stessa
unitamente sulla pronuncia sul merito, o debba immediatamente rimettere la
causa in decisione per pronunciare una sentenza sulla questione di competenza.
Una corrente dottrinale minore, si
batte per questa conclusione, affermando che, dalla regola del giudice
naturale, discenda necessariamente un diritto della parte ad ottenere, quando
l'eccezione sia sollevata immediatamente una pronuncia sulla competenza,
impugnabile, con regolamento di competenza, immediatamente presso la Corte di
Cassazione, per ottenere il più presto possibile il giudicato
panprocessuale sulla questione di competenza.
Così sembrerebbe che l'art. 187
non possa applicarsi nella parte in cui attribuisce al giudice il potere
discrezionale di decidere, se rimettere la causa in decisione per risolvere la
controversia sulla base della questione di competenza immediatamente, ovvero
riservarsi di decidere sul punto unitamente sulla decisione sul merito.
Ma sul piano pratico c'è
qualcosa che non va! Mettiamoci nei panni di quel convenuto che sa di avere
torto e conta di trarre profitto dalla dilazione della decisione della causa, e
solleva l'eccezione di competenza del giudice adito indipendentemente dalla
fondatezza della stessa, e se si ritiene che il giudice debba immediatamente
rimettere la causa in decisione, ecco che il convenuto in mala fede ottiene
automaticamente la facoltà di proporre regolamento di competenza contro
quella sentenza, di impugnare la sentenza, producendo ai sensi dell'art. 48, un
effetto sospensivo della trattazione del giudizio in merito finché non si sia
pronunciata la Cassazione sul regolamento di competenza, del tutto
indipendentemente dall'apparenza di fondatezza del regolamento stesso.
Ossia un sistema che consenta al
convenuto di lucrare anni di dilazione nella decisione della cusa nel merito,
indipendentemente dalla fondatezza delle sue eccezioni di rito.
Si potrebbe intervenire a livello
legislativo riformulando l'art. 48 analogamente all'art. 367 con riferimento al
regolamento di giurisdizione, cioè si potrebbe precedere che l'effetto
sospensivo discenda soltanto dalla proposizione di un regolamento che non
appaia manifestamente infondato, oppure, solo dalla proposizione di un regolamento
che appaia fondato.
Allo stato attuale, questo è
l'art,. 48, non si può accettare un'interpretazione che comporti le
siffatte conseguenze. Si conclude, così ritiene la giurisprudenza e la
dottrina dominante, che il giudice conservi il potere di procrastinare la
decisione sulla questione di competenza ancorché questa sia stata
tempestivamente sollevata ed eccepita.
Questo potere non può essere
esercitato in modo arbitrario, il potere discrezionale non è un potere
arbitrario, è un potere che va esercitato attraverso i criteri generali
d'efficienza dell'amministrazione della giustizia, il che vuol dire, che il
giudice eserciterà il potere di riservarsi o meno la decisione della
questione a seconda di come gli appaia fondata, se la questione appare fondata,
è doveroso che rimetta la cusa in decisione subito, se la questione
appare infondata, è doveroso che egli non emetta sentenza per non fare
il gioco della parte che sta sollevando un eccezione processuale infondata.
Il modo migliore per prevenire il
danno che può essere arrecato all'avversario dall'infondatezza di questa
eccezione, è di non pronunciarsi immediatamente sulla stessa, e di
dichiararla infondata al momento si pronuncerà sul merito della domanda.
Così, va respinta la tesi di
chi ritiene che la decisione immediata si renda necessaria tutte le volte che
la questione di competenza sia rilevata d'ufficio e possa essere, invece,
riservata all'istanza di parte, perché rimessione immediata sia doverosa solo
se la questione di incompetenza è stata effettivamente rilevata
d'ufficio e non, in astratto, rilevabile d'ufficio se era stata solo sollevata
da convenuto, e per converso è doveroso la rimessione immediata in
decisione allorquando la questione d'incompetenza sia rilevabile su istanza di
parte, ma appaia al giudice fondata!
La conclusione, quindi, che il potere
discrezionale di rimettere o meno sussiste, consente di tenere sotto controllo
le implicazione della teoria del cosiddetto provvedimento decisorio
implicito, o provvedimento decisorio sulla competenza.
Facciamo mente locale sul ricorso
straordinario per Cassazione e le considerazioni intorno alla differenza tra
veste formale e contenuto sostanziale della pronuncia.
Considerando che le situazioni di
vantaggio a contenuto processuale che siano riferibili alla competenza del
giudice, sembrano essere protette sul piano costituzionale in una certa misura,
in guisa tale da consentire il controllo in Cassazione della decisione stessa,
è stato logico giungere alla conclusione che la pronuncia sulla competenza
sia impugnabile come tale e anche quando sia contenuta in un provvedimento che
abbia una veste formale diversa da quella della sentenza.
Cioè, se il giudice dichiara
espressamente la propria competenza in un provvedimento che non ha la forma
della sentenza, tale statuizione si qualifica come una statuizione sulla
competenza impugnabile tramite regolamento, sia nell'ipotesi quando la legge
prescrive che tale pronuncia avvenga in un provvedimento avente, ad esempio, la
forma di ordinanza), questo avviene nell'art. 427 nella parte in cui prevede
che il giudice del lavoro riscontri che la controversia è soggetta al
rito ordinario appartenete alla competenza di altro giudice, la rimette a
quest'ultimo con la stessa ordinanza in cui dispone la trasformazione del rito,
fissando anche il termine per la regolarizzazione degli atti dal punto di vista
della disciplina tributaria; sia quando, la pronuncia di una statuizione sulla
competenza, che non abbia la forma di una sentenza, dipenda da un errore del
giudice.
La distinzione non è rilevante
come nel contesto del ricorso straordinario per Cassazione, dove la distinzione
tra volontà di legge ed errore del giudice è rilevantissima,
perché, il ricorso straordinario per Cassazione è proponibile solo in
quell'ipotesi in cui la statuizione sostanziale avvenga in un provvedimento non
avente la forma della sentenza per volontà di legge, perché in questo
caso, esula la diretta l'applicazione precettiva dell'art. 111 Costituzione,
consente di disattendere l'atto legislativo contrastante con tale disposto.
Nell'ipotesi in cui sia un vero errore
del giudice a determinare la pronuncia di una statuizione che incida sui
diritti soggettivi in un provvedimento che ha forma diversa di una sentenza, il
rimedio, non è più quello del ricorso straordinario per
Cassazione, perché non c'è da far prevalere la Costituzione sulla legge,
ma da far prevalere la legge e i sistemi previsti dalla legge, contempla non
soltanto il ricorso per Cassazione che è l'unica impugnazione costituzionalmente
garantita, sicché un provvedimento di questo tipo finirà in un appello,
secondo le regole previste per le impugnazioni i ordinarie, attraverso diretta
applicazione della norma di legge, non della norma costituzionale, che a questo
punto, non c'è nemmeno più bisogno di evocare.
Rispetto alle pronunce sulla
competenza la distinzione è irrilevante, perché, il rimedio a
disposizione delle parti è esclusivamente quello del regolamento di
competenza, si svolgono le ulteriori attività di trattazione, si giunge
al punto il cui il giudice provvede intorno all'ammissione dei mezzi di prova
relativamente al merito.
Ebbene, se il giudice nell'ordinanza
che ammette i mezzi di prova dedotti dalle parti, le ammette espressamente,
dato che, nonostante la sollevazione dell'eccezione si ritiene competente, il
giudice è un po' ingenuo, perché questa nonpuò essere una statuizione sulla
competenza.
L'impugnazione per regolamento
d'incompetenza, in questo caso, è impugnazione per regolamento
necessario d'incompetenza, perché la statuizione non può essere
impugnata altrimenti, in quanto, investe esclusivamente la competenza sotto il
profilo decisorio, inoltre, il regolamento di competenza, a differenza
dell'appello non può formulare riserva d'impugnazione della sentenza non
definitiva affermativa della competenza, unitamente all'impugnazione della
sentenza che pronunci sul merito come avviene nell'ipotesi in cui ci sia
sentenza non definitiva di rigetto dell'eccezione di prescrizione, qui non ho
l'onere d'impugnazione immediata, il soccombente può riservarsi di
impugnare insieme alla sentenza definitiva, nella statuizione di competenza
non c'è maniera di riservarsi. L'impugnazione va fatta subito.
Se il giudice, nell'ammettere i mezzi
di prova dalle parti, espressamente si riserva di decidere sull'eccezione di
competenza ritualmente sollevata unitamente alla decisione sul merito, tale
provvedimento non contiene una statuizione sulla competenza e non è
autonomamente impugnabile, in quanto accettiamo l'idea che il giudice abbia
questo potere.
Coloro che sostengono che la decisione
sulla competenza non è riservabile, ritengono che anche in questo caso
ci si trovi dinnanzi ad un provvedimento decisorio, perché l'ammissione dei
mezzi di prova è da loro qualificata già come decisione incompatibile
con l'accoglimento dell'eccezione di competenza, se invece seguiamo l'opinione
dominante e preferibile, questo tipo di provvedimento è perfettamente
lecito e ammissibile, quindi non risulta autonomamente impugnabile, e non
può prodursi l'effetto sospensivo di cui all'art. 48, perché, per quanto
l'art. 48 non consenta al giudice di merito di delibare l'apparenza di
fondatezza del regolamento di competenza, tuttavia la giurisprudenza ha
riconosciuto nell'ipotesi in cui il regolamento di competenza sia manifestamente
inammissibile, il giudice di merito possa conseguire del giudizio e non sia
tenuto a sospendere, ai sensi dell'art. 48, se seguiamo questa teoria,
consentiamo al giudice di cavarsela, purché esplicitamente si riservi di
decidere successivamente alla questione di competenza.
Se il giudice non dice niente? Il
giudice ammette i mezzi di prova e basta! Per quanto sopra detto, dobbiamo
apprezzare la circostanza che la giurisprudenza più recente, abbia
riconosciuto che questo tipo di provvedimento non contiene una statuizione
implicita sulla competenza, diversamente da quanto in passato si era ritenuto,
che sussistessero i provvedimenti decisori impliciti sulla competenza, nella
misura in cui in giudice non dice niente intorno alla competenza deve essere
apprezzata l'opinione secondo cui, legittimamente il giudice ha fatto uso del
potere di riservare la decisione e non già del potere di decidere sulla
stessa, anche nell'ipotesi in cui il giudice è provvisto di poteri
decisori.
Ovviamente, tutta questa teoria sul
provvedimento decisorio sulla competenza non è applicabile in tutte le
ipotesi in cui la causa sia riservata alla decisione collegiale, perché in
questi casi, qualunque sia il dettato letterale del provvedimento reso dal
giudice istruttore, esso non può contenere alcuna statuizione sulla
competenza in quanto, tale organo è istituzionalmente privo, in quelle
cause, per poter pronunciare tale statuizione.
La circostanza che, la decisione di
competenza possa essere riservata, pone qualche problema da risolvere! In
particolare, in tutte quelle ipotesi in cui, i fatti attributivi della
competenza, siano rilevanti anche per il merito, perché, possiamo avere
raccolto sommarie informazioni, ossia, avere acquisito risultanze, non solo
precostituite in via informale, e avere acquisito vere prove secondo i mezzi
ordinari intorno agli stessi fatti.
Possiamo utilizzare per la questione
di competenza le risultanze formalmente acquisite sui fatti rilevanti, anche
per il merito, attraverso l'istruzione probatoria funzionale per la pronuncia
sul merito, o la regola dell'art. 38, ci dice che vanno decise allo stato degli
atti, in base a sommarie informazioni, ci impedisce di tener conto di tali
risultanze?
Se per esempio, quei soggetti,
dicevano di avere visto Tizio entrare ed uscire da quella casa, confermano di
averlo visto quando vengono evocati formalmente e lo negano sotto giuramento!
Dobbiamo ritenere, che, la competenza sussista
anche se, quelli stessi soggetti, sotto giuramento l'hanno negato? Il dettato
letterale, potrebbe suggerire di si, ma la conclusione è decisamente
forzata, in realtà, prevale per cui la decisione sulla competenza viene
allo stato degli atti, addirittura solo sulla base della prospettazione
attoria, e assunte sommarie informazioni, deve essere resa tenendo conto,
anche, delle risultanze dell'istruttoria probatoria, in senso pieno e pare
assurdo, dovere disconoscere risultanze prevalenti e del tutto contrastanti.
Questa è la soluzione
dominante! Ovviamente, in tanto e in quanto, si postumi che la decisone sulla
competenza possa essere procrastinata ex art. 187.
E il contrario! Possiamo tenere conto
delle sommarie informazioni quando decidiamo sul merito? Questa domanda rinvia
ad un problema detto delle prove atipiche nel processo civile, delle
risultanze probatorie acquisite in modi diversi da quelli esplicitamente
regolati dalla legge.
Tenere conto di queste prove, è
doveroso! Lungi da tessere un abuso inquisitorio, come alcuni lamentano,
è del tutto sensato che il giudice tenga conto nella decisione sul fatto
anche di risultanze acquisite in modo atipico, fatti salvi i limiti
all'ammissibilità dei mezzi di prova, che siano legislativamente
previsti, che non vengano elusi attraverso l'introduzione di questi strumenti,
per cui si può immaginare, se una testimonianza è inammissibile
non si possa neppure tener conto delle dichiarazioni rese dallo stesso
soggetto, magari in forma scritta attraverso la produzione dello scritto
stesso, perché sarebbe un modo indiretto per violare la regola che esclude
l'ammissibilità della prova testimoniale.
È inammissibile la prova
testimoniale nel soggetto che avrebbe interesse ad essere parte nel giudizio,
come queste dichiarazioni della parte virtuale non possono essere acquisite
attraverso un esame testimoniale, così pure, non possono essere
acquisite a fini probatori attraverso la produzione di uno scritto di questa
stessa parte.
Ma giunge alla molto più forte
conclusione, che scritti provenienti da terzi non siano mai ammissibili nel
processo civile, in quanto, le dichiarazioni di terzi debbono raccogliersi
esclusivamente nella forma dell'esame testimoniale, e invece
l'argomentazione troppo forte che non trova rispondenza nel diritto positivo,
che la giurisprudenza disconosce, ammettendo largamente che nel processo si
possa far uso delle cosiddette prove atipiche.
Alla luce di questo ragionamento,
posto che risultanze acquisite sulla base di sommarie informazioni tendono
tipicamente a presentarsi come prove atipiche di vario genere, pare legittimo
tenere in considerazione anche queste sommarie informazioni proprio perché non
si può chiedere al giudice di chiudere gli occhi di fronte a risultanze
legittimamente acquisite alla causa, anche ai fini sulla pronuncia sul merito.
Abbiamo ancora un ulteriore
complicazione! C'è un ipotesi in cui sia stata tempestivamente sollevata
ed eccepita la questione di incompetenza. Il giudice si è riservato di
decidere la questione inerente al merito, abbiamo provveduto all'istruzione
probatoria, non abbiamo avuto una pronuncia ne sulla competenza ne sul merito e
in mancanza di questa istruzione probatoria ci portano a concludere, per
esempio, che il rapporto dedotto in giudizio non è un rapporto di lavoro
subordinato e quindi, per un verso il giudice non sarebbe competente ad
accogliere la domanda e per altro verso questa potrebbe essere accolta solo in
parte, perché alcuni hanno sostenuto che questo tipo di ipotesi, e il giudice
potrebbe avere la facoltà discrezionale di scegliere se dichiararsi
incompetente, ovvero rigettare la domanda nella misura in cui non è
competente per accoglierla, ovvero accogliere la domanda nella misura in cui
può essere competente per accoglierla facendo salva la sua
riproponibilità sotto i diversi profili, dinnanzi al giudice competente.
Questo tipo di soluzioni, in qualche
misura, potrebbero consentire di conseguire qualche risparmio, però
sembra una forzatura arrivare a queste conclusioni, perché, dal sistema quale
conurato, sembra che debba conservarsi la regola della necessaria
priorità logica della risoluzioni delle questioni di rito rispetto a
quelle di merito, e quindi, in tanto e in quanto sia tempestivamente sollevata
e eccepita la questione di competenza, se questa questione è fondata, il
giudice deve dichiararsi incompetente, perciò non è sensato stare
ad approfondire in che misura possano realizzarsi dei vantaggi e delle
efficienze attraverso una soluzione così complessa.
Più lineare, sembra che questa
questione deve rimanere prioritaria, e effettivamente decisa, magari nello
stesso provvedimento con cui si intende pronunciare sul merito, ma pur sempre,
prioritariamente sul paino logico rispetto alla pronuncia sul merito stesso.
·L'istituto del regolamento
di competenza
Venne introdotto da legislatore del
'42, ispirato all'esperienza del regolamento preventivo di giurisdizione,
conurando non già come un rimedio preventivo di una pronuncia sul
merito della causa, bensì, come una impugnazione dei provvedimenti che
contengano statuizioni su una competenza.
Come il regolamento di giurisdizione,
il regolamento di competenza consente alle parti di accedere immediatamente
alla Corte di Cassazione saltando il grado d'appello del giudizio, e possibile
alternativa a questo strumento, in astratto, a disposizione del legislatore,
potrebbero essere quella di prevedere il sistema di impugnazione ordinaria,
conseguenza che discenderebbe automaticamente dall'eventuale abrogazione del
regolamento di competenza, ovvero, si può immaginare un sistema
alternativo, cioè quello di consentire la mera reclamabilità
della decisione dinnanzi al giudice superiore senza facoltà di ulteriore
riesame della stessa.
Ipotesi che alcuni hanno suggerito, ma
presenta il problema di risultare incompatibile con quella implicazione della
garanzia del giudice naturale da cui discenderebbe che la parte debba sempre
poter giungere dinnanzi alla Cassazione sulla questione della competenza del
giudice ai fini della pronuncia sul merito della causa, perché, ad esempio, nel
corso del procedimento cautelare, può porsi il problema della competenza
del giudice ad emanare il provvedimento cautelare.
Questa questione può essere
fatta valere dinnanzi al giudice adito, per l'ottenimento di un provvedimento
cautelare e può anche essere coltivata attraverso il reclamo previsto
dalla legge nei confronti del provvedimento cautelare, ma non può essere
dedotta tramite regolamento di competenza in Cassazione, nei confronti del
provvedimento sul proposto reclamo, perché, si dice, che siamo in contesto che
non sfocia in un provvedimento a contenuto decisorio.
Il provvedimento cautelare è
instabile, caratterizzato non solo da strumentalità funzionale, ma anche
da strumentalità strutturale, non sta in piedi da solo, sta in piedi
soltanto se tempestivamente si introduce e si coltiva il giudizio di merito, e
nel corso del giudizio di merito, si potrà proporre regolamento di
competenza, con riferimento alla competenza del giudice adito per il merito a
pronunciare sul merito. Altra è la competenza del giudice adito per il
merito a pronunciare sul merito, altro è la questione della competenza
del giudice adito per il provvedimento cautelare a redimere il provvedimento
cautelare stesso.
Le due competenze, generalmente
coincidono, ma non sempre! C'è una lacuna di tutela.
La Cassazione riteneva che ci fosse
una lacuna di tutela meritevole di essere colmata, prima della riforma del '90,
l'orientamento costante, allora, della Cassazione era nel senso che il
regolamento di competenza fosse ammissibile nel corso dei procedimenti
cautelari e avverso provvedimenti cautelari contenenti statuizioni sulla
competenza ancorché riferite esclusivamente alla competenza cautelare e non
alla competenza per il merito.
Dopo la riforma del '90,
l'introduzione, come rimedio generale, del reclamo, nei confronti e dei
provvedimenti di accoglimento dell'istanza cautelare, e a seguito di sentenza
della Consulta anche nei confronti dei provvedimenti di rigetto dell'istanza
cautelare, secondo la Cassazione, ha colmato la lacuna di tutela, ciò
che si doveva assicurare, secondo la Cassazione, era il diritto ad un riesame
della statuizione da parte di un giudice diverso, attraverso il rimedio del
reclamo, ma non anche il diritto ad un riesame della statuizione da parte della
Cassazione, sicché, la regola generale rispetto alla competenza cautelare,
è che non sussiste il diritto ad ottenere un controllo in sede di
legittimità delle statuizioni riferibili alla competenza per
l'emanazione dei provvedimenti non propriamente decisori, o meglio, decisori
quando incidono su diritti soggettivi, ma non definitivi perché revocabili e
privi di idoneità al giudicato e comunque di stabilità
sufficiente a giustificare l'applicazione del sistema che fa capo all'art. 111
della Costituzione alla nozione di sentenza in senso sostanziale.
È un ragionamento pragmatico,
tutt'altro che sistematico, perché dal punto di vista della rigorosa
interpretazione della norma, in realtà, nulla, nella riforma del '90
nell'eccepire il procedimento cautelare, incideva direttamente sul tema della
riesaminabilità in Cassazione della competenza cautelare.
Nel momento in cui la Cassazione ha
raggiunto questa conclusione, possiamo compiacercene, perché, considerato al
particolare natura dei provvedimenti cautelari e l'importanza di particolari
esigenze di celerità che si hanno nel contesto del procedimento
cautelare, la possibilità di avvalersi anche del rimedio del regolamento
di competenza sarebbe stata, plausibilmente, un ipergarantismo, perché non
c'era già prima una copertura costituzionale del diritto al riesame in
Cassazione delle pronunce sulla competenza cautelare, quindi, dobbiamo
valutare, con qualche riserva, una giurisprudenza, rimasta isolata, di
Cassazione, che ha invece ammesso la proposizione del regolamento nell'ipotesi
in cui vi sia stata una reiterata declinatoria della competenza.
Il problema di lacuna di tutela
può porsi quando l'attore vada in cerca di un giudice che si ritenga
competente e si trovi dinnanzi ad un ripetuto scarica barile! Se la causa pende
per il merito soccorrebbe comunque il regolamento di competenza d'ufficio, che
accelera la risoluzione di questo problema, quello del conflitto negativo di
competenza, ma laddove non scattasse può operare in via subordinata il
regolamento di incompetenza su istanza di parte.
Nel contesto del procedimento
cautelare, l'ipotesi di conflitto negativo d'incompetenza, potrebbe essere
risolto tramite un'applicazione estensiva del regolamento di competenza
d'ufficio, che è un rimedio efficace e il cui ambito di applicazione si
è molto ampliato nella prassi giurisprudenziale rispetto a quanto
previsto nel '42.
Molto più discutibile è
che si renda applicabile il regolamento di competenza a istanza di parte, se
non in quella ipotesi in cui vi sia un'omissione dell'esercizio del potere del
giudice di promuovere l'incompetenza d'ufficio, ferma restando che qui, siamo
nell'ambito delle applicazioni forzate dell'istituto, perché, tra i presupposti
del regolamento vi è la translatio iudici, cioè
l'applicazione dell'art. 50, di quella norma che consente di conservare gli
effetti della domanda, purché vi sia tempestiva riassunzione dinnanzi al
giudice indicato come competente, e tale istituto non è invece
applicabile al procedimento cautelare, perché, il rigetto per incompetenza
dell'istanza cautelare è disciplinato da apposita norma che non
contempla facoltà di riassunzione presso un diverso giudice indicato
come competente.
Tutto sommato questo reclamo almeno
nel contesto del procedimento cautelare può funzionare, nel contesto del
procedimento ordinario a cognizione piena diretto a sfociare in unprovvedimento idoneo al giudicato sembrerebbe
proprio di no! E naturalmente, questo tipo di conclusioni producono tutte le
implicazioni viste prima a proposito del provvedimento decisorio implicito.
Sebbene, da tanti punti di vista,
possa sembrare auspicabile la riduzione dell'importanza delle questioni di
incompetenza tra la possibilità di farle valere nel corso del processo e
di procrastinare per tramite esame del merito della causa indipendentemente
dalla loro fondatezza, le poche riforme che hanno investito il regolamento di
incompetenza hanno avuto il risultato di estenderne l'ambito di applicazione.
Vediamo alcune caratteristiche
essenziali.
Primo punto da osservare è che
si tratta di impugnazione ordinaria! È un punto dubbio? Per alcuni
aspetti, sì, l'art. 323 del codice di rito, lo qualifica esplicitamente
il regolamento di competenza fra le impugnazioni ordinarie, tuttavia,
rispetto allo strumento come il regolamento di competenza d'ufficio, qualche
riserva sulla sua natura di mezzo d'impugnazione vero e proprio, si potrebbe
anche formulare, con relativi dubbi intorno alla sua consumazione, nell'ipotesi
di declaratoria di inammissibilità dello stesso.
Qualche dubbio ulteriore, viene
sollevato in ordinane alla natura di mezzo d'impugnazione del regolamento di
competenza, perché, non è chiara la fasi applicativa in proposito, in
che misura si applichi a tale istituto il criterio della soccombenza, in
linea generale, è legittimata a proporre impugnazione soltanto la parte
soccombente, ma rispetto alla questione di competenza qual è la parte
soccombente, soprattutto nelle ipotesi in cui l'incompetenza sia rilevata
d'ufficio, si potrebbe immaginare che sono soccombenti tutte e due le parti,
quindi, alcuni disposti letterali del codice sembrano suggerire, che la
proposizione dell'impugnazione non presupponga la soccombenza, ma possono
essere interpretati in modo coerente alla regola che subordina
l'opportunità di impugnazione alla soccombenza stessa, tenendo conto,
che rispetto alla decisione risultino soccombenti tutte le parti, così
vale per quel disposto dell'art. 47, in cui si prevede che le altre parti
possano aderire al regolamento di competenza proposto da una delle parti, e il
disposto dell'art. 43, nella parte in cui prevede che la proposizione
dell'impugnazione ordinaria, intendendosi dell'appello, non toglie alle altre
parti la facoltà di proporre regolamento, è chiaro che la
proposizione di impugnazione ordinaria proviene dalla parte soccombente,
nell'ipotesi incui si è avuta
pronuncia sulla competenza e sul merito.
Le altre parti possono proporre
regolamento sia nel caso in cui abbiamo pluralità di parti convenute e
sentenze di accoglimento della domanda del merito, in questo caso, alcuni dei
convenuti propongono appello, altri propongono regolamento di competenza, la
circostanza che entrambe le impugnazioni vengano proposte non richiede di far
venire in meno la regola della soccombenza come presupposto dell'impugnazione.
Il caso complicato è quello che
si pone quando vi sia stato rigetto della domanda del merito, in questo caso,
soccombente in senso tecnico è proprio l'attore, la statuizione
affermativa della competenza di cui potrebbe lamentarsi soltanto il convenuto
che però tecnicamente non è soccombente.
Se interpretiamo l'art. 43, in guisa
tale da consentire, quindi, al convenuto, vittorioso nel merito di proporre
regolamento di competenza, raggiungiamo una soluzione che ci fa prescindere
dalla soccombenza ai fini dell'individuazione della parte legittimata a
proporre regolamento, ma la norma può conservare un contenuto precettivo
compatibile con l'applicazione anche del regolamento del requisito di una
soccombenza, in tanto in quanto, si immaginino ipotesi come quella di pluralità
di convenuti.
Che conclusioni dobbiamo raggiungere a
proposito della consumabilità del regolamento di competenza? Si deve
ritenere che laddove sia stato proposto il regolamento di competenza
inammissibile, perché rivolto contro un provvedimento che ancora non contenesse
una pronuncia sulla competenza, erroneamente qualificato dalla parte come
provvedimento decisorio sulla competenza, ma in realtà privo di tale
contenuto, deve però ritenersi ammissibile il regolamento proposto
contro il successivo provvedimento che effettivamente tale statuizione
contenga.
Questa conclusione si può
raggiungere affermando che, il disposto dell'art. 387, in materia di
consumazione dell'impugnazione, quando sia dichiarato inammissibile un ricorso
per Cassazione, sia riferibile soltanto al ricorso per Cassazione in senso
proprio, che al ricorso per regolamento di competenza, ovvero, ritenere che la
consumazione si applichi quando si faccia riferimento all'impugnazione di uno
stesso provvedimento e non allorché si faccia riferimento a provvedimenti di
tipo diverso, in vario modo si può giustificare la conclusione che
mantenendo ferma l'idea in linea generale, il regolamento di competenza si
qualifiche come impugnazione.
Quante volte si può proporre
regolamento di competenza? In passato, si riteneva, dominante il disposto
dell'art. 42 nella parte in cui prevede che la sentenza che pronuncia soltanto
sulla competenza è impugnabile esclusivamente con regolamento di
competenza, pertanto se, a seguito della formazione di un giudicato sulla
competenza, ad esempio successivo alla pronuncia di un regolamento, il giudice
di merito presso il quale la causa venga riassunta in ossequio alla sentenza di
Cassazione, pronunciasse una ulteriore sentenza sulla competenza, il rimedio a
disposizione della parte doveva essere sempre il regolamento di competenza, in
quell'occasione, ovviamente, la Cassazione non avrebbe dovuto compiere un nuovo
esame della fondatezza della questione di competenza, bensì dovrebbe reiterare
la precedente statuizione.
Secondo una giurisprudenza recente, la
novellazione dell'art. 38, avrebbe un implicazione un po' sottile, cioè,
che tutte le statuizioni sulla competenza che siano compiute in violazione del
sistema delle preclusioni e a rilievo delle questioni di competenza, dovrebbero
essere impugnate non per violazione su norme sulla competenza, bensì per
le violazioni delle norme sul processo, conseguentemente anche, con
impugnazione ordinaria anziché con regolamento di competenza, sicché, ci
rivolgiamo al tribunale di Ancona e si dichiara competente, viene promosso
regolamento di competenza e la Corte di Cassazione conferma la competenza del
tribunale di Ancona, successivamente il tribunale di Ancona si dichiara
incompetente, questa sentenza andrebbe impugnata con appello.
Questa decisione è discutibile
sul piano pratico, perché, stabilire se un provvedimento contiene o meno una
statuizione sulla competenza, è molto più facile che stabilire se
la questione su cui si è statuito fosse o meno preclusa, stabilire se
c'è una pronuncia sulla competenza è facile, basta guardare il
disposto, tanto è vero che, l'art. 47, prescrive che il termine per la
proposizione del regolamento lungi dal decorrere, come avviene in generale per
le impugnazioni, dalla notificazione del provvedimento che consente di
conoscerlo per intero, decorre eccezionalmente dalla comunicazione dello
stesso, poiché è sufficiente osservare la statuizione per capire se
c'è una pronuncia sulla competenza.
Per stabilire invece se la questione
di competenza su cui si è pronunciato, fosse o meno preclusa al momento
della pronuncia bisogna guardare gli atti di causa e quindi questa soluzione
aggrava gli oneri di ricerca della parte ai fini dell'individuazione del mezzo
d'impugnazione esperibili nel confronto del provvedimento, il risultato di
questo aggravarsi degli oneri di ricerca della parte è la proliferazione
delle impugnazioni proposte allo solo scopo di evitare di correre il rischio di
perdere il rimedio, quindi questa affermazione finirà per aumentare le
ipotesi in cui entrambe le impugnazioni verranno proposte nell'incertezza su
quali delle due sia ammissibile, nell'eventualità, che appunto sia resa
inammissibile quella che la parte riteneva che fosse l'impugnazione più
appropriata.
Il dettato letterale dell'art. 42,
prosegue individuando tra i provvedimenti impugnabili esclusivamente con il
regolamento di competenza, oltre alla sentenze che pronunciano sulla sola
competenza anche quelle che dichiarano la litisdipendenza o continenza di
causa, ex artt. 39 e 40, nonché, i provvedimenti che richiamano la sospensione
del processo ex art. 295.
Questa ipotesi è stata
introdotta dalla riforma del '90, perché, rispetto ai provvedimenti di
sospensione del processo, si era consolidata l'idea che essi non contenessero
necessariamente alcuna statuizione sulla competenza, e quindi non fossero
neanche qualificati come provvedimenti decisori sulla competenza e si era
raggiunta la conclusione che nell'ipotesi in cui fosse stata illegittimamente
negata la doverosa sospensione, nell'ipotesi di rigetto della istanza di
sospensione, la parte vittima dell'errore del giudice nel rigettare l'istanza,
poteva avvalersi della possibilità di far valere in sede d'impugnazione
la nullità degli atti compiuti in presenza di una causa di sospensione
del processo ai sensi dell'art. 298.
Nell'ipotesi, invece di illegittima
concessione di provvedimento di sospensione, la parte che ne fosse stata
vittima e quindi avesse visto, illegittimamente rallentare i tempi della sua
tutela, non aveva a disposizione alcun rimedio, il tempo perso non poteva
tornare indietro, e quindi si è giunti alla conclusione che si dovesse
prevedere la possibilità di riottenere un riesame da parte di ungiudice diverso dei provvedimenti che
concedono la sospensione, non di quelli che la negano, ma rispetto agli errori
di quel tipo, già esiste il rimedio, ma nei confronti dei provvedimenti
che illegittimamente la concedano.
Tuttavia, la scelta del legislatore
è discutibile, in tanto perché, è uno strumento di riesame lento,
perché un regolamento di competenza, non era meglio un reclamo ad un giudice
superiore? Dato che il provvedimento non ha contenuto decisorio incide solo su
situazioni soggettive a contenuto processuale non provviste di quel grado di
rilevanza costituzionale che è proprio della garanzia del giudice
naturale.
Il reclamo poteva andare benissimo!
Scegliere il metodo del regolamento di competenza rischiava di provocare di
rivelarsi un rimedio peggiore dell'altro, se si fossero affermate certe
interpretazioni che pure, questa soluzione, in qualche modo suggeriva,
cioè, per esempio, l'interpretazione che allora, la statuizione sulla
sospensione avesse acquisito un contenuto decisorio, e quindi, doveva rendersi
con sentenza e doveva rendersi con sentenza anche nell'ipotesi di rigetto
dell'istanza di sospensione, ma questo è un capolavoro di mala fede;
faccio istanza di sospensione, me la rigetta, propongo regolamento di
competenza che produce la sospensione! Per fortuna queste interpretazioni non
si sono affermate, è gia consolidata in Cassazione che l'idea di rigetto
dell'istanza di sospensione non sia impugnabile tramite regolamento.
L'impugnabilità dei
provvedimenti di sospensione, non implica e non deve implicare che questi
assumano potere decisorio, come la conseguenza che dai provvedimenti, rimanga
pienamente revocabili dal giudice che le abbia emanati, perciò, anche
nell'ipotesi in cui gli stessi siano stati confermati a seguito
dell'esperimento di un regolamento di competenza, quindi ciò, non
soltanto nell'ipotesi in cui la revocabilità del documento si
giustifichi in ragione di sopravvenienze, cioè, ad esempio, perché
è cessata la causa della sospensione del processo, ma anche per effetto
di una nuova valutazione del giudice, intorno alla sussistenza dei presupposti
per l'emanazione del provvedimento.
Ci sono per converso, sentenze sulla
competenza che non sono impugnabili tramite regolamento, l'art.46 dice che le
sentenze del giudice di pace non sono impugnabili tramite regolamento,
ovviamente, tali pronunce rimangono impugnabili. Ma come? Se la causa davanti
al giudice di pace è da decidere secondo equità? La legge dice
che queste sentenze non sono impugnabili, e se anche lo dicesse, sarebbero
davvero non impugnabili? Plausibilmente, no! Scatterebbe immediatamente il
dettato della costituzione che recita che tutte le sentenze sono impugnabili e
non sfuggiremmo comunque l'impugnabilità per Cassazione.
Tant'è che, il Mandrioli dice
che le sentenze del giudice di pace sono soggette a ricorso straordinario per
Cassazione, la conclusione è inesatta, perché la legge non dice che
queste sentenze non sono impugnabili, dice, non sono impugnabili col regolamento
di competenza e aggiunge, non sono appellabili.
Le sentenze inappellabili, cioè
quelle pronunciate in unico grado, sono soggette a ricorso ordinario per
Cassazione, quindi nn c'è bisogno di evocare la norma costituzionale
alla sua diretta applicazione precettiva, poiché, sulla base di una piana
applicazione delle regole codicistiche, tali sentenze risultano soggette a
ricorso per Cassazione, ma come è possibile che una sentenza pronunciata
secondo equità, sia poi soggetta al controllo di legalità in
Cassazione? La Cassazione verifica che non vi sia stato disapplicazione delle
norme di diritto. È plausibile che il contenuto equitativo della
decisione resa secondo equità, debba essere considerata inattaccabile,
la Cassazione non deve controllare se la regola equitativa adoperata dal
giudice di pace sia davvero equa, tuttavia, questo non esclude che un controllo
di legittimità possa aver senso.
Esso infatti può avere
raggiunto, in primo luogo la violazione di norme costituzionali, perché, le
norme che autorizzano il giudice di pace a decidere secondo equità, sono
norme di legge ordinarie e per loro tramite non può mai giustificarsi
una violazione di norme costituzionali, poi, più sottilmente, si
potrà contestare davanti alla Cassazione la sussistenza dei presupposti
per decidere secondo equità, che sono presupposti di diritto, è
la legge che autorizza a decidere secondo equità e si viola la legge se
si decide secondo equità in casi diversi da quelli previsti dalla legge,
infine, la legge consente al giudice di pace, in alcune occasioni, di decidere
secondo equità, ma non di procedere secondo equità, pertanto,
è logica la conclusione che qualsiasi situazione di norma del processo,
di regole processuali, sia deducibile tramite ricorso per Cassazione nei
confronti di queste sentenze.
Pertanto, allorché, si tratti di
pronunce sulla competenza e riesame in Cassazione, deve essere possibile
riconoscere anche sulla competenza resa dal giudice di pace, in cause nelle
quali la pronuncia doveva avvenire secondo equità, il controllo di
Cassazione deve essere pieno, sotto il profilo della decisione in punto di
competenza trattandosi di questione processuale intorno alla quale non è
ammissibile il ricorso a criteri equitativi di risoluzione della controversia.
Ovviamente, a seconda se, la causa sia
una causa da decidere secondo equità, o meno, la sentenza che pronuncia
sulla competenza, sarà rispettivamente impugnabile con ricorso per
Cassazione o con appello, perché le sentenze che il giudice di pace decide
secondo diritto, sono invece appellabili e soggette ad appello, perciò,
l'impugnazione contro il provvedimento è impugnazione secondo le norme
ordinarie con riferimento al tipo di decisione che il giudice di pace avrebbe
emesso.
Questo ci consente, almeno con
riferimento a quelle ipotesi in cui il giudice di pace decide secondo diritto,
di verificare che cosa cambia se il regolamento di competenza venga abolito!
Qui, c'è stata una vicenda
evolutiva del dato normativo abbastanza interessante, perché, in un primo
momento, il legislatore aveva previsto l'impugnabilità delle sentenze
del giudice di pace esclusivamente tramite ricorso per Cassazione. In
quell'occasione, il legislatore aveva anche abrogato una norma che contemplava
che nell'ipotesi in cui fosse riformata in grado d'appello la sentenza
declinatoria della competenza resa dal giudice di pace, il giudice d'appello
avrebbe dovuto rimettere la causa a quest'ultimo, ovvero sia, ci saremo trovati
di nuovo in quelle occasioni in cui, per la rinnovazione degli atti in giudizio
d'appello, non è idonea a sanare il vizio processuale determinato dallo
svolgimento del giudizio di primo grado dinanzi ad un giudice dichiaratosi
incompetente.
Questa norma venne abrogata, ma in un
momento successivo venne ripristinata l'appellabilità di alcune sentenze
del giudice di pace, ma allora, quel secondo comma dell'art. 353 che
prescriveva la rimessione in primo grado, dinanzi al primo giudice nell'ipotesi
di riforma della declinatoria della competenza, è tornato in vigore?
È insidioso, immaginare la riviviscenza delle norme abrogate!
In realtà, tutto sommato
è accettabile vivere bene anche senza quest'ipotesi, perché, nel
giudizio svoltosi dinanzi al giudice di pace in primo grado, è stata
resa una sentenza erronea, una sentenza in cui il giudice si è dichiarato
incompetente mentre era competente, tuttavia, questo giudizio, sia pure
conclusosi in modo erroneo, si è svolto davanti al giudice competente, e
nella misura in cui ha senso dire che dobbiamo salvaguardare quanto possa
essere implicito nella regola del giudice naturale, quindi il diritto della
parte ad essere giudicata in ogni grado di merito dinanzi al giudice competente
per quel grado, è salvaguardato anche se la causa non viene nuovamente
rimessa davanti a quel primo giudice.
Nell'ipotesi inversa, cioè
nell'ipotesi in cui il giudice d'appello ritenga incompetente il giudice di
pace che ha pronunciato in primo grado, si dovrà tornare in primo grado
perché le parti dovranno essere rimesse dinanzi al giudice competente, in
questo caso non si pone il problema della tassatività dell'ipotesi di
rimessione della causa al primo giudice da parte del giudice d'appello,
ciò può aver luogo solo in casi previsti dalla legge, sì!,
rimessione al primo giudice, naturalmente nell'ipotesi in cui la sentenza sia
riformata, perché dichiarata la competenza di altro giudice, la causa non
è rimessa al primo giudice, è rimessa in primo grado ma davanti
ad altro giudice.
Ovviamente, questo comporta una certa
discrepanza di regime rispetto alle cause che, invece, non siano di competenza
del giudice di pace, perché, in questa ipotesi, la sentenza declinatoria della
competenza impugnata tramite regolamento per Cassazione, viene, se è
erronea, cassata con accoglimento del ricorso per regolamento da parte della
Cassazione, con rimessione, ai fini della pronuncia sul merito, di nuovo al
giudice che aveva reso questa erronea sentenza declinatoria, in questo caso la
sentenza ritorna in primo grado e anche dinanzi al primo giudice.
Però, questo avviene per
effetto di un meccanismo che ha consentito di saltare il grado d'appello nella
risoluzione della questione processuale, quindi il sistema trova due diverse
forme di equilibrio e tutto sommato, non sembra bislacca, l'idea di preferire
il sistema del giudice di pace rispetto a quello del giudice ordinario, perché,
il regolamento di competenza si presta a molte forme di utilizzazione abusiva e
dilatoria, soprattutto, finché non venga formulato l disposto dell'art. 48,
allora a quel punto, l'utilità che esso riveste dal punto di vista economico,
si presenta soprattutto in casi in cui vi sia stata una erronea affermazione
della competenza, ma se ne facessimo a meno, tutto sommato, non sarebbe una
tragedia per quel che riguarda il regolamento a stanza di parte necessario o
facoltativo.
La distinzione fra necessario e
facoltativo, parliamo di regolamento facoltativo nell'ipotesi in cui la
sentenza pronunci oltre che sulla competenza, anche sul merito, abbiamo quindi
fondamentalmente in mente, l'ipotesi della sentenza affermativa della competenza
contenente anche pronuncia sul merito della causa, e come è stato
accennato, esiste una disciplina del concorso per l'impugnazione ordinaria
intesa in questo senso dell'appello, ovvero del ricorso ordinario per
Cassazione laddove si tratti di sentenza d'appello che contenga anche pronuncia
sulla competenza da un lato, e dall'altro regolamento di competenza
prevedendosi come regola generale una priorità nel regolamento di
competenza anche in vista della pregiudizialità logica rispetto alle
questioni di merito, con la conseguenza che proposto regolamento e sospeso il
termine per proporre appello, proposto appello resta invece la facoltà
di proporre regolamento con effetto sospensivo della trattazione dell'appello
stesso.
Come accennato, intorno al quesito
della soccombenza nel disposto dell'art. 43, dove si prevede, che la
proposizione per l'impugnazione ordinaria non toglie alle altre parti la
facoltà di proporre regolamento.
Diverso è il discorso che
faremo rispetto al regolamento proposto d'ufficio, che è uno strumento
di grande utilità ed efficienza e va accomnato, in qualche misura,
dal regolamento di istanza di parte nel senso che, è ragionevole
ritenere che laddove si ritenga ammissibile il regolamento di competenza
d'ufficio, e questo non venga proposto, sia congruo offrire alle parti la
possibilità di attivarlo da se stessi, ma in via subordinata, ad ipotesi
in cui sussista un errore del giudice nel non applicare tale disciplina,
disciplina, che, non possa ritenersi esplicitamente abrogata per effetto della
riforma dell'art. 38. L'unificazione di regime della disciplina della
competenza per materia, valore, territorio funzionale, avrebbe equiparato tutte
le incompetenze al regime dell'incompetenza per valore, la quale, a sua volta,
non consente di sollevare, come tale, regolamento di competenza d'ufficio
dovendo, quest'ultimo, proporsi soltanto allorché sussistano dubbi intorno alla
competenza per materia in territorio funzionale nel dettato legislativo,
però la differenza di regime fra competenze per materia e competenze per
valore, rimane viva sotto diversi profili come la modificazione della
competenza per ragioni di connessione, sicché il ragionamento finisce per
essere troppo forzato per avere conseguenze di questo genere, e tutto sommato
queste conseguenze sembrano non essere meritevoli, perché, anzi, il regolamento
d'ufficio merita di trovare applicazione anche in ipotesi ulteriori, rispetto a
quelle previste dalla legge.
Caso contemplato dalla disciplina
positiva, è quello del conflitto negativo virtuale di competenza,che si produce quando il giudice presso il quale si sia avuto riassunzione
della causa a seguito della declinatoria, ritenga a sua volta di essere
incompetente, possa farlo in vista dei limiti di efficacia del giudicato
interno prodotto dalla declaratoria di competenza ai sensi dell'art. 44, che
consente al giudice della riassunzione di dubitare della propria competenza per
materia e territorio funzionale.
Dubitare, non vuol dire autorizzarlo a
dichiararsi a sua volta incompetente! Egli non può pronunciare la nuova
declaratoria di competenza, ma deve promuovere d'ufficio regolamento a
ciocchè sia la Cassazione a sciogliere la questione, ebbene, si ritiene
che il rimedio sia anche applicabile al caso dei conflitti negativi reali
e si ha allorché, ad esempio, il giudice della riassunzione, anziché promuovere
regolamento di competenza d'ufficio, si dichiari a sua volta incompetente.
Sia nell'ipotesi in cui lo faccia
dichiarando la competenza del giudice adito per primo, sia quando lo faccia
dichiarando la competenza di un terzo giudice, sia quel terzo giudice sia il
giudice adito per primo, dinanzi ai quali la causa venga riassunta a seguito
della declaratoria, sono del pari legittimati a promuovere loro regolamento di
competenza d'ufficio, così come, invece, sono le parti a poter proporre
regolamento di competenza nei confronti di questa seconda declinatoria, salvo
se ciò sia ancora vero alla luce di quella giurisprudenza, delle sezioni
unite, che ritiene di suggerire se in questo caso si sia al cospetto, non di
una violazione delle norme sulla competenza, ma di una violazione delle regole
del processo, qui al sentenza stessa, vada impugnata nei modi ordinari, e cioè
tramite appello.
Del pari, si è ritenuto
applicabile, il regolamento di competenza d'ufficio, all'ipotesi di conflitti
positivi di competenza, cioè, nei casi in cui più giudici
contemporaneamente si dichiarassero competenti per la stessa causa.
Questa ipotesi non è
contemplata dal codice nella disciplina di regolamento di competenza d'ufficio,
ed è contemplata dal codice in altra sede, la disciplina applicabile a
questa fattispecie, è infatti quella della litispendenza, ex art. 39,
disciplina che comporterebbe, il giudice successivamente adito, si spoglia
della causa tramite una sentenza dichiarativa della litispendenza, impugnabile
tramite regolamento di competenza, ma in realtà la fattispecie si
riproduce nella prassi nell'ambito dei procedimenti fallimentari, in cui capita
spesso che vengano aperti più procedimenti fallimentari a carico dello
stesso soggetto presso più uffici giudiziari e l'esigenza di coordinare
celermente questo raddoppiamento di giudizi giustifica la facoltà del
giudice di promuovere egli stesso il regolamento di competenza affinché venga
chiarito quale fra gli uffici giudiziari è provvisto del potere di
gestire la procedura fallimentare.
Può ritenersi apprezzabile
l'applicazione della disciplina del regolamento d'ufficio ai casi di conflitti
negativi di competenza che si verifichino in contesti non decisori e nei quali,
pure non si renda applicabile il presupposto previsto dall'art. 45, della
tempestiva riassunzione della causa dinanzi al giudice indicato come
competente, come abbiamo detto, quando accennato al problema del regolamento di
competenza nel contesto della tutela cautelare, non si può applicare
nell'ambito dei procedimenti cautelari la disciplina della riassunzione della
causa presso il giudice indicato competente, ma è comprensibile, in caso
di conflitto negativo, riferito alla competenza cautelare, il giudice possa
ritenersi legittimato a promuoverlo.
Sono apprezzabili, quelle
interpretazioni che consentono di promuovere regolamento, anche quando la prima
declinatoria, sia fondata su ragioni di valore o territorio derogabile.
In prima battuta sembrerebbe non
contemplato dal sistema degli artt. 44 e 45, però, se giungessimo che
quest'ipotesi non fosse contemplata, posto che senza dubbio il giudice della
riassunzione non è vincolato, in tanto e in quanto, la questione possa
conurarsi come questione di competenza per materia o territorio funzionale,
se lo ritenessimo privo del potere di attivare immediatamente il regolamento,
dovremmo ritenere che egli dovrebbe dichiararsi incompetente con sentenza
indicando quale giudice sia competente per materia, e che il regolamento debba
poi essere eventualmente promosso dal giudice dichiarato competente in
quell'occasione, presso il quale la causa venga tempestivamente riassunta.
Posto che, il regime della competenza
per valore, che si applica in via subordinata rispetto a quella per competenza
per materia, perché di regime residuale, è logico concludere che una
declaratoria di incompetenza per valore, implicitamente presuppone che il giudice
riscontri l'assenza di competenza per materia sulla questione, e quindi, anche
quando il giudice rimette la causa solo per ragioni di valore, ha, in
realtà ha pronunciato anche intorno all'ipotesi dell'incompetenza per
materia del giudice stesso, da questo punto di vista, si può rinvenire
un conflitto negativo attorno alla sussistenza di una competenza per materia,
giustificativo della proponibilità del regolamento d'ufficio.
·Rapporti giuridici
sostanziali e cause
A seconda di come s'intenda il limite
oggettivo del giudicato, queste interferenze di rapporti, possono comportare
problemi di contrasti di giudicati, laddove le controversie vengano decise
separatamente, e può darsi, che questo contrasto di giudicati,
dovrà essere represso, e la repressione del contrasto di giudicato ha un
costo, si può ammettere solo in casi estremi.
Un'altra soluzione, è quella di
prevenire il contrasto di giudicati, prevedendo che vi sia una necessaria
successione cronologica fra le decisioni, a ciò che, l'una, debba
conformarsi all'altra o risultare impugnabile.
Anche questa soluzione non è
soddisfacente, perché rallenta la tutela, una possibilità di favorire il
coordinamento dei giudicati consistente nella trattazione cumulativa di
più cause in un unico processo, questo non assicura che le decisioni
siano coerenti, perché, può darsi che il giudice abbia la giornata
storta.
Plausibilmente, l'unicità del
giudice favorisce il coordinamento delle decisioni, inoltre, la trattazione di
più cause in un unico processo, può risultare utile anche per
ragioni di economia, e solo perché, vi siano dei fatti comuni e possa risultato
sensato procedere una volta soltanto all'istruzione probatoria intorno a questi
fatti.
Ovviamente, anche il processo
cumulativo, può avere le sue controindicazioni, perché, a seconda di
quanto siano differenti, ad esempio, le istruzioni probatorie da compiere, con
riferimento alle varie cause, la loro trattazione cumulativa, può
comportare per una di queste un rallentamento della tutela; una delle due, magari,
ha un'istruzione molto semplice, invece l'altra molto complessa ed ecco, che
trattarle insieme rallenta moltissimo i tempi di definizione della prima!
La trattazione cumulativa può
trovare l'ostacolo nell'applicazione della disciplina della competenza. Se per
una causa è competente un giudice e per l'altro un giudice diverso,
può essere un problema trattarle in un unico processo, ed ancora,
l'impossibilità di una trattazione cumulativa può derivare,
anche, da particolarità del rito applicabile.
Per esempio, fino al '90, si riteneva
che non si potesse trattare in unico processo causa soggetta a rito ordinario e
causa soggetta al rito del lavoro, poiché il secondo era caratterizzato da un
sistema di preclusioni, e dalla presenza di un principio di concentrazione, era
incompatibile con la disciplina applicabile alle cause di rito ordinario,
necessariamente, la causa lavoristica sarebbe stata rallentata dalla
trattazione cumulativa da una causa soggetta a rito ordinario.
Cominciamo a prendere in
considerazione l'ipotesi in cui non si sussistano ne ostacoli, derivanti dalla
competenza, ne ostacoli derivanti dalla diversità del rito applicabile
alla trattazione pura.
Se si presenta il rischio di un
contrasto di giudicati, il processo cumulativo sarà possibile? Certo,
sarà possibile anche se si presentano convenienze economiche, derivanti
dalla comunanza di fatti. E se non si presentano affatto? Se le due cause non
hanno a che vedere l'una con l'altra, si potranno trattare in un unico
processo? Potrebbero, per esempio, avere in comune gli elementi soggettivi,
anziché l'oggetto, per esempio, avere le stesse parti, cause tra le stesse
parti possono trattarsi in un unico processo, anche se non hanno a che vedere
l'una con l'altra? Se è l'attore a volere cumulare due sue domande in
uno stesso processo, due domande che no c'entrano niente l'una con l'altra,
l'attore non è furbo, perché perderà del tempo! Ma è un
problema suo, è lui che lo sceglie! Ma, nell'ipotesi in cui, invece, vi sia
una domanda principale dell'attore, e una domanda riconvenzionale del convenuto
contro l'attore, perché dobbiamo prendere in considerazione che il convenuto
propone la domanda ricononale proprio per perdere tempo? Per perdere tempo
in pregiudizio dell'attore, e allora, più domande contro la stessa parte
possono cumularsi nello stesso processo, anche se, sono minimamente connesse
l'una con l'altra, ma la domanda riconvenzionale, invece, è ammissibile
solo se un certo grado di connessione sussiste.
Il convenuto non può cumulare
nello stesso processo una domanda contro l'attore, le parti sono le stesse, ma
che a domanda riconvenzionale i ruoli sono invertiti, se questa non c'entra
niente con la principale.
Ciò non vuol dire che sia
necessaria, invece, una cosiddetta connessione propria, come sembrerebbe
doversi evincere dal disposto dell'art. 36, fatta la domanda riconvenzionale,
nella parte in cui consente la proposizione di riconvenzionale fondata sul
titolo, sull'oggetto del pregiudizioin
via di azione e in via d'eccezione, perché questi, sono i presupposti di
ammissibilità della riconvenzionale, per la quale, sia competente un
giudice diverso, cioè un presupposto per la modificazione della
competenza per ragioni di connessione, ma per giurisprudenza consolidata, se il
giudiceè originariamente
competente per entrambe le domande, il nesso di connessione sufficiente a
legittimare la proposizione della domanda riconvenzionale, può essere
anche molto più labile, può consistere nella cosiddetta connessione
impropria, può essere soddisfatto dalla consistenza di un
collegamento oggettivo fra le due domande, realizzantesi attraverso la mera
comunanza di questioni di fatto e di diritto. Restato salvo il potere
discrezionale del giudice, di separare i due procedimenti, nell'ipotesi in cui
effettivamente ed in concreto, riscontri che la loro trattazione cumulativa,
ritarda eccessivamente la definizione di una delle due cause cumulate,
cioè, laddove ravvisi nella riconvenzionale la domanda a contenuto dilatorio.
Questa distinzione tra connessioni
proprie e connessioni improprie fa capo a quanto si ritiene nella disciplina
del litisconsorzio facoltativo, di cui all'art. 103.
Infatti, la legge dispone, che
più soggetti possono agire o essere convenuti nello stesso processo,
anche quando sussista una connessione per mera entità di questioni di
fatto o di diritto, ai sensi del comma secondo dell'art. 103, ancorché, debba
osservarsi, che ai sensi dell'art. 33, la possibilità di realizzare il
litisconsorzio facoltativo, in deroga alla disciplina della competenza per
ragioni di connessione, è data soltanto nelle ipotesi in cui esista una
connessione propria, cioè solo nell'ipotesi di comunanza del titolo e
dell'oggetto è possibile convenire più persone nello stesso
processo, anche quando per alcuna di quelle domande sia competente per
territorio il giudice diverso, in questo caso le cause si concentrano dinanzi
ad uno dei convenuti foro generale, foro della residenza di uno dei convenuti.
Ma, se tra i giudizi esiste soltanto
un nesso di connessione impropria, allora le regole di competenza non possono
essere modificate per ragioni di connessione, e il ricorso facoltativo,
può realizzarsi se il giudice originariamente è competente per
entrambe le domande.
È chiaro che se, io posso
convenire più soggetti, in uno stesso processo, sulla base di una
connessione impropria, purché non si modifichi la competenza, allora è
ragionevole, che sulla base della connessione impropria, anche se la legge non
lo dice esplicitamente, sia pure ammissibile la domanda riconvenzionale, che
dal punto di vista delle sue potenzialità dilatorie non differisce
dall'ipotesi in cui, per esempio, il discorso opzione venga realizzato,
attraverso la chiamata di più soggetti in uno stesso giudizio.
La deroga alla competenza per ragioni
di connessione, ha uno spazio applicativo molto più vasto da quello
della derogabilità della competenza attraverso accordi delle parti.
Per ragioni di connessioni, può
essere modificato anche il riparto verticale della competenza, e invece non
può essere modificato per accordo delle parti.
Rilevano, qui, gli artt. 31 e segg., i
quali, costituiscono un altro gruppo di norme di cui si può discutere,
se il contenuto precettivo possa ritenersi, o meno, in parte modificato per
effettodella modifica delle norme
collegate, e in particolare, sia della modifica dell'art. 38, sia della
modifica della disciplina posta dall'art. 40.
Nel sistema originario del codice,
sinteticamente potremmo dire che, il riparto verticale della competenza risulta
modificabile verso l'alto, nel senso che, nell'ipotesi di connessione tra cause
spettanti a giudici diversi per grado, il cumulo sui realizzerà davanti
al giudice superiore o sopra ordinato, salve alcune ipotesi particolari
arrivando, oggi, alla generalizzazione di questa regola per la preferenza per
la competenza del giudice superiore, sia ammessa la competenza per valore ma
non la competenza per materia.
Secondo alcuni, la modifica dell'art.
38 ad equiparazione del regime di competenza per materia al regime di
competenza per valore, avrebbe giustificato, la possibilità di
concentrare le cause connesse al giudice subordinato, anche in deroga alle competenze
per materia; quindi il giudice di pace competente per materia per la causa "B",
tribunale competente per la causa "A", si poteva concentrare tutto avanti al
tribunale, però raggiungere questa conclusione sulla mera base della
modifica del contenuto dell'art. 38, costituiva una forzatura per le stesse
ragioni che abbiamo già esaminato riscontrando come da tale novellazione
non potesse evincersi l'abrogazione del meccanismo del regolamento di
competenza d'ufficio.
Qui, sono derogabili le conseguenze
per materia per ragioni di connessione, o no? Oggi, sì! ma non per
effetto della novellazione dell'art. 38, bensì', per effetto, della
combinazione di quanto previsto nell'art. 40 e di quanto derivante dalla
soppressione delle preture, perché, abbiamo accennato che il legislatore, ha
caratterizzato le competenze dei giudici di pace come competenze
particolarmente fragili, nel senso che ha previsto nell'art. 40, che la
competenza per materia del giudice di pace sia derogabile per connessionein favore del tribunale, e che quindi,
pendenze di cause connesse, pendenti o proponibili innanzi al tribunale del
giudice di pace, nell'ipotesi in cui vengano proposte dinanzi ai giudici
originariamente competenti, doverosa concentrazione presso il tribunale di tali
cause, con riferimento alle competenze per materia del giudice di pace.
Resta salva la inderogabilità
della competenza per materia delle preture, ma a seguito della soppressione
delle preture e quindi della limitazione a due dei giudici civili ordinari di
primo grado, si può arrivare alla conclusione che la competenza per
materia sia sempre derogabile per connessione.
Nella prassi applicativa, si riscontra
ancora, secondo la giurisprudenza della Cassazione, almeno un'ipotesi in cui
non è possibile la concentrazione presso il tribunale delle cause
connesse, non soltanto con riferimento all'ipotesi di cui sulle cause
sussistano regole di competenza territoriali incompatibili, cioè, quando
si formi un problema di modifica del riparto orizzontale della competenza , in
deroga a norme di competenza funzionale.
Ma anche, con riferimento di ipotesi
di riparto verticale, e ciò, con riguardo al caso in cui il giudice di
pace sia stato inizialmente adito tramite un procedimento ingiuntivo, perché il
meccanismo del procedimento ingiuntivo prevede che l'attore possa conseguire il
titolo esecutivo ancor prima dell'evocazione in contraddittorio del convenuto,
questa avviene attraverso la notificazione già del provvedimento che il
convenuto ha un termine per impugnare attraverso opposizione davanti allo
stesso giudice, opposizione che a sua volta da luogo alla trattazione della
cusa secondo le norme generali del diritto ordinario a cognizione piena.
Se il provvedimento non viene
impugnato, esso acquisisce una stabilità di cui si conuri come
stabilità del vero e proprio giudicato ovvero mera preclusione del
giudicato dal contenuto oggettivo più ridotto.
Consideriamo il caso in cui il
debitore proponga opposizione e nel proporre opposizione, proponga anche
domanda riconvenzionale, in ipotesi il convenuto per il amento di 100 lire,
propone una domanda riconvenzionale per un miliardo, ovviamente, eccependo la
compensazione delle 100 lire, però, per la domanda riconvenzionale di un
miliardo è competente il tribunale.
Il giudice di pace, investito
dell'opposizione e contestualmente di proposizione di domanda riconvenzionale
rimette l'intera causa dinanzi al tribunale in applicazione del combinato
disposto degli artt. 36, 34 e 40? Secondo la giurisprudenza, no! Perché, il
giudizio di opposizione ha un carattere, sia pure in senso lato, impugnatorio,
e quindi, la competenza per tale giudizio ha un carattere funzionale legato al
sistema dei gradi di impugnazione del provvedimento, pertanto, il riesame della
legittimità originaria dell'emanazione del decreto, dei presupposti di
emanazione del decreto ingiuntivo dev'essere riservato al giudice cui spetta
conoscere di questa forma d'impugnazione, e di tale riesame, il giudice adito
con l'opposizione non potrebbe spogliarsi, con la conseguenza che, in questa
ipotesi, il giudice di pace dovrebbe rimettere al giudice superiore soltanto la
causa introdotta con la domanda riconvenzionale e trattenere dinanzi a se, la
causa riferita all'opposizione, al decreto ingiuntivo a suo tempo emanato.
Finora, abbiamo preso in
considerazione ipotesi in cui le parti volevano una trattazione cumulativa
delle cause connesse, vogliono concentrare più cause in uno stesso
processo, ma se scelgono di proporre queste cause di coltivarle separatamente,
si può giungere alla concentrazione di queste stesse cause in un unico
processo anche se loro non vogliono? La riunione di cause connesse, sia pure
separatamente proposte dalle parti, può essere disposta anche d'ufficio
dal giudice ai sensi dell'art. 40, purché si tratti di connessione propria,
laddove le cause sono proposte dinanzi ad uffici giudiziari diversi, il
giudice, anche d'ufficio, può ordinare la riunione, ma c'è una
preclusione, la questione di connessione dev'essere rilavata entro la prima
udienza, e inoltre, la riunione è disposta, in tanto in quanto, la
trattazione risulti economica, cioè rappresenti uno strumento per
differire la pronuncia su alcuna delle domande connesse.
Se queste cause connesse, pendono
l'una davanti al tribunale e l'altra davanti al giudice di pace, la
concentrazione presso il tribunale risulta doverosa, ai sensi dell'art. 40, e
per qualcuno, potrebbe risultare doverosa anche laddove sia già
trascorsa la prima udienza di trattazione, persino quando, ma è da
respingere, la trattazione cumulativa possa ritardare la definizione di una
delle cause, tutt'al più può risultare sensato consentire la
riunione anche oltre la prima udienza.
Tuttavia, l'esame della giurisprudenza
ci consente di scoprire che nelle ipotesi di connessione, tra cause pendenti
presso giudici diversi, molto spesso la giurisprudenza non applica la
disciplina della connessione, ma ne applica un'altra, applica la disciplina
della continenza.
Il riferimento è all'art. 39,
che contiene, rispettivamente la disciplina dell'ipotesi di litispendenze
e di continenze di cause.
Parliamo di vera e propria litispendenza,
quando, la stessa causa, fra le stesse parti, pende più volte dinanzi a
giudici diversi, e si possono adottare varie soluzioni, il legislatore ha
adottato una soluzione seccamente sanzionatoria, in un'iniziativa che "puzza di
bruciato", come quella di riproporre la stessa domanda dinanzi ad altro
giudice, soprattutto quando, ciò accade nella forma della proposizione
della domanda di accertamento negativo da parte del convenuto, sicché la stessa
causa pende tra le stesse parti, ma a posizioni invertite e qui, è
chiaro che si sente "puzza di bruciato". Cosa sta tentando di fare quella parte
che ripropone quella stessa domanda dinanzi ad altro giudice? Quale obiettivo
si propone?
È seccamente sanzionatoria,
perché, l'ufficio, in ogni stato e grado del processo, il giudice con sentenza
dichiara la litispendenza, del tutto a prescindere da qualsiasi valutazione su
quale giudice sia competente per quella causa, disponendone la cancellazione
dal ruolo.
Fuorviante, quindi, da questo punto di
vista, è quanto si legge in alcuni manuali, secondo cui la disciplina
della litispendenza indica la competenza del giudice preventivamente adito,
attenzione!, il giudice preventivamente adito non è competente solo
perché la domanda è proposta dinanzi ad altro giudice.
La questione della competenza del
giudice preventivamente adito rimane completamente aperta, può ben darsi
che il giudice preventivamente adito, successivamente si dichiari incompetente,
laddove in effetti lo sia.
Il giudice successivamente adito
è incompetente in senso dinamico per l'effetto dell'essere stato
prevenuto, cioè in forza della pendenza della stessa causa presso altro
giudice, il giudice successivamente adito, che sarebbe stato competente se non
vi fosse già pendenza della cusa presso altro ufficio giudiziario,
è incompetente in senso dinamico, cioè incompetente per effetto
della pendenza della lite presso altra sede.
Il comma secondo dell'art. 39 prende
in considerazione un'ipotesi similare, in cui, vi sia quella che alcuni hanno
definito come litispendenza parziale.
Si dice che due cause sono in rapporto
di continenza quando l'una è contenuta nell'altra, intendendosi
tradizionalmente, nel disegno del legislatore del '42, l'ipotesi in cui vi sia
coincidenza delle parti, coincidenza del titolo della domanda della cosiddetta causa
petendi in variazione quantitativa del petitum, ovvero sia, quello
in cui venga chiesto in giudizio una rata dell'obbligazione, e in altro
giudizio l'intera obbligazione.
Per quest'ipotesi, la legge prevede
che il giudice successivamente adito rimetta la causa, previa declaratoria con
sentenza della continenza impugnabile tramite regolamento, al giudice
preventivamente adito, purché questi sia competente per entrambe le domande,
qui c'è una verifica, una delibazione della competenza del diverso
giudice preventivamente adito, in mancanza, cause legate dal rapporto di
continenza possono eventualmente essere concentrate dinanzi al giudice
successivamente adito, dove questi sia competente, e naturalmente nonpotrà aversi alcuna riunione, laddove
entrambi siano funzionalmente incompetenti per la causa proposta dinanzi
all'altro, in questo caso non possiamo avere concentrazione da nessuna parte,
in particolare ci riferiamo alle competenze territoriali derogabili.
Ma la giurisprudenza, applica questa
disciplina ad una varietà di ipotesi molto più ampie, rispetto a
quelle immaginate dal legislatore del '42, e quindi, la applica anche ai casi
in cui vi sia continenza di causa petendi, variazione di causa
petendi, di comunanza parziale del titolo, è l'applica persino alle
ipotesi che si definiscono di pregiudizialità reciproca fra domande
contrapposte, tipicamente domande contrapposte di risarcimento danni da
inadempimento riferito ad una stessa vicenda contrattuale, queste, certamente
non sono le ipotesi a cui aveva pensato il legislatore del '42 trattando della
continenza.
Perché la giurisprudenza fa
così? Perché applica in modo correttivo questa disciplina? Applica la disciplina
della continenza in ipotesi che rientrerebbero nella disciplina della
connessione! Quale obiettivo si prege la giurisprudenza? Fondamentalmente,
l'obiettivo è quello di favorire la trattazione cumulativa e la
concentrazione di più cause in un unico processo, il cosiddetto simultaneus
processus, perché la continenza è rilevabile d'ufficio in ogni stato
e grado del giudizio, e quindi la riunione può essere disposta anche se
è già trascorsa la prima udienza, perciò in tutte queste
ipotesi, che sono ipotesi di connessione intensa, che in caso di separazione
dei giudizi vedrebbero aumentare il rischio di sfociare in decisioni
contrastanti, il cui contrasto si dovrebbe reprimere attraverso ulteriori
procedimenti. Di tute queste ipotesi si ritiene molto importante rendere
possibile, in ogni modo, la trattazione cumulativa, quindi si forza il dettato
legislativo intendendo in modo estensivo l'adozione di continenza in modo da
poter disporre la riunione anche quando sarebbe scattata la preclusione al
potere di disporre la riunione per mera connessione.
Una riunione di connessione che
avverrebbe in modo analogo, perché i criteri sono simili, anche nell'ipotesi di
riunione per connessione, in linea di massima si verifica quale sia il giudice
preventivamente adito, la riunione avviene davanti al giudice della causa
principale e soltanto in quella particolare ipotesi di connessione che è
data dall'accessorietà.
Abbiamo accessorietà,
quando sussiste una domanda principale e rispetto alla domanda principale altra
domanda può essere accolta soltanto nell'ipotesi di accoglimento della
domanda principale e si qualifica come accessoria quella che possiede, si dice,
un contenuto economico meno rilevante, tipici esempi di domanda accessoria sono
domande per gli interessi, per i frutti e così via, rispetto alla
domanda riferita al capitale, in queste ipotesi la riunione deve avvenire
presso il giudice della causa principale, altrimenti vale ancora la regola
della prevenzione, e quindi i criteri di individuazione del giudice presso il
quale concentrare i due giudizi è largamente analogo, ciò che
cambia, appunto, è la possibilità di eludere la preclusione della
prima udienza.
Però, dobbiamo anche tener
conto dell'eventualità che tutta questa disciplina sia utilizzata con
finalità abusive! Così come possiamo immaginare un'utilizzazione
abusiva della facoltà di proporre domanda riconvenzionale.
Il rischio che la riconvenzionale sia
proposta con finalità abusive, è un po' ridotto dalla circostanza
che questa debba presentare un certo grado di connessione, ma naturalmente non
del tutto eliminata, può essere benissimo che la domanda riconvenzionale
sia totalmente pretestuosa, ancorché connessa per l'oggetto.
Possiamo immaginare anche il rischio
che sia rimasta ad attività abusive anche la proposizione di una domanda
connessa, perché, abbiamo il problema delle preclusioni a delle deduzioni
istruttorie, anche di quelle fattuali, ma è interessante e quello delle
deduzioni istruttorie.
Sono incorso nella decadenza nella
deduzione di un mezzo di prova, che però è riferito ad un fatto
qualificabile come fatto rilevante ai fini della proposizione di una domanda
connessa? Se io posso proporre questa domanda separatamente e conseguirne la
riunione al procedimento avviato con la domanda principale, posso fare in modo
di fare rientrare dalla finestra quello che era rimasto chiuso fuori dalla
porta? E per far questo, sembrerebbe non essere necessario neppure ricorrere
all'artifizio di proporre domanda connessa dinanzi ad altro giudice, perché,
finora abbiamo ragionato intorno al problema della riunione di cause proposte
presso giudici diversi, ma se queste cause connesse vengono proposte dinanzi
allo stesso giudice, si applica una disciplina diversa?
Qui vanno richiamati gli artt. 273 e
274, che ci forniscono un problema soprattutto perché, non è tanto la
disciplina della riunione per connessione, che è ovvio che sia possibile
far cause proposte davanti allo stesso giudice, a destare preoccupazione,
quanto la disciplina della litispendenza fra cause proposte dinanzi allo stesso
giudice.
Perché, diversamente da quanto avviene
nell'ipotesi di proposizione davanti a giudici diversi, l'art. 273 prescrive
che anche cause identiche, proposte davanti a giudici diversi vengano riunite,
in ordine alla seconda causa, non si ha una sentenza declaratoria della
litispendenza come la cancellazione la cancellazione dal ruolo, parrebbe quindi
che le risultanze dell'attività compiuta per effetto della nuova
proposizione della stessa causa innanzi allo stesso giudice, possano, pertanto,
essere tranquillamente introdotte nel procedimento avviato con la prima
proposizione della domanda e a quel punto, sembrerebbe allora, che il sistema
della preclusioni sia solo li per ridere, perché io ripropongo la domanda
deducendo tempestivamente le mie prove e poi chiedo la riunione del
procedimento con quello instaurato attraverso la prima proposizione della
domanda.
In effetti, qui, il dato normativo
è carente, perché sul piano tecnico della stretta interpretazione del
dettato letterale delle norme, questo rimedio risulta possibile, e allora non
avremo nemmeno più il bisogno di inventarci una domanda connessa,
basterebbe riproporre la stessa, tutt'al più, se siamo i convenuti nella
forma della domanda di accertamento negativo.
Si capisce, pertanto, come si
giustifichino prassi giurisprudenziali che sono non del tutto rispettose di
questo dettato e in particolare prevedono che si abbia luogo la riunione, ma
con stralcio delle deduzioni che risulterebbero già precluse per effetto
dello svolgimento del procedimento relativo alla domanda inizialmente proposta,
e anche in questo senso si debba ragionare allorché si applichi estensivamente
la disciplina della continenza, cioè occorrerebbe tenere d'occhio che
non finisca per realizzarsi, attraverso questo strumento, un'elusione della
disciplina delle preclusioni.
Questo, renderebbe così inutile
l'interpretazione che qualcuno ha prospettato, secondo cui dovrebbe applicarsi
al disciplina della continenza e non quella della litispendenza, quando le
cause proposte presso giudici diversi, abbiano si in comune le parti, l'oggetto
e il titolo, ma differiscano sotto il profilo delle deduzioni istruttorie.
Qualcuno ha proposto di applicare la
disciplina della continenza in queste ipotesi, è chiaro che lo scopo
è quello di consentire l'elusione delle preclusioni, lo scopo di queste
interpretazioni, cioè fare in modo, appunto, che si renda applicabile la
regola per cui il giudice successivamente adito pronuncia sentenza dichiarativa
della continenza e rimette la causa dinanzi al giudice preventivamente adito,
anziché limitarsi a disporre la cancellazione dal suo ruolo, applicando,
quindi, l'art. 39 comma 1°, anziché comma 2°.
Se noi giungiamo alla conclusione, in
via generale la riunione di cause connesse debba avvenire senza pregiudicare la
formazione delle preclusioni nella causa preventivamente proposta, allora non
ci darà più fastidio immaginare che una variazione delle
preclusioni istruttorie possa determinare l'applicabilità della
disciplina della continenza invece che quella della litispendenza, perché,
comunque, questo materiale probatorio in più non si riuscirebbe a farlo
rientrare dalla finestra attraverso la riunione con la prima causa.
·Diversità dei riti
In particolare la previsione di un
rito speciale per le controversie di lavoro caratterizzato da numerosi aspetti
acceleratori, è stata fin dall'introduzione di questo rito speciale
negli anni '70, oggetto di molti dubbi di legittimità costituzionale,
sicché si è formata una vasta giurisprudenza sull'argomento, è
questa giurisprudenza ha finito per riconoscere che la previsione di una
"corsia preferenziale" sulle controversie di lavoro, si doveva considerarla
come costituzionalmente doveroso, in vista, in particolare, di quanto poteva
emergere dall'art. 36, diritto a uno stipendio per una vita dignitosa
In epoche successive il modello del
rito speciale del lavoro, è stato esteso anche, con alcune varianti, ad
altri settori del contenzioso, ciò per cui, in particolare, sulla
valutazione di una sua maggiore efficienza, però, con riferimento a
queste ulteriori ipotesi di applicabilità del modello del diritto del
lavoro, pensiamo al contenzioso in materia di locazione, si è anche
formato l'opinione che previsioni di misure acceleratorie, fosse
costituzionalmente ammissibile, ma non più costituzionalmente doverosa,
inoltre, la circostanza che non fosse possibile la trattazione cumulativa di
cause soggette a riti diversi, e che nel contempo, nell'ipotesi in cui
ricorressero, fra le cause, rapporti di pregiudizialità, si dovesse
applicare, laddove non fosse possibile la trattazione cumulativa, la regola
della necessaria sospensione per pregiudizialità della causa
pregiudicata, che doveva essere sospesa sino alla formazione del giudicato
sulla pronuncia relativa alla causa pregiudiziale, comportava che rispetto alle
cause pregiudicate si avessero paurosi rallentamenti di tutela.
Si pensò, quindi, che si
dovesse trovare una qualche soluzione e che la risoluzione dovesse consistere
nella previsione della codificabilità del rito per ragioni di
connessione, ciò che, potesse trattare in un unico processo più
cause soggette a riti diversi , si doveva anche prevedere un criterio
dell'individuazione di quale rito applicarsi ad entrambe, sicché si è
modificato l'art. 40, prevedendo che nelle ipotesi di connessione propria, le
cause potessero essere cumulate in unico processo e trattate tutte, con quale
rito però?
È un sistema abbastanza
articolato, perché muovendo dalla premessa che il rito ordinario debba essere
il rito generale e che il rito speciale sia costituzionalmente doveroso in
alcune occasioni, il legislatore ha previsto che si applichi il rito ordinario
allorché almeno una delle cause sia soggetta a rito ordinario, salva
l'applicazione del rito speciale del lavoro laddove almeno una delle cause sia
propriamente di lavoro, cioè causa per la quale sia costituzionalmente
doveroso prevedere un rito speciale accelerato.
Quindi, cause connesse: se almeno una
di queste è di lavoro, si applica il diritto del lavoro, se nessuna di
queste è di lavoro, ma almeno una di queste è soggetta a rito
ordinario, si applica il rito ordinario, se entrambe sono soggette a rito
speciale si applica il rito previsto per la causa in ragione della quale si
è determinata la competenza o in subordine quello previsto per la causa
di maggior valore.
Il disposto letterale sembrerebbe
suggerire che nell'ipotesi in cui le cause siano soggette a rito speciale si
applichi il criterio della prevalenza del rito della causa traente, anche,
laddove, una di queste cause soggette a rito speciale sia causa di lavoro, ma
tale conclusione deve essere smentita, la prevalenza del rito del lavoro
rispetto alle cause propriamente di lavoro deve essere assicurata, sia rispetto
al rito speciale applicabile alla causa connessa, sia a forziori, rispetto al
diverso rito speciale applicabile alla causa connessa, quindi la regola della
prevalenza del rito del lavoro, quando almeno una della cause connesse sia causa
di lavoro, vale sia quando la causa connessa è soggetta a rito
ordinario, sia quando al causa connessa sia soggetta a diverso rito speciale.
La regola della conversione del rito,
si applica tanto nelle ipotesi di proposizione cumulativa della cause connesse,
quanto nell'ipotesi di riunione di cause proposte separatamente.
Il criterio facente capo
all'individuazione della causa attraente, quando non si applica? Secondo
alcuni, non vi era bisogno di prevedere in subordine il criterio della causa di
maggior valore, perché, si potrebbe sempre determinare, tra più cause
connesse, quale sia quella attraente, quella in ragione della quale si modifica
la competenza.
Si dice infatti! Se le cause sono
state proposte separatamente è agevole individuare quale abbia attratto
l'altra, in una delle due, evidentemente, c'è stata una rimessione e
causa attraente è l'altra, quella che non è stata rimessa.
Il problema si pone quando le cause
vengano proposte cumulativamente, perché si potrebbe determinare in astratto
quale sarebbe la causa attraente, cioè, quale avrebbe attratto l'altra
se le cause fossero state proposte separatamente, ma questo non è del
tutto vero, perché, se fra le cause vi è un rapporto di
accessorietà possiamo giungere alla conclusione che la causa principale
si qualifichi come causa attraente, perché in caso di proposizione cumulativa
il processo avrebbe dovuto necessariamente concentrarsi innanzi al giudice
adito per la causa principale.
In tutti gli altri casi, il criterio
di individuazione del giudice presso il quale rimettere le cause connesse
è costituito dalla prevenzione, ovvero sia, se abbiamo cause
cumulativamente proposte legate da un nesso di pregiudizialità, è
attraente la pregiudiziale o è attraente la pregiudicata? In astratto
potremmo avere sia concentrazione del giudizio presso il giudice della
pregiudiziale, sia concentrazione del giudizio presso il giudice della
pregiudicata a seconda dei quali immaginiamo possa essere stato preventivamente
adito, dato che abbiamo avuto dei fatti di proposizione cumulativa entrambe le
cause possono immaginarsi come in un mondo alternativo, in un universo
parallelo, proposte separatamente l'una con provenienza dell'altra, quindi in
tutte le ipotesi di proposizione cumulativa delle domande, che non rientrino nella
fattispecie del rapporto di accessorietà, non è possibile
individuare in astratto quale sia la causa attraente, ed è in questo
campo di ipotesi che deve necessariamente applicarsi il criterio del maggior
valore, criterio, che tra l'altro, a volte può presentare qualche
problema, perché la determinazione del valore della causa avviene attraverso
una disciplina, che a volte, impone la conclusione che il valore della causa
sia indeterminabile, e resta scoperta qualche ipotesi in cui potremmo avere dei
problemi dell'individuazione del rito applicabile in astratto. In concreto, no,
perché, dobbiamo intenderci su quale significato dobbiamo attribuire alla
nozione di rito speciale.
In particolare dovremmo discutere se
si parli davvero di riti speciali diversi, rispetto ai quali sia necessario
provvedere alla unificazione attraverso il provvedimento di conversione del
rito, con riferimento a quelle cause alle quali si applichino delle varianti
del rito del lavoro.
Per esempio nelle controversie
locatizie si applicano regole in gran parte mutuate dalla disciplina del rito
del lavoro, ma non completamente, saremmo in presenza, nell'ipotesi di cumulo
di cause di lavoro e di causa locatizia, di diversi riti speciali? La soluzione
preferibile, in realtà, è negativa, nel senso che in
quest'ipotesi abbiamo quelle che sono state definite come versioni "gemmate"
del rito speciale in cui, non vi sono effettivamente ostacoli ad una
trattazione cumulativa nel rispetto delle regole particolari previste per
ciascuna delle due cause, a differenza di quanto accade nell'ipotesi di cumulo
di rito del lavoro e rito ordinario. Qui le differenze sono talmente sottili
che non è necessario arrivare davvero a una conversione, si può
rispettare la regola originaria.
Perciò, quando si vuole immaginare
un rito speciale diverso dal rito del lavoro comprensivo delle sue versioni
"gemmate", riesce difficile individuarlo, un'ipotesi che si può
immaginare è quella di pensare al rito camerale.
Il rito in camera di consiglio
può ritenersi incompatibile sia col rito ordinario, sia con il rito del
lavoro, salvo esserci un problema, normalmente il rito camerale si applica in
situazioni e contesti tali da far si che il provvedimento sia un provvedimento
di volontaria giurisdizione, privo di contenuto decisorio su diritti
soggettivi, inidoneo al giudicato sostanziale, ma se consideriamo che
l'obiettivo di tutta questa disciplina è fondamentalmente ridurre
l'ambito di applicazione della disciplina della sospensione necessaria, e ci
rendiamo conto di come questa disciplina sia diretta, fondamentalmente, a
prevenire contrasti di giudicato, dovremmo anche giungere alla conclusione che
un esigenza del genere non si possa porre nel terreno della volontaria
giurisdizione soggetta al rito camerale, poiché questa non può dare
luogo a provvedimenti che comportino contrasti di giudicato, posto che non si
ha formazione alcuna del giudicato in questo contesto.
Le cose, in realtà non sono
così semplici, perché, come abbiamo visto, vi sono state previste
ipotesi di trattazione con rito camerale di controversia inerente a diritti
soggettivi ed è alquanto discusso quale sia il grado di stabilità
dei provvedimenti resi attraverso questa tecnica, perché è vero
sì, che riscontriamo nel diritto positivo la regola della revocabilità
di tali provvedimenti, però, oltre a porre il problema della salvezza
dei diritti acquisiti daiterzi in buona
fede, si ha anche il problema di individuare se poi questa revocabilità
sia una revocabilità che allude alla fragilità sostanziale delle
statuizioni, ossia alla circostanza che si tratti di situazioni soggettive
caduche facilmente soggette a venir meno per effetto di sopravvenienze, e
quindi con la regola della revocabilità si alluda alla circostanza che
molto facilmente possano prodursi sopravvenienze determinative della
necessità di modificazione delle statuizioni a suo tempo rese, o si
intenda alludere a una revocabilità piena, che consenta anche di
riesaminare gli effetti di quanto già dedotto nel giudizio in cui si formò
il provvedimento di cui si voglia chiedere la revoca, ipotesi che diminuirebbe
di molto il grado di stabilità del provvedimento e che plausibilmente
è l'ipotesi più accreditata, anche quando si tratti di
controversie inerenti a diritti soggettivi.
Per chi ritiene che questa revocabilità
in materia di diritti soggettivi non sia piena, può risultare sensato
immaginare che questa disciplina si applichi all'ipotesi di connessione fra
cause soggette a riti, l'uno del lavoro, o a una sua versione gemmata, l'altra
al rito camerale.
Se si segue l'idea, invece che, i
provvedimenti camerali abbiano questo più alto grado di
instabilità, tale anche da consentire il riesame delle questioni dedotte
precedentemente, o deducibili precedentemente, allora comincia a diventare davvero
dubbio che sia sensato prevedere la conversione del rito, perché qui, ci si
deve porre il dubbio intorno a quanto debba giustificarsi la modificazione del
rito, perché?
Perché nella doverosità
costituzionale della previsione di un rito speciale per alcune categorie di
controversie, debba rientrare anche l'idea che sia doveroso, non soltanto
prevedere un rito celere, ma anche prevedere un rito più celere di
quello ordinario.
Se dobbiamo ritenere, per alcuni
settori del contenzioso una corsia preferenziale, non basta che questa corsia
sia meglio asfaltata della corsia ordinaria, occorre che sia anche una corsia
riservata, cioè che sulla corsia preferenziale non possano passarci
tutti, ma solo i soggetti abilitati, altrimenti il vantaggio viene meno.
Ebbene, abilitare a passare sulla
corsia preferenziale anche altri settori del contenzioso, sulla base di scelte
legislative è un conto, altro conto, è abilitare a passare per la
corsia preferenziale, sulla base sussistenza di un mero rapporto di
connessione, perché la sussistenza di un rapporto di connessione non ci dice
ancora nulla sull'apparenza di fondatezza dell'iniziativa giudiziaria.
La circostanza che una domanda sia
connessa, non ci garantisce che tale domanda sia in realtà pretestuosa e
proposta solo a fini dilatori, e allora, la possibilità di avvalersi
della corsia preferenziale soltanto sulla base di unrapporto di connessione, non si giustifica
come tale, si giustificanell'ipotesi in
cui l'alternativa sarebbe disporne la sospensione necessaria, e se questa
è l'alternativa facciamo gravare sull'attore della causa sospesa un
pregiudizio consistente, lo costringiamo ad aspettare la formazione del
giudicato sulla causa pregiudiziale.
Si può capire che questa
ipotesi, in mancanza di meglio, ci consenta l'accesso alla corsia
preferenziale.
Ma se il rapporto di connessione non
è tale da giustificare la sospensione per pregiudizialità, perché
derogare alle regole statiche di scelta del rito, allora è opportuno,
invece, che si conservi l'applicazione a ciascuna causa del rito per essa
previsto dal legislatore, provvedendosi, nel caso in cui le domande siano state
proposte cumulativamente, alla loro separazione.
Sicché, tutta la disciplina disposta dall'art.
40, deve essere letta in prospettiva costituzionale nel senso che la disciplina
della conversione del rito si applichi solo se l'alternativa alla conversione
del rito sia la sospensione per pregiudizialità di alcuna delle cause
connesse, pertanto, l'ipotesi in cui più cause siano soggette a diversi
riti speciali e si debba perciò, applicare il rito previsto per la causa
attraente o la causa di maggior valore, sembra priva di contenuto applicativo,
perché l'unico rito speciale non compatibile, ne col rito ordinario, ne col
rito del lavoro, sembra essere il rito camerale , che però è un
rito applicabile in materie nelle quali i provvedimenti non sono comunque
provvisti della stabilità del giudicato, e cui , quindi, sembra non doversi
mai conurare l'esigenza di una sospensione necessaria per
pregiudizialità di alcuna delle cause sino al passaggio in giudicato
della decisione sull'altra.
Non sembra, invece, appunto, non
potersi giustificare la conversione del rito esclusivamente allo scopo di
conseguire risparmi nell'istruzione probatoria allorché fra le cause sussista
mere entità di questioni di diritto o anche di rapporti di connessione
propria, ma lontano dal rendere necessario l'utilizzazione dello strumento
della sospensione necessaria per pregiudizialità.
·Teoria delle azioni e sue
condizioni
Punto di partenza in materia è
costituito da un brocardo abbastanza famoso, preso dalle citazioni di Gaio,
secondo cui l'azione altro non è che il diritto di conseguire
attraverso il processo, ciò che è dovuto in base al diritto
sostanziale.
Da questa concezione si fanno
discendere le cosiddette teorie moniste dell'azione, cioè teorie
che tendono, fondamentalmente, a far coincidere il contenuto del diritto di
azione con il contenuto di un diritto sostanziale.
Teoriche che, per un verso, si sono a
lungo ritenute caratteristiche di quei sistemi che prevedono la tipicità
delle azioni, per altro verso, trovano una posizione filosofica alla luce di
teorie realiste del diritto che non concepiscono il diritto sostanziale se non
in quanto realizzato attraverso il processo, ci sono state diverse formulazioni
di queste teorie moniste, in cui il principale alfiere fu il famoso Salvatore
Satta.
Alcuni, in polemica con queste teorie,
sono giunti a sostenere che le concezioni monistiche dell'azione appartengono
ad una cultura totalitaria, ma il discorso sembra forzato, perché, il nesso,
teorie moniste dell'azione e totalitarismo, è tutt'altro che chiaro, il
totalitarismo tende ad imitare la disponibilità delle azioni,
però si tratta comunque di concezioni che possono considerarsi
sostanzialmente minoritarie nel panorama dottrinale, perché a seguito dello
sviluppo dell'ordinamento giudiziario e soprattutto in quei ordinamenti che
sono burocratizzati, hanno finito per affermarsi teorie dell'azione
dualistiche, cioè individuassero nell'azione una situazione di vantaggio
avente un contenuto non esattamente coincidente con quello della situazione
sostanziale cui il diritto di azione stesso assiste.
Di queste concezioni esistono varie
versioni, per introdurle nel modo più semplificato possibile, le
dividiamo con riferimento al contenuto della situazione di vantaggio di volta
in volta individuato.
Una prima teoria che potremmo
definire dell'azione intesa come diritto civico, o
diritto soggettivo pubblico, che si caratterizza per avere come contenuto il
diritto a conseguire un provvedimento giurisdizionale.
Questo è un diritto che
ovviamente prescinde dalla titolarità di un diritto sostanziale,
è un diritto che spetta alla generalità dei consociati,
però è anche un diritto che ha un contenuto misero, è
scritto per ottenere un provvedimento, un provvedimento di qualsiasi contenuto,
non è molto. Questa, sì, è una caratteristica della
concezione totalitaria del diritto, avete diritto a rivolgervi al giudice per
sentirvi rispondere quello gli pare!
Maggiore, è il contenuto
attribuito al diritto d'azione dalle teorie più diffuse in materia,
cioè, rispettivamente dalla teoria dell'azione in senso concreto
e dalla teoria dell'azione in senso astratto.
La teoria dell'azione in senso
concreto, formulata dalla nostra dottrina in modo particolarmente efficace,
soprattutto, dal contenuto di Chiovenda, e nella sua concezione, il diritto di
azione consiste nel diritto a un provvedimento di merito favorevole.
Questa teoria, si ricollega per un
verso, al rapporto tra diritto di azione e diritto sostanziale, il diritto di
azione spetta solo a chi sia titolare di un diritto sostanziale.
In che modo si distingue, però,
dalla teoria monista dell'azione? Se ne distingue, perché, il diritto di azione
si conura come diritto spettante alla generalità dei consociati, ai
fini, anche, della sussistenza in connessione ampia, la sussistenza della
titolarità di una generale azione di accertamento di rapporti giuridici,
cioè, si dice, la sussistenza di un diritto d'azione in capo alla
generalità dei consociati, giustifica la conclusione che si possa
conseguire un provvedimento di merito soltanto in quelle ipotesi in cui sia
espressamente prevista dalla legge l'azione in giudizio, ma anche, ai fini
della possibilità di conseguire un accertamento giurisdizionale del
rapporto giuridico, in tutte le occasioni in cui vi siano contestazioni che
giustifichino quest'intervento della giurisdizione. Ossia, questa teoria
dell'azione, è a monte, nel pensiero di Chiovenda, soprattutto della
teorizzazione della generalità dell'azione di accertamento, quindi della
facoltà di potere sempre, o quasi, chiedere l'accertamento negativo del
diritto vantato da parte avversa.
Inoltre, la teoria di Chiovenda
contempla, anche, in relazione in connessione alla concezione restrittiva del
diritto soggettivo proprie delle teorie giuridiche, la sussistenza di un numero
di mere azioni, nell'ipotesi in cui la parte può essere titolare dell'azione
pur senza essere titolare del diritto soggettivo, così, le azioni
possessorie, nella teorizzazione di Chiovenda, si qualificano come mere azioni,
perché, dal suo punto di vista, sono azioni ma non preordinate alla tutela di
un diritto soggettivo, e persino nella teoria di Chiovenda, sono mere azioni le
azioni cautelari, perché, il procedimento cautelare non comporta un vero e
proprio accertamento della sussistenza del diritto soggettivo, ma solo un
accertamento dell'apparenza dell'esistenza del diritto soggettivo.
Più diffusa, modernamente,
è la cosiddetta teoria astratta dell'azione, la quale individua
come contenuto del diritto d'azione il diritto ad un provvedimento sul merito,
quindi si distingue, tanto dalla teoria dell'azione come diritto civico, per
oggetto il diritto ha un provvedimento, ma senza specificarne il contenuto
quanto alla teoria del diritto d'azione in senso concreto, che è
riferito come un provvedimento di merito favorevole.
La differenza sussiste, che qui si
può dire, con diverso contenuto e con più decisione rispetto a
quanto accade con la teoria dell'azione in senso concreto che il diritto spetta
a tutti, perché, in questo caso il diritto spetta indipendentemente dalla
titolarità di un diritto sostanziale, e questa formulazione della teoria,
è diretta a raggiungere la conclusione che si abbia esercizio
dell'azione anche nell'ipotesi di rigetto della domanda, perché anche in questa
ipotesi, si realizza il diritto a un provvedimento sul merito, benché non si
realizzi il diritto sul provvedimento del merito favorevole.
Questo in relazione all'idea che lo
svolgimento del processo debba implicare l'esercizio dell'azione ai fini del
raggiungimento di un provvedimento sul merito.
La differenza tra queste varie
interpretazioni, ci interessa da molti punti di vista, anzitutto potremmo dire
dal punto di vista della prospettiva costituzionale, perché, nell'art. 24 della
Costituzione, ha recepito il diritto di azione costituzionalizzato, nella parte
in cui l'art. 24 recita che tutti hanno diritto di agire in giudizio a tutela
dei propri interessi legittimi.
Ma quale concezione dell'azione
è stata recepita da questo dettato costituzionale? Quella dell'azione
come diritto civico, quella dell'azione come diritto astratto, dell'azione in
senso concreto? A seconda della conclusione che raggiungiamo, possiamo trarne
implicazioni diverse sotto il profilo della eventuale illegittimità
costituzionale di varie norme del diritto positivo, per esempio, le discipline
che dovessero prevedere versamento di cauzione ai fini dell'ottenimento di un
provvedimento giurisdizionale, o anche come si è visto nella
giurisprudenza più recente, che prevedano come filtro all'accesso alla
giurisdizione condizioni di carattere vessatorio, non solo quindi disposizioni
che prevedano arbitrati obbligatori, quelle disposizioni che condizionino
l'esercizio della giurisdizione all'esperimento di rimedi interni.
Tutte queste disposizioni, potrebbero
considerarsi in contrasto, se non altro per il diritto dell'azione in senso
astratto, ma poi ci sono ulteriori aspetti del diritto positivo, che potrebbero
considerarsi contrastanti, invece con il diritto d'azione in senso concreto,
nella misura che questo implica, sempre nella teorizzazione chiovendiana, che
la parte debba poter conseguire attraverso il processo tutto quello, e proprio
quello cui avrebbe diritto in base alla norma sostanziale.
Da questo punto di vista, quindi,
alcune lacune di tutela che sussistono nel nostro ordinamento, e quella
più visibile è quella che si riferisce alle obbligazioni di fare
e di non fare di carattere infungibile rispetto alle quali ancora mancano
strumenti generali diretti ad assicurare il conseguimento da parte dell'attore
di tutto ciò che è di rito in base alla norma sostanziale, si
ponga un problema di legittimità costituzionale, perché per questa
ipotesi non è possibile avvalersi degli strumenti dell'esecuzione
diretta, l'unico modo per assicurare la realizzazione delle utilità
previste dalla norma sostanziale, può essere quello del ricorso a
strumenti di coercizione indiretta, che prevedono la comminatoria di sanzioni
pecuniarie per ogni giorno di ritardo nell'adempimento dell'obbligazione, o per
ogni giorno di violazione di inottemperanza al provvedimento di condanna a fare
o non fare, sono previste dal diritto positivo, per alcune particolari
fattispecie, ma non sono ancora previste come strumento generale.
Ebbene, la ricostruzione più
plausibile dell'inquadramento costituzionale del diritto d'azione, sembra
essere quella per cui esso è recepito in tutte le sue possibili
accezioni, e quindi, si è inteso come diritto d'azione in senso
astratto, perciò inguisa tale da
rendere ingiustificabili arbitrarie vessatorie in condizionamenti
dell'esercizio della giurisdizione, sia come diritto d'azione in senso concreto
con l'implicazione che si conurino come costituzionalmente illegittime,
anche le lacune della tutela dell'ordinamento positivo presenta ai fini della
realizzazione delle situazioni di vantaggio che abbiano come contenuto prestazioni
di fare o non fare di carattere infungibile.
La differenza tra la concezione
dell'azione in senso astratto e la concezione dell'azione in senso concreto, lo
si possa capire bene attraverso un esame dove cambino le condizioni dell'azione
stessa a seconda di come l'azione si concepisce, un esempio è fornito da
quelle condizione dell'azione che va sotto il nome di legittimazione ad
agire.
Secondo la regola ordinaria
rinvenibile, secondo alcuni dalla lettura al contrario dell'art. 81 del codice
di rito, è quella della coincidenza fra titolarità del diritto
e titolarità dell'azione, e così recita: salvi i casi
previsti dalla legge nessuno può far valere in giudizio in nome proprio
un diritto altrui, con ciò intendendosi che si può
senz'altro, nelle generalità delle ipotesi far valere un diritto altrui
per effetto di un rapporto di rappresentanza.
In generale si è legittimati a
far valere in nome proprio un diritto proprio, la possibilità di far
valere diritti altrui, senza che sussista un rapporto di rappresentanza,
è condizionata dalla presenza di una specifica disposizione di legge che
lo consenta, per cui, immaginando il caso che si fa più di consueto,
quello dell'azione surrogatoria, il creditore può far valere dei diritti
di credito del proprio debitore nei confronti di terzi al fine di conservare la
propria garanzia patrimoniale, perché la legge esplicitamente lo consente, ma
in linea generale, altrimenti non è possibile far valere diritti altrui.
Se intendiamo che il requisito della
legittimazione ordinaria ad agire come condizione dell'azione in senso
concreto, giungiamo a dire che l'azione spetta a colui che sia titolare del
diritto, pertanto la sentenza che nega la sussistenza della legittimazione ad
agire è la sentenza di merito, perché è una sentenza che afferma
che colui che ha fatto valere il diritto non ne è il titolare.
Dal punto di vista dell'azione in
senso astratto, invece la questione della legittimazione ad agire si pone come
una questione di rito, perché ai fini della sussistenza del diritti ad un
provvedimento di merito, ma non più necessariamente di un provvedimento
di merito favorevole, dobbiamo avere provvedimento di merito di rigetto della
domanda, quando l'attore non è titolare del diritto fatto valere, ma un
provvedimento di merito di rigetto della domanda si giustifica soltanto a
condizione che l'attore abbia affermato di essere titolare del diritto fatto
valere.
Da questo punto di vista rileva
esclusivamente la prospettazione attoria della fattispecie, laddove l'attore
stesso prospetti di essere titolare del diritto fatto valere in giudizio, e
naturalmente non si versi in una di quelle situazioni in cui è ammessa
dalla legge la sostituzione processuale, nell'ipotesi in cui l'attore nemmeno
siaffermi titolare del diritto fatto
valere non vi è ragione di provvedere sul merito della domanda,
procedendo ad istruzione probatoria, a raccolta di deposizioni testimoniali
intorno all'apparenza del diritto, perché se è l'attore stesso a dire
che non è il titolare a questo punto la domanda può essere
rigettata in rito, senza procedere ad alcun esame del merito della causa,
sicché, il rigetto della domanda per carenza della legittimazione ad agire
intesa come condizione dell'azione in senso astratto, costituisce una pronuncia
di rito a carico della parte che nemmeno affermi di essere titolare del
diritto, e tuttavia, secondo i sostenitori dell'azione in senso astratto, anche
nell'ipotesi incui la domanda venga
rigettata nel merito, si ha avuto esercizio dell'azione, in quanto la
sussistenza dell'azione è assicurata dalla mera prospettazione attoria,
e quindi, ancorché egli non fosse effettivamente titolare del diritto fatto
valere in giudizio, tuttavia egli era titolare dell'azione astratta, e l'azione
è stata esercitata, e questa conclusione si raggiunge, perché si dice
che in realtà l'azione deve essere vista, non soltanto come situazione
di carattere processuale e a contenuto processuale, ma anche come situazione
che sussiste sin da quando il processo è avviato.
Mentre se concepiamo l'azione come
azione in senso concreto, dell'esistenza dell'azione noi veniamo a sapere solo
alla fine del processo, infatti, nel corso del processo e come situazione
processuale dobbiamo guardare all'azione in senso astratto perché e quella la
cui sussistenza si può verificare nel corso dello sviluppo del processo.
Ci si può porre in dubbio se,
la recezione costituzionale del diritto di azione implichi anche, e in che
misura, la recezione dei principi operanti in tema di azione, in questo senso.
Quando si dice che tutti hanno diritto
di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi, si
vuole con ciò escludere che i propri diritti e interessi legittimi
possono essere fatti valere da altri? Cioè una locuzione costituzionale
che rende inammissibile la sostituzione processuale? Rende inammissibile che il
legislatore preveda, in alcuni casi, che i propri diritti possono essere fatti
valere da qualche altro? Qualcuno lo ha ammesso, ma si dovrebbe immaginare
l'eliminazione dall'ordinamento di tutte le ipotesi che sono vaghe, in cui la
sostituzione processuale è prevista, perché si considerano giustificati.
Sicché, qualcuno ha provato ad
elaborare un situazione di compromesso, cioè ha provato a sostenere, che
in realtà, la norma costituzionalizza la regola della tipicità
dei casi di sostituzione processuale, cioè, si evincerebbe dall'art. 24
della Costituzione, la regola per cui si può far valere diritti altrui
solo nei casi previsti espressamente dalla legge, in nome proprio.
Però, anche questa lettura,
appare forzata, così, a tutt'oggi, deve ritenersi fondata la conclusione
secondo cui la regola della tipicità dei casi di sostituzione
processuale, trova fondamento nel diritto positivo, ma solo esclusivamente
nelle norme codicistiche.
Sarebbe incostituzionale la disciplina
che impedisse alla parte di far valere i propri diritti, ma non sarebbe
incostituzionale, necessariamente, un disciplina che consenta in ipotesi
atipiche di far valere diritti altrui in nome proprio, purché siano assicurate
alcune condizioni di contorno.
Secondo una prima teoria,
un'implicazione costituzionale della regola dell'art. 24 è che, in tutti
i casi in cui sia ammessa la sostituzione processuale sia anche necessario il
litisconsorzio della parte sostituita, come avviene inmateria di azione surrogatoria, il creditore
può far valere i diritti del suo debitore, dovrebbe conservare la
propria garanzia patrimoniale, ma deve evocare in giudizio anche tale debitore
e non soltanto il debitore del debitore, viene diffusa l'opinione secondo la
quale in tutti i casi di sostituzione processuale abbiamo anche litisconsorzio
necessario della parte sostituita.
Tuttavia, nel diritto positivo sembra
esservi ipotesi in cui questo non accada, con gli art. 110 e 111 del codice di
rito, con riferimento alla fattispecie dell'alienazione della res litigiosa,
sia nell'ipotesi in cui il diritto controverso venga trasferito per atto tra
vivi nel corso del giudizio, opera una serie di previsioni, che sono dirette ad
applicare quell'altro principio a suo tempo evocato, cioè quello per cui
la durata del processo non deve tornare a pregiudizio dell'attore che abbia
ragione.
Pertanto, l'art. 111 prevede che se un
terzo acquista la res litigiosa nel corso del processo, la sentenza produca
i sui effetti anche nei confronti di questo terzo, salva l'ipotesi in cui il
diritto del terzo possa prevalere per effetto della disciplina della
trascrizione, per esempio con riferimento ai beni immobili, cioè laddove
il terzo abbia l'accortezza di trascrivere il proprio acquisto prima della
trascrizione della domanda giudiziale, ovvero dalle disposizioni in tema
d'acquisto a non domino dei beni mobili per effetto del possesso di
buona fede, queste fattispecie possono prevalere sull'efficacia della sentenza
nei confronti del terzo acquirente della res litigiosa, in questa
ipotesi, invece, la sentenza produce i suoi effetti nei confronti di questo
terzo.
Ovviamente, la legge tiene conto anche
del diritto al contraddittorio di questo terzo e gli consente di intervenire
nel processo, per difendere in proprio le ragioni che ormai sono diventate sue
con riferimento al bene della vita conteso, e si prevede che col buonsenso
della altre parti possa essere estromesso l'alienante che ormai non ha
più un proprio interesse rispetto alla res litigiosa stessa, ma
sembra proprio che sia nell'ipotesi in cui vi sia stata alienazione della res
litigiosa e il terzo non intervenga, sia nell'ipotesi in cui venga
estromesso l'alienante, si abbia un fenomeno di sostituzione processuale senza
litisconsorzio necessario della parte sostituita, o no! È possibile
negarlo e alcuni lo fanno! Si può negarlo dicendo per esempio, che
finché il terzo acquirente non è intervenuto, nel processo non consta
l'alienazione della res litigiosa, quindi, non viene fatto valere nel
processo un diritto altrui, perché quel diritto nel processo viene fatto valere
ancora come diritto dell'alienante sebbene non sia più suo.
Per converso quando si sia avuta
estromissione dell'alienante ed è stata ritualmente introdotta nel
processo la fattispecie traslativa del diritto, e quindi la parte che viene
estromessa è parte di cui non viene fatto valere diritto alcuno, perché
il diritto che viene fatto valere è del terzo intervenuto, quindi, volendo,
si può anche sostenere che non vi è alcuna forma di sostituzione
processuale ne nell'una ne nell'altra fattispecie, proprio nella misura in cui
sussistano i presupposti per non avere il litisconsorzio necessario delle parti
coinvolte in questa vicenda traslativa.
Però, c'è almeno un caso
in cui, anche arrampicandosi sugli specchi, sembra impossibile negare che si
abbia sostituzione processuale senza litisconsorzio necessario da parte
costituita, ed è quello contemplato dall'art. 108, nella parte in cui si
contempla l'ipotesi, che la parte garantita possa essere estromessa dal
giudizio, quando sia stato evocato in giudizio il garante, sempre col consenso
delle altre parti, qui, è indiscutibile che si facciano valere i diritti
che sono in effetti diritti della parte garantita, senza che si abbia ne un
rapporto di rappresentanza, che in realtà non è conurabile
come conseguenza automatica del rapporto di garanzia, ne litisconsorzio
necessario della parte sostituita, cioè della parte il cui diritto viene
da altri in nome proprio fatto valere, e dato che sembra insensato prospettare
l'illegittimità costituzionale di si fatta disciplina, sembra anche
logico giungere alla conclusione che non sia stata costituzionalizzata nemmeno
la regola della necessarietà del litisconsorzio in tutte le ipotesi in
cui la legge consenta la sostituzione processuale.
Possiamo porci un'altra domanda! Sia
pure concesso che in base all'art. 81 è necessario un'espressa
previsione di legge affinché si conuri una sostituzione processuale, dobbiamo
giungere alla conclusione che occorra una espressa previsione di legge per
avere legittimazione straordinaria? Il passaggio non è automatico,
perché non è detto che tutti i casi di legittimazione straordinaria
debbano anche essere casi di sostituzione processuale.
Abbiamo sostituzione processuale
quando si fa valere il nome proprio in un diritto altrui, abbiamo legittimazionestraordinaria quando non si fa valere un diritto proprio in nome
proprio.
Si può avere legittimazione
straordinaria senza sostituzione processuale? Possiamo immaginare l'ipotesi di
un soggetto che agisca in giudizio senza far valere alcun diritto altrui, e
senza far valer il diritto proprio, può succedere? In effetti succede,
abbiamo senz'altro previsioni del diritto positivo in cui agiamo senza far
valere diritti propri e ne diritti altrui. Ad esempio, si è parlato del
settore delle mere azioni, potremmo dire che nell'azione possessoria non
facciamo valere un diritto proprio ne un diritto altrui. Perché non facciamo
valer un diritto, o potremo dire chiovendianamente, nell'azione cautelare non
chiediamo l'accertamento di un diritto, e soprattutto potremo pensare al caso
del pubblico ministero; in numerose ipotesi il P.M. è titolare
dell'azione, ha la possibilità, egli stesso, di promuovere l'azione
civile, per esempio quella della dichiarazioni di nullità di un marchio,
forse che in questo caso sta facendo valere un diritto proprio? Certamente
no!si dice che agisce per la tutela di un pubblico interesse, ma non fa valere
situazioni soggettive ne sue, ne dello Stato, perché non agisce come
rappresentante dello Stato, ne diritti altrui, perché agisce per l'interesse
pubblico.
Dobbiamo trarre dall'art. 24 una
regola che impedisca al legislatore di prevedere le mere azioni, certamente no,
ma una regola che prescriva che le mere azioni siano atipiche? Sarebbe
incostituzionale una disciplina che permettesse, in via generale, di agire
senza far valere ne diritti propri ne diritti altrui? Possiamo concludere che
certo sia incompatibile con l'art. 24 una disciplina che permetta, in casi
atipici, al di fuori di specifiche previsioni di legge, di far valere diritti
altrui senza litisconsorzio necessario della parte costituita, questo si,
perché si finirebbe per eliminare la disponibilità dell'azione come
riflesso della disponibilità del diritto, e forse ci staremmo avviando
verso il totalitarismo se fosse possibile far valere i diritti altrui a
piacimento.
Altro discorso è quello
dell'agire senza far valere diritti, il terreno è più delicato e
soprattutto riguarda il problema delle situazioni soggettive cosiddette di
portata superindividuale, denominate di volata in volta come interessi diffusi,
come interessi collettivi, come interessi di categoria, situazioni che non si
qualifichino come diritti soggettivi in cui sussista una norma sostanziale che
li qualifichi come meritevoli di protezione giuridica, su cui ci si deve porre
il problema di individuare chi sia la parte legittimata ad agire.
Riprendiamo ciò già
detto in merito all'azione in senso civico e azione in senso astratto, azione
in senso concreto e delle condizioni dell'azione di cui si può
sottolineare la distinzione dai presupposti processuali.
È una situazione risalente, sul
piano teorico, per cui si conurano come presupposti processuali riferibili
al giudice, ovvero alle parti (al giudice quando si fa riferimento alla
competenza, alla giurisdizione; alle parti quando si fa riferimento alla
capacità processuale), la distinzione oggi perde un po' del suo
significato, soprattutto perché, i presupposti processuali si distinguono bene
dalle condizioni dell'azione, quando si muovono alla concezione concreta
dell'azione, quando si parla di azione in senso astratto, che significa che
c'è esercizio dell'azione anche quando la domanda non è fondata cioè,
la più diffusa, sia che la si intenda come situazione di vantaggio verso
lo Stato ovvero verso il convenuto, oppure che la si intenda come situazione
legittimante, o piuttosto come situazione legittimata dalla pendenza del
processo.
Se si segue una concezione astratta di
un'azione a distinguere le condizioni dell'azione e dei presupposti processuali
sul piano teorico, perché, si finisce per accogliere che il regime dei
presupposti processuali forse è più diversificato al suo interno,
di quanto i presupposti processuali stessi siano distinguibili dalla condizione
dell'azione, perché in entrambi i casi, si giunge, in carenza dell'uno o
dell'altro, alla pronuncia di rigetto della domanda in rito e per altro verso,
anche è diverso il regime dell'incompetenza da quello che è il
difetto di giurisdizione, dovendosi qualificare la competenza del giudice come
requisito di validità della sola pronuncia sul merito, alla luce di
quanto disposto dall'art. 50 e dagli effetti conservativi dalla traslatio
iudici, mentre la giurisdizione sembra conurarsi come presupposto di
validità di qualsiasi atto del processo, a meno si giunga ad una riforma
della disciplina della translatio, che consenta di produrre effetti
conservativi anche sulla base di una riassunzione dinanzi ad un giudice
appartenente ad una diversa giurisdizione.
I presupposti processuali, qui, da
risolversi a prescindere dall'esame dei fatti sostanziali che hanno dato
origine alla controversia, mentre le condizioni dell'azione fanno riferimento
ai fatti sostanziali che hanno dato origine alla controversia, se non dal punto
di vista della loro sussistenza, come avverrebbe si affrontasse un'azione in
senso concreto, al meno dal punto di vista della loro prospettazione.
Il Mandrioli, individua come
prospettazione dell'azione, la legittimazione ad agire, l'interesse ad agire e
anche la possibilità giuridica, una concezione astratta dell'azione,
cioè una concezione in base alla quale i fatti determinativi della
sussistenza della legittimazione ad agire, vanno affermati.
La condizione consistente
nell'attività giuridica, però, è soddisfatta dalla
sussistenza di una norma giuridica protettiva della situazione di vantaggio
azionata. Ma questa norma deve esistere! O è sufficiente affermarla?
Affermare o meno l'esistenza di una norma giuridica attributiva dell'azione di
vantaggio invocata sia irrilevante, nel nostro ordinamento è consolidato
il principio iura novit curia per cui, la circostanza che la norma
protettiva dell'azione di vantaggio invocata sussista, circostanza che il
giudice appura d'ufficio e dal tutto a prescindere dall'indicazione della
parte, anzi, nella pratica, è buona prudenza lasciare individuare al
giudice le norme di legge applicabili alla fattispecie, l'importante è
dire ciò che deve essere detto e non più di quanto debba essere
detto.
L'esistenza della norma giuridica, per
un verso non sembra costituire una condizione soddisfabile attraverso la
prospettazione della parte..la norma deve esistere.., per altro verso non
è neppure sufficiente affermare che esista se poi non esiste! La mera
affermazione dell'esistenza di una norma giuridica applicabile alla
fattispecie, di un'affermazione non corrispondente a verità, può
costituire la condizione di una pronuncia sul merito? O, in mancanza di detta
norma si deve raggiungere una pronuncia sul rito? Verrebbe da dire, e il
Mandrioli non è tanto originale, prende le teorie altrui, le rimescola,
la possibilità giuridica è la condizione dell'azione in senso
concreto, in un lato, se manca, il giudice deve pronunciare una sentenza sul
merito, ovviamente non una sentenza sul merito favorevole, sarà una
sentenza sul merito sfavorevole per l'attore, perché l'attore è privo
d'azione in senso concreto, ma non sembra che non abbia diritto a una pronuncia
sul merito di rigetto della domanda.
Perché dovremo qualificarla come una
pronuncia di rito per difetto di una condizione dell'azione in senso astratto?
Come conseguenza della mancanza di un elemento che la parte non aveva l'onere
di indicare e di cui rileva, non l'affermazione, ma la sussistenza?
La ragione per cui si è
arrivati a questo tipo d'inquadramento teorico e questo ha retto così a
lungo, sta in un problema di carattere pratico che è diventato obsoleto.
Il problema di carattere pratico è che ci si rende conto facilmente
quando manca la norma protettiva della situazione di vantaggio azionato, che la
domanda non può che essere rigettata e non può che essere
rigettata in iure per motivi di diritto, quindi la domanda merita di
essere rigettata senza esame del fatto, e ciò è apprezzabile,
soprattutto perché, questo tipo di situazione potrebbe in astratto inquadrata
come un ipotesi di difetto di giurisdizione, come la giurisprudenza ha fatto
nelle prime applicazioni del codice, deducibile tramite regolamento preventivo
e ricevere direttamente dalla Cassazione la pronuncia di rigetto della domanda,
senza bisogno di passare attraverso un normale percorso dei vari gradi di
giudizio.
Ad un certo punto ci si è resi
conto di come, del regolamento di giurisdizione si abusasse, nella pratica, e
la giurisprudenza è tornata sui suoi passi ed ha smesso di considerare
deducibile tramite regolamento preventivo questo tipo di questioni, tuttavia,
continuare a qualificarla come questione di rito continuava ad essere
indispensabile a ciò che, la pronuncia di rigetto della domanda potesse,
se resa dalla Cassazione senza bisogno di rinviare la causa ad un giudice di
merito, affinché costui pronunciasse una sentenza di rigetto della domanda nel
merito.
Questo sistema pratico si è
rilevato obsoleto nel momento in cui a seguito della riforma dell'art. 384, da
parte della l. 353/90, si è allora resa possibile la pronuncia sul
merito da parte della stessa Corte di Cassazione in tutte quelle ipotesi in cui
non occorrano ulteriori accertamenti di fatto, e trattandosi, nell'ipotesi in
cui l'ipotesi possa essere resa senza accertamenti di fatto, ci troviamo
nell'ipotesi in cui la Cassazione si può pronunciare senza rinvio sulla
causa stessa, e non è necessario are il prezzo per ottenere questa
pronuncia senza rinvio della parte della Cassazione, per codificarla come una
questione di rito, cioè, una decisione sul rito inidonea, come tale, a
produrre in pieno gli effetti del giudicato sostanziale, ed oggi, possiamo dire
tranquillamente, che questa è una pronuncia sul merito che la Cassazione
può rendere, e che può produrre tutti gli effetti preclusivi
propri e vincolanti propri delle pronunce di questo tipo.
Altre condizioni dell'azione che
abbiamo già cominciato a parlare, è la legittimazione ad agire,
distinguendo in particolare come essa si presenta a seconda se la si concepisca
come condizione dell'azione in senso concreto o come condizione dell'azione in
senso astratto, abbiamo anche cercato di rinvenire il fondamento normativo
della regola di legittimazione ad agire ed abbiamo discusso il significato
dell'art. 81, nella parte in cui prescrive, che nei soli casi prescritti dalla
legge possa ammettersi la sostituzione processuale, ed abbiamo, anche discusso
in che misura, questa norma può ritenersi costituzionalizzata,
raggiungendo la conclusione, che, in realtà non lo sia,.
È chiaro che quando si ha
titolarità del diritto, deve aversi per regolarità
costituzionale, anche titolarità dell'azione, ma non è detto, chi
debba avere titolarità dell'azione soltanto che sia titolare del
diritto, quando si tratta di far valere diritti altrui, c'è una regola
di diritto positivo che stabilisce la tassatività dei casi di
sostituzione processuale e si può immaginare, che nell'ambito
dell'applicazione di questo istituto si estenda a condizione che, si sia in
presenza di condizioni sostanziali che garantiscano la coincidenza d'interessi
tra titolari del diritto e il titolare dell'azione in coincidenza
all'accoglimento della domanda, che giustifichi l'esercizio dell'azione da
parte di soggetti diversi da coloro che siano titolari dell'esperimento fatto
valere.
In effetto costituzionale, non
è esclusa la possibilità di esercitare l'azione anche senza far
valere dei diritti propri nei diritti altrui. Ma come viene fuori il fatto di
agire in giudizio senza parlare di diritti propri, ne di diritti altrui!
È il caso del P.M. nel processo civile, in alcuni casi previsti
espressamente dalla legge al P.M. è attribuita l'azione civile, ma non
c'è dubbio che il P.M. non faccia valere diritti propri, ne agisca come
rappresentante dello Stato per la tutela dei diritti dello Stato e men che meno
per far valere diritti altrui, agisce, si dice, per una tutela di un interesse
pubblico che non si qualifica come situazione soggettiva di vantaggio
attribuita ad uno specifico soggetto, e quindi, non si qualifica come
attività di tutela di diritti soggettivi, ne propri, ne altrui.
Però, la ura del P.M., non
è l'espressione di un a ideologia pluralista dell'ordinamento, è
la longa manus dell'autorità dello Stato.
Il processo è costoso, e la
parte soccombente è attiva nelle spese processuali, ma in realtà,
le spese ripetibili della parte soccombente sono una porzione modesta, non solo
perché le spese sostenute non sono ripetibili, ma anche perché esistono una
grande quantità di costi che non sono quantificabili, come i costi
psicologici, quindi, il processo, ha comunque un costo vivo, ed è un
costo vivo che conviene affrontare, in quanto, ci si aspetti di ricavarne
più di quanto ci si aspetti.
Ma il costo della stessa causa, il
valoreper le due parti contrapposte non
è lo stesso! Perché, la cosa è evidente se si basi sul precedente
giudiziario, ma anche in ordinamenti come il nostro, in cui formalmente il
precedente giudiziario non è una fonte del diritto, in tutte le ipotesi
in cui si abbia una controversia del tipo seriale, in cui ci sono forti
isomorfismi nei fatti di diritto da risolvere, ancorché, si dica che il
precedente giudiziario ha una funzione prettamente persuasiva, lo stato di
fatto coincidenti, l'efficacia del precedente giudiziario è molto forte.
Di conseguenza, se il soggetto
è parte di un centinaio di cause, se per ciascuna delle sue cause ha un
valore di 1000 lire, per ciascuno dei suoi avversari, parti occasionali, la
causa ha un valore di 1000 lire, ma per la parte abituale la prima causa che va
a sentenza, ha un valore corrispondente a tutte le cause, perché, la prima
decisione, inevitabilmente influenzerà la decisione di tutte le altre,
quindi per la parte abituale il valore della causa è molto superiore,
perché la causa ha un valore strategico, perciò per la parte abituale,
è razionale investire in quella causa una cifra molto superiore da
quella che sarebbe razionale investire per il suo avversario, e questo è
un problema, perché, il processo civile è soggetto ad impulso di parte,
è alimentato dalle parti, e consente in misura molto ampia, se si
è disposti ad affrontare dei costi, ad infliggerli all'avversario,
cioè, la parte che è disposta ad investire strategicamente di
più, può rendere al suo avversario il processo più costoso
di quanto la causa stessa valga per lui, cioè può rendere
economicamente irrazionale la coltivazione del contenzioso sulla base
dell'effetto intimidatorio nella sua maggior propensione alla spesa.
·Teoria delle decisioni
razionali
Applicata la logica della logica
collettiva, la teoria delle decisioni razionali, ci spiega perché, nella gran
parte delle situazioni, il comportamento più razionale è il comportamento
opportunistico, perché, quando occorre proseguire un bene la cui fruizione non
impedisce l'eguale fruizione altrui, un bene comune come l'aria pulita, ed
è necessario affrontare il costo per conseguire questo bene, nella
specie, il provvedimento giurisdizionale di tutela è il bene
dell'interesse collettivo della categoria è il bene comune a cui si
spira, ma per conseguirlo bisogna affrontare il costo del processo.
Il comportamento razionale, è
aspettare che qualche altro affronti i costi del processo, per fruire dei
benefici, e la razionalità del comportamento opportunistico è un
gravissimo ostacolo all'azione collettiva e si può superare in certe
situazioni, quando sussistono situazioni sociali di forte coesione, gli ostacoli
all'azione collettiva vengono superati, ma gli incentivi devono essere congrui,
devono essere incentivi all'esperimento di azioni fondate, quindi, la strategia
del conferimento alla legittimazione alle associazioni di far valere interessi
collettivi funziona male per cui è necessario prendere in considerazione
un percorso alternativo, che è quello dell'azione di classe che si
ispira all'esperienza anglosassone la quale prevede che la legittimazione ad
agire, nell'ipotesi di controversie seriali, è attribuita direttamente
ad un avvocato.
L'avvocato è legittimato ad
essere vero e proprio sostituto processuale facendo valere i diritti di tutti i
componenti della categoria interessata in base alla teoria delle spese, che
prevede che il difensore della classe viene retribuito soltanto se vince,
quindi si ha processo solo se la causa è fondata, perché il costo del
processo lo deve anticipare l'avvocato e se non viene ato, ci rimette di
tasca sua, e quindi bada bene lui ad esercitare solo iniziative che appaiano
fondate.
Questo implica una serie di
correttivi, perché facciamo valere i diritti dei singoli è necessario
che i singoli conservino il potere di disporre, quindi che siano informati
della pendenza della lite, che abbiano la possibilità di rinunciare in
proprio alla tutela del proprio diritto, di agire individualmente, è
necessario correlare un ceto sistema di garanzie, però è un
sistema che assicura un grado di effettività della disciplina positiva
del diritto sostanziale.
·Interesse ad agire
Si qualifica come terza condizione
dell'azione, o seconda se abbandoniamo l'idea possibilità giuridica come
condizione dell'azione in senso astratto.
L'art. 100 ci dice che per proporre
domanda o resistere alla stessa è necessario avere interesse. Il
significato di questa disposizione è molto dibattuto e controverso, cosa
consiste l'interesse ad agire? In prima battuta esso è dato dal
rapporto di utilità corrente fra la lesione affermata e il provvedimento
richiesto. Tuttavia, si capisce meglio se lo enunciamo prendendo le mosse
dal Chiovenda, il quale propugnava la tesi della generalità
dell'azione d'accertamento, cioè il titolare di un'azione soggettiva
di vantaggio avesse sempre diritto ad ottenere dal giudice un provvedimento
idoneo al giudicato che ne dichiarasse l'esistenza e rendesse nel futuro
incontrovertibile la sussistenza di quella situazione soggettiva.
Un tempo si pensava che ciò
fosse possibile soltanto nei casi previsti dalla legge, ma è una teoria
minoritaria.
La conclusione, però, che sia
sempre possibile avere l'accertamento della situazione giuridica soggettiva,
necessitava di un correttivo tale da far dire che il giudice non poteva essere
tirato in ballo soltanto per dare un parere, doveva esserci un interesse
caratterizzato dall'attualità della controversia, cioè si voleva
che la questione posta non fosse meramente accademica, ma che la risoluzione
dell'incertezza fosse necessaria perché sussisteva un vanto altrui sulla
situazione soggettiva vantata dall'attore, una contestazione da parte della
controparte già in sede stragiudiziale della sua titolarità del
diritto; posso chiedere l'accertamento di essere titolare di un certo diritto,
in quanto, ci sia qualcuno che nega che io lo sia.
Posta in questi termini, la questione,
si giungeva tendenzialmente a dire che il criterio dell'interesse ad agire
avesse rilevanza esclusivamente nel campo delle azioni d'accertamento, perché,
quando, invece, il legislatore conferisce il diritto ad una pronuncia di
carattere costitutivo, una pronuncia che costituisca, modifichi, estingua un
rapporto giuridico sostanziale, cioè possibile soltanto nei casi
previsti dalla legge, e quindi in questa espressa previsione legislativa si
richiede una valutazione del legislatore della sussistenza dell'interesse ad
ottenere quella pronuncia.
Ancora, si diceva, nel settore delle
azioni di condanna in cui la parte mira a conseguire un provvedimento che
produca effetti di titolo esecutivo, è chiaro che l'utilità
sussista re ipsa per la particolare efficacia, ulteriore rispetto a
quella d'accertamento dell'efficacia di titolo esecutivo assicurata dal
provvedimento giurisdizionale.
Questa è la dottrina
tradizionale, però circolano posizioni minoritarie che dicono che il
criterio dell'interesse ad agire è privo di autonoma rilevanza e in
realtà i casi che si risolvono facendo ricorso al criterio
dell'interesse ad agire, sono casi ovvi d'infondatezza della domandao di difetto di legittimazione ad agire,
magari sul fronte della legittimazione passiva.
Naturalmente, legittimazione ad agire,
in via ordinaria è in coincidenza alla titolarità del diritto e
alla titolarità dell'azione, ovviamente esiste anche una legittimazione
passiva ad agire in senso astratto o in senso concreto, quest'ultima coincide
con la titolarità passiva dell'obbligazione, mentre la legittimazione
passiva in senso astratto è assicurata in via ordinaria dalla
prospettazione della legittimazione passiva del convenuto, e quindi,
coincidenza tra il soggetto che si conviene in giudizio e il titolare passivo
dell'obbligazione, ovvero l'affermato titolare passivo dell'obbligazione.
Teniamo anche conto, della distinzione
tra legittimazione ad agire e legittimazione processuale e la base è la
capacità di essere parte, e a chi spetta la capacità di essere
parte? A chiunque possieda la capacità giuridica, cioè la
capacità di essere titolare attivo o passivo di rapporti giuridici,
questi è anche capace di essere parte.
Abbiamo poi, un istituto un po'
più complesso che è quello a cui allude l'art. 75 parlando di
capacità processuale, cioè il problema che si pone quando una
parte è capace di essere titolare attiva e passiva di rapporti
giuridici, ma non capace di disporre del diritto in contesa, l'esempio
più ovvio è il minore che sta in giudizio tramite rappresentante
legale, ma le ipotesi di indisponibilità per il diritto in contesa sono
capacità variegate, perché abbiamo il caso del fallito che rispetto ad
alcuni diritti non è capace di disporre, ma rispetto ad altri,
sì!
Poi, l'art. 182 disciplina in maniera
uniforme sia le ipotesi di cui non sia stata integrata la capacità
processuale della parte per il soggetto a regime di rappresentanza legale, sia
l'ipotesi in cui non siano state concesse le autorizzazioni necessarie per le
azioni in giudizio come si prevede per gli enti pubblici, che devono essere
autorizzati da organismi collegiali, quindi le ipotesi di difetti di assistenza
o di autorizzazione e regolata in maniera uniforme dall'art. 182 del c.p.c.,
prevedendo che tutti questi vizi siano sanabili nel corso del processo
attraverso la concezione dell'autorizzazione in corso di causa, con effetti che
si producano dal momento in cui il vizio viene sanato, con efficacia ex tunc,
facendo salva la produzione degli effetti della domanda originata dalla sua
proposizione precedentemente al rilascio dell'autorizzazione.
Questa ragione pratica è quella
che sta dietro alla disciplina della capacità processuale, a seconda
delle impostazioni e delle teorie ci sono vari modi in cui si potrebbe
distinguere il difetto da capacità processuale dal difetto di
legittimazione processuale attribuendo le varie fattispecie all'una o all'altra
rubrica di molti modi, noi ci semplifichiamo la vita, visto che il codice non
distingue, non distinguiamo neanche noi, se non per tenere conto di quell'aspetto,
squisitamente pratico, che è quello l'art. 182, quindi sotto
l'intercambiabile rubrica, capacità processuale - legittimazione
processuale, trattiamo tutti quei casi in cui si ha un problema d'integrazione
della volontà, di manifestazione di volontà in capacità di
disporre del diritto in contesa, e quindi, questi concetti di legittimazione li
teniamo separati, (concetti di legittimazione processuali dai concetti di
legittimazione ad agire).
Ritornando all'interesse ad agire, per
un verso, questa tradizionale concezione è entrata in crisi nella parte
in cui sia rinvenendo l'ipotesi in cui l'iterasse ad agire non svolge un ruolo
selettiva nella tutela dell'accertamento, sia rinvenendo casi in cui
l'interesse ad agire può svolgere un ruolo selettivo nel campo delle
azioni di condanna delle azioni costitutive.
Per quel che riguarda le azioni di
accertamento, il caso più significativo, è quello dell'esperienza
della tutela di accertamento in via d'urgenza, il provvedimento
cautelare è inidoneo per natura a produrre effetti del giudicato, ora,
posto che, l'utilità dell'azione d'accertamento, quando si sia in
presenza di un vanto di una contestazione, consiste appunto nella formazione di
un giudicato, verrebbe naturale dire, che non si può chiedere una tutela
anticipatoria dell'accertamento in via cautelare, perché il provvedimento
cautelare, anticipatorio di tale accertamento, non potrebbe produrre effetti di
giudicato, quindi non potrebbe avere, per la parte, quell'utilità
giuridica che è necessaria a ciò che si giustifichi l'attivazione
del giudice per risolvere il problema giuridico, se il criterio dell'interesse
ad agire svolgesse la sua funzione selettiva impedendo al giudice di rendere
pareri, gli dovrebbe impedire anche di rendere provvedimenti cautelari di
accertamento mero, perché i provvedimenti cautelari di accertamento mero sono
fondamentalmente pareri resi da un giudice in tanto e in quanto il loro
contenuto sia di mero accertamento.
Vediamo cosa fa la giurisprudenza! Ci
sono due tipi di spiegazioni, la prima è che la regola dell'interesse ad
agire è una regola di autodifesa dei giudici, e quando non hanno voglia
di usarla è un problema loro, hanno voglia di dare pareri e li danno,
che male c'è! Sembra che li diano in quel settore del contenzioso in
cui, se le parti dovessero chiedere parere agli avvocati, dovrebbero arli
molto cari, ma in realtà c'è una spiegazione migliore.
Le fattispecie che vengono qualificate
come provvedimenti cautelari di mero accertamento, in realtà, non sono
provvedimenti cautelari di mero accertamento, ma sono provvedimenti cautelari
di condanna, e passano per essere provvedimenti di mero accertamento perché si
muove da una concezione sistematica della tutela di condanna che li collega
alla tutela di condanna stessa ad essere esclusivamente quella realizzata
tramite la formazione di un titolo esecutivo spendibile attraverso le forme di
esecuzione forzata previste dalla legge.
Di fatto, la concezione dell'azione di
condanna è da ritenersi superata e non compatibile con l'art. 24 della
Costituzione, nella misura in cui si ritiene che, nell'art. 24 ricomprenda
anche le implicazioni della concezione chiovendiana dell'azione, cioè,
dell'azione in senso concreto e del diritto ad ottenere tutto quello e proprio
quello che alla parte è dovuto in base al diritto sostanziale, si deve
anche giungere alla conclusione che la tutela debba qualificarsi come tutela di
condanna, in guisa tale da consentire il conseguimento di ciò che
è dovuto in base al diritto sostanziale, anche quando l'obbligazione non
sia passibile di esecuzione per le forme previste esplicitamente dal codice di
procedura. Si allude con ciò, in particolare, all'ipotesi di
obbligazione di fare di carattere infungibile, che sono ipotesi su cui si
è svolto un dibattito enorme in questi ultimi anni, perché la tradizione
ci diceva nemo precisi ad factum cogi potest, l'adempimento di obblighi
di fare prevede un qualche sistema di coercizione, si parla infatti di
esecuzioni indiretta, quindi sono misure coercitive sono quelle che dovrebbero
indurre all'adempimento colui che sia condannato in giudizio all'adempimento di
un obbligo di fare di carattere infungibile.
Ciò non vuol dire che si vada
in prigione, infatti esistono modelli dominanti in Europa, che consistono in
sanzioni pecuniarie, in cui la sanzione pecuniaria ha una funzione
spiccatamente coercitiva, perché si prevede che il debitore debba are una
somma per ogni giorno di ritardo nell'adempimento dell'obbligazione, somma da
arsi al creditore senza bisogno di una prova di quantificazione del danno,
qui non si tratta di danni da inadempimento che quindi richiedono una prova, ma
strettamente di misura coercitive che possono riguardare qualsiasi tipo di
comportamento, salva la possibilità di prevedere sul piano sostanziale
l'incoercibilità, per esempio, di determinate manifestazioni della
personalità, per cui, se noi riteniamo ingiusto costringere chi ha
promesso cantare all'opera o dipingere un quadro, ovviamente al creditore non
interessa che altri al posto suo canti o dipinga, se ripugna la nostra
coscienza che lui sia costretto a dipingere lo diciamo sul piano sostanziale,
ma se sul piano sostanziale queste sono obbligazioni l'art. 24 ci impone di
prevedere degli strumenti affinché queste obbligazioni possano trovare
soddisfacimento se non a prescindere dalla volontà dell'obbligato,
eventualmente coartando la volontà dell'obbligato attraverso il sistema
sanzionatorio.
Sul piano teorico è necessario
affermare che si abbia tutela di condanna anche quando il contenuto del
provvedimento è tale da non potere innescare un procedimento di
esecuzione forzata a prescindere dalla volontà dell'obbligato, quindi
anche quando il provvedimento di condanna è rivolto al futuro e consiste
in un ordine di fare o di non fare per il futuro, cioè anche quando ha
un contenuto inibitorio.
I provvedimenti inibitori, dei quali
il principale è la repressione della condotta antisindacale che è
un ordine dell'astenersi dalla condotta e rimuoverne gli effetti, se
provvedimenti di questo genere sono provvedimenti di condanna è
perfettamente logico che possano resi in via d'urgenza, perché
l'utilitànon è
nell'accertamento, ma in un comando che non si vede, ma c'è, un comando
di astenersi dalla condotta ritenuta illegittima, correlativamente qui non
possiamo più dire che nell'azione di condanna d'interesse ad agire in
re ispa proprio perché il provvedimento deve rivolgersi al futuro, proprio
perché, tra l'altro, questo tipo di tutela in quanto rivolta al futuro deve
poter essere preventiva e potrà essere concessa anche quando la lesione
del diritto sia stata soltanto minacciata, occorrerà che sia stata
almeno minacciata, quindi, qui abbiamo azioni di condanna rispetto alle quali
è ragionevole che operi il filtro dell'interesse ad agire e che valga la
regola per cui il giudice non da pareri e che questi provvedimenti possano
essere resi perché non sono davvero meri pareri.
Invece, altre ipotesi di azione di
condanna dell'interesse ad agire scaturiscono in perplessità, una
è quella dell'ipotesi del frazionamento della domanda: Tizio
creditore di 100, fa valere il suo credito 10 lire alla volta, alcuni di fronte
a questo comportamento abusivo, propongono di risolvere il problema sul piano
dei diritti del giudicato, dicendo: bene! Hai fatto valere 10 lire alla volta,
il tuo credito è diventato di 10 lire e le altre 90 non puoi farle
valere più!
Un'altra possibilità, che
alcuni hanno sostenuto, e quella di affermare l'insussistenza dell'interesse ad
agire, se avendo un credito di 100 si fanno valere solo 10, qui la soluzione
è quella di introdurre un sistema di sanzioni nei confronti dei
comportamenti abusivi, di sanzioni specifiche dell'abuso del processo
qualificando tali fattispecie come abuso del diritto, assoggettarla a sanzioni
senza il bisogno di tirare in ballo ne la disciplina degli effetti del
giudicato, ne la disciplina dell'interesse ad agire.
L'art. 186 ter, che recita la
possibilità di ottenere in corso di causa ordinanza d'ingiunzione, in
quelle ipotesi in cui si potrebbe ottenere decreto ingiuntivo, questa norma
è stata introdotta perché non poteva concedersi provvisoria esecuzione
parziale del decreto ingiuntivo, mentre il decreto ingiunti per un miliardo il
creditore non aveva l'accortezza di rifiutare i amenti parziali e in qualche
modo il debitore riusciva a are 100 lire, a questo punto proponeva un
opposizione al decreto ingiuntivo osservando che il credito non era di un
miliardo ma di 999.999.900 e il giudice non poteva concedere la provvisoria
esecuzione parziale del decreto ingiuntivo opposto, si è risolto il
problema prevedendo che la parte possa chiedere nel corso della causa di merito
a cognizione piena avviata dall'opposizione dell'intimato.
Qualcuno, però ha detto, che
così si arriverebbe ad una duplicazione di titoli esecutivi e che si
dovrebbe affermare l'insussistenza dell'interesse a conseguire un altro titolo
esecutivo, perché in caso di rigetto dell'opposizione si sarebbero avuti
l'ordinanza e decreto ingiuntivo ormai consolidato conviventi. La duplicazione
dei titoli esecutivi è già consentita dalla legge nella stessa
disciplina del decreto ingiuntivo nella parte in cui consente di ottenere il
decreto ingiuntivo in base a cambiale, quindi, già duplica i suoi titoli
esecutivi.
Con riferimento alle azioni
costitutive, è sensato ed utile fare ricorso al criterio
dell'interesse ad agire per risolvere il problema del coordinamento
nell'ipotesi di concorso di azioni dirette ad un unico risultato giuridico,
qui, esiste una tendenza giurisprudenziale di parte della dottrina di risolvere
il problema sotto il profilo degli effetti del giudicato, cioè
nell'ipotesi in cui uno stesso contratto sia impugnato facendo valere il vizio
della volontà e contestualmente per inadempimento puntando ad un effetto
di rimozione con efficacia ex nunc degli effetti del rapporto, si
può più che sostenere che il giudicato su di un'azione produca
effetti preclusivi dell'altra, attraverso la disciplina degli effetti del
giudicato, per quanto visto, che ci inducono a seguire soluzioni che restringano
il più possibile la portata oggettiva del giudicato, a dire che il
coordinamento delle azioni in questo caso si può efficacemente
realizzare attraverso il criterio dell'interesse ad agire, cioè
osservando che con l'accoglimento di una domanda l'esperimento dell'altra
rimane impedito dalla insussistenza dell'interesse ad agire, una volta che il
contratto è stato annullato non sussiste l'interesse ad agire per la sua
risoluzione, una volta che il contratto è stato annullato per errore,
non c'è bisogno di dire che è preclusa dal giudicato
l'impugnativa dello stesso contratto, tanto vale dire che è pregiudicata
dalla ssa dell'interesse ad agire a seguito dell'accoglimento
dell'impugnazione per errore. Escludendosi, quindi, l'ipotesi di rigetto della
domanda di annullamento per errore possa prodursi effetto preclusivo della
proposizione della domanda di annullamento per dolo, come deriverebbe
dall'applicazione della regola del giudicato.
Questo determina un'asimmetria tra
attore e convenuto, nel senso che sembra lasciare aperta la possibilità
di una iniziativa giudiziaria dell'attore di vessare la controparte con
iniziative giudiziarie a catena, ma in realtà questo problema non deve
essere sopravvalutato e si debba evitare che la parte sia indotta, in forza del
principio dell'eventualità come conseguenza dell'ampiezza del diritto
soggettivo del giudicato, a deporre preventivamente sia l'errore che il dolo
allo scopo di vedersi preclusa la possibilità di esperire una nuova
iniziativa dato che la prima risulti infondata qualora ci sia effettivamente
spazio per esperire tale iniziativa.
Tra legittimazione attiva e
legittimazione passiva, si introduce l'art.110 nella quale si deduce un'azione
speculare ad agire da parete del convenuto, in quella parte in cui esiste
l'interesse ad esistere in giudizio della parte, in quanto parte convenuta, non
c'è un rapporto di specularità, perché l'interesse a resistere
alla parte convenuta è in re ipsa, non può mancare,
quindi, parrebbe non esserci qualche cosa di analogo all'interesse ad agire dal
lato del convenuto, in realtà, però, lo si può pescare
fuori, ma non dal disposto dell'art. 100, bensì in quella parte
dell'art. 306dve si prevede che la parte attrice possa rinunciare agli atti
della causa disponendo del processo, quindi, producendo l'estinzione del
giudizio, cioè, definizione della causa di mero rito senza pronuncia sul
merito salva eventuale sopravvivenza agli effetti dell'estinzione delle
sentenze di merito rese nel corso del giudizio, ebbene, la fattispecie estintiva
si perfeziona non soltanto in base ad un atto unilaterale dell'attore, ma
occorre l'accettazione del convenuto che abbia interesse alla prosecuzione
della causa.
Quando si fa riferimento alla
prosecuzione della causa, indispensabile affinché occorra l'accettazione del
convenuto per la fattispecie estintiva del processo, qui, c'è un
riferimento all'interesse che può mancare nel convenuto, si esempio,
dicendo che, non occorre la citazione del convenuto che sia rimasto contumace,
cioè non si sia costituito in giudizio rendendosi potenzialmente parte
attiva nel processo, ma anche si può aggiungere non occorre
l'accettazione di quel convenuto, che abbia sollevato eccezioni di rito
impeditive della pronuncia sul merito della domanda, perché, costui ha
manifestato disinteresse al conseguimento di una pronuncia sul merito, quindi,
in riferimento alla prosecuzione della causa è inteso l'interesse alla
pronuncia sul merito che, alla luce della prospettazione del convenuto
può mancare quando il convenuto conuri la sua situazione soggettiva
nel contesto del processo, come meritevole di una pronuncia assolutoria nel
rito e senza esame del merito della domanda.
·Domanda e principio della
domanda
La domanda va intesa come l'atto
processuale con cui si esercita l'azione, con cui si fa valere il diritto, con
cui si chiede una pronuncia da parte del giudice dichiarativa di un effetto
giuridico attribuito ad un bene della vita. E l'eccezione cos'è?
L'eccezione, dovrebbe essere definita come l'atto processuale con cui il
convenuto chiede al giudice di pronunciare intorno ad un effetto, giuridico
impeditivo dell'accoglimento della domanda, con questa riformulazione possiamo
ricomprendere tanto eccezioni di merito quanto eccezioni di rito.
Così come si può parlare di eccezione
come atto processuale, omologo alla domanda, va anche detto però, nel
linguaggio codicistico, l'indicazione eccezione per far riferimento non
all'atto processuale, ma alla situazione di vantaggio, alla fattispecie
produttiva dell'effetto giuridico eventualmente invocabile dal convenuto ai
fini del conseguimento di una pronuncia di rigetto della domanda, quindi
è in questo senso che adopera la parola eccezione il legislatore,
allorquando distingue tra eccezioni rilevabili d'ufficio e eccezioni rilevabili
ad istanza di parte è chiaro che qui il riferimento è alla
fattispecie sostanziale produttiva dell'effetto giuridico.
Dobbiamo, invece, parlare di
eccezioni in senso improprio, quando il convenuto si proponga d'impedire
l'accoglimento della domanda attoria, meramente contestando i fatti costitutivi
allegati dall'attore, cioè, contestando che si sia perfezionata la
fattispecie produttiva dell'effetto giuridico posta dall'attore alla base della
sua domanda giudiziale, qui, più appropriata è l'espressione "mera
difesa", piuttosto che l'espressione eccezione in senso improprio.
Nell'ambito delle eccezioni in
senso proprio si suole distinguere le eccezioni rilevabili d'ufficio dalle
eccezioni rilevabili ad istanza di parte evocando la terminologia, rispettivamente
di eccezione in senso proprio e lato, e eccezione in senso proprio e stretto.
Questa distinzione serve soprattutto
sul tempo, abbiamo regimi di preclusioni, la cosiddetta mera difesa, la
contestazione dei fatti costitutivi allegati dall'attore può venire meno
in qualsiasi stadio del processo validamente, non esiste alcuna preclusione
all'esercizio di questa attività processuale.
Diverso è il discorso quando si
tratti di eccezioni in senso proprio, qui, il problema è quello
d'individuare i casi in cui vi sia rilevabilità d'ufficio e quelli in
cui vi sia rilevabilità ad istanza di parte, poiché, la sollevazione di
eccezioni rilevabili soltanto ad istanza di parte è soggetto ad un
termine di preclusione molto rigoroso come quando, parlando dell'eccezione di
incompetenza per territorio semplice, la barriera preclusiva scatta in
quell'appendice della prima udienza di izione che può essere
concessa dal giudice al fine di sollevazione di nuove eccezioni, ma non oltre a
nuove eccezioni non rilevabili d'ufficio, mentre l'eccezione rilevabile
d'ufficio risulta sollevabile anche se in ogni stato e grado del procedimento,
e il loro regime è sostanzialmente analogo a quello delle mere difese?
Occorre fare attenzione, perché, qui, si tratta di far valere l'effetto
giuridico prodotto da fatti diversi da quelli allegati dall'attore, quindi si
pone il problema di introdurre tempestivamente nel processo i relativi fatti,
cioè quella tradizionale regola che viene espressa: quod non est in
actis non est de aucun cuntu, il giudice pronuncia soltanto sulla base dei
fatti ritualmente introdotti nel giudizio, ossia, giustificati nell'accuratezza
dell'accertamento dei fatti, nonostante si possa pensare il contrario, è
quella del divieto di scienza privata, cioè il giudice non
può rendere la sua decisione tenendo conto di fatti che abbia appreso al
di fuori dei canali istituzionali, cioè al di fuori degli atti del
processo.
I fatti che non vengano conosciuti dal
giudice attraverso gli atti del processo possono essere presi in considerazione
solo nel caso estremo di cui si tratti di fatti notori, ma i fatti particolari
non conosciuti a tutti non possono essere considerati dal giudice se non
vengono narrati o indicati, esposti e poi provati tramite gli atti del processo.
Esiste un riscontro normativa di questa regola? Il codice lo dice, ma in posto
nascosto che pochi notano, si trova nell'art. 97 delle disposizioni di
attuazione.
Frequente è un equivoco a tale
proposito, cioè l'equivoco tra il vincolo per il giudice a tenere conto
dei soli fatti acquisiti tramite gli atti del processo e il vincolo di tenere
conto solo dei fatti indicati dalle parti, qui non bisogna fare confusione,
perché non tutti gli atti del processo sono compiuti dalle parti, e allora
occorre introdurre un'altra distinzione, la cosiddetta dei fatti principali
e fatti secondari.
Il processo, come è ispirato al
principio dispositive e quindi spetta solo alla parte di decidere se far valere
o meno la propria situazione di vantaggio, di far valere il proprio diritto,
ebbene, in molte occasioni, vedi la disciplina del giudicato, i fatti svolgono
una funzione individuativa del diritto fatto valere, in altre occasioni, no!
Ricordiamoci la distinzione fra diritti autodeterminati e diritti
eterodeterminati che possono sussistere più volte e contemporaneamente
fra le stesse persone (diritti ad una prestazione pecuniaria - posso essere
creditore di Tizio di 100 lire a titolo di mutuo e di altre 100 a titolo di
risarcimento del danno), in altre situazioni, l'individuazione della situazione
soggettiva di vantaggio può essere compiuta esaustivamente attraverso il
riferimento al merito che ne forma oggetto, quando si richiede l'accertamento
del diritto di proprietà su un bene immobile, i fatti costitutivi di
tale diritto, non assolvono ad una funzione individuativa, perché, che io abbia
acquisito il diritto reale sul bene immobile attraverso contratto, ovvero
attraverso usucapione non cambia il contenuto del diritto.
Ebbene! fatti principali sono i
fatti costitutivi, anche individuativi del diritto, perché, il giudice
può tenere conto dei soli effetti giuridici prodotti da fatti principali
dedotti dalle parti e la circostanza che si acquisisca attraverso gli atti
processuali di ulteriori e diversi fatti costitutivi di un diritto che
però non è individuato attraverso i suoi fatti non crea
particolari problemi, ma tutte le volte che, l'introduzione di nuovi fatti
concerne un effetto giuridico prodotto da fattispecie eterodeterminate, allora,
l'introduzione di nuovi fatti cambia anche il diritto, quindi tenere conto di
fatti produttivi di un identico effetto giuridico diversi da quelli allegati
dall'attore, vorrebbe dire pronunciare su di un diritto diverso, ed in questo
senso l'iniziativa del giudice contrasterebbe con il principio dispositivo in
senso sostanziale, per cui, se lui dicesse che è vero che Tizio è
creditore di 100 lire, ma non come lui disse a titolo di restituzione di somma
data a mutuo, bensì a titolo di risarcimento del danno provocato da un
diverso fatto illecito, il giudice andrebbe a tutelare un diritto diverso,
violando il principio della domanda.
Parliamo, invece di fatti secondari,
per alludere a quei fatti che svolgono non già una funzione
individuativa della fattispecie giuridica azionata in giudizio, bensì
fondamentalmente una funzione di prova dei fatti principali, perché, opera nel
processo civile, il meccanismo delle presunzioni.
Quando parliamo di presunzioni, nel
processo civile, facciamo riferimento ad un concetto diverso da quello che
usano i penalisti quando dicono che in diritto penale non si presume niente, la
presunzione, in diritto civile, può essere una inversione dell'onere
della prova nell'ipotesi di presunzione legale, ma la presunzione semplice,
in realtà, tratta la modalità di assolvimento dell'onere della
prova, ossia si intende per presunzione, l'inferenza che si ottiene attraverso
una ricostruzione indiziaria dell'accertamento dei fatti, una costruzione
indiretta dell'accertamento dei fatti.
Un caso illustrativo di fatto
secondario, lo supponiamo in una controversia per un incidente stradale, e si
afferma la responsabilità di una delle parti in quanto, la sua
automobile procedeva oltre i limiti di velocità: ebbene, l'accertamento
delle tracce della frenata sull'asfalto è accertamento di un fatto
secondario, cioè che vi è stata una frenata brusca, da cui si
evince in via inferenziale, che l'automobile andava forte, che è il
fatto principale produttivo dell'effetto giuridico provocato dall'attore, e
cioè la responsabilità risarcitoria del danno.
Rispetto ai fatti secondari non
è conurabile alcuna titolarità esclusiva da parte delle parti
del potere di dedurli nel processo, non avrebbe senso, quindi, nel fatto
secondario, il giudice può tenere conto che questo sia stato ritualmente
introdotto nel processo, sia acquisito tramite atti processuali ancorché si
tratti di atti processuali diversi degli atti della parte che fa valere la
situazione soggettiva di vantaggio prodotta da quel fatto stesso.
Discorso analogo, lo si può
fare ai fini della ricerca delle fonti di prove, e qui il codice
fornisce degli esempi illustrativi, perché in materia di prova testimoniale,
la regola generale è quella della disponibilità soltanto su
istanza di parte, sono le parti a scegliere chi testimonierà in giudizio,
però in alcuni casi il giudice può disporre d'ufficio la chiamata
di testi.
Il caso più famoso è
quello che costituisce la risposta degli ordinamenti romanistici al problema
della testimonianza del relato che è perfettamente ammissibile, anzi
contempla il potere e dovere del giudice a disporre d'ufficio, in quanto,
possibile la chiamata del teste diretto: il teste Tizio dice che Caio mi ha
riferito che..! bene chiamiamo Caio, ebbene, il potere istruttorio del giudice
è esercitato compatibilmente con la regola del divieto di scienza
privata, egli può chiamare d'ufficio questo teste, perché, a tale teste
ha fatto riferimento altro teste nell'esercizio dell'attività
processuale.
Tanto premesso, non dobbiamo
confondere la tempistica richiesta per l'esercizio di attività
processuali dirette a costituire il potere e dovere del giudice a pronunciare
sull'effetto giuridico e la tempistica delle iniziative processuali dirette a
produrre nel processo il fatto da cui può scaturire l'effetto giuridico
eventualmente invocato dalla parte, possiamo dire che, in realtà, nel
codice troviamo una disciplina compiuta e precisa delle preclusioni alla
sollevazioni di eccezioni, come preclusioni alle eccezioni richieste di
pronuncia sull'effetto giuridico prodotto del fatto, mentre non troviamo una
disciplina esplicita intorno alla preclusione della deduzioni dei fatti nel
processo, sicché, si possono comporre diversi connessi interpretativi, per
esempio: possiamo dire in linea generale che l'eccezione rilevabile d'ufficio può
essere fatta valere per la prima volta in Cassazione, ma non è possibile
dedurre i fatti, eventualmente, produttivi dell'effetto giuridico invocato,
perché è tardi, quindi, potrò sollevare d'ufficio, magari in
Cassazione una nuova eccezione, ma soltanto se i fatti produttivi dell'effetto
giuridico che io invoco, sono stati ritualmente dedotti nel processo nelle fasi
di merito dello stesso.
Si discute se nel momento in cui la
parte è autorizzata, nelle fasi di marito, ad introdurre nuove richieste
di pronuncia su effetti giuridici, se ciò sia possibile soltanto in
quanto e in tanto siano stati tempestivamente e ritualmente allegati ai
relativi fatti in limite litis, o se ciò possa avvenire anche
sulla base dell'allegazione in quell'occasione di nuovi fatti.
Il caso più interessante
è quello della trasformazione della domanda di adempimento di domanda di
risoluzione del contratto, è la legge sostanziale che con l'art. 1453
consente alla parte di compiere il ricorso di causa, e si tratta di capire in
che modo si possa coordinare questa disciplina con quella prevista dal diritto
processuale generale, ai fini della trasformazione della modificazione della
domanda del suo mutamento, e qui ci troveremo davanti ad un vero e proprio
mutamento della domanda. Dobbiamo intendere questa norma come norma
autorizzativa del mutamento della domanda anche per esempio, già in
grado d'appello? Plausibilmente si! Dobbiamo però, anche ritenere che
ciò possa avvenire sulla base dell'allegazione di nuovi fatti soltanto
in grado d'appello? Spesso si dice di si per ragioni strategiche, perché ai
fini della dell'accoglimento della domanda d'adempimento è sufficiente
che si dimostri anche un inadempimento non grave, mentre ai fini della
risoluzione occorre dimostrare la gravità dell'inadempimento, e nel
contesto in cui due parti contrattuali sono in giudizio, ma una ancora
interessata all'adempimento, è inopportuno incentivarla a dedurre
subito, in limite litis, fatti di inadempimento gravi, perché questo
esacerberebbe il conflitto sin dall'inizio rendendo inevitabile la quasi
immediata trasformazione della domanda di adempimento in domanda di
risoluzione, però, si dice che la deduzione di fatti nuovi non sia
soggetta a termini particolari di preclusioni se non quelli determinati o dalla
sopravvenuta irrilevanza di tali fatti, in quanto, produttivi di effetti
giuridici non più invocabili, ovvero, dall'esaurimento di quelle fasi
della causa innanzi alle quali è possibile svolgere istruzione
probatoria intorno ai fatti stessi, e quindi, senz'altro, non per la prima
volta in Cassazione, ma magari anche per la prima volta in grado d'appello.
Si ammetta la deduzione per la prima
volta in grado d'appello, di fatti prodottosi nel corso del giudizio e
produttivi di effetti giuridici invocabili ai fini del rigetto della domanda,
perché se noi escludiamo la deducibilità delle sopravvenienze anche
nelle fasi di merito del giudizio e gli effetti giuridici della sopravvenienze
e dei fatti sopravvenuti, non possiamo impedire alla parte di farli valere e quindi
dobbiamo consentirle di farli valere in un successivo giudizio, ove si invochi,
per esempio, l'effetto estintivo della situazione giuridica quale accertata, ma
accertata.
Si ricordi quanto detto in tema di
limiti cronologici del giudicato, accertata con riferimento alla situazione
giuridica prodottasi in limite litis.
Quindi alla fine, il risultato sarebbe
antieconomico, perché, se il fatto si prodotto nel corso del giudizio è
invece razionale, in tanto e in quanto sia ancora possibile svolgere un'azione
probatoria, tenerne conto già in quel giudizio, perché, non si
può, in ogni caso impedire alla parte di far valere gli effetti prodotti
da quella fattispecie, solo perché si è verificata in pendenza di causa.
Laddove la parte avrebbe potuto
dedurre ritualmente e tempestivamente, in limite litis, sembra
più difficile accettare che la parte, in via generale, salvo eccezioni
come quelle del mutamento della domanda di adempimento in domanda di
risoluzione, la parte possa introdurre liberamente nelle fasi di merito e
quindi sarebbe opportuno interpretare la disciplina non soltanto
all'attività consistente nella richiesta al giudice di pronunciare
sull'effetto giuridico, ma anche, all'attività di introduzione dei
relativi fatti, sebbene, tale introduzione, a differenza della richiesta di
pronuncia dell'effetto giuridico possa, magari, validamente essere compiuta da
soggetti diversi dalla parte, quindi è altro il problema della
legittimazione di produrli, altro è il problema tempistica della loro introduzione.
·Eccezioni rilevabili
d'ufficio
In alcuni casi, la legge ci dice che
un'eccezione è rilevabile d'ufficio, in altri casi ci dice che è
rilevabile su istanza di parte, e quando non ci dice niente come ci regoliamo?
Una norma c'è, perché, il disposto dell'art. 112 del codice di
procedura, implicato tra chiesto e pronunciato, dice che il giudice deve
pronunciare su tutta la domanda e non oltre il limite di essa e non può
pronunciare d'ufficio su eccezioni che siano riservate alle parti.
Questa norma a proposito della domanda
è sufficiente dire poche banalità! Chi si è pronunciato
può dar verso ad extra petizione o ultrapetizione, a seconda se la
pronuncia travalichi sul piano qualitativo ovvero sul piano quantitativo dai
limiti della domanda, e c'è un vizio della sentenza censurabile tramite
l'impugnazione ordinaria.
Più delicato, è
l'ipotesi di omessa pronuncia, in teoria, si dice che un giudice pronunci su
tutta la domanda, si può certamente impugnare la sentenza e ottenere una
pronuncia della domanda da parte del giudice d'appello, ma si può anche
riproporre la domanda stessa sin dal primo grado, non essendosi formato il
pregiudizio di un giudicato preclusivo della riproposizione della stessa
essendo mancata la stessa pronuncia sulla domanda, in tanto e in quanto sia
illegittima l'omissione della pronuncia sulla domanda, perché, può
capitare che il giudice illegittimamente ometta di pronunciare sulla domanda.
Come mai può capitare? Perché
possono sussistere nessi d'incompatibilità o di condizionamento fra
diverse domande! Nessi di alternatività, per cui il caso più
eclatante è quello dell'assorbimento della domanda di garanzia,
nell'ipotesi di rigetto della domanda principale.
Se il garantito non viene dichiarato
soccombente e responsabile rispetto alla domanda principale, non vi è
ragione di andare a pronunciare sulla domanda di garanzia sulla sussistenza di
un rapporto di garanzia e pertanto, validamente rimane assorbita la pronuncia
su tale domanda; è impregiudicata la questione, non si forma
pregiudicato alcuno e qui non c'è un vizio della sentenza nell'omettere
la pronuncia sulla domanda.
Ma restiamo ai casi in cui
effettivamente si conuri come viziata l'omissione sulla pronuncia della
domanda, cioè, in cui il giudice inaspettatamente nella sentenza, non
indica la pronuncia sulla domanda stessa. Ebbene, dobbiamo tenere conto, qui,
che sul piano pratico, la tendenza giurisprudenziale non ravvisa mai
l'omissione di pronuncia, perché, c'è dietro quel tipo d'approccio che
abbiamo già visto quando abbiamo parlato dei limiti oggettivi del
giudicato, tendenzialmente la giurisprudenza preferisce ritenere che si sia
già giudicato su qualcosa, e quindi, se una sentenza, appare lacunosa la
giurisprudenza tende ad affermare che vi sia rigetto implicito della domanda.
Ma torniamo sul tema delle eccezioni!
Nel linguaggio dell'art. 112 sembra essere nel senso che le eccezioni siano
rilevabili d'ufficio, salvo i casi in cui la legge esplicitamente riservi alla
parte il potere di chiedere una pronuncia sull'effetto del giudizio impeditivo
dell'avvenimento della domanda. In realtà, la questione è
controversa, perché, da un lato c'è questa norma, dall'altro occorre
tener conto che il processo è ispirato al principio dispositivo, e
quindi sembrerebbe che gli effetti giuridici prodotti dalle fattispecie
attributive di situazioni sostanziali di vantaggio, spettino alle parti sul
piano sostanziale e spetti, pertanto anche, alle parti di valere, se poi
c'è stata violazione di norme imperative non si può impedire al
giudice di tenerne conto per evitare altrimenti che le parti, attraverso
l'omissione di attività difensive, riescano a raggiungere proprio quel
risultato che il legislatore si era prefisso d'impedire, però, il
principio dispositivo generale sembrerebbe suggerire la regola opposta a quella
rinvenibile nell'art.111, cioè la regola che in generale le eccezioni
siano rilevabili soltanto su istanza di parte.
Come uscirne? Giuseppe Chiovenda,
diceva una cosa strana, illustra certe dinamiche di sviluppo dell'aggiornamento
dottrinale, egli prende le mosse dal diritto romano e ricollega, la distinzione
tra eccezioni rilevabili d'ufficio ed eccezioni rilevabili a istanza di parte
alla distinzione romanistica tra eccezioni fondate sullo ius civile e
distinzioni fondate sullo ius honorarium, sviluppando undiscorso complesso, ma alla fine tira fuori
la sua carta principale, cioè dice: "attenzione! Nel nostro ordinamento
la sentenza produce un effetto d'accertamento del rapporto giuridico che non ha
un carattere innovativo", in casi particolari espressamente previsti dalla
legge la pronuncia del giudice può avere un effetto costitutivo di una
situazione sostanziale modificativo di una situazione sostanziale, e si tratta
di quei particolari casi di azioni costitutive in forza dell'art. 2908 oggi
sono ammissibili soltanto nei casi previsti dalla legge, nel sistema
chiovendiano, è generale l'azione d'accertamento, le azioni costitutive
sono azioni tipiche nominate.
Se noi, osserva Chiovenda,
qualifichiamo un'eccezione come eccezione rilevabile solo a istanza di parte e
la parte poi questa eccezione non la rileva, la sentenza del giudice finisce
per costituire un nuovo rapporto giuridico.
Questo è un ragionamento
balzano, perché lo stesso Chiovenda non nega che in alcuni casi le eccezioni
siano rilevabili solo su istanza di parte e in questo ragionamento è
difficile argomentare in modo definitivo, perché non esiste un elenco delle
eccezioni rilevabili d'ufficio, ne quelle rilevabili a istanza di parte, anzi
dovremmo ritenere che, ne le una ne le altre siano soltanto quelle previste
dalla legge.
Probabilmente le eccezioni rilevabili
d'ufficio e le eccezioni rilevabili a istanza di parte, sono come i numeri pari
e i numeri dispari, c'è ne sono di infinite sia da un lato che dall'altro
e si può individuare anche in mancanza di un'esplicita indicazione
legislativa, sia, in certe ipotesi il regime della rilevabilità a
istanza di parte, sia, in altre ipotesi il regime della rilevabilità
d'ufficio, per cui occorre verificare caso per caso, e abbastanza
concretamente.
Per esempio: si può concludere
nel senso della rilevabilità a istanza di parte anche in mancanza di
un'esplicita indicazione legislativa, quando la fattispecie che s'invoca
consiste in un controdiritto potestativo esercitabile in autonomo giudizio,
sicché dato che l'annullamento del contratto o la risoluzione possono formare
oggetto di autonomo giudizio, ecco che l'eccezione d'annullabilità del
contratto si dovrebbe qualificare come eccezione rilevabile a istanza di parte
anche laddove la legge nulla dicesse, specialmente quando si tratti, poi, di
diritti potestativi a necessario esercizio giudiziale, cioè diritti
potestativi esercitabili, per esempio la risoluzione per inadempimento e
possibile esercitarlo anche in sede stragiudiziale attraverso il meccanismo
della diffida ad adempiere, l'annullamento con regime di giudizio.
Possiamo rilevare eccezioni a istanza
di parte quando si fondino sulla violazione di obblighi non generali, ma
particolari, che non escludano l'efficacia dell'attuazione spontanea
dell'obbligato.
La violazione di norme imperative,
generalmente si ritengono rilevabili d'ufficio, ma la violazione di norme
dispositive, a sua volta, non sempre è rilevabile su istanza di parte,
perché abbiamo ipotesi in cui si dice che l'effetto giuridico si produce ipso
iure, ovvero automaticamente, cioè senza l'eccezione di parte nel
processo? No! Perché, sarebbe un circolo vizioso.
Per automaticamente si intende dire,
non tanto a prescindere da un'iniziativa di parte, ma a prescindere dalla
manifestazione di volontà della parte.
Per chiarire la questione facciamo il
caso dell'eccezione di amento, la legge non dice da nessuna parte se sia
rilevabile d'ufficio o a istanza di parte, però la legge sostanziale ci
dice anche che, il amento eseguito dal debitore incapace non è
ripetibile.
Da questa norma enunciamo che
l'effetto giuridico del amento è prodotto dal amento come mero
fatto giuridico, il amento produce effetto estintivo dell'obbligazione anche
se chi lo ha compiuto non voleva compierlo, anche se chi l'ha compiuto era
ubriaco, cioè l'effetto giuridico, già sul piano sostanziale
viene prodotto a prescindere dalla manifestazione di volontà della
parte, è prodotto automaticamente nel senso che è prodotto anche
se non voluto dalla parte.
Allora se stiamo sul piano
sostanziale, l'effetto giuridico si produce anche se non voluto dalla parte,
diventa logico ritenere che anche nel processo l'effetto giuridico debba essere
tenuto in considerazione dal giudice, debba essere oggetto della pronuncia del
giudice anche se manca una volontà della parte, sicché, laddove l'attore
convochi in convenuto in giudizio dicendo lui stesso che il credito è
prescritto, il convenuto ha l'onere di costituirsi in giudizio per sollevare tempestivamente
l'eccezione di prescrizione, perché l'eccezione di prescrizione è
rilevabile soltanto a istanza di parte e se il convenuto non si costituisce
questa eccezione è destinato a perderla.
Invece, l'attore costituito il
giudizio per la restituzione di un debito già ato, e lo dice lui
stesso, in questo caso il convenuto può anche non costituirsi, egli fa
conto sul fatto che il giudice dovrà, d'ufficio, tenere conto
dell'effetto istintivo prodotto dal amento, che è lo stesso attore
allega e quindi può restare tranquillamente contumace.
Naturalmente, poi, il convenuto oltre
al caso estremo di proporre domanda riconvenzionale, ovvero sollevare eccezioni
non rilevabili d'ufficio, ovvero sollevare eccezioni rilevabili d'ufficio,
ovvero contestare i fatti costitutivi allegati dall'attore, ovvero può
restare passivo, ma quale effetto ha la passività del convenuto, cosa
succede se il convenuto non contesta i fatti costitutivi?
Senz'altro non c'è alcuna
preclusione alla facoltà di contestarli successivamente, però, si
ritiene che la non contestazione del convenuto renda pacifici i fatti affermati
e non contestati, pertanto, come tali, non bisognosi di prova, quindi la
circostanza che la contestazione avvenga per la prima volta in Cassazione, cioè
quando non può più svolgersi istruzione probatoria attorno a tali
fatti può destare qualche perplessità, deve ritenersi, per la
verità, che la circostanza che i fatti siano da ritenersi pacifici in
assenza di contestazione del convenuto, non escluda che tali fatti possano
comunque ritenersi inesistenti laddove venga acquisita a processo la prova
dell'inesistenza degli stessi, cioè, la non contestazione non ha alcun
effetto vincolante che invece è prodotto dall'esplicita confessione dei
fatti stessi, la quale avrebbe efficacia vincolante di prova legale ed
escluderebbe la stessa ammissibilità di prove dirette ad affermare
l'inesistenza di tali fatti.
Pertanto, la non contestazione non
può avere un effetto vincolante neppure quando si protragga per tutto il
corso del processo, però, il semplice fatto che renda superfluo la prova
di tali fatti suggerisce che si debba escludere dopo non aver contestato,
muovere la contestazione per la prima volta nel giudizio d Cassazione, ma il
problema è più teorico che pratico, perché, in Cassazione si
arriva dopo essere passato dal grado d'Appello, attraverso la disciplina della
specificità dei motivi d'Appello si fa si che il mancato assorbimento
dell'onere di contestazione non sia di fatto mai rimediabile in Cassazione, perché
in Cassazione si finisce per arrivare con questioni ormai già definite.
Nel caso particolare della non
contestazione di somme, può prodursi validamente la fattispecie del
provvedimento anticipatorio cui abbiamo già accennato dell'art. 186 bis,
ovvero analogamente nell'art. 423 con riferimento al rito speciale del lavoro,
dove si accenna all'ordinanza di amento di somme non contestate.
Qui parliamo di non contestazione di
una parte costituita; distinguiamo la mera dissenza della parte che consiste
nella mancata izione della parte stessa, da quella che si definisce come
costituzione in giudizio, che consiste in un attività preliminare da
effettuarsi in limite litis, diretta da consentire alla parte di
svolgere un ruolo attivo nel processo, e si profilano almeno due aspetti
diversi del processo.
Un profilo è quello delle
conseguenze derivanti dalla mancata costituzione della parte, e un altro
è quello dell'obbligo del patrocinio.
·Il contumace
Per quel che riguarda le conseguenze
della mancata costituzione o mancata costituzione difensiva della parte, noi
abbiamo un diritto positivo che compie una scelta molto precisa tra due
orientamenti radicalmente diversi.
Un orientamento è quello che
attribuisce alla scelta della parte di non difendersi attivamente un valore
concludente. Nella disciplina tedesca la passività del convento equivale
alla ammissione dei fatti costitutivi allegati dall'attore, quindi una
formazione concludente che porta alla formazione accelerata di un provvedimento
idoneo al giudicato, sentenza che ha posizione a prescindere dalla
dimostrazione dell'involontarietà della contumacia, opposizione che a
sua volta innesca un riesame a cognizione piena ed esauriente del diritto fatto
valere in giudizio.
Negli ordinamenti di derivazione
francese, come il nostro, parte dal presupposto che non si debba attribuire
alla contumacia un valore concludente, quindi, in linea generale, escludono che
dalla contumacia discenda una conseguenza di confessione o di ammissione e
persino escludono che possa pronunciarsi nei confronti del contumace un
provvedimento anticipatorio fondato sulla circostanza che il contumace non
abbia mosso contestazioni, l'ordinanza di amento di somme non contestate
può essere resa, ex art. 186 bis, nei confronti delle sole parti
costituite.
In effetti la parte contumace, qualche
svantaggio pratico, c'è l'ha: da non poter esercitare una difesa attiva
nel processo, però, il diritto positivo è sostanzialmente
protettivo nei confronti del contumace, prevedendo, in particolare, che gli sia
data notifica personale di tutti quegli eventi processuali, rispetto ai quali
la protrazione dell'inattività può produrre conseguenze
sfavorevoli.
Questo criterio, è quello che
può consentirgli di memorizzare l'elenco contenuto nell'art. 292 degli
atti da notificarsi personalmente alla parte, come il deferimento del
giuramento decisorio, perché se la parte non risponde perde la causa; il
perimento dell'interrogatorio formale, perché la parte che non si presenta a
rispondere nell'interrogatorio formale rende un comportamento valido come
confessione, quello sì, di confessione dei fatti dedotti tramite
l'interrogatorio formale.
Gli si deve dare notificazione formale
delle se contenenti nuove domande, perché cambiano l'oggetto del
giudizio, quindi si deve ancora, ha spiegato la Corte Costituzionale,
dichiarando costituzionalmente illegittima in parte la norma anche di dare
notificazione personale, della produzione di scritture private nei suoi
confronti, perché, se la scrittura privata non è tempestivamente
disconosciuta si produce un effetto probatorio sfavorevole e vincolante per la
parte contumace, parte che invece ha la possibilità di disconoscere la
scrittura privata soltanto al momento in cui si costituisce e tale
possibilità gli è data anche se in realtà il termine
sarebbe già decorso laddove tale fosse stata costituita, però la
Costituzione ha presupposto nel valido compimento del disconoscimento della
scrittura privata.
Qualche conseguenza della contumacia
c'è, per esempio, la disciplina generale della cosiddetta interruzione
del processo, che ha come ratio quella di proteggere la garanzia
dell'effettività del contraddittorio, prevede che nell'ipotesi di morte
della parte il processo possa essere interrotto, alfine che i suoi eredi
abbiano modo di valutare se è il caso o meno di proseguire il giudizio e
di raggiungere un accordo con gli avversari.
Nel caso in cui la parte sia
costituita in giudizio tramite procuratore, è compito del procuratore
nell'esercizio della sua professionalità, di decidere se è il
caso o meno di provocare questo effetto interruttivo, che provoca ovviamente un
rallentamento dei tempi del processo, e lo decide insindacabilmente dichiarando
o meno l'evento in udienza, è chiaro che normalmente l'evento
verrà dichiarato in udienza se concerne la parte convenuta, meno
facilmente se concerne la parte attrice.
Se la parte muore prima che sia
decorso il termine per la tempestiva costituzione in giudizio, pur dopo la
proposizione della domanda giudiziale, quindi mentre già il processo
è pendente, l'effetto interruttivo opera automaticamente, perché non
è ancora munita la parte di un difensore tecnico o provvisto della
competenza per decidere se sia il caso o meno di interrompere il processo.
Ma se muore la parte contumace? Posto
che la contumace si presuma volontaria, è chiaro che è sempre
possibile dimostrare l'involontarietà della contumacia e
conseguentemente essere rimessi in termine e integrati nella possibilità
di compiere tutte le attività eventualmente precluse per effetto della
scelta di non costituirsi, che sia appunto in realtà non voluta.
Presumendosi, invece la contumacia
volontaria succede che se, la parte contumace muore il processo si interrompe
soltanto nel momento in cui la notizia dell'evento viene acquisita al processo,
il che può avvenire, allorché, l'evento sia menzionato nella relata di
notifica di alcuno di quegli atti che devono appunto essere notificati
personalmente al contumace stesso, ovvero quando l'evento sia notificato alle
altre parti e presumibilmente accada a cura degli eredi, quando questi vengono
a conoscenza della pendenza di un processo che concerne il loro dante causa.
Potremmo dire, da questo punto di
vista, che il contumace è ben protetto, ma in realtà e meno
protetto soltanto nella misura in cui non è munito di un difensore
tecnico, quindi, nel suo complesso la disciplina della contumacia è una
disciplina di favore per il contumace, che si ritiene sopravvaluta l'esigenze di
accuratezza nell'attribuzione del diritto sostanziale proprie della giustizia
civile.
Considerando un sistema alla
risoluzione dei conflitti, sembra invece sensato attribuire alla contumacia un
valore confessorio, e in questa direzione si sta muovendo il legislatore, in
quanto, nella nuova disciplina del processo societario, l'istituto della
sentenza contumaciale viene introdotta prevedendosi che la mancata costituzione
in giudizio abbia valore di ammissione dell'esistenza dei fatti allegati
dall'attore a fondamento della situazione soggettiva di vantaggio fatta valere
con la domanda giudiziale, ed è plausibile che questo tipo d'istituto
possa essere esteso alla generalità del contenzioso civile in occasione
della riforma del processo civile nel suo complesso.
Questa soluzione incentiverebbe la
costituzione in giudizio, incentiverebbe la parte a far valere le proprie
ragioni, ma è sensato proporsi una domanda a proposito di un punto che
si da per scontato, e cioè, per costituirmi in giudizio ho bisogno di qualcuno,
perché, salve particolari eccezioni, cause di modiche valori davanti al giudice
di pace, la regola generale la parte stia in giudizio tramite il patrocinio di
un procuratore legalmente esercente, perché è un processo dispositivo
teso a risolvere conflitti, in cui io faccio valere i miei diritti soltanto, in
tanto in quanto, mi sembra giusto farli valere e non posso decidere di farli
valere male, quindi l'avvocato serve per far valere bene i diritti, per
assicurare una migliore corrispondenza al diritto sostanziale dei risultati che
si realizzano attraverso il processo, ma questo ragionamento è un
ragionamento che è valido per giustificare l'obbligo del patrocinio nel
processo penale, perché nel processo penale ci richiedono un'accuratezza
nell'accertamento dei fatti nell'applicazione della legge sostanziale, quindi
obbligo del patrocinio perché bisogna fare le cose per bene, ma nel processo
civile la parte potrebbe rinunciare estragiudizialmente al suo diritto quando
si tratta di diritti disponibili, ma come normalmente avviene, perché non
può disporne gestendolo male? Inoltre, la verità e che, la
necessità che vi schermo sia uno tra la parte e il giudice, crea molti
problemi, perché crea tutti quei problemi che si pongono in quelle occasioni in
cui un soggetto svolge nell'interesse di un altro soggetto, attività la
cui qualità, l'altro soggetto fa fatica a valutare, perché non ho una
specifica preparazione tecnica per valutare se fa i miei interessi oppure i
suoi.
·Il difensore tecnico
(avvocato)
L'avvalersi del difensore tecnico
favorisce il raggiungimento di un accordo stragiudiziale, perché dialogano
soggetti che non sono personalmente interessati all'esito della causa, e quindi
più disponibili a trovare un accordo, ma ci sono metodi più
efficaci per raggiungere l'accordo transativo tra le parti, che non vengono
seguiti, per esempio, sarebbe molto efficace prevedere sin dalla fase
preparatoria un obbligo di scambio reciproco dei mezzi di prova utilizzabili in
processo, e questo favorisce la riduzione delle divergenze di valutazione delle
parti intorno alle probabilità di vincere, quindi favorisce il
raggiungimento dell'accordo transativo perché le parti non si d'accordo quando
sono sicure di vincere, ma quando sanno che la probabilità che il primo
vinca è del 60%, è facile raggiungere l'accordo sul 60% della
cifra richiesta, ma anche questo non si fa, e allora è difficile
giustificare l'obbligo della difesa tecnica solo come strumento per favorire la
soluzione conciliativa delle controversie.
C'è un altro aspetto! Lo
schermo del difensore tecnico consente alla parte di conservare il controllo
sulla gestione della controversia evitando di trasformarsi con ciò, in
una fonte di informazione, questa funzione è importante anche in tutti quei
sistemi in cui sia vietato alla parte di mentire in giudizio, allora in questa
occasione il difensore serve, perché è chiaro che dei fatti di causa,
tipicamente la parte è testimone diretto, quindi se racconta cose
inesatte intorno ai fatti di causa, la parte sta mentendo, ma se lo fa un
difensore tecnico, egli si è sbagliato!
Ma nel nostro ordinamento, la parte
può raccontare tutte le frottole che vuole, senza incorrere in sanzione
penale alcuna, non potrà neanche essere questa la giustificazione al
patrocinatore.
Esso facilità le comunicazioni
perché ha l'obbligo di rendersi reperibile, ha l'obbligo di eleggere domicilio,
provvedere a fungere da canale di trasmissione nei confronti della parte, ma
dato che comunque chi deve essere informata è la parte difesa, alla fine,
dover passare attraverso l'avvocato è un passaggio in più, anzi
il meccanismo avvantaggia la parte che deve assolvere a l'onere di informare
l'avversario, però al prezzo di espropriare la parte che doveva ricevere
l'informazione per il diritto di essere informati, perciò, non è
una giustificazione fortissima, e si potrebbe assolvere allo stesso risultato
imponendo direttamente alla parte, anziché al difensore di eleggere domicilio e
di rendersi reperibile ai fine della trasmissione di informazioni che l'avversario
abbia l'onere di trasmettere, anche qui è difficile giustificare
l'obbligo della difesa.
Oppure per non violare l'art. 2908,
per non avere azioni costitutive al di fuori dei casi previsti dalla legge?
Per tutto quello che riguarda il
contenuto del difensore e all'accuratezza della decisione della controversia e
dell'applicazione della legge sostanziale, è valido il ragionamento
fatto prima, e cioè che è un discorso che vale per il processo
penale, ma non giustifica invece, che la parte sia preparata del diritto ad
autodifendersi, di parlare se stessa a proprio favore in giudizio nel processo
civile, quindi l'obbligo del patrocinio non serve alle parti casomai, forse
serve al giudice o meglio, fa comodo al giudice, perché se le modalità
di gestione del contenzioso sono fortemente burocratizzate, sono fortemente
standardizzate, il sistema opera più efficacemente se c'è un
corpo di specialisti che provvede ad un primo inquadramento standardizzante
della fattispecie da fornire al giudice, compiono un lavoro preliminare di
classificazione e ordinamento del conflitto e dei problemi che gli hanno dato
origine, inquella che dovrà poi
essere compiuta dal giudice, perciò serve ai giudici l'obbligo del patrocinio,
però se ne fa a meno in quell'ordinamento in cui il reclutamento dei
magistrati comporta un grado minore di burocratizzazione dell'amministrazione
della giustizia, dove i giudici sono degli improvvisatori sentono meno il
bisogno di questo lavoro preliminare degli avvocati di inquadramento standardizzazione
e classificazione del problema nell'ambito delle grandi prestabilite categorie.
Ma se ci rendiamo conto che il
problema è questo, è sensato avere delle riserve, perché, il
vantaggio che se ne trae in termini di efficienza e speditezza dell'amministrazione
della giustizia, a conti fatti è assai modesto, perché, certo,
l'avvocato aiuta a inquadrare, però poi, perché perseguita l'interesse
del cliente, almeno uno dei due ha un ben interesse a cercare di sabotare lo
svolgimento del processo, è chiaro che il suo compito, sarà un
po' di aiuto e un po' di ostacolo alla celere e rapida definizione della causa,
quindi non si può giustificare la soppressione al diritto all'autodifesa
che invece si può, plausibilmente, qualificare come una garanzia
meritevole di protezione costituzionale alla luce della garanzia costituzionale
della difesa, perché altro è dire che la parte deve potersi avvalere di
un avvocato tutte le volte che vuole, è giusto che il sistema
dell'assistenza legale consenta che ai meno abbienti di avere un'assistenza
efficace, quindi non soltanto su una base di un sistema obsoleto e gratuito, ma
di dover scegliere un avvocato retribuito convenientemente e quindi non
reclutato con il sistema gratuito patrocinio, costretto a lavorare gratis e
perciò lavora male, ma deve essere compreso anche il diritto
esercitabile attraverso una scelta, cioè se c'è una
possibilità di avvalersi anche dell'avvocato, ma anche il diritto di
scegliere di difendersi di persona.
·Le nullità (art. 156
c.p.c.)
Possiamo definire la disciplina delle
cosiddette nullità formali (comma 1° art. 156), il quale stabilisce che
la nullità di un atto processuale per violazione delle norme sulla forma
può essere dichiarata soltanto in quei casi che sia espressamente
prevista o comminata dalla legge, cioè si pone una regola che si
può già individuare nel codice napoleonico che ha l'ambizione di
escludere la discrezionalità del giudice nell'individuare quei casi in
cui la violazione delle norme sulla forma possa essere sanzionata con la
declaratoria di nullità dell'atto stesso, in questo contesto si
può parlare di atto processuale come nozione comprensiva: e degli atti
processuali di parte e dei provvedimenti aggiunti.
Questa caratteristica di ottimismo
illuminista settecentesco, purtroppo, o per fortuna, secondo i punti di vista,
si è scontrata abbastanza presto con l'esperienza pratica dei primi
metà dell'ottocento il legislatore francese e degli altri codificatori
processuali in seguito ad introdurre un temperamento alla regola stessa, e
cioè, quello che ritroviamo nel 3° comma dell'art. 156, ove si prescrive
che può essere dichiarata la nullità di quell'atto processuale
che sia carente dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento
dello scopo, intendendosi che si, potrà pur darsi che qualche caso in
cui la n nullità dell'atto processuale possa essere dichiarata anche
quale conseguenza di violazioni per le quali non sia espressamente comminata la
nullità della legge, ma ovviamente ciò può accadere solo
in casi estremi e fondamentalmente allo scopo di impedire la elezione della
disciplina della nullità degli atti processuali, cioè di impedire
che la parte possa, pur rispettando il dettato letterale della norma, impedire
la protezione di quei interessi, il conseguimento di quelle finalità,
che il legislatore si è preposto per conurare la disciplina dell'atto
processuale, ovviamente è chiaro che ciò finirebbe per accadere a
discapito della controparte, e quindi è opportuno consentire attraverso
questa valvola di sicurezza al giudice di proteggere la parte dai comportamenti
elusivi del suo avversario.
Questo punto è forse quello dei
più chiari, ma in realtà, alla prima lettura di queste discipline
suggerisce al lettore candido, di porsi almeno un paio di domande.
Anzitutto può essere sensato
domandarsi se possano darsi ipotesi in cui la nullità dell'atto
processuale sia conseguenza della violazione di norme diverse da quelle che
regolano la forma dell'atto. Per altro verso ha senso domandarsi quale sia la
conseguenza giuridica delle violazione delle norme sulla forma in tutte quelle
ipotesi in cui questa non sia la nullità dell'atto stesso.
Ebbene, per quel che riguarda la
questione della sussistenza delle cosiddette nullità non formali o
extraformali occorre chiedersi che cosa specificamente si intenda per norma
sulla forma, perché da un certo punto di vista si potrebbe dire che in
realtà è il processo di protocollo, ma si potrebbe replicare a
questo tipo di visione, che tradizionalmente, nel campo giuridico, si intende
per forma la modalità di esteriorizzazione di una manifestazione, di una
dichiarazione all'esterno, il modo in cui questa viene resa riconoscibile,
sicché, può ben darsi che sussistano violazioni delle norme processuali
che non si qualifichino affatto come violazioni delle norme sulla forma,
orbene, naturalmente, anzitutto possiamo porci il problema di un ipotesi di
confine su cui effettivamente c'è il vanto, per esempio la disciplina
della scansione cronologica degli atti processuali.
Si qualifica per esempio,
scolasticamente, come violazione sulla forma la proposizione di una sa di
risposta prima della notificazione dell'atto di citazione, o possiamo
immaginare come violazione di norma l'assunzione di un mezzo di prova prima del
provvedimento di ammissione dello stesso, e su questo i pareri sono discordi ed
effettivamente potremo immaginare che la nozione di forma è comprensiva
anche di queste ipotesi, e perché questo ci interessa! Perché riteniamo che si
possa dare nullità anche per violazione di norme diverse da quelle che
regolano la forma ci dobbiamo automaticamente domandare in che misura possa
risultare applicabile a queste fattispecie l'intera disciplina prevista per le
nullità formali e anzi, generalmente, si giunge alla conclusione che
almeno in parte questa disciplina risulti inapplicabile alla cosiddette
nullità extraformali, in quanto queste possano rinvenirsi.
Ma dobbiamo fare attenzione! È
chiaro che la violazione della norma processuale è sanzionata da una sua
propria ed autonoma disciplina. Rivolgersi ad un giudice diverso da quello
competente conura una situazione di incompetenza e una violazione sulla
norma della competenza che è una disciplina distinta da quella della
nullità in senso proprio.
La violazione di untermine posto a pena di decadenza implica
l'inammissibilità dell'atto compito fuori termine, magari questa
inammissibilità può essere la conseguenza della declaratoria di
nullità dell'atto che se invece è stato compito nei termini e
viene reiterato fuori termine e diventa pertanto inammissibile. In
realtà è condivisa l'idea che in quelle ipotesi in cui la
violazione processuale non abbia una disciplina specifica, sia abbastanza
naturale qualificare come nullità dell'atto la conseguenza della
violazione della norma, e in questo senso una suggestione legislativa
abbastanza forte ci proviene dalla regola dell'art. 158, nella parte in cui la
norma qualifica come nullità l'inosservanza delle disposizioni sulla costituzione
del giudice e sulla partecipazione del PM, ed è chiaro che in queste
ipotesi non possiamo più rinvenire un infrazione sulla norma sulla forma
in senso stretto.
Per converso ci si potrebbe domandare,
ma un momento! Non c'è un art. 121 dove dice che le forme devono essere
solo quelle congrue allo scopo? È vero che il principio generale che
opera nel processo civile è quello della libertà delle forme e
d'accordo come principio generale, però in realtà, esistono
numerose disposizioni che regolano la forma dell'atto come modalità di
esteriorizzazione della dichiarazione e anche come requisiti di forma
contenuto.
L'ipotesi tipica di violazione delle
norma sulla forma sono quelle che consistono sulla forma del contenuto,
esempio l'art. 163 nello stabilire i requisiti dell'atto di citazione indica
che deve essere specificato quali siano le parti, quale sia il giudice a cui ci
si rivolge, etc., l'omissione di alcune di queste indicazioni si qualifica come
violazione della norma sulla forma, in applicazione del disposto comminato
dell'art. 156 c.1° e c.3°, scopriamo però, che l'omissione di alcune di
queste indicazioni non comporta nullità alcuna, il caso più
eclatante è quello della indicazione delle norme di diritto su cui si
fonda la domanda, infatti l'art. 163 prescrive su quali norme di diritti la
domanda si commini, però in nessun luogo del codice è presente la
sanzione della nullità come conseguenza dell'omissione di tali
indicazioni, poiché l'art. 164 fa discendere la disapplicazione dei fatti
costitutivi, ma non anche l'indicazione delle norme di rito e si aggiunge che
tali indicazione non è affatto indispensabile per il conseguimento dello
scopo dell'atto in quanto, il principio iura novit curia assicura che il
giudice possa d'ufficio a supplire a quest'omissione provvedendo lui stesso
all'individuazione delle norme di diritto applicabile alla specie.
Passiamo all'altra questione! E
cioè cosa accade quando questa novità non c'era. Le deviazioni
dallo schema legale, come si dice, quando non comportano la nullità cosa
portano? In linea generale e di massima si usa dire che queste comportano la
cosiddetta irregolarità dell'atto processuale. Qual è la
rilevanza giuridica dell'irregolarità processuale? Alludono
all'irregolarità poche norme del codice di rito! Ritroviamo
l'espressione dell'art. 182, nell'art. 316 laddove però la ricostruzione
più attendibile è quella che ritiene che tali norme alludano
all'ipotesi della mancata regolarizzazione tributaria dell'atto processuale, la
quale in realtà, in forza di riforme sopravvenute successivamente alla
emanazione del c.p.c. è irrilevante nel processo, restando irrilevante
la responsabilità tributaria, e quindi non comporta
l'inammissibilità dell'atto processuale o la nullità dello stesso
o qualsiasi altra conseguenza che sia rilevante ai fini del processo.
Troviamo anche il termine
irregolarità nel disposto dell'art. 617, laddove si prevede che nel
contesto del processo esecutivo sia sempre possibile fare prevalere
l'irregolarità dell'atto esecutivo e in questo caso qualsiasi deviazione
dello schema legale in questo particolare caso è rilevante, può
essere fatta valere, nel contesto del procedimento esecutivo.
Qualcuno sostiene che la
nullità degli atti processuali sarebbero tutte della
annullabilità, in quanto, l'effetto dell'atto potrebbe venir meno
soltanto dal momento in cui la nullità stessa venga dichiarata, ma
questa costruzione è opinabile ed è difficile riferire unica
sicura base definitiva di questa conclusione, c'è però un motivo
diverso e valido che giustifica l'assenza di qualsiasi riferimento
all'annullabilità dell'atto processuale nel lessico del codice di rito.
Il termine non si usa perché la
nozione di annullabilità evoca fenomeni la cui applicazione nel processo
civile è estremamente ridotta, anzi, deve tendenzialmente escludersi per
varie ragioni, in particolare nelle esigenze di instabilità che
discendono dalla sequenzialità multilaterale dello spirito del
procedimento. In termini dogmatici, l'esclusione o la forte delimitazione della
rilevanza dei cosiddetti vizi della volontà nel processo si spiega
rimarcando il carattere non negoziale degli atti del processo, in vista delle
finalità non solo di risoluzione del conflitto, ma anche di attuazione
della legge e del processo stesso, sicché, le manifestazioni di volontà
compiute attraverso gli atti processuali non possono impugnarsi solo perché non
se ne voleva il risultato, si ammette soltanto che si faccia valere
l'involontarietà dell'atto stesso, salve particolari eccezioni come per
l'ipotesi della confessione dove in qualche misura il vizio della
volontà può essere fatto valere, ma in misura ridotta, perché la
confessione è revocabile per errore, ma non per dolo e se riuscite a
fare confessare il vostro avversario con l'inganno l'avete messo nel sacco,
perché non potrà revocare la sua confessione se quanto confessato
risponde a vero.
Quindi niente annullabilità
dell'atto processuale, ma questo non vuol dire però che non si
distingua, nella disciplina del processo, fra le ipotesi in cui il vizio
può essere fatto valere su istanza di parte o può essere rilevato
d'ufficio; questa distinzione si ritrova invece e si usa per alludere alla
stessa la contrapposizione fra nullità assolute e nullità
relative, intendendosi per nullità assoluta quella rilevabile dal
giudice anche d'ufficio, per nullità relativa quella rilevabile soltanto
ad istanza della parte interessata.
Però, questa distinzione fra
nullità assolute e nullità relative, tende unpo' ad esaurire il lessico a disposizione,
sicché, nell'esperienza giurisprudenziale li ritroviamo di frequente per
indicare una forma estrema di sanzione per violazione delle norme sulla forma
il termine di inesistenza giuridica dell'atto processuale. Un termine che a
molti non piace, che ha l'aria contraddittoria, un atto esiste o non esiste,
che cosa è questa inesistenza giuridica ed alcuni, infatti, ha proposto
di utilizzare la locuzione "nullità radicale", per esempio, ma io
credo che non sia particolarmente utile soffermarsi su questa questione
lessicale.
Prendiamo per buono il termine
esistente, in tanto in quanto effettivamente lo si ritrova di frequente nella
pressi giurisprudenziale e domandiamoci, piuttosto, quando e perché si adotta
una sanzione ancora più grave di quella della nullità, e
soprattutto in cosa consista questa maggiore gravità.
Sul "quando" diciamo, in prima
battuta, che la giurisprudenza fa ricorso oltre che all'ipotesi, che più
che altro è teorica della non identificabilità del contenuto
dell'atto, fa ricorso sovente al criterio della presenza di difformità
dell'atto dallo schema legale talmente gravi da rendere "impossibilissimo" il
conseguimento dello scopo, mentre nell'ipotesi in cui al comma 3° si verterebbe
in casi in cui il conseguimento dello scopo dell'atto risulterebbe molto improbabile,
secondo le Sezioni Unite avremmo questa inesistenza quando il conseguimento
dello scopo sarebbe "moltissimo improbabile", è chiaro che questo spiega
poco, molto poco! Quindi per capirla meglio, perché si fanno questi discorsi,
concentriamoci sull'esame delle conseguenze giuridiche della declaratoria di
nullità dell'atto processuale. Cosa succede se un atto processuale
è nullo?
Abbiamo ipotesi diverse! Ad un estremo
possiamo immaginare la mera pretermissione dell'atto, cioè si fa come se
l'atto non fosse stato compiuto e in varie ipotesi questa soluzione è
semplice, praticabile e perfino banale, .nullità dell'assunzione di un
mezzo di prova!..chi citeremo facendo a meno di quel mezzo di prova!..
Al lato estremo, avremo l'ipotesi in
cui il processo venga definito senza una pronuncia sul merito, cioè
attraverso una pronuncia in mero rito, come si dice, o anche di assoluzione di
osservanza del giudizio, è chiaro che questa il processo per quanto
possibile deve pronunciare sul merito, per quanto possibile possiamo immaginare
la pretermissione nei casi di atti di acquisizione probatorio, magari di atti
di disposizione del diritto compiuti attraverso il processo, facciamo finta che
nonsiano accaduti!
Il problema diventa serio rispetto ai
cosiddetti atti di impulso, e ciò appunto in riferimento a
caratteri di propedeuticità sequenziale che sussiste tra gli atti
processuali, il processo è pur sempre una specie di procedimento e anche
nel processo opera il fenomeno della cosiddetta nullità per
delibazione.
Per quanto per l'estensione di
nullità di un atto agli atti successivi, sia comunque ispirata, in
generale al principio utile per inutile no vitiatur, rimane fermo che
gli atti processuali devono svolgersi secondo una sequenza cronologica
predeterminata, alterabile solo in modo abbastanza modesto, sicché gli atti di
impulso sono sempre dipendenti dai loro precedenti e quindi in forza di quanto
prevede l'art. 159, la nullità dell'atto si estende agli atti successivi
che ne siano dipendenti, anche se la nullità che impedisce all'atto di
produrre certi effetti non impedisce la produzione degli effetti con i quali il
vizio sia compatibile, nonostante la nullità di una parte dell'atto non
colpisca le parti che ne siano indipendenti, quindi non si estende agli atti
indipendenti, ma agli atti dipendenti, per la verità, che sono molti e
quindi la nullità dell'atto di citazione, dell'atto di introduzione
della causa, laddove non venga mai sanata sfocia nella nullità di tutti
gli atti successivi e non tutti, perché poi, il processo è una specie di
procedimento in cui, però, la sentenza può trovare in se stessa
la fattispecie costitutiva dei suoi effetti, si che, appunto, la sentenza che
dichiara la nullità di tutti gli atti che l'hanno preceduta è una
sentenza valida e non nulla per delibazione.
Si può discutere se questa
nullità per delibazione sia formale o extraformale, sostiene che si
tratti di nullità formale perché tende ad equiparare i rispettivi
regimi, ma più importante è osservare che, in questa ipotesi, la
nullità si deve qualificare come questione pregiudiziali di rito ex art.
187, e risulta indispensabile concludere che laddove manche la declaratoria di
nullità sia invece appunto viziata la sentenza, e soggetta a riforma in
appello, in mancanza di riforma in appello la stessa sentenza d'appello sia
soggetta a cassazione senza rinvio ex art. 382.
Non è una opinione pienamente
condivisa perché qualcuno la contesta affermando che la nullità è
sempre sanabile, che i disposti degli artt. 187 e 382 riguardano altro, ora,
è vero che il processo per quanto possibile deve emettere sentenza sul
merito, ma in realtà si deve concludere che non sempre la nullità
sia sanabile a meno di interpretare il diritto positivo in modi che danno adito
a risultati non accettabili ai quali si deve rimediare con rimedi peggiori, per
chiarirlo occorre esaminare come si può impedire che la nullità
di un atto di impulso a sua volta impedisca la pronuncia sul merito.
Abbiamo diverse forme di sanatoria
della nullità dell'atto, anche di sanatorie in senso lato, per cui, per
esempio, ex art. 157, in linea di massima le nullità sono rilevabili
solo ad istanza di parte tranne i casi in cui la legge disponga espressamente
in senso contrario ed occorre in questo caso un'istanza tempestiva da parte della
parte interessata, nell'interesse della quale è stato posto il requisito
assente dall'atto caratterizzato dalla nullità e sempre che questa parte
non vi abbia dato causa ve nemmeno abbia rinunciato anche tacitamente a far
valere la nullità della stessa, però, alcune nullità sono
rilevabili d'ufficio per espressa disposizione di legge e la regola della
tipicità delle nullità rilevabili d'ufficio, è quella che
più di ogni altra appare di discutibile applicabilità alle
ipotesi di nullità extraformali, e in ciò in quanto queste,
tipicamente ledono la capacità di difendersi della parte. Il caso
eclatante: una parte vittima di un fatto interruttivo del processo; "il decesso
del procuratore". L'interruzione del processo qui si produce automaticamente
per il solo fatto del decesso del procuratore, a seguito di questa non possono
compiersi atti del processo che non siano atti diretti a riattivare
l'effettività del contraddittorio quella della riassunzione o di
costituzione di prosecuzione a seconda della parte interessata, ovvero,
tuttalpiù degli atti urgenti, gli atti che non siano la riattivazione
della causa o magari urgenti sono inevitabilmente colpiti da nullità, ma
dobbiamo far gravare proprio sulla parte che si trova in difficoltà
difensiva l'onere di far valere il vizio stesso? Proprio lei che non può
difendersi dovrebbe avere l'onere di eccepire tempestivamente la nullità
dell'atto compiuto, che è nullità derivante proprio dal fatto che
sia compiuto senza che questa possa difendersi? No! Non ha senso!
Questo tipo di nullità è
qualificabile come, senz'altro, nullità rilevabile d'ufficio, fermo
restando che non sarà una nullità rilevabile ad istanza di parte
diversa da quella che è stata colpita dall'evento, non può
giovarsi l'avversario che tra l'atro è parte che ha dato causa alla
nullità stessa, compiendo l'atto nonostante l'interruzione,però non si può impedire al
giudice, invece,di rilevare d'ufficio
che l'atto compito era nullo.
Ancora abbiamo, l'ipotesi della
nullità derivata dal cosiddetto raggiungimento dello scopo, come prevede
in via generale il 2° comma dell'art. 156, non può essere mai dichiarata
la nullità dell'atto quando sia stato raggiunto lo scopo stesso, ma
ciò anche in quelli ipotesi in cui la nullità derivava proprio
dalla circostanza che ha i requisiti indispensabili per lo raggiungimento dello
scopo è stato raggiunto in ogni caso, tuttavia anche la sanatoria per il
raggiungimento dello scopo è una sanatoria che deve essere applicata con
prudenza.
Il caso che si capisce meglio è
di nuovo quello della nullità della citazione, lo scopo dell'atto di
citazione è complesso, per un verso c'è l'esigenza di mettere la
controparte al corrente della causa per consentirle di difendersi e per altro
verso la funzione di determinare l'oggetto del giudizio, quindi, è la
tempestiva costituzione della parte, magari certo può comportare
sanatoria per il raggiungimento dello scopo di quelle nullità che
riguardino la così chiamata vocativo in ius, cioè di
quella mancanza di elementi che sono funzionali al raggiungimento dello scopo
di consentire al convenuto di difendersi, ma quando la nullità colpisca
quegli aspetti che si dicono attinenti alla detta edictio actionis e
cioè la determinazione dell'oggetto del giudizio, la costituzione del
convenuto non può obbligare alcuno effetto sanante, perché non da essa
può dedursi che cosa sia stato domandato se non è l'attore stesso
a chiarirlo.
Ancora, la nullità può
essere sanata attraverso la cosiddetta rinnovazione dell'atto, anzi l'art. 162
prescrive che il giudice, per dichiarare la nullità di un atto
processuale, debba disporne, se possibile, la rinnovazione. Ma quando non
è possibile? È chiaro che se è deceduto il testimone non
sarà possibile disporre la rinnovazione dell'assunzione della prova
testimoniale nulla, però questo è un caso che ci interessa di
meno, perché è risolvibile senza che ciò impedisca la pronuncia
sul merito della causa.
Ci si può chiedere se la
rinnovazione sia impossibile, o comunque non debba essere disposta in quelle
ipotesi in cui sia inutile, cioè, quando è sopravvenuta la
decadenza, sicché il compimento dell'atto processuale sia a tal punto tardivo,
ma potremmo dire, un momento! Ma la rinnovazione potrebbe anche produrre
efficacia retroattiva! In alcuni casi è sicuro che questo avvenga, anzi
lo dice esplicitamente la legge che in varie ipotesi la rinnovazione dell'atto
nullo produce i sui effetti sananti facendosi che gli effetti dell'atto si
considerino prodottisi sin dal momento in cui l'atto era stato compiuto in modo
nullo, purché venga tempestivamente, nel termine fissato dal giudice, compiuta
la rinnovazione e alcuni sostengono che la retroattività degli effetti
della rinnovazione costituisce la regola generale.
Si potrebbe obiettare a quest'ipotesi
che la disciplina della decadenza verrebbe svuotata di contenuto, ma
l'obiezione è forte e non ancora decisiva perché si potrebbe dire,
svuotata di contenuto no, rimane applicabile in quelle ipotesi in cui la legge
espressamente escluda la retroattività degli effetti della sanatoria,
per esempio parlando ancora di citazione con riferimento alle decadenze ai vizi
dell'edictio actionis, per cui, la rinnovazione dell'atto ha effetto
sanante, ma restano salvi i diritti quesiti medio tempore, restano ferme
le decadenze maturate medio tempore.
Ma c'è un problema ben
più importante, e cioè, quanto più facilmente si ammette
la retroattività della sanatoria della nullità per rinnovazione
tanto più facilmente all'esigenze di giustizia e di buon senso si tende ad
escludere tale effetto nell'esperienza giurisprudenziale qualificando la
fattispecie non come nullità ma come inesistente, ce ne accorgiamo
quando osserviamo a quali atti processuali tipicamente si attribuisce la
qualificazione di atto giuridicamente inesistente.
Il campo di applicazione più
vasto è probabilmente quello delle notificazioni, sovente, ci dice la
giurisprudenza, non è nulla ma è inesistente quella notificazione
che sia compiuta in luogo e a persona che non abbiano nulla a che fare col
destinatario, perché se questa violazione si verificasse come nullità si
potrebbe attraverso la rinnovazione consentire la retroattività della
produzione dei suoi effetti poiché la nullità della notificazione
è una di quelle ipotesi rispetto alle quali l'art. 291 prescrive
esplicitamente che la rinnovazione abbia effetti retroattivi, e quindi proprio
lì viene fuori la giurisprudenza che parla di inesistenza, ma non
è soltanto rispetto alle notificazioni che questo concetto emerge,
perché lo si ritrova anche e molto spesso, con riferimento alle sentenze,
perché qui opera quello che forse è il meccanismo estremo di sanatoria e
cioè la sanatoria derivante da giudicato.
L'art. 161 enuncia il principio della
cosiddetta conversione delle nullità in motivi di gravame, ma in
realtà quello che è importante in questa norma non è tanto
il dirci che se vi è stata una nullità non sanata io che ne sono
vittima potrò farla valere proponendo appello contro la sentenza che ha
omesso di dichiararla e ha invece pronunciato sul merito, assicurandomi
così la declaratoria di nullità di sentenza impugnata e in quanto
possibile un nuova decisione sul merito della causa e naturalmente se il
giudice di appello omette di darmi ragione posso farla valere con ricorso per
cassazione, con possibilità di giungere a una pronuncia appunto di
cassazione senza rinvio tutte le volte che questa nullità non sia
sanabile retroattivamente.
Ci interessa la norma soprattutto
nella parte in cui dice che le nullità delle sentenze soggette ad
appello e ricorso per cassazione può essere fatta valere solo nei modo e
nei termini previsti per queste impugnazioni, e cioè, non può
essere fatta valere quando tali impugnazioni non siano proponibili, quando sia
decorso il termine per la proposizione delle stesse, cioè quando si sia
formato il giudicato.
Il 2° comma dell'art. 161 aggiunge che
questa regola non si applica nelle ipotesi in cui la sentenza sia priva della
sottoscrizione del giudice, certamente non vuol dire che questo vizio non possa
essere fatto valere con l'appello, al contrario abbiamo anche una specifica
indicazione legislativa nel senso che l'appello in questa ipotesi non è
solo proponibile, ma è fondato, ed anzi, il giudice ai sensi dell'art.
354, il giudice d'appello deve, in queste ipotesi, rimettere la causa al primo
giudice.
Il significato di questa norma
è che in tali ipotesi il vizio può essere fatto valere anche se
si è formato il giudicato, al di la della formazione del giudicato,
quindi, per esempio, potrà essere nuovamente proposta la stessa domanda
ancorché respinta con sentenza formalmente passata in giudicato, ma priva di
sottoscrizione, ovvero, laddove detta sentenza venga utilizzata come titolo per
l'esecuzione forzata, il convenuto potrà far valere l'inesistenza del
diritto di procedere all'esecuzione forzata tramite opposizione all'esecuzione
facendo anche valere tutto ciò che poteva essere fatto valere nel
processo, pur conclusosi, con sentenza passata in giudicato non si produce
alcuni di quegli effetti preclusivi del dedotto e del deducibile che discendono
dalla formazione del giudicato e proprio la circostanza che la sanatoria
derivante dalla conversione delle nullità in motivi di gravame sia
così forte induce molti e anche a volte la giurisprudenza, ad
individuare ipotesi ulteriori, rispetto a quella dell'omessa sottoscrizione del
giudice, in cui la sentenza si dice giuridicamente inesistente, non
nulla ma inesistente.
Quali sono quest'ipotesi, alcuni sono
casi di scuola, si dice per esempio che sia in esistente la sentenza
completamente priva di motivazione, più interessante è notare che
si qualifica spesso, secondo certe evidenze, come giuridicamente inesistente la
sentenza resa a seguito della pretermissione del litisconsorte necessario, tale
sentenza risulterebbe anche come uniliter data e cioè inidonea a
produrre effetti, non solo nei confronti di quel soggetto pretermesso che al
processo non ha partecipato, ma anche nei confronti di quei soggetti che pure
al processo hanno partecipato, anzi hanno avuto tutte le più ampie
opportunità di dedurre la pretermissione del litisconsorte necessario e
non l'hanno fatto, sicché, l'inesistenza della stessa potrebbe essere fatta
valere in ogni tempo anche ad istanza di costoro, perché per poter difendere il
litisconsorte pretermesso, attraverso il ricorso a questa opzione, è
chiaro che la sentenza non sarà opponibile, che non sia vincolante tra
le parti che hanno partecipato già desta qualche perplessità.
Immaginiamoci il caso.
Tizio, Caio e Sempronio coeredi devono
dividere un eredita, ma Tizio crede che Sempronio sia deceduto da gran tempo e
Caio sa che Sempronio è vivo in Brasile. Caio si trova in una posizione
comoda, perché, se vince è fatta, se perde si ricorda che c'è
Sempronio in Brasile.
Tornando all'ipotesi dell'omessa
sottoscrizione, qualcosa di strano c'è, perché, la sentenza che non
contiene la sottoscrizione di alcun magistrato è un pezzo di carta,
poniamo però, che ci sia la firma del presidente e non dell'estensore
diverso dal presidente, secondo la giurisprudenza in questo caso avremo
l'inesistenza, ma comporta soltanto nullità il vizio di costituzione del
giudice, e quindi sembrerebbe esserci una nullità se per esempio deve
decidere un collegio composto da due componenti anzi che tre, se invece
è deciso da un componente di tre, ma uno non firma, avremo
l'inesistenza, ma c'è di peggio! Quando si comincia a dare spazio al
concetto di inesistenza è facile che la giurisprudenza scoppia, per
esempio la giurisprudenza consolidata ha sempre ritenuto che si qualificasse
come inesistenza l'ipotesi in cui l'atto di notificazione nei confronti di
più parti difese da un unico procuratore venisse notificato in un numero
di copie inferiore a quello delle parti.
L'art. 170 prescrive che al
procuratore costituito in giudizio per più parti gli atti nel corso del
procedimento possano anche notificarsi in unica copia, ma l'art. 285 prescrive
che la sentenza si notifichi al procuratore ai fini del decorso dei termini per
l'impugnazione della stessa, diversamente dalla notificazione dell'esecuzione
che va esibita personalmente alla parte, ma quella ai fini del decorso del
tempo per l'impugnazione si notifica al procuratore, ma non si applica il 2°
comma dell'art. 170, cioè, va notificata in tante copie quante sono le
parti da lui difesa e allora si arguisce ulteriormente che la notificazione
dell'atto d'appello debba essere compiuta in tante copie quante sono le parti
rappresentate a maggior ragione, vista che questa è notificazione alla
parte presso il procuratore precostituito nel precedente grado di giudizio, ma
se manca una copia? Non sappiamo quali tra le più parti difese dal
procuratore siano destinatari di notificazione e quali no, perché le cose si
confondono e quindi dobbiamo concludere che nessuno l'abbia ricevuta.
La conclusione suona paradossale, perché
altro è dire che se l'avversario notifica al procuratore costituito, non
nel precedente grado del giudizio, ma presso il procuratore costituito nel
grado ancora precedente avremo inesistenza, se io notifico il ricorso per
cassazione al difensore costituito in tribunale quando in appello il mio
avversario aveva un difensore diverso, il sospetto che stia giocando sporco
è forte, perché se il mio avversario ha cambiato avvocato vuol dire che
di quello di primo grado non era contento! Anzi probabilmente non corrono buoni
rapporti, quindi sto notificando a persona che, si, ha avuto a che fare col
destinatario, ma è difficile che gli trasmetta la notizia e non ha
nessun dovere di farlo.
Nel caso che diciamo adesso le cose
stanno diversamente, perché questo soggetto è in rapporto con tutte
queste parti e ciò che si fa gravare sul procuratore destinatario
è sostanzialmente un onere che da quando i prodigiosi progressi della
tecnologia hanno realizzato le macchine fotocopiatrici non è troppo
gravoso da assolvere, quindi questa nozione di in esistenza è
pericolosa, perché noi dobbiamo metterci un po' nell'animo e esaminare come
funzionano queste norme, assumere il punto di vista dei soggetti interessati,
mettiamo allora dal punto di vista del giudice dell'impugnazione che ha tante
cause da decidere e naturalmente dovrà esaminare le eccezioni
processuali, e come abbiamo detto esiste e deve affermarsi una
pregiudizialità logica legata a questioni di rito e questioni di merito,
rispetto a tutte queste impugnazioni, l'esame del rito lo deve fare sempre, ma
l'esame del merito lo deve fare solo se ci sono eccezioni di rito, il che vuol
dire che ritenere fondate le eccezioni di rito accelera il lavoro, perché
questa causa me la sbrigo senza considerarla e la tentazione è forte di
trasformare la disciplina delle forme dell'impugnazione in una disciplina
tendenzialmente tesa a porre ostacoli alla proposizione della stessa e poco
hanno a vedere con la sua apparenza di fondatezza dal punti di vista del merito
della causa, finisce per diventare la proposizione dell'impugnazione
un'attività che richiede un salto nel cerchio di fuoco, il superamento
di ostacoli fondamentalmente gratuiti possono portare a fenomeni inquietanti.
Il caso che ha avuto anche un discreto
spazio sulla stampa, per esempio è quello della faccenda della procura
speciale per il ricorso per cassazione. La procura per il ricorso per
cassazione deve essere rilasciata in uno spazio di tempo abbastanza ristretto,
perché per un verso deve essere conferita successivamente alla pronuncia della
sentenza impugnanda altrimenti perde le sue caratteristiche di
specialità di procura conferita specificamente per il giudizio di
cassazione, inoltre deve essere conferita prima della notificazione per ricorso
in cassazione poiché trattandosi di procura speciale non si applica la regola
che consente il conferimento sino al momento della costituzione in giudizio,
quindi se arriva la notifica di una sentenza d'appello vi sentirete in vacanza!
E succedeva che quando il cliente doveva partire si facevano mettere un po' di
firme su di un foglio a protocollo, dopodiché si scriveva un pochino sopra la
firma del cliente la procura conferita in calce al ricorso, sicché, la
verità della firma poteva essere autenticata dal difensore e il difensore
compiva in quest'ipotesi un'autentica minore, cioè attestava la
genuinità della firma non della data in cui era stata apposta.
Perché la legge consentiva questo?
Perché il legislatore muoveva dal presupposto che se la firma era in calce al
ricorso la firma della procura significava che il ricorso era stato scritto, e
se il ricorso era stato scritto la sentenza era già stata pronunciata.
Ad un certo punto c'era un arretrato pauroso in cassazione e un primo
presidente della cassazione efficiententista che diceva: "questo arretrato lo
smaltiamo alla grande!!". Han preso un bel paccone e guardiamo se in calce
è proprio in calce, perché se magari ci sono due righe di
distanza.questa presunzione che sia stata compilata la procura successivamente
alla compilazione dell'atto viene meno, perché, guarda caso non è
proprio sotto ma un po' troppo sotto, sarebbe stato naturale che sia stata
proprio sotto sotto, non tre righe sotto! Ci sono tre righe? Fuori dalla
finestra! E così un po' di ricorsi sono andati a finire nel cestino.
Molti si lamentarono e quindi si
pensò di venire incontro alle parti ammettendo che la procura si poteva
ottenere prima, ma si è seguita una via più tortuosa, cioè
venne introdotta una norma che prevede che si considera in calce al ricorso anche
la procura spillata.
Ma bisogna affrontare tutto questo problema a monte e rendersi conto,
appunto, di quante degenerazioni possono derivare in sede di impugnazione
dall'uso improprio della nozione di inesistenza dell'atto processuale in forza
della particolare natura degli incentivi e delle pressioni che operano sul
giudice delle impugnazioni, e quindi proprio per questo motivo il diritto
positivo deve essere interpretato in modo tale da suggerire il meno possibile
che si faccia ricorso alla nozione di inesistenza dell'atto processuale, e
ulteriormente, dato che la nozione di inesistenza dell'atto processuale si
impone allorquando si prevede una retroattività della sanatoria per
rinnovazione, la conseguenza è che deve essere interpretato in modo
restrittivo qualsiasi disposto che preveda la retroattività della
sanatoria per rinnovazione, perché, questo innesca a sua volta il ricorso alla
nozione di inesistenza e l'affermazione della nozione di inesistenza si presta
a gravi degenerazioni, sicché in via generale si deve concludere che la
sanatoria per rinnovazione possa produrre degli effetti retroattivi solo
esclusivamente in quei casi in cui la legge preveda questa possibilità.
·La sospensione del processo
l'arresto è temporaneo anche se
si può verificare che la causa della sospensione coincida con la
definizione del processo, in quanto tale l'evento si distingue dalla cessazione
stessa e quindi dobbiamo definirlo come un arresto temporaneo e i suoi effetti
sono individuati dall'art. 298 e si stabilisce, fatta eccezione per gli atti
urgenti, durante la sospensione del processo non possono essere compiuti atti
del procedimento e non decorrono i relativi termini, a fatta eccezione oltre
che per gli atti urgentiper gli atti e
per i termini necessari per la riattivazione del procedimento sospeso, quando
ovviamente è cessata la causa della sospensione, come vedremo più
avanti si rende necessario compiere iniziative per riattivare il processo entro
termini che ovviamente invece è corto e devono quindi compiersi in
questi atti.
Si possono conurare numerosissime
forme di sospensione contemplate dal c.p.c. in vario modo una classificazione
abbastanza rilevante, come vedremo, ma anche se sembra avere uno spessore
teorico modesto, è quella che piace definire come distinzione fra sospensioni
a tempo determinato e sospensioni a tempo indeterminato, ovvero sia fra i
casi in cui la data in cui cesserà la causa della sospensione è
certa nell'an e nel quando, e quelli in cui la data è certa nell'an
ma nel quando si potrà vedere solo a cose fatte, così abbiamo
sospensioni a tempo determinato nel disposto dell'art. 332 c. 2° con
riferimento all'ipotesi in cui si è avuto litisconsorzio in un
precedente grado di giudizio e l'impugnazione sia proposta da soltanto alcuna
delle parti che abbiano partecipato al grado precedente e che tuttavia non sia
inscindibile il litisconsorzio prodottosi, appunto, in primo grado o in appello
rispetto al ricorso di cassazione, per questa fattispecie, quindi, non è
previsto a pena di inammissibilità che l'impugnazione sia proposta nei
confronti di tutte le parti del grado precedente al giudizio, però, il
legislatore deve favorire per quanto possibile la concentrazione in un unico
processo di tutte le impugnazioni proposte contro la stessa sentenza, pertanto,
si prescrive che la parte che impugni nei confronti di alcuni soltanto dei
litisconsorti, abbia anche l'onere di dare notizia di questa impugnazione alle
altre parti, ossia di notificare l'impugnazione alle altre parti pur senza, con
ciò, convenire al giudizio di impugnazione.
Tutto ciò è richiesto
soltanto nei confronti di quelle parti, rispetto alle quali, non sia decorso il
termine per la condizione del gravame, cioè, quelle, appunto che non
fossero poste a conoscenza della pendenza del giudizio di impugnazione, quelle
che nei confronti non è decorso il termine, se non fossero poste a
conoscenza della sopravvenienza del giudizio di impugnazione, potrebbero
promuoverne uno separato ed autonomo di loro iniziativa, pur stando al legislatore
di concentrare tutte queste impugnazioni in un processo unico.
Laddove, quindi, non sia stata fatta
questa notificazione, il giudice coordina se è compiuta e se nessuna
della parti vi provvede, il giudizio di impugnazione riamane sospeso finché non
siano decorsi i termini per l'impugnazione di queste altre parti.
Sappiamo sin dall'inizio quando
durerà questa sospensione, se anche non prendiamo nessuna iniziativa, la
causa della sospensione necessariamente cesserà con il decorso del
termine per l'impugnazione delle parti non evocate nei giudizi legali.
Sempre a tempo determinato, sono le
sospensioni che sempre più spesso si ritrovano con funzione alternativa
diretta a favorire il ricorso preventivo ai metodi alternativi di risoluzione
di controversie, in particolare alla conciliazione, e correntemente il
legislatore prevede l'onere di esperire il tentativo di conciliazione tra le
parti prima di adire il giudice, che prevede anche che la domanda sia proposta
senza che sia stato esperito il tentativo di conciliazione e il processo venga
sospeso per dare modo alle parti di provvedervi, ma venga sospeso sempre che un
termine massimo oltre il quale in ogni caso il tentativo di conciliazione si
considera fallito e quindi le sospensioni finiscono per durare tuttalpiù
sei mesi, anche a tempo determinato, la sospensione, su istanza concorde delle
parti contemplata dall'art. 296, che non può durare più di
quattro mesi, quindi, è un istituto totalmente privo di applicazione
dato che, nella prassi giudiziaria è normale che tra un'udienza e
l'altra intercorrano più di quattro mesi, normalmente un anno, quindi
non c'è mai quasi bisogno di ottenere una sospensione di quattro mesi,
considerando anche, tra l'altro, che questa costituzione va autorizzata dal giudice,
e un accordo più consistente può essere raggiunto dalle parti che
siano d'accordo con la più semplice tecnica della deserzione bilaterale
all'udienza stessa, e il giudice ne deve fissare una nuova non essendo
più prevista la regola che demanda per pochi giorni il vigore della
diserzione bilaterale dell'udienza che comportava l'immediata estinzione del
processo (abrogata nella primavera del 1995).
Interessanti sono le sospensioni a
tempo indeterminato, in cui fondamentalmente la sospensione, è
giustificata dalla circostanza che si debba attendere la pronuncia di una
decisione diversa da quella da rendersi nel procedimento, appunto soggetto alla
sospensione, tuttavia suscettibile di influenzare l'esito del procedimento
stesso.
Con questa conclusione un po' generica
mettiamo insieme l'ipotesi che la dottrina tradizionale amava distinguere le
ragioni, a me pare, fondamentalmente portanti, cioè, per aiutare la
memorizzazione di una distinzione di base che serve però a tutt'altro
indirizzo. Mi riferisco con questo alla distinzione tra le cosiddette sospensioni
proprie e sospensioni improprie del processo civile.
Secondo la dottrina che ha elaborato
questa classificazione dobbiamo palare di sospensione propria soltanto in quei
casi in cui il processo è sospeso, la decisione della controversia
è sospesa, in attesa di una decisione su di un'altra causa o
controversia oppure relativa alla domanda, abbiamo invece sospensioni proprie
quando la decisione che si attende è la decisione su di una mera
questione relativa alla stessa domanda intorno alla quale può svolgersi
un sub procedimento diretto al suo accertamento, e quindi, in casi di
sospensione impropria sono le ipotesi in un cui un giudizio sospeso per la
pendenza del regolamento di competenza, per la proposizione del regolamento di
giurisdizione, per la risoluzione di una questione di legittimità
costituzionale di una legge.
In tutte queste ipotesi il sub
procedimento costituisce una fase speciale di giudizio, per cui, si soleva dire
in realtà che il processo continua sia pure dinanzi al giudice deputato
a risolvere con particolare efficacia una questione di carattere pregiudiziale
di questione e non di vera è propria domanda, nel senso che su di essa
potrebbe aver luogo un autonomo giudizio, sul procedimento può essere
innescato solo nel contesto del procedimento che ha un più ampio
oggetto, ossia che ha per oggetto, appunto, una domanda giudiziale diretta ad
ottenere una pronuncia attributiva di un bene della vita.
La distinzione, peraltro, è
importante per muoversi nell'ambito della disciplina codicistica, poiché, la
disciplina della sospensione del processo, nel codice di rito, è
disciplina relativa alle ipotesi di sospensione propria, mentre i casi di
sospensione impropria trovano delle loro autonome discipline nelle particolari
disposizioni che regolano sui procedimenti, sicché la disciplina dettata per la
sospensione propria può risultare non sempre del tutto applicabile alle
ipotesi di sospensione impropria e, diciamolo subito, il rilievo vale in particolare
per la questione dell'impugnabilità del provvedimento di sospensione
tramite regolamento di competenza, ai sensi dell'art. 42 come novellato dalla
legge 353/90, poiché si ritiene generalmente in questa disciplina possa
applicarsi soltanto alle ipotesi di sospensione propria di cui all'art. 295
espressamente richiamato dallo stesso art. 42 e non invece ai casi di
sospensione impropria.
C'è una ragione pratica di
questa distinzione e cioè, che le sospensioni improprie durano molto
meno, perché si deve svolgere soltanto una fase davanti ad un ufficio speciale,
le sospensioni improprie sono si a tempo indeterminato, ma sono terribili
soprattutto le sospensioni proprie, che in attesa di una definizione di una
vera e propria controversia può implicare l'attesa dello svolgimento del
procedimento in tutti i sui gradi di giudizio e quindi, per andare sul
concreto, vuol dire anziché aspettare due anni bisogna aspettarne dieci!
Più di tutto, io ritengo sia
più importante, la distinzione, non molto tradizionale in dottrina, ma
di cui si deve parlare, cioè la distinzione tra sospensioni
disciplinate in maniera razionale e sospensioni disciplinate in maniera non
razionale, distinzione tutta mia se vogliamo!
Per spigare cosa intendo, rievoco la
metafora della monetina sopra il materasso! Una decisione oggi vale di
più di una decisione domani! Cosi come una monetina di oggi vale
più di quanto valga questa stessa monetina domani, e questo a
prescindere dall'inflazione, perché il denaro può essere investito e
fatto fruttare facendo previsioni sul futuro, previsioni che a volte saranno
anche sbagliate, ma saranno perlopiù più giuste che sbagliate, e
quando le previsioni sono più giuste che sbagliate di solito
l'investimento frutta denaro, e quindi la sospensione è disciplinata in
modo irrazionale costringendo a mettere le monetine sotto il materasso tutte le
volte che la legge sia automatica.
La sospensione è invece
applicata in moda razionale tutte le volte che ci sia uno spazio di
discrezionalità del giudice di decidere se sospendere o meno, parlo
ovviamente delle sospensioni a tempo indeterminato, alla luce di una prognosi
sul contenuto della decisione che si dovrà attendere, e per fare un
esempio: allorquando la legge prevedeva che la mera proposizione del regolamento
di giurisdizione comportasse automaticamente la sospensione del processo,
questa sospensione era da considerarsi irrazionale, ed infatti incentivava il
ricorso alla strumento del regolamento preventivo di giurisdizione in funzione
meramente dilatoria della pronuncia sul merito della causa, cioè
incentivava una litigiosità di mala fede diretta a frustrare
l'efficienza dell'amministrazione della giustizia.
Più razionale, senza dubbio,
invece è la disciplina emersa a seguito della riforma del '90, in forza
della quale il giudice sospende il processo in tanto in quanto ritenga che
l'istanza non sia manifestamente infondata e il ricorso sia manifestamente
inammissibile, cioè deve evitare di sospendere tutte le volte che si ha
abbastanza sicura di una prognosi nel senso che l'istanza verrà
respinta, perciò, ci avviciniamo alla razionalità. Meglio ancora,
a mio avviso, sarebbe una regola che anziché spostare il baricentro della
prognosi da un versante dello spettro com'era la formulazione iniziale
dell'ipotesi di non manifesta infondatezza in cui sostanzialmente si consente
al giudice di evitare la sospensione solo in casi estremi, solo quando sia
palese che il ricorso verrà rigettato.
Ancora più razionale sarebbe
una disciplina che semplicemente prevedesse la sospensione sulla base di una
prognosi di accoglimento del ricorso e di escluderla sulla base di una prognosi
di rigetto del ricorso anche se questa prognosi non è sicurissima.
Questo spiega perché si deve fare
attenzione quando si legge, come spesso accade, che in dottrina una vivace
polemica nei confronti delle sospensioni discrezionali. Perché la dottrina
combatte perlopiù le sospensioni discrezionali? Perché ha in mente
soprattutto una prassi giurisprudenziale secondo la quale, la sospensione del
processo potrebbe essere disposta anche al di fuori delle ipotesi previste
dalla legge, cioè al di fuori di quei casi in cui la legge diversamente
prescriva; la diversa decisione da attendere abbia un'importanza tale da
giustificare la sospensione, e ammette quindi il ricorso a sospensioni
facoltative e discrezionali del processo al di fuori dei casi previsti dalla
legge. Ripeto! È senz'altro condivisibile l'idea che la sospensione non
possa essere disposta che nei casi previsti dalla legge, si può magari
discutere su quanto siano ampi i casi previsti dalla legge, in particolare per
esempio, la sospensione giustificata dalla pregiudizialità di una
controversia di carattere penale, presso un giudice penale, la sospensione il
cui ambito di applicazione non è molto chiaro perché la disciplina si
è formata con stratificazioni alluvionali di norme concepite e scritte
da mani diverse e animate da motivazioni diverse abbastanza difficili da
coordinare, sicché può risultare non chiarissimo quale siano esattamente
i casi in cui si applichi questa disciplina, ma naturalmente, altro è
dire rispetto ai casi di confine questo rientra - questo non rientra, alché
dire possiamo sospendere a prescindere dalla decisione se si tratti di uno dei
casi previsti dalla legge, ed è certo che si tratti di casi previsti
dalla legge.
Altro è dire però, che
sia da escludere che in casi previsti dalla legge sia esercitabile una
discrezionalità del giudice, al contrario! Al contrario, a meno che, non
si parli di indiscrezionalità come arbitrio, ma quando parliamo
discrezionalità nel mondo del diritto non parliamo affatto di arbitrio,
tutte le volte che la legge utilizza l'espressione "..il giudice può o
sospendere..", non vuol dire che la sua decisione sia o possa essere
completamente arbitraria, deve essere in ogni caso e comunque guidata da
criteri di razionalità, e i criteri di razionalità gli indicano
criteri di riferimento per decidere se sospendere o meno, appunto le prognosi
attorno il contenuto al risultato della decisione che si dovrà prendere,
questo è il criterio razionale e quindi in questo modo che si riempie il
contenuto della disciplina positiva prevista dal legislatore in tutte quelle
ipotesi in cui il legislatore ha espressamente previsto in misura più o
meno ampia la discrezionalità del giudicenel disporre o meno la sospensione, in misura
ristretta allorquando, come l'art. 367 permette di evitare la sospensione nei
soli casi di manifesta infondatezza e manifesta inammissibilità, in
maniera più ampia in quei casi come di quello in cui all'art. 337 nella
parte in cui si prevede che quando la autorità di una sentenza sia
invocata in un diverso processo laddove questa sia impugnata il giudice
può sospendere il giudizio, in attesa della decisione sull'impugnazione
della sentenza la cui autorità è stata appunto invocata.
Questo "può" vuol dire che non
c'è nessuno automatismo, ma vuol dire anche che questa
discrezionalità deve essere esercitata sulla base dei criteri guida che
stiamo appunto cercando di individuare, alludiamo fra l'altro quando parliamo
di prognosi della decisione attesa.
Quindi questa guerra contro le
sospensioni discrezionali contro le sospensioni facoltative non bisogna farsi
fuorviare e soprattutto non credere troppo a quei giuristi che sembrano ancora
nel mito del giudice interprete automatico della legge. Dei margini di
discrezionalità c'è ne sono sempre e comunque in realtà
dell'interpretazione giudiziaria, persino in quei casi in cui si prevede
l'automatismo della sospensione, tant'è che per un buon gioco, quei
giudici che già prima della novellazione dell'art. 367, escludevano
l'effetto sospensivo della proposizione del regolamento di giurisdizione
manifestamente inammissibile su rilievo che, in quei casi il giudice si trovava
al cospetto di un atto che pur avendo solo la veste formale del regolamento di
giurisdizione in realtà non ne aveva il contento, sicché, la sua
proposizione poteva benissimo giustificare l'omissione del provvedimento di
sospensione sulla base di una delibazione di una sua manifesta inammissibilità.
Tanto detto, la discrezionalità
c'è sempre, non bisogna averne paura, ma bisogna gestirla razionalmente.
Se la sospensione è
disciplinata in maniera razionale, essa non costituisce affatto un incubo, uno
spettro alla giustizia, un spregevole istituto sul quale la maggior parte della
dottrina si è scagliata, anzi può costituire in realtà un
modello d'ispirazione di carattere generale, quando si pongano esigenze di
coordinamento fra le decisioni di vario genere a cui bisognerebbe ricondurre
per esempio altre parti del diritto positivo che non rispondono ai requisiti di
razionalità della sospensione; pensiamo al caso dell'art. 705 del codice
di rito, questa norma ha dettami in materia sul procedimento possessorio, e
costituisce una delle tante applicazioni della regola spoliatus ante omnia
restituendus, si parte dall'idea che la violazione del possesso dev'essere
repressa celermente per ragioni di ordine pubblico e quindi si stabilisce anche
che in pendenza del procedimento possessorio, il convenuto non possa promuovere
l'azione petitoria, cioè colui che ha spogliato il possessore del
possesso, ma è il vero proprietario della cosa, non può far
valere di essere il vero proprietario della cosa in tanto che il provvedimento
possessorio non sia stato eseguito, cioè, finché lo spogliato non sia
stato restituito nel possesso, fatta salva l'ipotesi in cui il convenuto possa
dimostrare che la mancata esecuzione del provvedimento dipende dal fatto del
possessore, ma ciò che più sorprende addirittura è che
l'azione petitoria è dichiarata improponibile o improcedibile ovverosia;
il proprietario non soltanto non può ottenere, finché non sia eseguito
il provvedimento possessorio l'accertamento pieno del suo diritto di
proprietà nei confronti dell'attore in possessorio, ma non può nemmeno
conseguire la produzione degli effetti della domanda giudiziaria di rivendica
del bene.
La Corte Costituzionale si è
espressa in particolare per stabilire che le ragioni petitorie possono essere
sempre fatte valere allorquando sussistano i presupposti per la loro tutela in
via d'urgenza, ovverosia se il diritto di proprietà è minacciato
da pregiudizio grave o irreparabile è possibile farlo valere in via
cautelare anche in pendenza di procedimento possessorio, ma parliamo soltanto
della tutela cautelare, inoltre si ritiene in qualche ura che le ragioni
petitorie possano essere dedotte in via di eccezione nel giudizio possessorio,
però, resta il fatto che tutte le volte in cui soprattutto non
sussistano i presupposti della tutela d'urgenza, il proprietario sia la parte
in disagio tra le due, non abbia la possibilità neppure di conseguire il
vantaggio.
Mi pare quindi che in questa
disciplina debba essere reinterpretata e riletta nel senso che, in
realtà la sanzione nei confronti della parte che promuove l'azione
petitoria in pendenza di un giudizio possessorio, che tra l'atro, si articola
in tutte e cinque le fasi del giudizio, questa parte abbia diritto per lo meno
alla riduzione degli effetti della domanda e che quindi, il giudizio petitorio
debba essere sospeso allorquando penda il giudizio possessorio e meglio ancora
sarebbe dire che questo procedimento può essere sospeso in tanto in
quanto l'azione possessoria non appaia manifestamente infondata, o meglio
ancora in tanto in quanto appaia fondata.
La disciplina di base della
sospensione del processo, cioè quella che regola il fenomeno della
sospensione propria, della sospensione del processo per pregiudizialità
ai sensi dell'art. 295, è qualificata come una disciplina irrazionale,
perché nelle ipotesi in cui penda controversia pregiudiziale dalla cui
risoluzione dipende la definizione della causa, il giudice è obbligato a
sospendere, del tutto indipendentemente da una ogni valutazione intorno
all'apparenza di fondatezza della domanda con cui viene innescata la
controversia pregiudiziale.
Ed essendo irrazionale favorirà
il ricorso a tattiche di carattere dilatorio? Certamente! È cosa
frequente che domande di carattere viziate vengano in realtà proposte e
formulate al solo scopo di procrastinare la definizione del merito del
giudizio, tant'è che si cominciò fin dagli anni '80 a discutere
sul come contenere questo fenomeno cui si imputavano notevoli
responsabilità nella protrazione dei tempi nella giustizia civile,
sicché le riforme di questi ultimi anni hanno avuto per obiettivo quello di
ridurre l'ambito di applicazione dell'istituto della sospensione per
pregiudizialità, alcune delle quali abbiamo visto, per esempio: il
mutamento del rito per ragioni di connessione introdotto attraverso la novellazione
dell'art. 40.
In che modo questa disciplina riduce
l'ambito di applicazione dell'istituto della sospensione necessaria? Perché, la
sospensione è concepita tradizionalmente, come strumento diretto a
favorire il coordinamento dei giudicati sul presupposto che le controversie
legate da un nesso di connessione per pregiudizialità di pendenza non
possano sempre essere trattate e decise in un unico processo.
Il cumulo di più cause in un
unico processo, favorisce il coordinamento delle decisioni della linea a cause
connesse, perché assicura l'unicità del giudice e anche l'unicità
del processo, quindi tutte le riforme dirette a favorire il cumulo delle cause
nello steso processo in deroga alle norme sulla competenza e in deroga alle
norme sul rito, hanno indirettamente l'effetto di ridurre l'ambito di
applicazione dell'istituto della sospensione, perché consentono, appunto, di
trattare contemporaneamente le cause connesse in un unico processo davanti ad
un unico giudice, e lo stesso effetto hanno quelle interpretazioni
giurisprudenziali attraverso le quali si è ampliato l'ambito di
applicazione della disciplina della continenza a discapito di quella della
disciplina della connessione, sicché la disciplina della continenza, secondo la
giurisprudenza dominante ormai da anni, è applicabile non soltanto nelle
ipotesi tradizionali in senso più stretto di continenza in cui si abbia
coincidenza di parti, coincidenza di causa petendi e mera variazione
quantitativa del petitum, ma si applica anche in casi in cui, si dice in
giurisprudenza, si abbia una variazione quantitativa della causa petendi,
ossia si deduca una fattispecie parte della quale è costituita dalla
fattispecie oggetto di altro giudizio, e addirittura, sempre secondo la
giurisprudenza, si applicherebbe alla disciplina della continenza persino in
ipotesi di connessioni tra domande contrapposte e quindi domande provenienti da
parti diverse, quando siano negate da vizi di pregiudizialità reciproca
si dice particolarmente intensi.
Perché si vuole applicare la
disciplina della continenza? Perché per le ipotesi di continenza, la legge
consente che la riunione sia disposta d'ufficio e rilevata in ogni stato e
grado del giudizio, mentre la riunione per connessione può essere
disposta soltanto in tanto e in quanto la relativa questione viene sollevata
entro la prima udienza, sicché complicare la disciplina della continenza
allarga le possibilità di rinvii dei procedimenti che siano in ipotesi
pendenti dinanzi a giudici diversi onde cumulare le cause connesse in uno
stesso processo ed evitare così che si debba sospenderne una.
Questo discorso vale per
l'introduzione della disciplina della derogabilità per connessione della
competenza per materia del giudice di pace, che è appunto derogabile
sempre verso l'alto, così il riparto verticale della competenza risulta
essere mai più posta in conflitto, a meno per quel che riguarda il
riparto verticale nello stesso grado di giudizio ostativo al cumulo processuale
e quindi alla trattazione in un unico processo di controversie legate dal nesso
di pregiudizialità posto appunto in alternativa, altrimenti ci sarebbe
stata la sospensione necessaria.
Si sono poi proposte soluzioni
alternative di vario genere, per esempio, c'è chi ha sostenuto che la
sospensione può essere dispostasoltanto a condizione che la controversia pregiudiziale sia
effettivamente pendente, e non quando sia semplicemente dedotta dinanzi ad un
giudice che non potrebbe conoscerne per ragioni di competenza.
Nel periodo di prima applicazione del
codice, quando il volume del contenzioso era molto minore, si riteneva
ragionevole questa disciplina, che ritiene utile favorire il coordinamento
delle decisioni in questa maniera, congruo volendo, non se ne abusava ancora
tantissimo, e quindi si riteneva che fosse più che sufficiente dedurre
la questione nell'ambito del procedimento del giudicato la questione passibile
di formare oggetto di autonomo giudizio e quindi formare oggetto di controversia
pregiudiziale appartenente però alla competenza inderogabile di un
giudice diverso, anche in modo molto implicito o anche limitandosi a sollevare
una eccezione di incompetenze del giudice adito rispetto a quella potenziale
controversia. Oggi si tende ad essere più restrittivi da questo punto di
vista e si tende anche ad affermare che la questione dev'essere sollevata
nell'ambito del procedimento pregiudicato da quella parte che sia legittimata
ed interessataa promuovere un
accertamento pregiudiziale, cioè provvista delle relative condizioni
dell'azione, sicché, non potrebbe, ad esempio, essere invece inutilmente
sollevata al fine di rendere necessaria la sospensione la questione dalla parte
avversa, secondo i casi in cui la legge espressamente lo prescrive,
così, per chi studia sul Mandrioli, il caso di cui dell'art. 35
costituisce un esempio di accertamento incidentale ex lege, per
previsione di legge, in quanto, se leggete la norma osserverete che la
remissione al diverso giudice competente per conoscere del controcredito
opposto in compensazione viene fatto valere soltanto in via d'eccezione, si
rende necessaria allorquando tale controcredito venga contestato, ossia quando
per effetto di un'iniziativa diretta ad ottenere un accertamento con efficacia
di giudicato intorno al controcredito che proviene però non dal titolare
del controcredito, ma dal suo avversario, cioè da colui che contesta il
controcredito ceduto in compensazione.
In mancanza di contestazione, il
controcredito viene riconosciuto in quanto fatto valere soltanto in via di
eccezione e quindi senza che ciò inneschi alcun problema di
sospensioneper pregiudizialità,
se il controcredito viene contestato si rende necessario quest'accertamento con
efficacia di giudicato e anormalmente questo è possibile per effetto di
iniziativa del convenuto cioè del titolare passivo di questo
controcredito che, appunto, si trovi a contestarlo, sarebbe quindi un
accertamento incidentale ex lege.
Oggi ha senso domandarsi, se sia
possibile fare di meglio. Qualcuno aveva auspicato che la sospensione per
pregiudicalità civile venisse resa discrezionale e ci sono stati anche
processi di riforma del codice di procedura civile in questo senso, e bisogna
dire, se si legge per esempio il codice di procedura civile tedesco, si scopre
che in Germania la sospensione è sempre solo discrezionale anche in
ipotesi si pregiudizialità. Si! Sembrerebbe un'idea un po' folle,
però, quando questa proposta venne formulata, molti si stracciarono le
vesti osservando che la sospensione per pregiudizialità non è
giustificata esclusivamente da obiettivi di economia processuale, che appunto
potrebbero ispirare su una scorta di ragionamento economico su una sospensione
di carattere discrezionale, l'economia processuale può realizzarsi solo
attraverso l'utilizzazione discrezionale dei poteri del giudice.
Si dice, e si diceva, dei principi di
esigenza di coordinamento dei giudicati. Ma su questo punto era senz'altro il
punto di partenza da cui muoveva il legislatore del'42, che era sul piano
storico non c'è dubbio vittima di quello che si era definito come un
mito dell'armonia dei giudicati, però, potrebbe trattarsi di un mito in
cui oggi, in effetti, non abbiamo più tanta voglia di credere e allora
vale la pena di esplorare queste norme per capire se davvero c'è
esplicitamente, inequivocamente, in questa disciplina un riferimento
all'esigenza di coordinamento del giudicato. Perché, i giudicati in qualche
modo si coordinano! Comunque in maniera più o meno efficiente; pensiamo
al disposto dell'art. 336, nella parte in cui consta il cosiddetto effetto
espansivo interno della sentenza di riforma che l'effetto espansivo
esterno, ovverosia, l'art. 336 dispone che la riforma o la cassazione di
una parte della sentenza estendono i loro effetti anche alle parti della
sentenza dipendenti dalla parte riformata o cassata e inoltre, questo è
l'effetto espansivo interno, la riforma o la cassazione di una sentenza
estendono i loro effetti anche agli atti e ai provvedimenti indipendenti dalla
sentenza riformata o cassata.
Questa norma è stata riformata
dalla legge 353/90 allo scopo di introdurre la regola della immediatezza della
produzione dell'effetto espansivo, il disposto precedente prescriveva che
l'effetto espansivo si producesse soltanto se c'era il passaggio in giudicato
della sentenza di riforma, e la cosa era rilevante soprattutto ai fini
esecutivi, cioè, anche se la sentenza di primo grado era stata
riformata, l'esecuzione poteva essere conseguita e financo addirittura promossa
fin tanto che tale sentenza d'appello non fosse passata in giudicato, questa
particolare disciplina destava non pochi problemi pratici, fin tanto che
l'altro carattere eccezionale è la regola dell'esecutività della
sentenza di primo grado. Di norma la sentenza di primo grado non era esecutiva.
Quindi, in realtà, soltanto in
quelle particolari ipotesi di esecutività della sentenza in prima
iure si poteva produrre il fenomeno curioso della esecuzione di una
sentenza già riformata e si trattava in particolare delle controversie
di lavoro in cui si muoveva dall'idea che si dovesse tutelare in modo
particolare il lavoratore subordinato, l'esecutività della sentenza di
primo grado era assicurata solo in suo favore e gli aspetti processuali della
disciplina venivano rinforzati dagli aspetti sostanziali della disciplina del
rapporto, perché l'esecutività della sentenza implicava che il
lavoratore avesse diritto a continuare a percepire le retribuzioni a seguito
della riforma della sentenza pronunciata in suo favore e tutto ciò era
sufficiente ad instaurare, comunque, un rapporto di lavoro di fatto che
giustificava, poi in ogni caso, l'irripetibilità delle retribuzioni
percepite anche qualora la sentenza di riforma venisse poi confermata dalla
cassazione.
Con la generalizzazione
dell'esecutività delle sentenze di primo grado era più che
sensato prevedere l'immediatezza dell'effetto caducatorio dell'efficacia del
titolo esecutivo della sentenza a seguito della sua riforma, anche per non
incentivare eccessivamente la proposizione di ricorsi in cassazione al solo
fine di preservare l'efficacia esecutiva di un titolo ormai riformato.
Anche qui, è difficile portarsi
a casa "capre e cavoli", perché ci sono gli aspetti attinenti all'efficacia
esecutiva della sentenza riformata, ma ci sono anche i problematici aspetti
attinenti alla sua efficacia ai fini della prosecuzione dell'istruzione
probatoria, in particolare con riferimento all'ipotesi della condanna generica,
e qui i problemi diventano complicati perché invece sarebbe più sensata,
rispetto a questi effetti della sentenza di primo grado, conservarne
l'efficacia nonostante la riforma per evitare costosi andirivieni di
attività probatorie che poterebbero essere rinnovate per effetto di
eventuali andirivieni tra corte d'appello cassazione della pronuncia impugnata.
Il caso è questo! Pronunciata
sentenza di condanna generica, una sentenza la cui utilità per la parte
consiste nella facoltà di iscrivere ipoteca giudiziaria, infatti la
sentenza di condanna ha un effetto principale di costituire titolo esecutivo ed
alcuni effetti secondari come l'ipoteca giudiziale che trasforma la
prescrizione breve in prescrizione ordinaria, converte il sequestro in
pignoramento, la sentenza dei condanna per l'an con riserva di procedere
in una successiva fase di giudizio per la liquidazione del quantum della
prestazione dovuta, è esplicitamente prevista tra le sentenze non
definitive dall'art. 278, è priva di efficacia esecutiva dopo
l'iscrizione di ipoteca giudiziaria per la cifra prudente che io stimo
incappando se imprudente a quanto previsto dall' art. 96.
Ovviamente, l'istruzione procede sul
presupposto della validità della sentenza di condanna generica, che
è sentenza non definitiva passibile di impugnazione immediata,
nell'ipotesi in cui venga accolta l'impugnazione della sentenza di condanna
generica parrebbe che l'istruzione non possa più proseguire in vista
dell'immediatezza dell'effetto caducatorio, e ciò ancorché, la sentenza
di riforma sia a sua volta ricorribile per cassazione.
Il problema è che questo
andirivieni non è sensato, infatti, allorquando nel 1950 il legislatore
aveva reintrodotto l'impugnabilità immediata delle sentenze non
definitive, che non era prevista nella versione originale del codice del '42,
aveva anche introdotto nelle disposizioni transitorie una serie di norme
dirette a regolare questo fenomeno in guisa tale da evitare sprechi di
attività processuali, e quindi, aveva previsto che nell'ipotesi in cui
la sentenza di condanna generica riformandosi riformata in appello, l'art. 129
bis delle disp. di att., prevede che se viene proposto ricorso per cassazione
contro la sentenza di riforma, l'attività istruttoria in primo grado
può sospesa su istanza di parte, quindi vuol dire che normalmente
prosegue; occorre un'istanza di parte che anche in presenza di istanza di parte
non è necessario e doveroso sospendere, rimane un ambito di
discrezionalità del giudice, potrebbe in effetti continuare quando
ritenga probabile l'accoglimento del ricorso in cassazione, quando ritenga
fondato il ricorso per cassazione e quindi probabile la cassazione della
sentenza di riforma della sentenza di primo grado, fa benissimo il giudice a
non sospendere e proseguire nell'istruzione ed a evitare che vengano rallentati
i tempi della tutela dell'attore che abbia ragione.
Questo escursus serve, soprattutto a
ricordarci che una possibile modalità di coordinamento delle decisioni
è quella del coordinamento a posteriori, ossia una decisione successiva
può avere effetto caducatorio di una decisione precedente anche se
passata in giudicato, può darsi che la pronuncia di liquidazione del quantum
sia addirittura passata in giudicato e non sia stata impugnata, tuttavia, la
successiva pronuncia di una sentenza di riforma o di cassazione della sentenza
della condanna generica, travolge anche automaticamente la pronuncia di
liquidazione del quantum.
Questo punto è considerato
pacifico, ma si può obiettare che l'art. 336 si applica in ipotesi di
pregiudizialità tra questioni relative alla stessa domanda, ossia si
applica nel rapporto tra sentenze definitive e non definitive riferite tutte ad
una stessa domanda e non risolve, quindi, il problema del coordinamento tra le
decisioni relative a controversie a domande diverse nei rapporti di
pregiudizialità, ciascuna delle quali sia passibile di formare oggetto
di un autonomo giudizio.
Potremmo immaginare che si applichi la
disciplina generale della repressione del contrasto di giudicati, così
come la rinveniamo nella lettura dell'art. 395 n. 5, questa norma nel
disciplinare i casi di cosiddetta revocazione ordinaria della sentenza, prevede
che sia soggetta a revocazione quella sentenza che sia contraria ad altra
precedente sentenza passata in giudicato tra le stesse parti, sempre purché, il
giudice non abbia pronunciato sulla relativa eccezione, con ciò si
intende dire che se abbiamo due sentenze passate in giudicato sulla stessa
causa cronologicamente successive, prevale la seconda in forza del generale
principio per cui il giudicato copre il dedotto ed il deducibile. La prima
sentenza è deducibile nel provvedimento che ha dato luogo alla seconda e
quindi rimane assorbita, tanto è vero che, è onere della parte
far valere tempestivamente il contrasto della seconda decisione con la prima,
cioè farlo valere prima che sulla seconda si formi il giudicato
attraverso la proposizione dell'eccezione, che in questo caso è
impugnabile con ricorso in cassazione la sentenza d'appello che mal decida
sull'eccezione di giudicato tempestivamente proposta, il legislatore da anche
alla parte la possibilità, quando non sia stata sollevata l'eccezione in
quel giudizio, di avere qualche minuto di recupero per dare la
possibilità di proporre giudizio di revocazione, ma di revocazione
ordinaria perché viene prima sempre che la sentenza sia passata in giudicato
nei confronti della sentenza d'appello, pero solo in tanto in quanto sia
sentenza d'appello che abbia omesso di pronunciare sulla eccezione di giudicato
allo scopo di far valere prima della formazione del secondo giudicato la
presenza di un primo precedente giudicato, anche se parte della dottrina
ritiene comunque che prevalga la prima, ma se entrambe sono passate in
giudicato è la seconda che prevale.
Ci sono dei meccanismi di
coordinamento a posteriori, ma qui potremmo anche dire, un momento! L'art. 395
si applica a contrasti di giudicati sulla stessa causa, ancora non c'è
il caso di cui ci stiamo occupando, cioè il caso di contrasti tra
controversie diverse legate da un rapporto di pregiudizialità.
Naturalmente, può darsi, che
per queste controversie non ci sia quella possibilità in più che
è quella dell'istanza di revocazione ordinaria, ma è
sempre possibile far valere un giudicato sulla questione pregiudiziale del
procedimento che ha oggetto la causa dipendente che naturalmente considerare
viziata, impugnabile la sentenza che disattenda il precedente giudicato pur di
far valere questa violazione nella misura in cui ciò e consentito
attraverso il sistema dell'impugnazione ordinaria.
Ma viene da dire, se è vero che
il legislatore non ha predisposto nessun rimedio speciale per reprimere a
posteriori il mancato coordinamento di giudicati fra cause pregiudiziali e
cause dipendenti. Se è vero. Può darsi di no! Poteremmo ritenere
che l'art. 336 possa essere applicato estensivamente è un'idea
tutt'altro che pellegrina, ma se è vero che non c'è nessun
rimedio speciale per reprimere, perché ci deve essere un rimedio speciale per
prevenire?
Qui pecchiamo per eccesso! Perché
addirittura blocchiamo il procedimento per impedire che si avveri un rischio
che poi non vogliamo reprimere se si avvera, .strano! Potremo pensare, forse,
che c'è una qualche norma che assicura alla parte al diritto a
conseguire un giudicato sulla controversia pregiudiziale prima del giudicato
sulla controversia dipendente. Ma questa norma non c'è, perché l'art.
2909 c.c. mi consente di far valere il giudicato ad ogni effetto, ma non mi
dice in nessun modo che ho diritto di ottenere un giudicato pregiudiziale prima
di un giudicato dipendente, ci saranno pure, e ci sono certamente, le ragioni
logiche che inducono a suggerire che il giudicato sulla controversia
pregiudiziale spieghi un effetto vincolante nella controversia dipendente
magari non valga invece in contrario, cioè che il giudicato sulla
controversia dipendente non sia spendibile nella decisione sulla controversia
pregiudiziale, cosa che la giurisprudenza non pensa molto volentieri, ma la
dottrina ama pensare e ama dire per ragioni logiche o pratiche, perché è
più facile vedere le implicazioni e le premesse di ciò che si sta
discutendo e quindi quando discutiamo della controversia pregiudiziale
più facilmente vediamo come saranno le implicazioni per le eventuali
controversie dipendenti e quindi discutiamo quella controversia in modo da
tenerne conto, mentre se discutiamo la dipendente è meno facile che
abbiamo in mente tutte le possibili controversie pregiudiziali da cui questa
può dipendere e quindi, si capisce che si abbiano maggiori riserve nei
confronti del giudicato implicito sulle questioni pregiudiziali di merito,
anche quando possano formare oggetto di autonomo giudizio che sovente si
ritrova in giurisprudenza.
Però, resta il fatto che il
diritto positivo non mi conferisce un diritto alla priorità cronologica
dell'accertamento pregiudiziale, e qualcuno, infatti ha detto, che in realtà
questa disciplina non ha l'obiettivo di favorire il coordinamento del
giudicato, bensì, quello di favorire la giustizia delle decisioni, e
questo, parte della dottrina lo ha detto sulla base di una ricostruzione che
però è un po' opinabile della dinamica riproduttiva degli effetti
della sentenza costitutiva.
Si muove dalla premessa che l'effetto
costitutivo della sentenza si produca soltanto con il suo passaggio in
giudicato, premessa diffusa, ma opinabile per alcuni non condivisa, salvi i
casi in cui la legge espressamente disponga altrimenti, ciò non esclude,
ovviamente che, l'effetto attributivo del bene della vita derivante
dall'accoglimento della domanda costitutiva non possa essere magari anticipato
quando sussistano ragioni d'urgenza, sicché, è dominante la tesi che
ritiene possibile la tutela costitutiva in via d'urgenza al fine
dell'ottenimento dell'effetto attributivo del bene della vita, ovverosia, per
capirci: il fondo intercluso ha bisogno del passaggio, posso farmi autorizzare
a passare anche con un provvedimento cautelare, ancorché la costituzione della
servitù di passaggio si perfezioni, dal punto di vista della produzione
degli effetti giuridici, magari col passaggio in giudicato della sentenza che
accoglie la domanda per il merito.
Si diceva, che muovendo dalla premessa
generale questi effetti si producono solo con il passaggio in giudicato, alcuni
hanno detto, ma questa norma sulla sospensione serve a proteggere quella parte
che ha bisogno della produzione degli effetti costitutivi, e quindi, deve
attendere il passaggio in giudicato della sentenzaacciocché la parte possa far valere questi
effetti costitutivi nel procedimento pregiudicato, però questo sarebbe
abbastanza convincente se non fosse che, per un verso, appunto, è
opinabile che gli effetti costitutivi si producano soltanto con il passaggio in
giudicato nell'enunciato della pronuncia della sentenza, specialmente a seguito
dell'evoluzione della generalizzata esecutività delle stesse, perché
molti ritengono che anche gli effetti costitutivi si producano dal momento
della pronuncia della decisione.
In secondo luogo, la disciplina non
è formulata con alcuno specifico riferimento al problema della tutela
costitutiva e quindi creare questo collegamento così stretto appare
alquanto opinabile, e poi soprattutto, questo ragionamento fa di nuovo capo
alla premessa che la disciplina di cui all'art. 295 sia diretta a permettere di
far valere un effetto prodotto dal giudicato, e qui, bisogna leggere questa
norma e dire dove l'art. 295 parli di giudicato! Perché l'idea che questo
strumento sia diretto a favorire la teoria delle decisioni, sembra un'idea
meritevole di essere sviluppata meglio, sottolineando che in questa norma non
si parla affatto di giudicato. Il giudice sospende il processo, quando egli
stesso o altro giudice devono risolvere un'altra controversia dalla cui
definizione dipende la risoluzione della causa. Devono risolvere, decidere! Non
si dice risolvere con efficacia di giudicato, non si dice decidere con
efficacia di giudicato! Qui di giudicato non si parla e visto che giudicato non
si parla, perché non possiamo provare a pensare che questa norma preveda in
realtà, il diritto a far valere gli effetti di una diversa decisione
anche se non passata in giudicato, cioè del tutto indipendentemente del
suo passaggio in giudicato. Dobbiamo prestare omaggio alla volontà del
legislatore storico? Certamente no! Il legislatore del '42 può aver
scritto materialmente queste leggi! Nel '42 intendeva certamente riferirsi
all'effetto di giudicato! Però gli è rimasto nella penna, non lo
ha scritto, e se non lo ha scritto, noi possiamo, forse, interpretare questa
disciplina nel modo più sensato per le condizioni di oggi, soprattutto
in considerazione nella circostanza che si tratti di una disciplina viziata dal
prevedere che non c'è spazio per l'interprete, la norma richiama nel
prevedere l'automatismo della sospensione.
La norma è chiarissima nel
senso di escludere qualsiasi margine di discrezionalità nel limitare al
minimo, diciamo, i margini di discrezionalità del giudice nel disporre
la sospensione. Su quello non si può lavorare! Non c'è spazio
interpretativo! Ma c'è invece nell'individuarsi davvero che l'obiettivo
sia nel coordinamento del giudicato, o se possa anche essere inteso come un
obiettivo di mero coordinamento delle decisioni, il che dal punto di vista
teorico è tuttaltro che insensato, perché si può benissimo
aderire all'impostazione secondo cui la sentenza produce effetti, che vengono
detti imperativi tradizionalmente, sin dal momento della sua pronuncia e del
tutto a prescindere dal suo passaggio in giudicato, il che magari non
necessariamente vuol dire spingersi a sostenere di giudicare soltanto una
qualità degli effetti della sentenza. Ci sono effetti che si producono
soltanto al momento del passaggio in giudicato della decisione.
Tuttavia, è perfettamente
ammissibile che alcuni effetti si producano sin dal momento della pronuncia,
effetti quali, per esempio, quello di far gravare sulla parte che intenda
contestare delle implicazioni dell'attribuzione del bene della vita compiuta
nella sentenza, e la decisione sulla causa pregiudiziale anche se non passata
in giudicato. Un effetto che potremo dire persuasivo, che incide sugli oneri di
argomentazione delle parti e sugli oneri di motivazione della decisione da
parte del giudice.
Insomma, si potrebbe come, una parte
della dottrina ha tentato più volte di dimostrare, che la sospensione
per pregiudizialità ai sensi dell'art. 295, non necessariamente dura
sino al momento del passaggio in giudicato della decisione sulla causa
pregiudiziale, bensì può durare anche soltanto fino al momento
della pronuncia sulla causa pregiudiziale. Però, per raggiungere questo
obiettivo bisogna fare i conti con i dati del diritto positivo e qualche
difficoltà la crea.
Per esempio un aggancio per sostenere
che la sospensione per pregiudizialità cura soltanto un grado del
giudizio è stato cercato da molti nel disposto dell'art. 337,
cioè quello secondo cui quando l'autorità di una sentenza invocata
in undiverso giudizio, questo
può essere sospeso laddove la sentenza sia impugnata. Questa norma, per
i sostenitori della tesi tradizionale, cioè della tesi secondo cui la
sospensione per pregiudizialità dura fino al passaggio in giudicato
della decisione della causa pregiudiziale, si applicherebbe in quelle ipotesi
in cui la sentenza sulla causa pregiudiziale sia investita di un'impugnazione
straordinaria. Si dice! Finché dura il corso delle impugnazioni ordinarie, la
causa dipendente deve essere sospesa finché non è arrivato in giudicato,
se invece viene proposto l'impugnazione straordinaria allora la sospensione
della causa pregiudicata diventa facoltativa e a sostegno di questa
argomentazione c'è un argomento filologico, forte fino ad un certo
punto, e cioè quello che ricollega questa norma al suo antecedente nel
codice del 1865, ove si prevedeva pure una sospensione discrezionale e mai si
faceva esplicito riferimento a quella disciplina all'ipotesi delle solo
impugnazioni straordinarie, però quest'argomento è forte fino ad
un certo punto, tutto sommato vale tanto quanto l'argomento che il legislatore
del '42 era a conoscenza della formulazione limitativa contenuta nella norma
del 1865, e si come tale prodotta, evidentemente ha volute eliminare questa
restrizione, cioè rendere applicabile la disciplina della sospensione
discrezione anche nell'ipotesi di impugnazione ordinaria.
A dire il vero, c'è un
ulteriore argomento filologico più forte, e cioè la circostanza
che l'art. 337 faccia specifico riferimento all'autorità di una
sentenza e nel linguaggio invaso nella tradizione dottrinale, l'autorità
della sentenza è l'autorità della cosa giudicata.
La sentenza non passata in giudicato
è considerata provvista di un'efficacia ma non di un autorità,
qui l'argomento è più forte da quello lessicale precedente,
però è tutto sommato un argomento non così forte da
costringerci a pensare che l'art. 337 non sia applicabile nei confronti dei
casi di impugnazione ordinaria, perché, si ha parlato di autorità.una
imprecisione..
Rimaniamo ancora nell'ambito delle
forzature interpretative ammissibili, se noi riteniamo questa disciplina
applicabile ai casi di impugnazione ordinaria. Però, come coordinare
questo art. 337 con l'art. 295? Andrioli proponeva di coordinarlo in questo modo,
diceva: "se la causa pregiudiziale sorge, o è dedotta prima che sia
stata emanata qualsiasi sentenza sulla causa dipendente, allora si applica
l'art. 295, e il procedimento relativo alla causa dipendente resterà
sospeso fino al passaggio in giudicato della causa pregiudiziale, ma se invece,
la causa pregiudiziale sorge nel momento in cui sulla causa dipendente si
è già arrivati a sentenza, allora si applicherà l'art.
337, Andrioli era un grande avvocato e con questa espressione, senza dirlo
esplicitamente evocava un aspetto abbastanza significativo della problematica,
e cioè quando succede che questa causa pregiudiziale scoppi, quando la
causa dipendente è stata decisa, puzza di bruciato è forte che
questa sia tirata fuori soltanto per vantare la tutela dell'attore della causa
dipendente.
Andrioli formulava questa tesi in un
epoca in cui la sentenza di primo grado non era esecutiva, e questo già
costituiva un incentivo alla proposizione dell'appello e quindi nel contesto di
un appello, magari in già quanto tale proposto al fine di procrastinare
l'esecutività della decisione, veniva anche evocata la necessità
di attendere la decisione di una controversia pregiudiziale che ancora doveva
cominciare e quindi una situazione cui era lecito sospettare che il convenuto
da causa dipendente stia giocando sporco, perciò era sensato sentire al
giudice in quell'occasione di evitare la sospensione.
Va anche menzionata una particolare
interpretazione minoritaria secondo cui secondo cui l'art. 337 non si applica
in casi di impugnazioni straordinarie, ma neanche in casi di vera e propria
pregiudizialità di pendenza, bensì sarebbe diretto a favorire un
coordinamento delle decisioni nelle ipotesi di connessione impropria, o
comunque in quelle ipotesi di connessione che non rientrano nello schema
stretto della pregiudizialità di pendenza.
La tesi di Montesano che cerca di
quadrare in un'altra maniera il rapporto tra l'art. 295 e 337.
Ma torniamo alla tesi di Andrioli, per
cui scatta il 295 se la causa pregiudiziale sorge nel contesto del giudizio di
primo grado sulla causa dipendente, si applica il 337 se questa sorge nel
contesto del giudizio di impugnazione della causa dipendente.
Sarebbe stato sensato in qualche modo
se fosse stato, come si diceva: sospendo necessariamente quando la
pregiudiziale sorge mentre la pregiudicata è in primo grado, sospendo
facoltativamente se la pregiudiziale sorge quando la pregiudicata è in
secondo grado, però il testo della norma, in realtà, non consente
di arrivare proprio esattamente a questa deduzione, che un qualche senso magari
c'è l'avrebbe, appunto perché potremo dire, che puzza di bruciato, la
causa pregiudiziale che sorge quando è stata già decisa la causa
pregiudicata, in realtà il testo della norma induce Andrioli a trovare
un'interpretazione che consente di applicare largamente la 337 ai casi di
pregiudizialità, ma che è un pochino diversa, perché in
realtà è così. Si applica l'art. 295 quando la
controversia pregiudiziale viene dedotta nella controversia pregiudicata e la
controversia pregiudiziale non è stata ancora decisa, si applica il 337
quando nel contesto della controversia dipendente si deduce una controversia
pregiudiziale che è stata già decisa. E qui il quadro è un
po' diverso, non è proprio coincidente a quanto dicevamo prima in cui in
effetti c'è puzza di bruciato, qui, se io sono l'attore della causa
dipendente e voglio cercare di evitare che questa sia sospesa sino al passaggio
in giudicato della decisione pregiudiziale, io devo cercare di proporre la mia
domanda sulla causa dipendente dopo la decisione della causa pregiudiziale.
In realtà, qua, i margini di
manovra non sono margini di manovra di colui che propone la domanda pregiudiziale
per bloccare la causa dipendente, sono immagini di manovra di colui che deve
proporre la causa dipendente quando già pende una causa pregiudiziale.
Il problema di Andrioli a me fa
pensare ad un ufficio pubblico che sia aperto dalle 09.00alle 10.00, al 30°
piano e l'ascensore inizia a lavorare alle 09.55, mi mette in
difficoltà, io vorrei prendere l'ascensore per farmi 30 piani, ma
rischio di arrivare a ufficio chiuso, ossia tutti gli incentivi che sono
incentivi a ritardare la proposizione della controversia, sono incentivi molto
discutibili, come anche sono discutibili i vari meccanismi che vanno a
procrastinare l'esame del merito della causa ai tentativi di conciliazione.
Perché soprattutto quando questi incentivi non mi consentono la produzione degli
effetti della domanda giudiziale, perché qui devo proprio aspettare la domanda,
io rischio che nel frattempo il diritto mi venga prescritto, che sopravvenga
una decadenza, rischio di trovarmi l'ufficio chiuso quando prendo l'ascensore,
cioè quando avrò proposto la causa aspettando la pronuncia della
sentenza, cioè aspettando che partisse l'ascensore in modo da "prendere
l'ascensore del 337", l'ascensore veloce, invece delle "scale dell'art. 295", e
rischio però che nel frattempo il diritto me lo sono perso.
Per pensarne un'altra, bisogna
soprattutto combattere con un particolare dato lessicale che è l'art.
297, esso è stato tradizionalmente considerato come l'indicatore
più forte di tutti, nel senso che si debba attendere il passaggio in
giudicato della decisione pregiudiziale, perché l'art. 297, regolando gli oneri
di riattivazione del processo a seguito della cessazione della causa della
sospensione contiene un provvedimento obsoleto con riferimento all'art. 3 del
c.p. che non è stato mai coordinato e che si può considerare come
non scritto, comunque, dice che il processo deve essere riassunto a pena di
estinzione entro sei mesi dal passaggio in giudicato dalla cessazione della
causa di sospensione o dal passaggio in giudicato della controversia sulla causa
pregiudiziale.
Cessazione della causa di sospensione
fa riferimento a quelle ipotesi di sospensione impropria, la conclusione del
giudizio dinanzi alla corte costituzionale sulla questione di
illegittimità costituzionale della norma da pronunciarsi sul regolamento
di giurisdizione, di competenza e così via,.
Il passaggio in giudicato della causa
pregiudiziale fa riferimento alle ipotesi di sospensione necessaria per
pregiudizialità ex art. 295, questa norma sembrerebbe proprio indicare
che in queste ipotesi la causa della sospensione cessa con il passaggio in
giudicato della decisione sulla controversia pregiudiziale. Ma è proprio
così? In realtà no! Perché, questa norma contempla un termine
acceleratorio non un termine dilatorio, questa norma non contiene nessun
termine dilatorio, cioè dice fino a quale momento ed entro quando il
processo va riassunto a pena di estinzione, pone il dies a quem ma del dies
a quo non dice niente, ossia, nulla dice questa norma in ordine agli
effetti della riassunzione del procedimento sospeso, compiuta prima del
passaggio in giudicato della causa pregiudiziale. La norma non ne parla! Pone
certamente un termine acceleratorio, poi nel porre un termine acceleratorio
è di manica larga, non fa fretta alla parte che sia interessata dalla
riattivazione del procedimento prima di subire gli effetti dell'estinzione,
devono passare sei mesi dal passaggio in giudicato della causa pregiudiziale, e
in effetti a quel punto l'inattività della parte lascia desumere che sia
venuto meno l'interesse alla riattivazione del procedimento, ma se la parte ha
interesse a riattivarlo prima?
Faccio questo discorso, perché, sono
convinto che la parola non impedisca in alcun modo di riassumere la causa prima
del passaggio in giudicato della decisione sulla causa pregiudiziale.
Se letta in connessione con l'art.
295, nella parte in cui questa norma non fa riferimento alcuno al passaggio in
giudicato della causa pregiudiziale, possiamo desumere che dal combinato
disposto emerga una soluzione, del tutto sommato ragionevole nel contemperare
l'interesse delle parti perché la causa della sospensione nell'ipotesi di
pregiudizialità, può ritenersi cessata con la pronuncia della
sentenza, sia pure della sentenza di primo grado sulla causa pregiudiziale,
però, le parti non hanno l'onere di riattivare immediatamente dopo la
pronuncia della sentenza sulla causa pregiudiziale a pena di estinzione, spetta
a loro, in particolare a quella parte tra le due che abbia più fretta,
decidere se convenga o meno correre il rischio di far conto su una decisione
pregiudiziale che potrebbe essere caducata con l'impugnazione ordinaria, quindi
ha un grado di instabilità certamente più elevato della decisione
che sia passata in giudicato.
Se si tratta di soggetto avverso al
rischio, comunque che non abbia particolare fretta, può tranquillamente
aspettare, se preferisce riattivare il procedimento soltanto dopo essere
entrato inpossesso di una sentenza
munita e provvista dei pieni effetti di giudicato può tranquillamente
aspettare che questo si formi, se invece ha fretta e li riassume prima, ecco
allora che non vi è più bisogno di applicare l'art. 295, perché
in questa ipotesi siamo invece nel campo di applicazione andrioliano dell'art.
337, che posso rendere applicabile senza bisogno di dover procrastinare la
stessa proposizione della domanda; posso intanto proporre la domanda, salvo
subire la sospensione necessaria, e poi riassumere un procedimento già
attivato, ma rispetto al quale nel frattempo ho potuto contare sull'effetto della
domanda, posso riassumerlo dal momento in cui è resa una sentenza
ancorché pure soggetta da impugnazione ordinaria, sulla controversia
pregiudiziale.
Tutto questo, pur forzando la mano del
dettato normativo, ci consente di condurre un po' di più a ragionevolezza,
della disciplina della sospensione necessaria, facendo in modo, che se non
altro, un certo margine di discrezionalità, subordinato all'iniziativa
della parte, e quindi pure subordinato al generale principio dell'impulso di
parte, possa operare anche nel contesto della sospensione per
pregiudizialità. Si tratterebbe, insomma, di uno strumento
interpretativo, più efficiente di quello strumento correttivo e
repressivo che è dato dall'introduzione del regolamento di competenza,
che anzi, in larga misura è controproducente, è ha rischiato
persino di essere il rimedio peggiore del male se fossero passate certe
interpretazioni, perché nel momento in cui un provvedimento viene qualificato
come un provvedimento impugnabile, succede che la decisione sullo stesso acquista
gradi di stabilità che prima non aveva proprio perché il provvedimento
è impugnabile, una volta che non sia stato impugnato o che
l'impugnazione sia stata respinta.
In precedenza era pacifico che il
provvedimento di sospensione avesse carattere meramente ordinatorio e fosse
quindi pienamente revocabile in qualsiasi momento anche dal giudice che
l'avesse emesso, dal momento in cui è stata introdotta, invece, la
possibilità di proporre regolamento di competenza, si è
cominciato più seriamente a dubitare di una sua revocabilità,
anzi, l'orientamento prevalente è in giurisprudenza, oggi è nel
senso che il provvedimento di sospensione non possa essere revocato, ma il
provvedimento è senz'altro passibile di revoca quando mutino le
circostanze che lo hanno reso necessario e giustificato, sicché ad esempio, se
ci troviamo nell'ipotesi di, in cui in realtà questo non è
applicabile: la causa pregiudiziale è giunta in grado d'appello e quindi
in parte fa sorgere la controversia pregiudiziale allo scopo di rallentare la
definizione del giudizio d'appello, che consegue una sospensione necessaria per
pregiudizialità, in teoria questa causa in appello dovrebbe restare
ferma finché la pregiudiziale esaurisce il suo corso, ma siccome è
fortemente probabile, che fra cause connesse per ragioni di
pregiudizialità, comunque si abbia la stessa competenza, è anche
fortemente probabile che l'impugnazione della sentenza sulla causa
pregiudiziale debba essere riconosciuta dallo stesso giudice investito
dell'impugnazione della sentenza sulla causa pregiudicata, e allora, in grado
d'appello è possibile l'applicazione dell'art. 274, in forza del rinvio
alla generale applicabilità delle norme sul procedimento in primo grado
e quindi è possibile disporre la riunione presso lo stesso giudice o
addirittura presso la stessa sezione o magistrato di cause connesse pendenti
presso lo stesso ufficio giudiziario. Questa riunione può consentire la
realizzazione a posteriori, nel corso dello svolgimento del procedimento del
processo simultaneo, e quindi, le due cause potrebbero essere riunite e
potrebbero conseguentemente essere revocate, da quella sospensione della causa
pregiudiziale che trovava la sua condizione negativanell'impossibilità di trattarle in
ununico processo, quindi deve essere
concessa anche nell'ipotesi in cui il provvedimento è stato confermato
dalla Corte di Cassazione, la regola dell'ordinanza di sospensione quando
possiamo riunire in grado di impugnazione le controversie in un unico processo.
Ma si è rischiato anche di peggio!
Si è rischiato che il provvedimento, come parte della dottrina aveva
proposto, considerato come un provvedimento di tipo decisorio, che di
conseguenza dovesse assumere anche la forma della sentenza, con ulteriore
implicazione che quindi le pronunce sulle istanze di sospensione dovessero
assumere forma di sentenza, sia nell'ipotesi in cui la sospensione venisse
disposta, sia nell'ipotesi in cui l'istanza di sospensione venisse rigettata e
quindi risultasse soggetta a regolamento di competenza anche l'ordinanza di
rigetto dell'istanza di sospensione, talché avremo avuto il rimedio peggiore
del male, perché, a quel punto la parte in malafede altro non aveva da fare che
produrre istanza di sospensione e a seguito del rigetto proporre regolamento di
competenza e lucrare sull'effetto sospensivo del regolamento di competenza ai
sensi dell'art. 48, cioè non ci sarebbe stato modo di evitare la
sospensione, perché o la si concedeva, oppure la si otteneva come conseguenza
dell'impugnazione del provvedimento di rigetto.
Per fortuna queste interpretazioni non
sono state accolte ed è assolutamente assodato in giurisprudenza che i
provvedimenti di rigetto dell'istanza di sospensione non siano soggetto a
regolamento di competenza perché la ratio della disciplina è
quella di consentire un riesame dei provvedimenti che rallentano lo svolgimento
del processo sul presupposto che nell'ipotesi in cui sia invece omessa una
sospensione dovuta, la parte che ne sia vittima trovi comunque un rimedio nella
successiva declaratoria di nullità degli atti compiuti in derivazione
dell'obbligo di sospensione del processo, mentre la parte che sia vittima della
sospensione non dovuta, non aveva alcuno strumento per tornare in possesso del
tempo perduto, e quindi solo in quell'ipotesi si rendeva particolarmente
importante offrire uno strumento di tutela consistente nella facoltà di
conseguire un riesame della decisione presso un giudice diverso.
Però anche se non sono passate
interpretazioni pericolose, lo strumento del regolamento di competenza riamane
un rimedio incongruo per rendere razionale la disciplina della sospensione.
Perché mentre l'obiettivo della razionalità andrebbe perseguito
incrementando la discrezionalità del giudice del merito nel disporre o
meno la sospensione nei casi in cui la legge imponga che venga pronunciata, non
è affatto congruo prevedere un riesame in sede di legittimità,
potendo anche immaginare un esame davanti ad un giudice diverso, un esame
proprio dinanzi alla Corte di cassazione che è giudice della
legalità, e quindi è giudice del cui riesame necessariamente
conculca gli aspetti di discrezionalità della decisione, perché la
cassazione è appunto il giudice dell'esatta uniforme osservanza delle
norme di diritto, è il giudice che deve applicare le norme in modo generalizzato,
deve prendere decisioni che non tengano conto dei dettagli del caso concreto e
che quindi non può tener conto delle apparenze di fondatezza o delle
prognosi intorno all'esito della controversia pregiudiziale, può tenere
conto soltanto degli astratti dei rapporti logici sussistenti fra le
controversie, non può e nemmeno potrebbe, perché non appartiene al ruolo
della cassazione, delibare le apparenza di fondatezza, perciò si finisce
in un certo senso, per andare incontro a soluzioni paradossali, succede che
questo strumento non è passibile di applicazione estensiva a tutte le
ipotesi in cui la sospensione sia discrezionale e questo non desta particolari
problemi per tutte quelle ipotesi in cui è prevista dalla legge una
sospensione discrezionale.
Ma che dire delle ipotesi in cui la
giurisprudenza ritiene possibile una sospensione discrezionale anche in
mancanza delle previsioni legislative? Sono impugnabili questi provvedimenti o
no? Paradossalmente la giurisprudenza, secondo poi alla fine si rende conto che
le discrezionalità non sono così brutte come le si dipingono,
spesso è di manica larga e dice che questi provvedimenti sono per
definizione non impugnabili, perché non sono previsti ai sensi dell'art. 295,
in realtà sarebbe più congruo dire che quando sono resi al di
fuori dei casi previsti dalla legge dovrebbero essere invece impugnabili perché
resi in mancanza di presupposti di legge per renderli, però, non ci si
può neanche scagliare troppo nei confronti della giurisprudenza della
cassazione che un po' formalisticamente si ricollega alle circostanze che sia
esplicitamente previsto il controllo solo sulle sospensioni ex art. 295, e
d'altronde è quello il controllo che noi facciamo bene, e lo facciamo al
punto che dichiariamo inammissibili i procedimenti di fatto, prediamo di tutela
anche di quella tutela consistente della facoltà di riesame della
pronuncia presso giudice diverso, la parte che sia vittima di sospensione
pronunciate al di fuori dei casi previsti dalla legge.
Abbastanza controversa è soprattutto
la possibilità di applicare questa disciplina alle ipotesi di
sospensione che sono tutelate dalla legge 218/95, laddove si contempla la
ura della sospensione nell'ipotesi di litispendenza internazionale,
cioè nell'ipotesi che la stessa causa penda innanzi ad un giudice
straniero, e di sospensione per l'ipotesi in cui una causa connessa sia
pendente dinanzi ad un giudice straniero. L'ipotesi di sospensione per
connessione è quella più vicina all'ipotesi di sospensione per
pregiudizialità, cioè il giudizio è sospeso perché pende
causa pregiudiziale, però qui, la norma esplicitamente prevede la
facoltatività del potere di sospensione, e lo stesso fatto che questa
sospensione sia di carattere discrezionale dovrebbe escludere la facoltà
di consentirne il riesame attraverso l'impugnazione del relativo provvedimento
del regolamento di competenza.
Più delicato è il caso
della sospensione della litispendenza internazionale, perché qui si prevede che
il giudice sospenda, ma sospenda in tanto in quanto ritenga che la decisione
possa essere riconosciuta in Italia, e qui ci si trova di fronte a una norma
che introduce una discrezionalità nella forma di una prognosi, questa
volta non più soltanto sul contenuto della decisione attesa, ma anche intorno
alla sua riconoscibilità, la circostanza che si effettui questa prognosi
rende la disciplina di questa sospensione razionale e a mio avviso esclude che
si renda necessario ricorrere a questo anomalo strumento che è il
regolamento di competenza, come invece per la cassazione la ratio decidendi
era quella di adottare per inammissibilità dei regolamenti di
giurisdizione, con cui si cercava di far valere la litispendenza internazionale
sul presupposto che questa creasse una questione di giurisdizione e in quei
contesti la giurisprudenza era animata dall'intento di dissuadere la
proliferazione dei ricorsi per regolamento di giurisdizione, assieme a quello
di competenza essendo congruo che sia confinato esclusivamente al riesame delle
sospensioni ai sensi dell'art. 295 e tuttalpiù di quelle sospensioni
discrezionali che in realtà vengono compiute al di fuori di qualsiasi
presupposto di legge compresi quelli che legittimano il ricorso alla
sospensione facoltativo o discrezionale.
·L'interruzione del processo
Tradizionalmente la disciplina
dell'interruzione del processo è preposta a garantire
l'effettività del contraddittorio, con questa locuzione classica in
dottrina si allude che questa disciplina tenda a far si che la parte abbia, se
vuole difendersi attivamente, la concreta possibilità di decidere se
farlo e farlo efficacemente. Pertanto, precede che in occasione di una serie di
eventi, tassativamente indicati dal legislatore, (si produca un fenomeno avente
effetti giuridici analoghi a quelli della sospensione, e cioè appunto,
un arresto dello sviluppo sequenziale del procedimento con divieto di compiere
atti che in sospensione del decorso dei termini fatta eccezione per la
sospensione per gli atti e i termini relativi per la riattivazione del
procedimento interrotto), dai quali si può desumere che vi possano
essere difficoltà per la parte di difendersi o vi sia la
necessità per la parte di ripensare alle sue strategie difensive.
In concreto di quali eventi si tratta!
Per un verso di eventi che pregiudicano la capacità della parte di
difendersi perché colpiscono il procuratore legalmente costituito e per latro
verso gli eventi che incidono sulla parte, o perché si tratta di vicende
successorie e sicché bisogna dare spazio di tempo al successore per decidere se
ripensare alla strategia difensiva, ovvero di vicende non pur avendo carattere
successorio comportano un mutamento della persona che prende le decisioni.
Per quanto riguarda gli eventi
relativi alla parte personalmente, si tratta di casi di:
-morte;
-perdita della capacità
della parte o del suo legale rappresentante;
-cessazione della rappresentanza
legale, un'ipotesi assai frequente tutte le volte che la parte sia un minore e
dato che il processo dura a lungo è inevitabile che prima o poi con il
conseguimento della maggiore età cessi la rappresentanza legali dei
genitori e si possa produrre un fenomeno interruttivo del processo.
Spesso l'evento interruttivo ha anche
un carattere successorio sicché si presenta l'ulteriore problema per cui la
riattivazione del procedimento deve avvenire nei confronti di persona diversa
da quella nei cui confronti il procedimento pendeva in precedenza, fermo
restando che occorre distinguere tra la vicenda successoria in quanto tale e la
vicenda interruttiva, perché, la vicenda successoria non necessariamente
produce un effetto interruttivo, cioè in quanto bisogna distinguere due
diverse ipotesi. L'ipotesi in cui la parte sia costituita a mezzo di
procuratore e un caso in cui, per così dire, in cui la parte non
è completamente scoperta, perché c'è comunque un procuratore
costituito in giudizio che ha la situazione sotto controllo e può ben
darsi che sia nell'interesse della parte evitare perdite di tempo, pertanto,
l'effetto interruttivo in quest'ipotesi si produce se e soltanto se l'evento
viene dichiarato in udienza dal procuratore legalmente costituito o notificato
alle altre parti. Questa dichiarazione costituisce l'esercizio di un diritto
ovviamente potestativo esercitato dal difensore nell'esercizio discrezionale
dei suoi poteri, che ovviamente devono essere concordati con la parte, ma
l'eventuale violazione degli accordi con la parte deve poi rilevare in sede di
responsabilità professionale del difensore nei confronti della parte
stessa, perché una volta dichiarato l'evento o non dichiarato non si
potrà far valere la violazione di patti in pregiudizio degli avversari.
In mancanza della dichiarazione in
processo non risulta la vicenda successoria e si applica la regola per cui la
sentenza produrrà i suoi effetti anche nei confronti della parte che
è succeduta alla parte originale, così come accade quando si ha
una vicenda successoria non produttiva di effetti interruttivi, perché, per
esempio, si tratta di un trasferimento a titolo particolare per atto tra vivi,
per cui ai sensi dell'art. 111 si applica la regola per cui la sentenza produce
i suoi effetti anche nei confronti del successore a titolo particolare ancorché
costui non sia mai intervenuto nel giudizio proseguito fra le parti originarie.
Se l'evento viene appunto dichiarato
in udienza, il processo è interrotto e si renderà necessario la
sua riattivazione che può avvenire in due forme diverse a seconda se la
riattivazione avvenga su iniziativa della parte colpita dall'evento o dai suoi
successori, ovvero su iniziativa della parte avversaria.
La parte colpita dall'evento o i suoi
successori possono riattivare il procedimento nella forma della costituzione
in prosecuzione, la parte avversaria invece riattiva il procedimento nella
forma dell'atto di riassunzione di cui occorre ricordare soprattutto una
peculiarità, e cioè un aspetto della disciplina positiva, che
è diretta, a venire incontro alle difficoltà dell'avversario e
nell'ipotesi della vicenda successoria, abbia problemi ad individuare quale
specificamente sia il legittimato passivo rispetto al diritto controverso, si
prevede pertanto, all'art. 300, che in questi casi la riassunzione possa essere
compiuta e notificata collettivamente impersonalmente agli eredi della parte
defunta nell'ultimo domicilio della stessa, si tratta di una disposizione di
favore per la parte avversaria.
Può ben darsi che queste
attività vengano compiute, e che possono essere compite validamente,
prima che si produca l'evento per effetto interruttivo, cioè prima che
il difensore della parte colpita dall'evento lo dichiari in udienza e
così compiuta con l'effetto di impedire a priori che alcun effetto
interruttivo si produca, cioè, se gli avversari sono a conoscenza del
decesso della parte, possono per così dire "tagliare la testa al toro",
quando il difensore non da alcuna dichiarata in udienza, e preventivamente
impedire che si produca l'effetto interruttivo, provvedendo da soli a compiere
un atto di riassunzione che in questo caso è efficace e vale addirittura
a prevenire la produzione dell'effetto interruttivo.
Questo, invece non è possibile
tutte le volete che l'evento colpisca la parte prima della sua costituzione in
giudizio, perché, in tali ipotesi, invece, l'effetto interruttivo si produce
automaticamente e senzabisogno di
alcuna dichiarazione in udienza sul presupposto, appunto che in questi casi la
situazione non sia sotto controllo da permettere al difensore della parte
interessata, di disporre dei tempi dell'effetto, questo si produce
automaticamente, come per altro la possibilità per l'avversario di
salvare in ogni caso la situazione, agli effetti della domanda inizialmente
proposta tramite la riassunzione, più tragico è il caso
dell'avversario che si presenta quando la parte deceda prima ancora della notifica
dell'atto di citazione.
Ci sono dei tempi tecnici tra il
momento in cui si consegna all'atto di citazione all'ufficiale giudiziario,
finché provveda alla notificazione e in quello in cui la notificazione viene
eseguita, se la controparte muore prima che si perfezioni il procedimento
notificatorio, allora in questo caso abbiamo perduto anche gli effetti della
domanda, perché non si può nemmeno salvare la pendenza del processo
riassuntivo, qui, si tratta seccamente di un processo promosso contro parte inesistente,
perché defunta al momento della notificazione della citazione, e in questo caso
sfortunato non rimane altro che ricominciare tutto da capo con un nuova
citazione nei confronti della parte avversaria, citazione che è,
naturalmente più onerosa dell'atto di riassunzione, perché l'atto di
riassunzione contiene certamente il riferimento agli atti interruttivi del
giudizio interrotto, ma è l'atto più semplice da redigere perché
può essere redatto, per così dire de relato, cioè
richiamandosi a quanto già scritto nell'originario atto di citazione.
Particolare è l'ipotesi in cui
evento relativo alla parte colpisca una parte contumace ed in questo caso la
disciplina è protettiva della parte contumace fino ad un certo punto,
perché si muove dalla premessa che fino a prova contraria la contumacia non
costituisca una scelta volontaria della parte, e quindi, l'effetto interruttivo
si produce nel momento in cui viene acquisita in processo notizia dell'evento
stesso per effetto della relata di notifica compiuta dall'ufficiale
giudiziario, allorquando costui si recaa notificare personalmente gli attiche per legge devono essere
notificati personalmente.
Quali sono questi atti? C'è un
elenco che si può memorizzare, ma si ricorda bene se si tiene presente
che si tratta di tutti quegli atti del processo rispetto ai quali la
passività della parte comporta specifiche conseguenze sfavorevoli, e
quindi si tratta del deferimento dell'interrogatorio formale, perché la
mancata presentazione della parte personalmente a rispondere
dell'interrogatorio formale, che, se è senza giustificato motivo,
comporta come conseguenza che si ritengano ammessi, confessati; il
deferimento del giuramento decisorio, rispetto al quale la mancata
presentazione della parte ha gli stessi effetti; la proposizione di domande
nuove o riconvenzionali, che pongono il problema di scegliere se è
il caso di costituirsi in giudizio e dar luogo a una strategia difensiva
più attiva, non era previsto, ma introdotto dalla Corte Costituzionale,
che debba anche essere notificata, al contumace, notizia del deposito di
scritture private, poiché, rispetto alla scrittura privata la mancanza di
tempestivo disconoscimento produce l'effetto del riconoscimento tacito della
scrittura stessa, anche quando il mancato disconoscimento sia la conseguenza
della scelta della parte di restare contumace.
A dire il vero la legge consentiva e
consente tuttora, al contumace di disconoscere anche tardivamente le scritture
prodotte contro di lui a seguito della sua costituzione tardiva, ma ovviamente
sempre che si costituisca e questo dal punto di vista dell'effettività
del contraddittorio ha senso in tanto in quanto egli sappia dell'avvenuto
deposito di scrittura nei suoi confronti, quindi l'effetto interruttivo nei
confronti del contumace si produce quando avviene la relata di notifica, ovvero
a seguito di notificazione dell'evento alle altre parti, notificazione che
può essere compiuta da parte degli eredi del successore della parte
colpita dall'evento, o da colui che abbia acquisito la capacità. Tutti
questi eventi producono effetto interruttivo in tanto in quanto si manifestino
entro la chiusura della discussione, sul presupposto che nel corso della fase
decisoria non vi sia spazio per l'attività difensiva di parte, e quindi
non vi sia ragione per garantire l'effettività del contraddittorio dopo
la chiusura di questa fase.
Sulla base di un ragionamento analogo,
la giurisprudenza tende ad escludere l'applicabilità della disciplina
dell'interruzione, anche all'intera fase del procedimento innanzi alla Corte di
Cassazione, sul presupposto che il ricorso per cassazione è attivato per
iniziativa di parte, ma una volta attivato il procedimento si accoglie animato
dall'impulso d'ufficio, quindi non richieda la protezione della garanzia dell'effettività
del contraddittorio fra le parti. Si tratta però di una forzatura,
perché questa garanzia dovrebbe ritenersi protetta anche a prescindere
dall'esigenza di assicurare al processo l'impulso delle parti, così ha
detto a lungo la dottrina, e in effetti, la Cassazione in alcune particolari
ipotesi, ha ammesso che l'effetto interruttivo potesse prodursi, però,
in un ipotesi di carattere estremo in cui si era avuto contemporaneamente il
decesso della parte e anche dell'unico procuratore abilitato alla sua difesa.
Occorre notare, infine, a proposito
dell'elenco degli eventi interruttivi relativi alla parte, che non rilevano
quegli eventi che discendono da mere manifestazioni di volontà della
parte, perché non si può concedere alle parti, di potere a loro arbitrio,
produrre effetti interruttivi del procedimento, pertanto noterete, se fate
riferimento alla cessazione della rappresentanza legale, non produce
effetto interruttivo alcuno la cessazione della rappresentanza volontaria
e nemmeno la cessazione della rappresentanza organica della persona
giuridica, sul presupposto che ovviamente ci sia sempre qualche sostituto
del rappresentante organico cessato dalle funzioni, che in qualche modo in
forza della disciplina della rappresentanza della persona giuridica possa
parlare anche della stessa, resta il fatto però che si riconosce valenza
interruttiva a eventi analoghi alla morte riferibili alla persona giuridica,
cioè quegli eventi produttivi del fenomeno successorio con riferimento
alla persona giuridica ancorché si cerchi poi di individuarne il momento in
modo da non lasciare eccessivamente all'arbitrio della parte la produzione
dell'effetto interruttivo, comunque si può pensare che l'estinzione
della persona giuridica possa eventualmente, come la morte, produrre l'effetto
interruttivo. Però occorre rimarcare che un problema di questo tipo si
pone frequentemente, con riferimento alle ipotesi in cui l'evento interruttivo
colpisca la persona del difensore o procuratore legalmente esercente, in
quest'ipotesi è chiaro che l'evento interruttivo produce i suoi effetti
sempre automaticamente a prescindere da qualunque dichiarazione, perché, se
l'evento colpisce il difensore è ovvio che non si può far gravare
su di lui l'onere tutelare, e gli eventi tassativamente indicati dal
legislatore sono: la morte, la sospensione o la radiazione dall'albo,
che causano la perdita del cosiddetto ius postulandi.
Non producono invece effetto
interruttivo, l'interdizione per esempio, del procuratore legale, se
l'avvocato diventa pazzo non c'è nessun intervento interruttivo,
comunque l'effetto si pronuncia solo quando il consiglio dell'ordine abbia
preso provvedimento sanzionatorio nei confronti dell'avvocato che non sia
più in grado di esercitare la professione, spetta soltanto all'Ordine deciderlo
attraverso le irrogazioni delle sanzioni previste dalla legge.
Molto si è discusso,
però, dell'ipotesi di cancellazione dall'albo, perché, nella
disciplina professionale vigente al momento dell'emanazione del codice del '42,
la cancellazione dall'albo era un provvedimento conseguente esclusivamente a
manifestazioni di volontà del procuratore, il quale per esempio cambiava
residenza e si trasferiva pertanto dall'albo di un tribunale all'albo di altro
tribunale, non per effetto della disciplina allora esigente dello ius
postulandi con riferimento al contenzioso pendente presso il tribunale da
cui si era cancellato, questo non poteva giustificare l'interruzione perché
alla fine sarebbe stato sufficiente munirsi di un difensore dal domicilio
erratico per bloccare il processo sine die, però a seguito di
riforme successive dell'ordinamento professionale, si è introdotta una
qualificazione di cancellazione di carattere sanzionatorio.
Quando la cancellazione dall'albo sia
una conseguenza di un provvedimento sanzionatorio si ha qualche
difficoltà a continuare ad affermare la tassatività
dell'elencazione legislativa delle cause di interruzione del processo.
La riattivazione del procedimento deve
avvenire entro un termine perentorio a pena di estinzione del processo, ma
quando decorre questo termine? Qui occorre ricordare una giurisprudenza della
Corte Costituzionale degli anni '70, che ha modificato il dettato legislativo
precisando che il termine per la tempestiva riassunzione decorre dal momento
dell'interruzione del processo, tutte quelle volte in cui l'interruzione del
processo, a sua volta, coincide con l'acquisizione al processo della notizia
dell'evento interruttivo, quindi se l'effetto interruttivo si produce quando il
procuratore dichiara in udienza l'evento che ha interessato la parte assistita,
è anche dal quel momento che decorre il termine per la riassunzione a
pena dell'estinzione del procedimento, perché l'effetto interruttivo qui
già coincide con il verificarsi dell'evento, ma con l'acquisizione al processo
della sua notizia è fonte di conoscenza legale per tutte le parti che
hanno l'onere di partecipare all'udienza e se non si accorgono di quello che
succede è un problema loro, come si dice! Ma in quelle occasioni in cui
invece l'effetto interruttivo si produce automaticamente e a prescindere
dall'acquisizione al processo della notizia dell'evento e cioè tutte le
volte in cuiquesto sia la conseguenza
di un evento che colpisca la parte prima della sua costituzione in giudizio e
sempre, naturalmente, prima della sua dichiarazione di contumacia perché
altrimenti l'effetto interruttivo discende dall'acquisizione al processo della
notizia dell'evento, ovvero, in tutti quei casi incui l'interruzione sia prodotta da un evento
che colpisce il procuratore legale e quindi, di nuovo, si produca
automaticamente, il termine per la riassunzione decorre dal momento in cui la
parte abbia conoscenza legale dell'evento stesso, principio che si applica per
il termine per la riassunzione del procedimento sospeso, anche qui il termine
ai fini della riassunzione decorre dal momento in cui si abbia la conoscenza
legale della cessazione della causa della sospensione, e non come formulava la
norma dalla conoscenza legale della cessazione.
Gli effetti giuridici dell'interruzione
sono analoghi a quelli della sospensione, ma volendo approfondire possiamo
notare qualche differenza, perché qui la disciplina è posta a garanzia
all'effettività del contraddittorio, quindi mentre si può
immaginare che la disciplina della sospensione protegge interessi che vanno
anche al di la di quelli immediati delle parti, quindi interesse generale
all'economia dei giudizi, sembrerebbe che, la disciplina dell'interruzione
protegga specificamente gli interessi di una parte, e cioè quella parte
colpita dall'evento, però poi, capita di leggere che comunque che qui
c'è in ballo una garanzia, che la tutela delle garanzie è una
tutela da realizzarsi nell'interesse pubblico, perché si fanno questi strani
discorsi?
Il problema si può impostare in
un modo un po' più moderno, osservando che quella che è in gioco
è una nullità appartenente alla categoria delle cosiddette nullità
di protezione, che nel diritto sostanziale vanno proliferando soprattutto
per effetto dell'espansione del diritto di fonte di derivazione comunitaria, e
questo fenomeno è un fenomeno in cui vi sono invalidità degli
atti, che derivano dalla violazione di norme poste nell'interesse,
fondamentalmente, di una parte che sono dirette a proteggere questa parte da
una situazione di debolezza in guisa tale da far siche il relativo vizio sia anche rilevabile
d'ufficio, ma pur sempre nell'interesse della parte protetta e non
nell'interesse dell'avversario.
Questo tipo di disciplina è
frequente in materia di tutela dei consumatori, degli utenti, dei rapporti su
fornitura, in molte occasioni cui si ritenga che la parte è molto
più debole dell'altra, e la nullità che è rilevabile
d'ufficio, ma solo a vantaggio di una parte, un fenomeno analogo si presenta in
questa situazione, perché la nullità dell'atto compiuto nonostante
l'interruzione del processo, è una nullità che il giudice possa
rilevare d'ufficio, perché altrimenti, faremmo gravare l'onere di far valere la
nullità proprio sulla parte che si trova in difficoltà difensiva,
perciò la conseguenza giuridica della violazione delle norme
sull'interruzione del processo, a mio avviso deve essere comunque qualificata
come una nullità assoluta e rilevabile d'ufficio, ancorché le norme
siano poste nell'interesse di una parte sola, rimane, tuttavia, una asimmetria
tra le parti, perché è costante e condivisibile l'orientamento per cui,
la violazione della disciplina dell'interruzione non può utilmente fatta
valere dall'avversario della parte colpita dall'evento, e questo anche
nell'ipotesi in cui, a prescindere dal principio della soccombenza che è
il generale requisito necessario per l'impugnazione delle sentenze e quindi far
valere l'eventuale nullità della sentenzaresa nonostante l'interruzione del processo,
ed è resa appunto perché nessuno si è accorto dell'evento
interruttivo verificatosi automaticamente a prescindere dall'acquisizione al
processo della sentenza.
Questa nullità, si diceva,
può essere fatta valere dalla parte in sede d'impugnazione della
sentenza in tanto in quanto l'impugnazione sia possibile ad opera di parte che
sia soccombente, ma può essere fatta valere soltanto dalla parte colpita
dall'evento e non a proprio vantaggio dall'avversario della parte colpita
dall'evento.
·L'estinzione del processo
È un fenomeno che si ricollega
ad un'idea non banale, noi in astratto potremmo immaginare che rientri nella
piena disponibilità delle parti interessate la scelta di avviare o meno
il processo, in questo modo, certamente, potremo ritenerci a posto con il principio
dispositivo in senso sostanziale.
Non è detto che questo
principio ci debba spingere e ci costringa anche ad ammettere che le parti
possano anche impedire che il processo si concluda con la pronuncia sul merito,
cioè potremmo pensare che una volta avviato il processo la cosa sia
nelle mani dell'autorità giudiziaria e debba essere a questo punto
risolta nel merito. È un idea che ha suoi vantaggi o svantaggi, perché
il suo vantaggio evidente è quello economico, perché se noi consentiamo
alle parti di fare marcia indietro ci esponiamo all'eventualità che poi
venga ricominciato il processo che si continui con un "dentro/fuori" che fa
sprecare risorse giurisdizionali, allunga i tempi di quanti sono in attesa che
gli uffici giudiziari diano a loro ascolto, però c'è qualche
controindicazione tra cui la principale è quella della claustrofobia,
disincentiveremmo fortemente il ricorso alla giustizia come strumento di
risoluzione delle controversie se le parti avessero il timore che una volta
entrati nel processo, poi non se ne possa più uscirne, inoltre una
regola in questo senso finirebbe anche per fomentare strategie delle parti che
impediscano comunque la pronuncia del merito della causa attraverso il
compimento di atti nulli appositamente, allo scopo di impedire la pronuncia
della causa nel merito e per rimediare a questa nullità si dovrebbe
incrementare il potere del giudice di sostituirsi alle parti nel compimento
degli atti, e alla fine questa soluzione finirebbe per costare di più di
quanto potrebbe rendere, e quindi il principio dispositivo in senso sostanziale
è accomnato largamente da un principio dispositivo in senso
processuale più o meno attenuato con la conseguenza che, pur non essendo
il processo completamente cosa delle parti, e sebbene che i poteri delle parti
possano essere integrati dai poteri del giudice di direzione dell'udienza, dal
potere del giudice di fissare autonomamente l'udienza successiva, o di
integrare materiale probatorio introdotto dalle parti al fine di rendere una
decisione che più accuratamente applichi il diritto sostanziale,
però, si ritiene soprattutto che il principio dispositivo la regola per
cui il processo rimane soggetto in larga misura all'impulso di parte.
Quindi una pronuncia sul merito non ha
luogo quando le parti omettano di coltivare il procedimento nel corso del suo
procedimento, salve le particolari ipotesi in cui si possa giustificare
l'impulso d'ufficio successivo all'attivazione del procedimento da parte delle
parti come ad esempio nel giudizio di legittimità presso la Corte di
cassazione.
Durante le fasi di merito, pertanto,
è richiesto alle parti di coltivare il processo e l'eventuale
inattività delle stesse comporta che il processo venga definito senza
una pronuncia sul merito e con pronuncia in mero rito.
La disciplina dell'inattività
delle parti, si può conurare in vario modo, richiedendo una maggiore
o minore intensità della coltivazione del processo da parte delle parti,
il caso più significativo è quello dell'ipotesi della deserzione
bilaterale all'udienza, in cui la disciplina positiva ha visto continui
andirivieni nel testo del codice in ordine all'opportunità o meno di
prevedere che nell'ipotesi in cui all'udienza non si presenti nessuna delle
parti si abbia o meno l'immediata estinzione del processo, oggi vale ancora la
regola che la deserzione bilaterale non comporta immediatamente l'estinzione
del processo e la stessa si produce allorquando la deserzione venga reiterata e
quindi non si presenti nemmeno all'udienza successiva automaticamente fissata
dal giudice.
Le varie ipotesi di estinzione per
inattività delle parti conurate dal codice sono articolate in maniera
abbastanza complessa, perché la disciplina è frutto di un gran numero di
compromessi, sicché si distingue in particolare l'ipotesi di estinzione
mediata dall'ipotesi di estinzione immediata, a seguito del mancato
compimento degli atti da parte delle parti, in varie ipotesi e in generale,
quando si abbia la violazione di un termine perentorio fissato per
l'estinzione, per esempio nell'ordine di integrazione del contraddittorio nei
confronti del litisconsorzio necessario, si produce l'estinzione del processo
immediatamente, ma in alcune particolari ipotesi, per esempio quella della
mancata costituzione in giudizio di entrambe le parti, l'effetto che si produce
è quello della quiescenza del processo, con possibilità di
riattivazione dello stesso entro un termine annuale attraverso atto di
riassunzione e producendosi quindi l'estinzione, solo a seguito dell'inutile
decorso di quest'ulteriore termine annuale, il che accade anche in varie
ipotesi in cui sia prevista la cancellazione della causa dal ruolo, come ad
esempio per la mancata evocazione in giudizio della parte il cui intervento sia
ordinato dal giudice ai sensi dell'art. 107, si tratta di varie ipotesi di
intervento che ne parleremo in futuro nella disciplina di pluralità di
parte delle varie modalità di formazione e di ingresso di nuove parti
nel processo.
Comunque il caso che si ricorda bene,
distinzione tra litisconsorzio necessario e intervento per ordine del giudice,
l'omissione dell'indicazione contraddittoria nei casi del 102 di litisconsorzio
necessario = estinzione immediata, nei casi del 107 di intervento per ordine del
giudice invece c'è cancellazione dal ruolo e quiescenza annuale del
processo con possibilità di riattivazione e quindi l'estinzione mediata
del processo solo a seguito dell'inutile decorso dell'ulteriore termine annuale
dal momento della cancellazione dal ruolo.
Particolarmente delicato, poi
è, l'aspetto della circostanza che a seguito di varie riforme e
controriforme alla ricerca di un punto di equilibrio di questa disciplina, nel
'50 fu introdotta la regola per cui l'eccezione di estinzione non
è rilevabile d'ufficio, anzi, l'estinzione, va eccepita preliminarmente,
prima di ogni altra difesa, e si finì per trasformare la disciplina
dell'estinzione in una tendenza a favorire la pronuncia sul merito della causa,
perché finisce per rendere possibile, attraverso il meccanismo della mancata
sollevazione dell'eccezione di estinzione, il recupero di procedimenti nei
confronti dei quali si fossero compiuti gli atti anche produttivi di
nullità, che avrebbero resa necessaria un pronuncia assolutoria dell'osservanza
del giudizio, naturalmente se si muove dalla premessa che non possiamo
costringere le parti alla pronuncia sul merito, allora tutte le riforme che
alleviano gli oneri di partecipazione, collaborazione e coltivazione al
processo, finiscono per favorire la possibilità di rendere la pronuncia
sul merito, e il risultato finale si rende piùfacile far pendere un processo molto a lungo
e si può essere più o meno d'accordo sull'opportunità di
lasciare che le parti possano far rendere una causa pendente anche quando non
premono perché sia decisa sul merito rapidamente.
Un aspetto importante della disciplina
della estinzione per inattività, importante anche al fine poi di
discutere la disciplina dell'estinzione per rinuncia agli atti, è un
aspetto importante che mai poi vediamo consentire, che la pronuncia sul merito
della cusa venga impedita da un'iniziativa unilaterale, ovverosia, le
fattispecie di estinzione del processo, hanno e devono avere dei caratteri
bilaterali, sicché l'estinzione del processo deve essere eccepita prima di ogni
altra difesa, ma è eccezione a disposizione di entrambe le parti, non
può essere rilevata d'ufficio dal giudice, ma entrambe le parti possono
sollevare la relativa eccezione ed anche far valere, l'eventuale estinzione del
processo in via incidentale in un nuovo processo successivamente instaurato,
nel quale venga dall'avversario sollevata l'eccezione di litispendenza,
eccepita la litispendenza contro eccezione in realtà il processo
preventivamente avviato su questa stessa causa si è già estinto,
con eccezione che io sollevo utilmente nel nuovo procedimento di merito.
Spesso è difficile gestire
l'implicazione derivante dalla circostanza che l'estinzione debba essere
eccepita, e quindi, ricorrentemente in giurisprudenza si evocano ipotesi in cui
il legislatore permetterebbe la declaratoria d'ufficio della estinzione, per lo
più si tratta di ipotesi in cui è stato più o meno
esplicitamente o per fatti molto concludenti, manifestato da entrambe le parti
il disinteresse al conseguimento della pronuncia sul merito.
Accanto a queste, vi sono ipotesi in
cui la giurisprudenza cerca di evitare che si realizzi una situazione di
indefinita pendenza del procedimento, questo va detto perché a volta si guarda
all'efficienza con occhio miope! E quindi, la circostanza che un magistrato
abbia sul suo ruolo procedimenti che pendono da molto tempo, è fonte per
alcuni di imbarazzo e per molti è facile pensare che se il procedimento
pende da molto tempo qualche colpa c'è l'ha il giudice, perciò in
questi casi, viene fuori l'idea dell'estinzione rilevabile d'ufficio,
però bisognerebbe guardare con più disincanto a questo problema e
osservare che in qualche occasione, invece, rendere il processo pendente
all'infinito è una soluzione comoda oltreché sensata. Mi riferisco al
problema che si crea nell'ipotesi di procedimento introdotto con ricorso,
seguito dal decreto di fissazione della prima udienza da parte del giudice e
l'onere dell'attore di notificare al convenuto il ricorso e pedissequo decreto
nell'ipotesi in cui non venga notificato questo ricorso all'avversario,
è un'ipotesi nella quale è forte la tentazione di prevedere la
rilevabilità d'ufficio dell'estinzione.
Ma io credo, e ho già accennato
che si debba osservare che in questa fattispecie c'è puzza di bruciato!
Cioè una fattispecie in cui non è tanto peregrino il sospetto che
l'attore si stia cercando il giudice, ne deposita più di uno di ricorsi
e notifica quello che è stato assegnato al magistrato che a lui fa
comodo, e davanti a questa idea, il ricorso depositato per primo sia quello
presso il quale la controversia è radicata e che quindi il procedimento
relativamente a dare ricorso non si estingua affatto non è una
fattispecie fra quelle tassativamente previste dal legislatore fra le
fattispecie estintive, e così non si estingua e men che meno
l'estinzione possa quindi essere rilevata d'ufficio.
Con l'estinzione per rinuncia,
possiamo consentire alle parti in tanto in quanto siano tutte e due d'accordo,
di abbandonare il processo prima che venga definito nel decreto, però
non dobbiamo lasciarglielo fare troppo facilmente, quindi per un verso non
possiamo impedirglielo e in qualche modo devono poterci arrivare con non
eccessive difficoltà, dobbiamo assicurare che la scelta sia ponderata,
che sia esplicitamente riconducibile alla persona delle parti, in relazione, in
particolare alla disciplina delle caratteristiche dei poteri conferiti mediante
la procura nel nostro ordinamento.
In sistemi come in quello tedesco la
procura alle liti attribuisce automaticamente al difensore tecnico tutti i
poteri della parte salve che ne risultino espresse specifiche limitazioni,
quindi la distinzione tra atti processuali e atti sostanziali finisce per
coincidere con la distinzione tra atti compiuti nel corso del procedimento e
atti compiuti al di fuori dello stesso.
Nel nostro ordinamento si segue,
invece, una regola di derivazione francese che costituisce l'eredità di
un sistema abbastanza complesso della disciplina della professione forense, e
tradizionalmente, nel sistema francese, si distingueva fra le funzioni di
difensore e le funzioni di rappresentante in giudizio e qui si è
affermato il principio secondo cui la normale procura alle liti, che è
indispensabile per il conferimento del potere di rappresentare in giudizio, a
sua volta obbligatorio in via di regola in generale, salve le eccezioni
dell'onere del patrocinio per cui la parte non può stare in giudizio se
non tramite il procuratore legalmente esercente iscritto negli appositi albi,
ebbene, la procura non conferisce automaticamente il potere di disporre del
diritto in contesa, salvo che ne contenga esplicitamente la menzione, noi
richiediamo alla parte soltanto di conferire il potere di compiere e ricevere
nell'interesse della parte tutti gli atti del processo, salvi quelli riservati
alla parte personalmente e ci riferiamo in particolare alle ipotesi in cui le
dichiarazioni della parte vengano utilizzate come mezzi di prova in sede
d'interrogatorio formale, di giuramento e chiaro che è la parte
personalmente che deve rispondere all'interrogatorio o al giuramento, non
può avvalersi dell'avvocato o del difensore tecnico allorquando la parte
sia utilizzata come mezzo di prova.
Inoltre l'art. 84 comma 2, aggiunge
che la procura alle liti non conferisce il potere di disporre del diritto in
contesa se questo non è esplicitamente conferito, persino in quelle
ipotesi in cui è chiaro che la scelta deve essere compiuta dal
procuratore nell'esercizio della sua competenza professionale, pensiamo al caso
più eclatante dell'impugnazione della sentenza nel quale è
talmente palese che la scelta debba essere compiuta dal difensore
nell'esercizio della sua competenza tecnica, prescrive che ai fini del decorso
del termine breve per l'impugnazione la notificazione della sentenza sia eseguita
presso il procuratore precostituito nel precedente grado di giudizio, tuttavia
il potere di proporre l'impugnazione deve essere specificamente conferita al
difensore, perché nella regola generale vigente, la procura si presuma
conferita per un grado di giudizio e comunque non è mai possibile
conferire in anticipo, se non attraverso l'escamotage della spilla, la procura
per giudizio di cassazione.
Ci sono meccanismi che favoriscono la
tipica delle decisioni dispositive del diritto in contesa, per esempio quando
venga raggiunta la conciliazione, c'è un meccanismo che facilita la
ratifica da parte della parte interessata dell'accordo conciliativo raggiunto
dal difensore, ma è sempre necessario una specifica manifestazione di
volontà e per quanto riguarda gli atti dispositivi?
Una delle fattispecie produttive
dell'estinzione del processo, accanto a quella dell'inattività è
quella della cosiddetta rinuncia agli atti per la quale la legge
prescrive espressamente che sia conferita dalla parte personalmente, o dal
difensore munito di procura speciale a questo fine, quindi è una
decisione che deve provenire dalla parte, inoltre, ci aggiunge l'art. 306, che
la rinuncia, che proviene dalla parte attrice, deve essere accettata dalla
parte convenuta, e si ritiene anche qui, accettata dalla parte convenuta
personalmente o dal difensore munito di procura a tale scopo, però, la
norma aggiunge, deve essere accettata dalla parte costituita che abbia
interesse alla prosecuzione del giudizio.
Ora, qualche perplessità viene!
Innanzi tutto, nel riferimento alla parte costituita, l'applicazione del
dettato letterale della norma porterebbe a far pensare che nell'ipotesi in cui,
il convenuto non sia ancora costituito, ma neanche sia ancora stato dichiarato
contumace, possa produrre effetti estintivi la rinuncia di atti compiuta
unilateralmente dall'attore senza bisogno della sua accettazione, però,
se si osserva l'evoluzione di questa disciplina e in particolare si tiene conto
del contesto culturale del codice del '42, si deve pensare, a mio avviso, che
qui vi dev'essere stato un lapsus caso del legislatore, perché, la
disciplina del codice del 1865, prevedeva la possibilità
dell'accettazione dell'avversario in ogni occasione e giustamente si era
ritenuto che la necessità di una specifica accettazione fosse una
condizione di carattere vessatorio in varie occasioni, per esempio quando il
convenuto fosse stato dichiarato contumace, se muoviamo dalla premessa che la
contumacia si presuma volontaria, questa esplicita scelta di rinunciare ad
un'attiva difesa, può essere considerata come un'accettazione in via
preventiva dell'eventuale estinzione del processo per rinuncia agli atti per
fatti concludenti.
Il comportamento della parte che si
rende contumace è senza dubbio concludente nel senso di non essere
interessata al conseguimento di una pronuncia sul merito della controversia e
quindi, certamente era congruo escludere la necessità dell'accettazione
della parte contumace e anche di quella parte che avesse appunto compiuto
comportamento inconcludente nel senso del disinteresse alla pronuncia sul
merito, per esempio quella parte convenuta che avesse sollevato l'eccezione di
rito, se la parte ha sollevato eccezione di rito è evidente che non ha
nessun problema a ottenere la definizione del processo in mero rito.
Credo che il legislatore del '42 abbia
inteso raccogliere quest'idea e però abbia finito per esprimerla male,
quindi è preferibile ritenere che nell'ipotesi in cui la rinuncia agli
atti venga compiuta in pendenza dei termini di costituzione del convenuto, in
realtà questi effetti estintivi si possono produrre solo quando il
convenuto l'accetta, cioè quando il convenuto è già reso
parte per effetto della notificazione della citazione, la causa è già
pendente in quel momento, e la circostanza che gli sia dato un termine per
decidere se difendersi attivamente o meno non è circostanza che
può giocare a suo svantaggio, cioè non può tornare a suo
pregiudizio la circostanza che li utilizzi anche completamente il termine che
la legge gli concede per decidere se costituirsi o meno, pertanto la rinuncia
dovrebbe produrre i suoi effetti quando il convenuto venga dichiarato
contumace, ovvero nell'ipotesi in cui venga accettata prima della scadenza dei
termini di costituzione dal convenuto stesso.
Inoltre, nella parte in cui la norma
fa riferimento all'ipotesi del convenuto che non abbia interesse alla
prosecuzione della causa, questo interesse andrebbe inteso come una sorta di
corrispettivo da parte del convenuto dell'interesse ad agire alla prosecuzione
del giudizio, da valutare strettamente sulla base di una teoria della
prospettazione, e quindi non mi pare corretto che si possa giungere alla
conclusione, come invece alcuni hanno suggerito, che il convenuto non abbia
interesse alla prosecuzione della causa quando egli si sia difeso soltanto nel
merito e però il giudice ritenga che la domanda debba essere comunque
respinta per motivi di rito e indipendentemente dalle prospettazioni del
convenuto, e ciò, perché mi sembra improprio e anche controproducente
indurre a questa delibazione incidentale nell'esito del giudizio il giudice,
più congruo, invece è che si ritenga disinteressata alla
prosecuzione del processo la parte che abbia sollevato eccezioni di rito, ma
del tutto indipendentemente dalla fondatezza delle stesse e quindi anche nelle
ipotesi in cui il giudice ritenga che le eccezioni di rito sollevate dal
convenuto siano invece infondate, esclusivamente in base alla teoria della
prospettazione.
La rinuncia è uno di quei casi
in cui l'estinzione si ritiene rilevabile d'ufficio, d'altronde, avente la
stessa struttura palesemente bilaterale, trovando quindi fondamento in
manifestazioni concordi di volontà tra le parti, richiedere che questa
manifestazione venga reiterata attraverso la sollevazione dell'eccezione di
estinzione, in questo caso è un eccesso.
Teniamo distinta la fattispecie di
rinuncia agli atti regolata dal giudice dalla particolare ipotesi che si
presenta nel giudizio di cassazione ove si prevede la ura della rinuncia
al ricorso, e si muove dal presupposto che qui, normalmente il giudizio non
sia necessario al fine di rendere una decisione sul merito della causa e
tradizionalmente è appunto così il rimedio ha carattere soltanto
rescindente, quindi si prevede esplicitamente e congruamente che la rinuncia
sia seccamente unilaterale; la rinuncia al ricorso proviene dalla parte
ricorrente e produce i suoi effetti senza alcun bisogno dell'accettazione
dell'avversario.
In questo panorama, si inserisce
un'ampia esperienza giurisprudenziale che bisogna coordinare con le risultanze
dell'atto normativo e cioè tutta l'esperienza giurisprudenziale
concernente il misterioso fenomeno della rinuncia all'azione.
Cos'è la rinuncia all'azione e
in che modo sarebbe diversa la rinuncia all'azione dalla rinuncia agli atti del
giudizio? Sono possibili varie teorie e naturalmente molto dipende da cosa si
intende per azione, per esempio coloro che muovono dalla teoria di un'azione
non è situazione legittimante, ma situazione legittimata dalla pendenza
stessa del processo, un'ovvia conseguenza che l'espressione "rinuncia
all'azione" non può che far riferimento allo stesso fenomeno che
è appunto la rinuncia agli atti, per coloro che intendono l'azione come
diritto civico, ove è palese che non può aver luogo mai un'efficace
rinuncia all'azione, trattandosi di un diritto palesemente indisponibile come
diritto civico, e un discorso analogo intorno ai limiti della
disponibilità dei presupposti processuali, vale per l'ipotesi in cui si
faccia riferimento alla rinuncia all'azione in senso astratto, intesa come
azione legittimante, cioè come diritto al conseguimento di una pronuncia
sul merito non in quanto innescato da una domanda giudiziale, ma in quanto
preesistente a prescindere dall'esercizio dell'azione.
C'è però la possibilità
di conferire un significato sensato alla rinuncia all'azione se l'intendiamo
riferita all'azione in senso concreto, cioè al diritto alla pronuncia di
merito favorevole. È plausibile perché alcuni negozi come in cosiddetto pactum
de non petendo, possano qualificarsi come negozi dispositivi dell'azione in
senso concreto.
La cosa è discussa, perché, si
può dubitare che questi negozi abbiano effettivamente un'efficacia
vincolante per il giudice, vale a dire lo costringano davvero a rigettare la
domanda ancorché fondata, potendosi prospettare che la violazione del patto di
non petendo, dell'impegno a non esercitare l'azione, possa essere fonte
di distinta possibilità risarcitoria, salvo le difficoltà di
individuare in che maniera potrebbe essere poi risarcito il relativo danno, ma
al di la di questo possiamo ritenere che, se la nozione può avere un
senso con la conclusione che si tratta, ai fini particolari della distinzione
fra atti sostanziali e atti processuali come la concepiamo noi e non come la
concepiscono i tedeschi, di un atto sostanziale anche se compiuto nel corso del
processo, un atto di disposizione di un diritto sostanziale per il quale,
quindi a maggior ragione è necessariamente presupposto il conferimento
di una procura speciale, o meglio, di una procura che contenga anche
l'attribuzione della facoltà di disporre del diritto in contesa, e
correlativamente, anche la necessità dell'accettazione tutte le volte in
cui debba essere bilaterale la struttura del negozio dispositivo nel suo
contenuto applicativo, ricordiamo che la rimessione del debito è
efficace solo quando sia accettata da punto di vista sostanziale.
Il problema è che in
giurisprudenza spesso si legge, invece di rinuncia all'azione, di rinuncia alla
domanda, che rientrano fra i poteri del difensore e sono efficaci senza bisogno
di accettazione. È strano! A cosa si fa riferimento? Si fa riferimento
ad un fenomeno completamente diverso da quello del patto di non petendo e dei
negozi sostanziali di carattere applicativo, si fa riferimento invece, ad un
fenomeno legato alla dinamica della progressiva semplificazione del tema del
giudizio e del tema della decisione nel corso dello sviluppo del procedimento,
è chiaro che sin dal momento della proposizione della domanda
giudiziale, la parte deve precisare le proprie conclusioni, ma nel corso dello
sviluppo del procedimento si raccolgono i mezzi di prova, e a chiusura del
procedimento stesso prima della rimessione della causa in decisione, la parte
è tenuta di nuovo a precisare le conclusioni. Le facciamo precisare di
nuovo perché se non le ripete proprio tutte, significa che ha rinunciato a
quelle che non ha ripetute, è un provvedimento diretto a favorire una
progressiva riduzione del tema della decisione.
Ma i dubbi sono forti! Anzitutto che
questo possa avvenire senza accettazione dell'avversario, è molto
discutibile e infatti andando ad esaminare poi le fattispecie in cui il
problema si è concretamente apporre, si scopre che la giurisprudenza
dice, che l'avversario si può opporre, cioè può insistere
lui affinché si abbia comunque una pronuncia sulle domande non ripetute in sede
di precisazione definitiva delle conclusioni, e allora la cosa è
più accettabile, perché diciamo sostanzialmente che questa rinuncia
avviene attraverso un'accettazione, magari tacita della rinuncia stessa, in un
particolare contesto processuale al fine di favorire la semplificazione del
tema della decisione e si rende auspicabile aggravare gli oneri di
tempestività della reazione delle parti, dobbiamo però fare salva
la regola generale della bilateralità dei fenomeni semplificativi del
tema della decisione.
Per quanto riguarda la
riconducibilità alla parte personalmente dell'iniziativa applicativa, io
direi che in realtà, si può concepire l'ammissibilità di
una rinuncia alla domanda compiuta esclusivamente dal difensore a cui non sia
specificamente conferito il potere di disporre del diritto in contesa, soltanto
in tanto in quanto si tratti di rinuncia ad alcune fra più domande
cumulativamente proposte in contesti in cui in ogni caso la pronuncia sulle
domande non rinunciate, produrrebbe un effetto preclusivo rispetto a quelle
rinunciate. Cioè in ipotesi in cui effettivamente è in gioco solo
una questione di competenza tecnica nella scelta delle modalità delle
strategie difensive della parte attrice , per cui si ha un concorso di domande
per l'ottenimento dello stesso risultato giuridico e la rinuncia ad alcune
costituisce in realtà, soltanto, la scelta da parte del difensore ,
della modalità tecnica più efficace per conseguire il risultato,
e allora in questa particolare ipotesi, pare che possa accettarsi la
conclusione che possa risultare efficace la rinuncia derivante dalla mancata
riproposizione della domanda in sede di precisazione delle conclusioni, ma
sarei molto prudente nell'individuare questo tipo d'ipotesi, estremamente
restrittivo nell'ammettere che questo possa avvenire rispetto a domande che non
siano legate da questi vincoli di connessione per incompatibilità, e
invece stiano in piedi da sole, rispetto a queste, i fenomeni semplificativi
dell'oggetto del giudizio non mi sembrano accettabili se non vengono osservate
le formalità specificamente previste dalla legge per la rinuncia agli
atti.
Diversamente da quanto accade per
l'interruzione, perché è ovvio che finisce per colpire tutto il
procedimento, salva l'ipotesi in cui si abbiano forme di litisconsorzio
facoltativo ed improprio, compatibili con la separazione dei procedimenti e la
produzione degli effetti interruttivi soltanto nel procedimento in cui sia
coinvolta soltanto la parte colpita dall'evento e non in quello che interessi
soltanto alle altre parti che risultino separabili dal procedimento cumulato.
La pronuncia di estinzione è
pronuncia di rito, perché, come recita l'art. 310, non estingue l'azione, ossia
resta ferma la riproponibilità della domanda, per questo, appunto,
bisogna essere abbastanza prudenti nel consentire che si largheggi con la
facoltà di abbandonare il processo che sia stato già innescato,
soprattutto nell'escludersi che possa essere abbandonato il processo
unilateralmente.
Perdono effetto gli atti compiuti
fatta eccezione le sentenze sul merito, quelle che regolano la competenza e una
serie, che nel corso del tempo si va facendo sempre più lunga, di
provvedimenti cosiddetti ultrattivi ancorché privi della forma della sentenza:
le ordinanze anticipatorie di condanna, i provvedimenti di carattere cautelare
a contenuto anticipatorio, oggi è vigente la regola per cui è
sempre necessaria l'attivazione e la coltivazionedi un ulteriore causa a cognizione piena sul
merito a pena di inefficacia del provvedimento cautelare, ma è
già prevista nel rito societario, ed è destinata a diventare la
regola generale, quella per cui se il provvedimento cautelare ah un contenuto
anche anticipatorio degli effetti della sentenza di merito e la successiva
estinzione della causa a cognizione piena nel tempo stesso, non comporta
l'inefficacia del provvedimento cautelare e questi possa produrre in via
ultrattiva i suoi effetti pur essendo inidoneo il provvedimento stesso a
produrre l'efficacia vincolante della cosa giudicata in senso pieno.
Per quel che riguarda le prove, l'art
310, prescrive altresì che esse siano utilizzabili in un diverso
giudizio, come argomenti di prova, ma l'orientamento dominante che si tratti di
una vera , libera valutabilità delle prove stesse e che quindi la
degradazione dell'efficacia probatoria non sia tale da far si che queste prove
possano fondare l'accertamento sul fatto solo in quanto corroborate, potranno
risultare pienamente sufficienti a fondare l'accertamento sul fatto o
perderanno, invece, l'efficacia vincolante dell'effetto di prova legale,
qualora si trattasse di prove legali come il giuramento o la confessione.
Infine, le spese restano a carico delle parti
che le hanno anticipate, salvo in caso di rinuncia e salva l'ipotesi in cui la
rinuncia si disponga diversamente.
Questa disciplina è da
ricollegare a quanto disposto dall'art. 338, con riferimento all'estizioni di
giudizi d'impugnazione. Prevede l'art. 338, che l'estinzione dei giudizi di
appello e di revocazione ordinaria comporti il passaggio in giudicato della
decisione impugnata, a meno che, ne siano stati modificati gli effetti e con
provvedimenti resi negli stessi giudizi di impugnazione.
Con riferimento all'appello, è
chiaro che si fa riferimento all'ipotesi della pronuncia di sentenza non
definitiva di riforma della decisione impugnata, per esempio: sentenza di primo
grado di rigetto della domanda, nel corso del giudizio d'appello viene emanata
sentenza di condanna generica con riserva di liquidazione del quantum,
con prosecuzione del procedimento per la liquidazione del quantum, e
condanna sull'an di riforma della sentenza di rigetto ottenuta in primo
grado, l'estinzione del giudizio di appello, successivamente a questa
pronuncia, non fa passare in giudicato la sentenza di rigetto della domanda.
Per il giudizio di revocazione si fa
riferimento alla circostanza che, nella revocazione, si distingue, ancorché
magari, non necessariamente ciò avvenga tramite la pronuncia di sentenza
non definitiva, distingue una fase rescindente da una fase rescissoria e quindi
laddove non sia resa sentenza definitiva rescindente, di annullamento della
decisione impugnata con revocazione, in consecuzione del giudizio per l'ottenimento
di una nuova pronuncia sul merito della causa, analogamente non si produce
l'effetto del passaggio in giudicato della decisione impugnata.
Questa disciplina, che prevede per
altro il passaggio in giudicato della decisione impugnata, si può
distinguere da quella cosiddetta consumazione dell'impugnazione,
diversamente a quanto, a volte avviene in dottrina, mi sembra utile rispettare
il dettato legislativo, che abbastanza chiuso in questo senso, la cosiddetta
consumazione del diritto d'impugnazione consistente nella non
riproponibilità della dichiarazione dichiarata inammissibile o
improcedibile, non necessariamente implica il passaggio in giudicato della
decisione impugnata, perché ben può darsi che l'impugnazione sia
dichiarata inammissibile per essere ammissibile una diversa impugnazione
ordinaria, perfettamente compatibile, quindi con l'impedimento della formazione
della cosa giudicata. L'estinzione, perciò, deve necessariamente
presupporre una valutazione di ammissibilità della proposta impugnazione,
in quanto, dalla stessa, discende, e la legge vuole che discenda, un effetto
più incisivo.
È interessante anche l'art.
338, qualcosa che l'art. 338 non dice. L'estinzione del giudizio d'appello,
è un'impugnazione ordinaria, dice l'art. 338, è chiaro che non si
può immaginare l'applicabilità di queste disposizioni alle
impugnazioni straordinarie, qui è chiaro, anzi il giudicato c'è
l'ha già! Ma perché non si parla di ricorso in cassazione? L'estinzione
per ricorso in cassazione, provoca il passaggio in giudicato della decisione
impugnata? Intanto dobbiamo dire che l'estinzione del giudizio in cassazione
può avvenire, perché, si, non potrà avvenire l'estinzione per
inattività, a causa del discorso che facevamo sulla circostanza che il
giudizio in cassazione è animato dall'impulso d'ufficio, quindi in rara
occasione potrà interrompersi, più facilmente potrà essere
sospeso tutte le volte che si sollevi una questione di legittimità
costituzionale di una norma, ma in tutte queste ipotesi la riattivazione del
procedimento, non richiede quelle attività di formare riassunzione della
causa, che sono previste invece per la riattivazione dei procedimenti sospesi o
interrotti nelle fasi di marito, cioè nei gradi di giudizio di primo
grado o appello, è sufficiente, in forza dell'impulso d'ufficio che
anima il procedimento in cassazione, un'istanza informale alla Corte stessa,
ovviamente corredata da documentazione che dimostra la possibilità
concreta di riattivarlo e cioè la cessazione della causa di sospensione.
Tuttavia, l'estinzione del giudizio di
cassazione, può comunque aver luogo nel procedimento di cassazione per
effetto della già menzionata rinuncia al ricorso, la quale,
evidentemente produce gli effetti estintivi dell'impugnazione stessa, ma passa
in giudicato la decisione impugnata? Qui, credo che ci sia una spiegazione
particolare della ragione per cui il procedimento di cassazione non è
menzionato, cioè che questa parte del codice è stata scritta da
uno studioso illustre, ne parleremo quando parleremo del giudizio di
cassazione, che si vide sconfitto su una delle sue idee principali, e
cioè l'idea che il procedimento di cassazione fosse un'impugnazione
straordinaria. Ovverosia, Calamandrei, pensava e voleva che si ritenesse, che
la proponibilità del ricorso per cassazione non impedisse del passato in
giudicato della sentenza, come avviene in altri ordinamenti, ma finì per
prevalere invece, l'idea che la distinzione tra impugnazioni ordinarie e
straordinarie si dovesse fondare sulla rinvenibilità del vizio denunciato
dall'esame della sentenza, e quindi il ricorso per cassazione dovesse
qualificarsi come impugnazione ordinaria, come tale impeditiva della formazione
del giudicato.
Però, è un lapsus
froidiano, quando si è provato a parlare delle impugnazioni la cui estinzione
fa passare in giudicato la decisione impugnata, e si deve concludere
coerentemente con il sistema e con le scelte di fondo, in ogni caso compiute
dal sistema, che l'estinzione del giudizio di cassazione del pari, comporti
l'estinzione per rinuncia, e riguardo alla rinuncia al ricorso comporta il
passaggio in giudicato della decisione impugnata con il ricorso stesso.
·Le prove
Il segreto professionale del
difensore, è certo che favorisca un accertamento più accurato
della verità, perché? Il fine dell'accertamento accurato della
verità è l'introduzione di informazioni, da parte delle parti
direttamente interessate, che è sempre utile.
Attraverso il filtro della consulenza
dei legali si fa in modo che la parte eviti di rivelare soltanto quelle informazioni
che effettivamente le nuocciono e effettivamente potrebbero restare segrete, e
si evita la propensione che la parte ha a nascondere ancor più
l'informazione, cioè anche quelle, che in realtà, non gli
nuocerebbero, o quelle che gli nuocerebbero, ma che comunque verrebbero alla
luce lo stesso, sicché, l'intermediazione di un difensore nei confronti del
quale la parte possa contare su di un rapporto confidenziale, alla fine sul
lungo periodo promuove l'accuratezza dell'accertamento della verità,
mentre, è chiaro che si spieghino soltanto in conformità ad
esigenze della protezione della manifestazione della personalità, altri
segreti professionali quali potrebbero essere quelli del confessore o del
medico, anche se, si potrebbe poi dire che c'è un'esigenza di protezione
della salute pubblica.
Discutibili, risultano invece, altre
forme d'ostacolo della ricerca della verità che sembrerebbero arrivare a
proteggere il diritto della parte a non cooperare nell'accertamento della
verità, o addirittura a sabotarlo financo con la menzogna.
Per tradizione, nel nostro
ordinamento, si ammette pacificamente il diritto della parte di mentire, la
parte che menta in giudizio non è soggetta ad alcuna specifica sanzione,
sulla base delle verità di una concezione dispositiva del processo in
parte sulla base di una comprensione per il dilemma umano in cui si trova colui
che sia soggetto all'alternativa tra mentire in giudizio e dire la
verità recandosi danno, che però sono tutte esigenze, che si
tende, negli ordinamenti moderni a disconoscere sempre di più, è
disconosciuto completamente il diritto della parte civile di mentire, entra
sempre nell'ordinamento anglosassone, ma probabilmente, li, questo accade
perché, per tradizione di un'amministrazione della giustizia meno professionalizzata,
dove si è meno portati a distinguere tra obblighi giuridici e obblighi
morali, e quindi ammettere la menzogna della parte sembra brutto, perché
è sempre un comportamento riprovevole, ma possiamo anche vedere che la
base di mentire è stato copiato pure nell'ordinamento tedesco! Alcuni
hanno speculato nella circostanza che la legge vi ha introdotto la sanzione
penale per la parte civile menzognera, che è più tenue della
sanzione prevista per il testimone menzognero in diritto tedesco, sul fatto che
la legge che ha ritenuto questa regola rechi la data del 1933, ma non bisogna
farsi confondere, in realtà è una legge che è stata
approvata prima del cancellierato imperiale, questa norma, infatti è
sopravvissuta senza problema alla caduta del regime dell'epoca.
Considerazioni, rispetto ai limiti
dell'accertamento della verità, si rinvengono in disposizioni, come
quelle che regolano la disciplina dell'esibizione delle prove documentali,
si tratta dell'ipotesi, in cui, la parte voglia fare acquisire al processo un
documento che non si trova in suo possesso, in quest'ipotesi la legge consente
che un ordine di esibizione possa essere rivolto all'avversario e a un terzo,
con limiti molto discutibili. Si richiede che dall'esibizione non derivi
all'altra parte avversa grave danno, si richiede che non comporti rivelazione
di segreti, ma si richiede anche, la specifica indicazione del documento e del
suo contenuto, il che diventa discutibile, perché contiamo esperienze
straniere, in particolare quella statunitense in cui questa regola non si
prevede affatto, il dovere di cooperazione di parte avverse all'accertamento
della verità, comprende anche il dovere di esibire documenti che sono
individuati anche genericamente, anche per classi, allo scopo di consentire
alla parte di utilizzare l'istruzione probatoria del processo civile, anche
attività di indagine vera e propria intorno ai fatti che hanno dato
origine al conflitto, ma anche per venire a conoscenza di fatti ulteriori, di
cui magari si era all'oscuro all'inizio della causa.
Si prevede anche, che la parte, che
fuor di ottemperare all'ordine di esecuzione va incontro a una sanzione
meramente processuale sul piano della valutazione probatoria, cioè che
il suo comportamento si qualifica come argomento di prova a suo sfavore, con
l'implicazione, secondo la dottrina prevalente è poco apprezzabile,
cioè che non possa, l'accertamento sul fatto fondarsi esclusivamente su
tale argomento di prova, cioè si tende a dire che l'argomento di prova
può condurre a una decisione attorno al fatto, quando sia corroborato da
un altro argomento, per esempio, da altro argomento proveniente da fonte
diversa, da un diverso comportamento processuale,.
Va detto, però, che la
giurisprudenza dominante respinge questo tipo di interpretazioni e con una
lieve forzatura la giurisprudenza ritiene in larghissima maggioranza che anche
un argomento di prova da solo e non corroborato possa essere sufficiente a
giustificare un accertamento del fatto.
Segue il problema che si pone
allorquando l'ordine di esibizione sia rivolto ad un terzo, perché nei
confronti del terzo, ovviamente non è applicabile la sanzione che
abbiamo appena descritto.
Secondo l'interpretazione prevalente,
si potrebbe irrogare al terzo una sanzione pecuniaria, in applicazione analogica
ritenendosi che la disciplina dell'esibizione nel richiamare quanto ai
presupposti la disciplina dell'ordine di ispezione, di cui all'art. 118,
richiami tale disciplina anche sotto il profilo di conseguenze di
inottemperanza, infatti l'art. 118 prevede l'irrogazione di una pena
pecuniaria, si ritiene che si possa erogare questa anche in caso di
inottemperanza all'ordine di esibizione. In realtà questa
interpretazione può creare alcune perplessità, infatti, prevedere
sanzioni pecuniarie solo nei casi espressamente contemplati dalla legge sembra
un po' problematico, ma questo soltanto in astratto, perché poi, il contenuto
della sanzione è talmente modesto che di fatto non esiste applicazione
pratica, cioè nessuno fa istanza per l'applicazione detta.
Qualcuno ha ipotizzato che il
documento di cui si chiede l'ispezione, possa essere comunque acquisito al
processo, tramite lo strumento del sequestro probatorio, contemplato
dall'art. 670 specificamente, in quelle ipotesi in cui si voglia acquisire,
appunto, un documento di cui sia controverso il diritto all'esibizione, ma qui
ci sono due problemi!
Il primo è che il diritto
all'esibizione, a che fa riferimento l'art. 670, plausibilmente si esamina la
norma considerando anche l'origine storica, in riferimento a quell'ipotesi in
cui la parte vanti di diritto sostanziale all'esibizione del documento,
potrebbe in ipotesi essere conseguito pertanto, attraverso la pronuncia di
sentenza di merito, come fino ad un paio di anni fa prevedeva il diritto
tedesco che contemplava soltanto diritti sostanziali all'esibizione del
documento in particolarissime ipotesi, e secondo la tradizione del processo
romano-canonico, perché il diritto all'esibizione di portata processuale,
cioè l'esibizione di documenti allo scopo di provare i fatti in causa,
costituisce un'innovazione abbastanza recente nei diritti processuali europei,
risalente, a seconda degli ordinamenti a vari momenti del ventesimo secolo, e
quindi il diritto di contenuto processuale di esibizione, contemplato all'art.
210 del codice di rito, non è quel diritto all'esibizione di cui parla
l'art. 670, e in secondo luogo, anche volendo immaginare che l'art. 670 si
applichi anche ai diritti all'esibizione a fondamento meramente processuale,
rimane fermo che il provvedimento di sequestro è un provvedimento di
natura soltanto cautelare diretta ad assicurare che la prova non si disperda
nel corso della durata del procedimento e quindi anche la sua attuazione
dell'esecuzione attraverso l'apprensione del documento e l'affidamento alla
custodia, è chiaro che alla custodia della parte che ne è
già in possesso, sicché il provvedimento ha di fatto, fondamentalmente
l'effetto di introdurre una responsabilità penale per la dispersione del
documento in capo alla parte che ne sia nominata custode, ma non comporta
ancora acquisizione a processo il documento stesso, e non comporta affatto,
quindi, la possibilità che il giudice se ne avvalga ai fini della
decisione sul fatto, sicché, anche una volta che il documento sia stato
sequestrato, in ipotesi, la parte potrebbe ancora continuare a rifiutare di
esibirne l'esibizione, cioè l'acquisizione al processo, subendo le
conseguenze che si diceva poc'anzi, che, appunto, il terzo conservi una
facoltà di rifiutare l'ottemperanza e eventualmente soffrendo la
sanzione di cui si diceva.
Secondo una tesi minoritaria, ispirata
all'esperienza del diritto tedesco, ove l'esibizione sarebbe nei confronti del
terzo coercibile direttamente, proprio perché, non risulterebbe applicabile
all'esibizione a differenza dell'ispezione, la condanna pecuniaria quale
conseguenza dell'inottemperanza del terzo, cioè si argomenta
così! Dato che non si prevede alcuna sanzione per inottemperanza,
l'inottemperanza non è ammessa, ovvero sia, cosiccome, la legge prevede
che il testimone che si rifiuti di presentarsi a deporre, possa essere soggetto
ad accomnamento forzato, da parte della forza pubblica. Il terzo che si
rifiuti di esibire il documento può essere soggetto a perquisizione da
parte della forza pubblica allo scopo di rinvenirlo nei luoghi in cui
può esercitarsi il possesso del documento stesso. È materia che
risente dell'esperienza tedesca, dove quella dell'esibizione fino a due anni
fa, perché il diritto tedesco è stato cambiato per introdurre il diritto
sostanziale, ma per coloro che muovono dal presupposto che il diritto
all'esibizione sussista solo quando abbia un fondamento sostanziale, è
chiaro poi, che, questo diritto può essere fatto valere in modo da
ottenere anche una sentenza di condanna all'esibizione, poi, la sentenza di
condanna all'esibizione non sia passibile di esecuzione forzata, e sono queste
suggestioni ad indirizzare questo modello interpretativo, ma l'opinione
dominante in giurisprudenza è nel senso che, non vi siano
modalità per rendere coercibile direttamente l'ordine di esibizione.
Dal punto di vista sistematico, sembra
incongruo rispetto al fatto che il testimone si può accomnare
coattivamente, ma sul piano pragmatico, la cosa si capisce benissimo, perché il
diritto ad ottenere l'accomnamento forzato del testimone, che delitto
è, voi ve ne avvarreste? C'è una bella differenza cruciale tra
testimone e documento! Il testimone è dotato di una volontà e
quindi se lui non vuole cooperare è inutile accomnarlo forzatamente,
verrà in udienza e dirà che non si ricorda nulla! Infatti non
esistono applicazioni pratiche dell'accomnamento forzato del testimone nelle
cause civili! Non ha senso! Perché il testimone va a deporre solo se è
consenziente a deporre, se no, è solo uno spreco di tempo e di soldi.
Mentre il documento, non avendo una
sua forza di volontà, non può mentire, quindi ben altro effetto
avrebbe la coercibilità dell'ordine di esibizione rispetto alla
coercibilità al dovere di rendere testimonianza.
Resta il discorso da fare che, questo
limite alla possibilità di avvalersi di prove documentali tutte le volte
che queste siano in possesso di altri, è di molto dubbia
compatibilità con le garanzie costituzionali fondamentali poste dall'art.
24 della Costituzione, nelle quali, da tempo, si ritiene, secondo alcuni, come
implicazione del dettato dell'art. 24 comma 1°, cioè del diritto e
garanzia d'azione di far valere i diritti legittimi, secondo altri, secondo le
implicazioni del dettato del comma 2° dell'art. 24, cioè del diritto di
difesa, si diceva come implicazione di questa disciplina, si deve individuare
un diritto costituzionalmente garantito alla prova.
Diritto che ha varie implicazioni!
Implica , che la parte debba potere dedurre per assumere prove orali o
depositando spontaneamente ottenendo l'esibizione da parte dell'avversario
delle prove documentali ad introdurre nel processo, e veder valutate nella
motivazione della sentenza, siano esse prove dirette o contrarie, tutte quelle
prove che siano rilevanti per la dimostrazione di fatti di causa, cioè
che, in base alla previsione del loro possibile esito, siano potenzialmente
idonee ad eliminare o ad introdurre l'incertezza intorno alle verità
delle affermazioni sui fatti principali o secondari da cui dipende il contenuto
della decisione della causa.
Pertanto la difficoltà di
individuare per quale motivo questo diritto a non cooperare nell'accertamento
dei fatti possa ritenersi preminente, induce a dubitare seriamente della
compatibilità di questa disciplina con il dettato costituzionale.
Va detto che, il cosiddetto diritto
alla prova, va dimostrato attraverso qualche chiarimento che spieghi in che
modo interferisca il diritto alla prova con la garanzia del contraddittorio,
è chiaro che il diritto alla prova e la garanzia del contraddittorio
convergono nel garantire che per esempio, il diritto della parte anche a
dedurre, a far assumere, veder valutata la prova contraria a quella dedotta
dall'avversario, ma pure quella contraria a quella di cui si è disposta
l'assunzione d'ufficio, come prevedono esplicitamente gli articoli184, 421, e
così via, peraltro, occorre aggiungere che la regola del
contraddittorio, implica anche, che nel processo, possa tenersi conto soltanto
di prove ritualmente introdotte, cioè dedotte e assunte nel rispetto di
quelle regole del processoché proteggono il diritto delle parti di contribuire
alla formazione della decisione, sicché, ad un certo punto, in certi contesti,
come quello del processo penale, sembrano esserci come quei diritti alla prova
contrastanti, quando c'è ad esempio: favoreggia l'applicazioni del
diritto alla prova quando si afferma l'inammissibilità
dell'utilizzazione di prove che non siano formate nel dibattimento. Qui, il
discorso non quadra, perché, ha senso soltanto se si pensa che il diritto alla
prova non ce l'abbia solo l'imputato, ma anche la parte pubblica, perché,
altrimenti se ci rendiamo conto che s'è anche una parte pubblica che ha
un diritto alla prova, certo che il discorso quaglia molto meno.
Alcuni principi fondamentali vanno
rispettati, e in particolare di base e in tutti gli ordinamenti del mondo,
compresi quelli totalitari, vale la regola di scienza privata, è
un fondamento normativo nel nostro ordinamento, un po' nascosto, e si trova
solo nell'art. 97 delle disposizioni di attuazione che prescrive che il giudice
possa tener conto solo di ciò che apprende attraverso gli atti del
procedimento, non può prendere quei fatti d'informazione.
Questo filtro è funzionale non
soltanto nella garanzia del contraddittorio, ma anche all'esigenza di
accuratezza dell'accertamento dei fatti, perché si riconosce, generalmente, che
il mezzo di prova che sia assunto al di fuori del quadro procedimentale,
difficilmente può essere valutato in modo accurato dal giudice, trova
per altro, un temperamento questa regola, nel disposto dell'art. 115 comma 2°,
nella parte in cui consente che non vi sia bisogno di prova alcuna dei fatti
notori o fatti generalmente conosciuti, rispetto ai quali, non può parlarsi
di scienza privata, perché, di dominio pubblico.
La disciplina della modalità
aperte al contraddittorio, quindi dell'introduzione delle prove nel processo,
quindi implica che, se la prova non sia formata nel dibattimento, quando sia
introdotta sia comunque concesso discutere delle sue implicazioni per quanto
possibile. Certo partecipare alla sua formazione, si! Ma non per questo
escluderla a priori quando non sia stato possibile per tutti partecipare alla
sua formazione, c'è la facoltà di interloquire su di essa,
discuterla, dedurre le prove contrarie, ed esibirle ai fine di una
realizzazione unanime del diritto alla prova; si diceva della disciplina delle
modalità aperte al contraddittorio, nell'introduzione delle prove nel
processo, l'assunzione di documenti e l'assunzione di prove orali, concorre
quindi, con quella che esclude la stessa ammissione di prove, la cui raccolta
leda valori superiori, e quindi assieme a questa disciplina, attua il principio
della legalità della prova.
Però, nel principio di
legalità dell'introduzione della prova nel processo, ne divieto di prove
contrarie alla legge, a tutela di valori ritenuti preminenti, dal legislatore,
impongono alcun principio di tipicità dei mezzi di prova, una
parte della dottrina ritiene che, il catalogo legale delle prove civili, sia
tassativo ed esaustivo, ma in realtà, da nessuna parte si rinviene
disposizioni di questo tipo, per quel che riguarda almeno in processo civile,
pertanto nulla esclude che la decisione possa basarsi anche su prove di carattere
atipico, sicché, da questo punto di vista, inutilmente si è
espressamente sancita l'ammissibilità dell'utilizzazione del documento
informatico quale mezzo di prova nel processo civile, perché, la sua
ammissibilità, non richiedeva nemmeno lo sforzo, che alcuni hanno
compiuto, per inquadrarlo come esempio di mezzo di prova, in realtà
già previsto dal codice civile nello schema della riproduzione meccanica
per esempio, inutilmente, perché è vero che la giurisprudenza dominante riconosce
anche questo, non esiste un catalogo legale delle prove di carattere tassativo,
non esiste una regola di tipicità dei mezzi di prova, anzi, vien da dire
che l'intervento del legislatore nazionalee anticipatore, tra l'altro, del legislatore comunitario, è stato
provvido nella scelta di attribuire alla firma digitale a doppia chiave
informatica, addirittura il valore della prova legale, qui c'è stato,
alla base un equivoco atistico, perché la disciplina della firma
digitale, introdotta in Italia nel 1997, prima della direttiva comunitaria,
ricalcava pedissequamente la disciplina di uno stato federato degli USA, che
aveva introdotto l'ammissibilità della firma digitale quale mezzo di
prova e l'aveva equiparata, dal punto di vista degli effetti, a quella della
sottoscrizione manuale, solo che, la sottoscrizione manuale, in
quell'ordinamento non aveva efficacia di prova legale. Invece da noi,
l'equiparazione della sottoscrizione tramite firma digitale alla sottoscrizione
manuale, aveva per implicazione che la sottoscrizione digitale avesse
un'efficacia di prova legale che implica come conseguenze la proposizione di querela
di falso e che in alcune ipotesi, non è nemmeno possibile ammettere
la prova della falsità delle risultanze della prova documentale, neppure
attraverso querela di falso.
La scrittura privata fa prova legale
della provenienza della dichiarazione della parte che l'ha sottoscritta, certo,
si può disconoscere, ma inutilmente quando la firma è di propria
mano.
È possibile la querela di
falso, quando c'è una falsificazione, una contraffazione del documento,
un'alterazione, la giurisprudenza ha un po' ampliato l'applicazione della
querela di falso , così ritiene che si possa denunciare querela, anche
nell'ipotesi di abuso di "biancosegno", cioè l'ipotesi in cui si abbia
firmato un foglio in bianco e qualcuno con cui nn si ha alcun rapporto se ne
impadronisca e ci scriva che gli dobbiamo un miliardo! Ma la giurisprudenza non
ha mai ammesso la deduzione tramite la querela di falso del cosiddetto abuso di
biancosegno contra pacta, ossia nell'ipotesi in cui consegno a qualcuno
un assegno in bianco dicendogli:"scrivici pure 1.000" e lui ci scrive 10.000.
Qui c'era un patto di riempimento che è stato violato, io non posso
escludere la produzione di effetti giuridici della manifestazione di
volontà compiuta attraverso la dichiarazione contenuta nel documento,
dimostrando che vi è stata la violazione del patto. Questa violazione
del patto, certo è fonte di responsabilità in capo a colui che l'abbia
violato, ma nei confronti del terzo, in questo caso il prenditore dell'assegno,
che posso fare? Posso far qualcosa solo se dimostro che è in mala fede,
dimostro che è complice, altrimenti devo are! E tutto questo effetto
altro non è, che un prodotto dell'efficacia di prova legale, per la
sottoscrizione manuale. Nei confronti del terzo, anche quando io faccia valere
che non abbia mai voluto quella dichiarazione, che ne volevo una completamente
diversa, finché non provo la sua malafede non c'è niente da fare.
Le regole di prova legale, compresa
questa, si possono defatigare, per esempio affermando che favorisce il
commercio, favorisce il traffico giuridico perché l'efficacia di prova legale
del documento, comporta che il terzo possa fare un ragionevole affidamento
sulle risultanze della prova documentale senza bisogno che si svolga un
processo per accertare quale sia stata effettivamente la mia manifestazione di
volontà, però quando c'è la sottoscrizione manuale non
posso dimostrare che ho firmato senza leggere, che è quello che io non
posso dimostrare, ma con la firma digitale il fatto è ben diverso,
perché, è una firma della cui risultanza non c'è niente che rechi
traccia delle caratteristiche della persona che ha sottoscritto o meglio della
persona che ha posto la firma con la sua sottoscrizione, quindi niente mi
consente di evincere che sia stato neanche vicino al mio naso il documento su
cui risulta apposta la firma digitale, perciò l'acquisto della
cosiddetta firma digitale, mi espone, in realtà, a una alternativa; o
non uso quasi mai questa firma, cioè la uso soltanto io quando
c'è la mia persona fisica presente oppure me ne avvalgo con la
tecnologia della doppia chiave informatica che è legata ad una
tecnologia di protezione molto particolare.
Il fenomeno della prova legale non va
confuso con il principio di legalità della prova: abbiamo prova
legale tutte le volte in cui il legislatore predetermina il valore
probatorio del mezzo di prova. Il principio generale è quello contrario
a quello posto dall'art. 116 comma 1°, e cioè la regola che spesso si
qualifica la libera valutazione o convincimento del giudice del mero
apprezzamento, inoltre l'art. 116 parla di facilitare il commercio, la prova
legale facilita il riesame della decisione da parte del giudice
dell'impugnazione gerarchicamente sopraordinato, perché, l'accertamento del
fatto viene standardizzato, quindi trattazione orale della causa,
concentrazione cioè svolgimento del processo per rendere le udienza
più possibile ravvicinate, immediatezza cioè coincidenza fra il
giudice presso il quale si accolgono le prove e il giudice che pronuncia
intorno all'accertamento del fatto, si intende anche dire, che l'accertamento
del fatto più accurato, è quello compiuto dal giudice in cui si
accolgono le prove, cioè dal giudice di primo grado.
Ci può dire che l'elenco di
prove legale, possono costituire inutili mezzi di disposizione del diritto
attraverso il processo, si dice questa cosa a proposito della confessione
o del giuramento, ma anche qui qualche obiezione si potrebbe formulare,
perché, questa distorsione del rapporto tra atti sostanziali e atti
processuali, può dar luogo a ingiustizie, sarà pur vero che si
tratta di diritti disponibili, ma perché disporne incongruamentee attraverso i mezzi di prova quando si
può disporne attraverso gli atti negoziali dispositivi? Perché
consentire l'elusione della disciplina degli atti sostanziali dispositivi? Il
rischio forte è il rischio sostanziale, poi ci sono ragioni storiche
dietro alle regole di prove legali, che sono ispirate dall'obiettivo di
limitare la discrezionalità del giudice nell'accertamento dei fatti,
probabilmente la più importante delle ragioni per cui è nato il
sistema delle prove legali è stata questa: si temeva che il giudice
decidesse a piacimento, ma se lo strumento più efficace per conseguire
questo risultato, che vale la pena di perseguire, consiste nel valorizzare il
vero significato della regola del libero convincimento, sicché il riferimento
del libero apprezzamento il quale implica che la discrezionalità del
giudice, nell'apprezzamento delle prove, non sia affatto pura, ma deve essere
anche questa guidata da criteri razionali di critica della prova, da
riconoscere intersoggettivamente verificabile, e di cui il giudice di merito
deve dar conto della motivazione, onde assicurare che la decisione, pur non
potendosi garantire che venga presa razionalmente, sia la meno
razionalizzabile, pena il suo annullamento per vizio della motivazione.
Motivazione, controllo di
conformità dei criteri razionali, può essere esercitato dal
giudice superiore, dalla Cassazione, senza nessun particolare bisogno di regole
di prova legale, anzi, plausibilmente, ottenendo risultati sul lungo termine,
più accurati, proprio evitando, che tali criteri di razionalità
siano rigidamente predeterminati dalla legge, perché la vera razionalità
sull'indagine dei fatti è data dalla flessibilità! Gli
automatismi, sono sintomo di un'intelligenza inferiore! Oggi, ci accorgiamo
facilmente di quanto fossero assurde tante regole di prova legale nel passato,
crescendo ce ne accorgiamo di come fossero aberranti le regole che
distinguevano il valore della prova testimoniale a seconda se resa da uomini o
da donne, per esempio. Regole che erano frequentissime per i sistemi di prova
legali nel processo canonico, e anche in alcune stagioni del processo
anglosassone.
Nella misura in cui le regole di prova
legale minano in realtà la razionalità nell'accertamento dei
fatti, e soprattutto quando rendono inammissibili prove dirette a dimostrare la
falsità delle risultanze della prova legale, si debbano considerare,
fondamentalmente, come relitti medievali anch'essi non compatibili con la
garanzia costituzionale del diritto alla prova, e valga questa considerazione,
anche, per l'impossibilità di dimostrare di aver firmato un documento
senza leggerlo.
Questo dubbio, per altro, non si
può porre con riferimento a quella che si può considerare, solo
in senso lato, la regola di prova legale, in senso molto lato, perché,
disciplina non gli effetti probatori dei mezzi di prova, ma se si vuole, quelli
della mancanza di prove, più esattamente dell'incertezza sui fatti,
cioè, si sta alludendo alla regola dell'onere della prova posto
dall'art. 2697.
La regola ha due significati del tutto
razionalmente condivisibili, anzitutto la regola vieta in caso d'incertezza sui
fatti in cui il giudice non può pronunciarsi in mero rito, il giudice,
in questi casi, può pronunciare sul merito della domanda, con
provvedimento, quindi, potenzialmente idoneo a precludere la riproposizione
della stessa.
In secondo luogo, la regola ripartisce
tra le parti il rischio dell'incertezza attorno ai fatti, stabilendo poi, in
sostanza che il giudice non accerta alcun effetto giuridico se non quando
risultino accertati i fatti che lo abbiano prodotto.
Questa disciplina è stata molto
dibattuta. In generale il problema dell'onere della prova è stato
dibattuto in Germania.
Cosa si intende per onere, quando
parliamo di onere della prova? Perché, in realtà, questo onere
è un onere in senso improprio, come impropria è l'espressione che
la parte deve provare come dispone l'art. 2697, perché è impropria?
Perché all'omessa deduzione di prove, non consegue affatto, automaticamente, la
sanzione consistente nel ritenere inesistente il fatto allegato, al contrario,
vale nel nostro ordinamento il cosiddetto principio di acquisizione, il
quale comporta che il fatto allegato sia ritenuto esistente anche quando viene
provato tramite un mezzo offerto dal'avversario o tramite un mezzo assunto
d'ufficio dal giudice, quindi, per chiarire questo aspetto si dice che nel
nostro ordinamento, l'onere della prova è un onere in senso oggettivo e
non in senso soggettivo. L'onere della prova in senso soggettivo, invece, si
ritrova nell'ordinamento americano.
La regola dell'onere della prova che
abbia significato oggettivo implica che si debba ritenere assolutamente
sbagliato dire, come a volte si dice, che la presenza di poteri istruttori del
giudice, cioè i poteri del giudice di disporre d'ufficio l'assunzione di
mezzi di prova non dedotti dalle parti, rinvii la regola dell'onere della
prova. L'art. 115 comma 1°, certamente enuncia un principio generale di
disponibilità delle prove, per cui il giudice decide sulla base delle
prove dedotte dalle parti, salvi i casi previsti dalla legge, e quando vale il
principio opposto, sia quando si tratti di quei casi previsti dalla legge e il
giudice dispone d'ufficio l'assunzione di prove, che sono diversi: c'è
il caso dell'ispezione, c'è il caso di giuramenti suppletorio
e istruttorio, c'è il caso di testimonianza de relato,
cioè si afferma la regola del sentito dire che non è accettato
dalla legge anglosassone, perché si ritiene che la giuria non sia in grado di
valutare nel modo accurato il valore di una testimonianza de relato, nel
nostro ordinamento, invece, la testimonianza de relato è
perfettamente ammissibile, però si prevede, nel potere istruttorio del
giudice, di chiamare il testimone diretto e disporre, egli stesso d'ufficio,
che sia sentita la persona che ha direttamente assistito allo svolgimento dei
fatti.
Nelle cause che non sono soggette a
trattazione collegiale, inoltre, il giudice ha il potere di disporre d'ufficio
l'assunzione di quei testimoni, ai quali le parti abbaino fatto riferimento
negli atti di causa, compatibilmente con il divieto di scienza privata, ma non
abbiano poi chiamato a deporre, nell'ipotesi in cui la parte, nell'atto scriva
che erano presenti al fatto Tizio, Caio, Sempronio, chiamo a deporre gli
stessi.
In alcuni riti speciali, ad esempio,
in quello del lavoro, addirittura, il giudice può disporre anche
d'ufficio l'assunzione di ogni mezzo di prova anche al di la dei limiti
previsti dal codice civile.
Ebbene, tutto quello che accade in
queste ipotesi, è che di fatto sarà curato il sistema di rigetto
attorno ai fatti, ma la regola dell'onere della prova come tale, non viene
minimamente intaccata, cambia, semmai, la frequenza della sua applicazione.
Incidentalmente viene da osservare che il giudice ha scarsi strumenti per
esercitare i suoi poteri istruttori, perché non è personalmente coinvolto
nella lite, e quindi,i fatti non li
conosce, come fa a sapere, addirittura, che ci sono delle prove oltre a quelle
dedotte dalle parti, inoltre, oltre ad avere scarsi strumenti ha scarsissimi
incentivi a compiere indagini d'ufficio, perché il processo civile ha per
oggetto diritti disponibili, quindi la causa può pur sempre essere
definita dall'accordo delle parti, e allora con che voglia si svolgono le
indagini d'ufficio!
Di regola, il funzionario pubblico si
attiva spontaneamente nell'indagini, tuttalpiù se questo è il suo
unico compito, se ciò mi garantisce visibilità, come il caso del
PM nel processo penale, quindi anche quando il giudice possiede ampi poteri
istruttori, rimane pienamente applicabile la regola dell'onere della prova,
ogni qualvolta comunque esista incertezza intorno ai fatti, e non meno
sbagliato è anche dire che incida sull'onere della prova qualsiasi
regola che incrementi il dovere delle parti di cooperare nell'accertamento
della verità, ad esempio vietando alla parte di mentire o imponendole di
ottemperare agli ordini di esibizione di documenti anche contro la sua
volontà.
Si sa bene che la parte non deve
essere strumento del suo avversario e certamente nel contesto del processo
penale può essere più facilmente comprensibile l'idea che la
parte sia tenuta a cooperare all'indagine diretta ad accertare la
responsabilità penale, e si può anche capire che la arte che non
cooperi, o non voglia cooperare all'accertamento della verità nel corso
del processo civile, magari non si spinga fino a mentire in giudizio, ma scelga
il silenzio perché non vuole cooperare, questa parte non possa essere soggetta
a sanzioni penali, ma molto più difficile è capire perché non
possa essere soggetta a sanzioni in termini di diretta soccombenza nella lite,
come pure in varie occasioni si prevede, per esempio: la parte che non si
presenti a rispondere all'interrogatorio formale, è sanzionata dalla
legge nel senso che il giudice debba ritenere sussistenti i fatti affermati,
cioè che la mancata izione, senza giustificato motivo della parte,
abbia l'effetto di una confessione dei fatti allegati e si traduca in sostanza
automaticamente nella soccombenza nella lite, e allora perché non dovrebbe
accadere lo stesso per la parte che si rifiuti di ottemperare all'ordine di
esibizione!
Regole che prevedessero la soccombenza
della parte che non ottemperi all'ordine di esibizione o qui prevedesse la
diretta coercibilità nell'ordine di esibizione resa nei confronti della
parte o resa nei confronti del terzo, in nessun modo eliminerebbero la vigenza
della regola dell'onere della prova, che resterebbe intatta, tuttalpiù,
sarebbe, forse, meno frequente la sua applicazione, cioè, di fatto meno
frequente, la decisione della causa sulla base dell'applicazione dell'onere della
prova, perché, sarebbe meno frequente l'ipotesi dell'incertezza intorno ai
fatti.
L'onere della prova può essere
suscettibile di essere invertito, può cioè accadere che un fatto
debba ritenersi esistente fine a prova contraria, al contrario di quel che
prevede l'art. 2697. Fonte di tale inversione, possono trovarsi nella legge o
in atti di volontà delle parti. La legge inverte l'onere della prova con
il fenomeno della cosiddetta presunzione legale relativa, qui occorre
distinguere, anzitutto, il fenomeno della presunzione legale relativa da quella
della presunzione legale assoluta, cioè quella che non ammette la
prova contraria, e si tratta di ipotesi molto rare, che in realtà,
costituiscono forme di semplificazione della fattispecie, e quindi, in questo
caso non incidono sull'onere della prova, ma si potrebbe dire che lo eliminano
in tanto in quanto, eliminano la rilevanza giuridica del fatto per un verso,
per altro verso, le presunzioni legali iuris tantum, appunto relative,
che ammettono la prova contraria vanno tenute seccamente distinte dalla presunzioni
semplici o presunzioni del giudice.
Qui, il dettato normativo, ancora una
volta suggerisce un po' di confusione. La presunzione semplice costituisce
propriamente una modalità di assolvimento dell'onere della prova. Si
verifica quando il giudice, da un fatto noto, trae conclusioni intorno ad un
fatto ignoto, cioè si tratta sostanzialmente di un accertamento del
fatto compiuto in via inferenziale, l'esempio che più spesso si fa,
è quello della traccia della frenata nell'incidente automobilistico, da
cui si desume quanto andava veloce la vettura; il fatto ignoto: la
velocità e superamento dei limiti di velocità, si ricostruisce
sulla base del fatto noto, cioè la lunghezza della traccia della
frenata.
Il codice civile tende ad equiparare
la presunzione legale relativa alla presunzione semplice dicendo che si tratta
del caso in cui anche la legge, da un fatto noto trae conclusioni intorno ad un
fatto ignoto. Le cose non stanno così! Perché la presunzione semplice,
in realtà, non muove da alcun fatto noto, ma è seccamente
l'inversione dell'onere della prova disposto in un caso particolare dalla
legge. In che tipo di casi particolari? Per lo più, nel caso dei fatti
negativi, certo! Proprio rispetto a quelli in cui tipicamente l'onere della
prova si tradurrebbe nell'onere di una probatio diabolica, per lo
più sopravviene una presunzione legale, tipicamente la più famosa
è la presunzione di buona fede, perché la buona fede è un fatto
negativo, in quanto è l'assenza di conoscenza della provenienza del bene
dal soggetto che non è il proprietario, l'assenza di consapevolezza di
complicità del torto, e provare la buona fede, vuol dire provare un
fatto negativo, che io non ho mai saputo nel corso di anni, che quel bene
proveniva da un soggetto che non era proprietario, è chiaro che sarebbe
per me diabolico doverlo provare e che molto più facile per l'avversario
provare il fatto positivo che io ne sia venuto in qualche modo a conoscenza,
perché quello avrà per forza, una collocazione spazio-temporale
più facilmente individuabile.
La distinzione fra fatti principali
e fatti secondari, per cui i fatti principali sono i fatti produttivi
degli effetti giuridici di cui si richiede l'accertamento in giudizio, fatti
secondari sono quei fatti da cui si traggono conclusioni intorno alla
sussistenza dei fatti principali, in casi, come si dice di monopolio delle
partinell'introduzione dei fatti nel
processo, al monopolio attinente all'introduzione di fatti principali, non
all'introduzione dei fatti secondari, perché se si cambiano i fatti principali,
si dice può darsi che si faccia valere un diritto diverso e quindi
introdurli da parte del giudice violerebbe il principio dispositivo in senso
sostanziale, cioè, renderebbero oggetto di decisione un diritto diverso
da quello dedotto in giudizio dalla parte, mentre non si giustifica un
monopolio delle parti nell'introduzione dei fatti secondari, perché, nel
contesto di un sistema in cui vi sia un principio dispositivo attenuato, sotto
il profilo processuale, in cui addirittura, il principio dispositivo sia del
tutto abbandonato, come accade nel rito del lavoro, e che quindi il giudice possa
disporre dei mezzi di prova senza limiti al di la di quelli richiesti dalle
parti, questi mezzi di prova, debbono poter vertere anche su fatti diversi da
quelli indicati dalle parti quando si tratti di fatti secondari, naturalmente
sempre purché, dell'esistenza di questi fatti il giudice abbia appreso
attraverso atti del procedimento, non necessariamente atti delle parti, perché
neghiamo, appunto, che vi sia monopolio delle parti nell'istruzione probatoria,
attraverso atti del procedimento, ad esempio dalla narrazione di altri
testimoni, e quindi un testimone, che occasionalmente dice che si è
verificato quest'altro fatto, se io sono un giudice del lavoro che può
svolgere l'istruzione probatoria autonomamente, al di la delle indicazioni delle
parti, io posso chiedere ad altri testi, sempre di cui sono a conoscenza
attraverso gli atti del processo, di deporre anche intorno a questi ulteriori
fatti che sono venuto a conoscenza tramite altri testimoni.
La norma dell'art. 5 ci interessa, in
materia di lavoro, perché, prevede che la discriminazione possa essere provata
anche sulla base di dati di carattere statistico, che l'onere della prova di un
fatto negativo privo di connotazioni precise spazio/temporali, non può
essere attribuito per effetto di un patto, perché sarebbe eccessivamente
gravoso e incorrebbe un onere di probatio diabolica.
L'inversione può anche
dipendere dall'iniziativa unilaterale, però, l'opinione dominante, nel
senso che si debbano porre alle iniziative unilaterali condizioni talmente
restrittive, da far si che il fenomeno sia privo di applicazione pratica,
cioè, si può verificare l'inversione unilaterale dell'onere della
prova, soltanto se la parte offra di provare l'inesistenza del fatto con
l'esplicita assunzione delle conseguenze negative dell'insuccesso, altrimenti,
la mera offerta di provare il contrario, e ciò che l'altra parte sarebbe
oberata a provare, non può comportare l'inversione dell'onere della
prova.
Neppure, potersi davvero affermare in
via generale, che si produca l'inversione della prova per effetto della non
contestazione dei fatti.
Altra ovviamente, è l'ipotesi
della vera e propria confessione del fatto, dove abbiamo addirittura prova
legale della sua esistenza, nell'ipotesi dell'ammissione del fatto, o
riconoscimento della sua verità, ma non da parte della parte
interessata, con applicazione della disciplina della confessione ammessa dalla
parte attraverso il suo difensore tecnico e parliamo allora di ammissione,
più difficile, in realtà, individuare uno specifico fondamento
punitivo, è un'idea molto diffusa, peraltro, che possa aversi una rilevatio
onere probandi con la conseguenza della mancata attestazione dei fatti, la
legge pone diverse specifiche conseguenze per la mancata contestazione, quando
per esempio, consente la pronuncia dell'ordinanza di amento di somme non
contestate, arrivare però, a generalizzare questa conseguenza, sulla
base del dato formativo è abbastanza faticoso. Ma ci sono disposizioni
che prevedono l'onere di prendere specifica posizione verso i fatti allegati,
perché, intanto quest'onere, normalmente non è previsto a pena di
decadenza e non è proprio chiaro quale sia 'immediata conseguenza del
mancato assorbimento di quest'onere.
Si può immaginare che il
mancato assorbimento dell'onere di prendere posizione sui fatti allegati, sia
non prendendone alcuna, sia prendendone genericamente, non può mai
escludere alla luce dell'ordinamento ora vigente l'operatività, ma
tuttalpiù può portare all'inversione dell'onere della prova e non
può mai escludere che la prova dell'inesistenza del fatto non contestato
possa essere presa, in ogni caso in considerazione dal giudice, allorquando
venga da una sua iniziativa istruttoria.
Le presunzioni giurisprudenziali, sono un fenomeno che riguarda la tendenza della giurisprudenza, ad
avvisare presunzioni che non sono ne semplici, perché non sono fondate sulla
inferenza dell'accertamento dei fatti secondari, e non sono nemmeno previste
dalla legge, e si parla in questo caso, di presunzione giurisprudenziale, nome
riconosciuto in dottrina col quale si allude a orientamenti giurisprudenziali
tendenti per dare esistenti fatti non provati, in mancanza, però, di
norme o di manifestazioni di volontà delle parti che l'autorizzino a
fare ciò. Esso costituisce una secca disapplicazione della norma posta
dall'art. 2967, quindi non può essere approvata con troppa leggerezza,
si tratta di capire perché succede per fare in modo di orientare che succeda, e
di solito, questo fenomeno emerge nell'intento di venire incontro a particolari
difficoltà di ricerche della prova, quindi sia in cui ipotesi le
particolari difficoltà di accesso alla prova derivino dalla struttura
del fatto, nella circostanza che si tratti di un fatto negativo, in particolare
quello privo di spazi temporali precise, sia emergono in particolari settori in
cui la difficoltà di accesso alla prova del fatto dipende dalla
situazione di debolezza della parte, per cui, il fenomeno è ricorrente,
soprattutto nelle controversie di lavoro, dove si cerca di supplire alle
difficoltà che questa parte incontra nel conflitto sostanziale e nella
gestione processuale del profilo sostanziale, al punto che le disparità
di accesso alla prova di fatti, che sussistono nelle controversie tra datore di
lavoro e lavoratore, vengono alleviate e non soltanto con l'utilizzazione di
poteri istruttori d'ufficio, ma anche attraverso il ricorso a presunzioni
giurisprudenziali, cioè, all'inversione dell'onere della prova che non
risultano esplicitamente giustificate nei disposti legislativi nella pattuizione
sopravvenuta tra le parti.
·Le prove orali e prove
documentali
Nel diritto anglosassone, le prove
consistono essenzialmente in testimonianze, cioè dichiarazioni orali
rese in udienza su domanda delle parti, o meglio dai loro difensori, in tale
maniera si acquisiscono le dichiarazioni, sia di chi è a conoscenza dei
fatti, sia delle parti, sia degli esperti qualificati per fornire conoscenze
tecniche utili per comprendere come possa essersi formata la dinamica dei
fatti, il processo civile italiano, soprattutto dal punto di vista del diritto
delle prove, è collocato tradizionalmente su di un versante opposto, per
evitare il sistema processuale canonico, si è tante volte, in questo
secolo, contrapposto il mito dell'oralità è rimasta largamente
immutata e ancora, le più recenti riforme hanno inciso pochissimo su
quest'assetto. Certo! Rispetto al processo medioevale molto è cambiato,
ad esempio il principio di immediatezza è più largamente attuato,
perché la prova delegata, cioè la prova assunta da un giudice diverso da
quello che decide sul fatto, è limitata ai csi in cui debba assumersi
fuori dalla circoscrizione, ai sensi dell'art. 203, è un'attenuazione
della tradizione che si avvicina al principio dell'immediatezza, anche se deve
ricordarsi che una realizzazione piena del principio di immediatezza si ha
soltanto quando il giudizio sul fatto, compiuto da colui dinnanzi al quale le
prove sono state assunte, è quasi del tutto insindacabile, come avviene
laddove il processo si svolga dinanzi alla giuria anglosassone.
Già solo l'idea che si abbia un
nuovo giudizio sul fatto in sede di appello sulla base delle risultanze
probatorie acquisite in primo grado, quindi sulla base della documentazione
compiuta nel processo verbale, attenua di molto la realizzazione del principio
di immediatezza nel suo significato più compiuto.
Inoltre, l'oralità in materia
di prove, rimane ativamente assai limitata, anche sotto ulteriori
profili, per esempio: si deve rimarcare che l'assunzione della prova
testimoniale è fortemente formalizzata, perché al teste si pongono
soltanto le domande previamente formulate dalle parti tramite la cosiddetta modulazione
ai sensi dell'art. 244, a queste domande possono aggiungersi domande di
chiarimento ex art. 253 che il giudice può porre, ma solo intorno ai
fatti già individuati nei moduli e questo comporta che nonostante, in
teoria, le domande vengono poste dal giudice, nella prassi, questi si limiti a
prendere cognizione sottoscrivendolo nel verbale redatto per iscritto
addirittura dai difensori stessi.
In secondo luogo, la prova
testimoniale soffre gravi limiti di ammissibilità di carattere oggettivo
derivanti dalla preferenza del legislatore per le prove scritte, ritenute
più affidabili, preferenza che si manifesta non solo nell'attribuzione a
gran parte delle prove scritte del carattere di prova legale, ma anche nella
preferenza per le prove scritte rispetto alle prove orali, alché, non è
ammessa senza specifica autorizzazione del giudice, la prova testimoniale di
contratti superiori a un valore molto modesto, non è ammessa se non
quando il giudice ritenga verosimile che il contratto sia stato modificato
verbalmente e la prova testimoniale di fatti modificativi posteriori alla
modificazione del documento e addirittura non è ammessa in via di
principio laddove si ravveda la sussistenza di patti modificativi del contenuto
del documento conclusi anteriormente o contemporaneamente alla redazione dello
stesso, sul presupposto che sia inverosimile che la dice, questa ipotesi, la
modificazione del verbale del contratto, salvo che, sussista un principio di
prova scritta, col che, si intende dire che sussista una prova scritta priva
dei requisiti pieni della scrittura privata, per esempio una scrittura non
sottoscritta, oppure, salva l'ipotesi in cui la parte dimostri di essere stata
nell'impossibilità morale o materiale di procurarsi il documento, ovvero
ancora, nell'ipotesi in cui abbia perduto il documento senza colpa, documento,
si intende dire, rappresentativo del patto modificativo, con la conseguenza che
non è ammissibile provare un patto modificativo anteriore o
contemporaneo alla stipulazione del documento che sia stato effettivamente
compiuto soltanto verbalmente, è necessario che ci sia pur sempre un
documento, che si provi che c'era un documento anche se non si è in
grado di produrlo in giudizio, e questo a prescinderedalla circostanza che per il contratto sia
richiesta la forma scritta ai fini della validità, o anche solo ai fini
della prova, quando, addirittura, sia richiesta la forma scritta del contratto
per la prova o per la sua validità, in questo caso, la prova
testimoniale del contratto stesso, è ammessa soltanto se si dimostri la
perdita incolpevole del documento.
Si discute, intorno alla portata
dell'art. 421 sotto questo punto di vista, nella parte in cui ammette il
ricorsoa mezzi di prova disposti
d'ufficio dal giudice anche al di la dei limiti previsti dal codice civile,
è abbastanza pacifico che il giudice possa disporre l'attenzione di
prove testimoniali per quanto riguarda i patti modificativi e per quel che
riguarda i contratti di valore superiore a 5.000 lire.
Più controverso è sei il
giudice possa, nell'esercizio dei suoi poteri istruttori d'ufficio, derogare
anche ai limiti di ammissibilità della prova testimoniale rispetto ai
contratti per i quali la forma scritta sia richiesta ai fini della
validità o ai fini della prova, qualcuno sostiene che se il giudice lo
facesse, finirebbe per derogare anche alla disciplina della forma del
contratto. Nel discorso va però osservato, senz'altro, non si presta ad
applicarsi, rispetto ai contratti i quali la forma scritta sia richiesta ai
fini della prova, come per il contratto di transazione per l'avvocato, e per
quanto riguarda l'ipotesi in cui la forma sia richiesta ai fini della validità,
la conclusione che il giudice del lavoro non possa derogare ai limiti di
ammissibilità previsti dal codice civile, è da respingere per cui
si presenti una conseguenza della circostanza che la forma sia richiesta ai
fini della validità,perché se noi vogliamo dedurre tramite prova
testimoniale la conclusione di un contratto di compravendita immobiliare, e ci
riferiamo a questi tipo di contratti attinenti a diritti reali, in forma orale,
è chiaro che la stessa prova è inammissibile, perché, irrilevante
fondamentalmente, nel senso che non ha rilevanza giuridica la conclusione in
forma verbale di un contratto di compravendita immobiliare, ma se andiamo a
provare per testimoni, che effettivamente quel contratto è stato
concluso in forma scritta, è ragionevolissimo, che nel contesto del
contenzioso del lavoro, si possa derogare i limiti di ammissibilità
previsti dal codice civile in tanto in quanto, questi consentono la prova per
testi che il contratto si è concluso in forma scritta soltanto nell'ipotesi
di perdita incolpevole del documento, pertanto, dovrebbe ammettersi che nel
campo del lavoro, la prova testimoniale della conclusione, sempre per iscritto
del contratto di compravendita immobiliare, anche quando il documento sia stato
perduto colpevolmente, è una disciplina anche nei limiti soggettivi
dell'ammissibilità della prova testimoniale, che si aggiunge ai diritti
di astenersi dal deporre (la tutela dei segreti professionali) nel comprimere
l'utilizzabilità delle prove testimoniali.
Alcuni, dei limiti soggettivi
dell'ammissibilità della prova testimoniale sono stati eliminati dalla
giurisprudenza costituzionale, in attuazione della garanzia del diritto alla
prova, sicché, il divieto di testimonianza dei parenti stretti a favore delle
questioni di stato, contemplato dall'art. 247, non è più in
vigore e lo stesso dicasi per i limiti all'audizione dei minori di anni 14,
contemplata dall'art. 248, questi possono essere sentiti come testimoni, con
una precisazione, ovviamente, che la modalità dell'assunzione della
prova testimoniale deve essere diversa, ma in che cosa? Qual è la prima
cosa che si fa fare ad un testimone? Lo si fa giurare! E su questo si innesca
la responsabilità penale per la falsità della testimonianza.
Ebbene, il minore di 14 anni, non è imputabile, come tale, pertanto, non
è comunque soggetto a responsabilità penale in caso di
falsità, anche accertata, delle sue dichiarazioni testimoniali e quindi
non lo si fa nemmeno giurare!
Però, è rimasto in
vigore, sebbene non siano mancate varie ipotesi di rimessioni alla Consulta
della questione, la cosiddetta incapacità di testimoniare posta
dall'art. 246 a carico di quei soggetti che vi avrebbero un interesse nella
causa, che potrebbe legittimare di intervenire nel giudizio come parti. Il fondamento
di questa esclusione si rinviene nella generale impostazione restrittiva
dell'uso della testimonianza, che caratterizza il nostro ordinamento, sul
presupposto che in sostanza saremmo al cospetto di parti potenziali e le parti,
in realtà, non testimoniano nel nostro processo civile, anche se nel
processo non vuol dire che non ci siano dichiarazioni orali delle parti, anzi,
le parti sono tenute a ire personalmente e per rispondere anche a domande
non previamente formulate, nel cosiddetto interrogatorio libero di cui
all'art. 117.
È chiaro che nel requisito
della previa formulazione delle domande c'è anche un altro aspetto di
dequalificazione dell'importanza della prova orale, perché è vero che il
contenuto in termini di scoperta della verità che si può conseguire
da domande che il testimone, con molta probabilità, già conosce,
è abbastanza modesto, per distinguere il testimone menzognero da quello
sincero, ma nel nostro sistema questo è irrilevante, in quanto poggia
sulla prova documentale ed ha una scarsa fiducia di fondo nella dichiarazione
orale, quindi ci troviamo in un circolo vizioso, avendo scarsa fiducia la si
assume come se contasse poco e poi i risultati confermano che c'è da
avere poca fiducia, per esperienza di una prassi che rileva quanto sia diffusa
in concreto, nella nostra vasta esperienza giurisprudenziale la falsità
della testimonianza .
Alle dichiarazioni rese in tale sede
dalle parti, così come in realtà, al rifiuto ingiustificato di
presentarsi, o di rendere dichiarazioni nel contesto dell'interrogatorio libero
o più in generale, al comportamento processuale delle parti, ad esempio
elusivo o dilatorio, si attribuisce un valore probatorio non pieno, ai sensi
dell'art. 116 comma 2°, e ciò implica che non possa fondarsi l'accertamento
di un fatto esclusivamente su uno di tali elementi, si dovrebbero, cioè
trovare riscontro altrove, applicandosi un principio generale come disposto
dall'art. 2729 del c.c., in cui ammette il ricorso alle presunzioni semplici,
soltanto quando queste siano gravi, precise e concordanti e i requisiti della
concordanza è normalmente inteso nel senso che la prova per presunzione
sia costituita da un ragionamento inferenziale che trovi riscontro almeno in un
ragionamento inferenziale diverso e giustificato da una fonte diversa.
Gravità e precisione, fanno
riferimento alla univocità del nesso tra fatto noto e fatto ignoto e
qui, c'è un fenomeno curioso, cioè, dall'esame della
giurisprudenza, si scopre che ci sono molte oscillazioni intorno al principio
sulla questione se la presunzione possa operare solo quando ci sia un nesso
ineluttabile ed indefettibile tra fatto noto e fatto ignoto, o anche quando vi
siano forti probabilità che la fatto noto debba ricollegarsi il fatto
ignoto. Questo fenomeno accade nella Corte di Cassazione allorché compie il
sindacato indiretto sull'accertamento del fatto attraverso l'esame della
collimazione, qui è probabilmente fondatoil sospetto che queste oscillazioni
giurisprudenziali costituiscano uno strumento con cui la giurisprudenza della
Cassazione si presta alla giustizia del caso concreto, e quindi profittare dei
suoi poteri di riesame in diretta, dove l'accertamento del fatto attraverso il
controllo sulla motivazione, per compiere, in realtà un esame diretto
della conclusività dei mezzi di prova e confermare o meno la sentenza a
seconda se ritenga che, in presenza di forti probabilità, sia
effettivamente ragionevole o meno raggiungere la conclusione raggiunta dal
giudice, e quindi, quando ritiene che la conclusione sia irragionevole, dice
che ci vuole la certezza, e non basta la probabilità, quando la ritiene
ragionevole, anche la probabilità va benee non c'è bisogno della certezza.
Attraverso questa oscillazione la
Cassazione tende un po' ad abusare dei suoi poteri di controllo, perché ora
è impegnata soltanto a formulare il principio ed applicarlo in maniera
sistematica, preferibilmente il principio secondo cui è sufficiente una
forte probabilità che tutto sommato è più ragionevole di
quello che richiede la certezza del nesso tra fatto noto e fatto ignoto.
Comunque, secondo la dottrina, le
presunzioni semplici e più in generale gli argomenti di prova e anche le
cosiddette prove atipiche, tra cui prevalgono per esempio le certificazioni
amministrative, dovrebbero assumere il valore della cosiddetta semiplena
probatio, si tratta però, di una tesi dottrinale non accolta dalla
giurisprudenza, che in realtà, spesso e volentieri fonda la decisione su
tali elementi anche in assenza di riscontri, e questo orientamento della
giurisprudenza appare criticabile solo nella misura in cui le inferenze non
violino criteri generali di razionalità, posto quanto si è detto
a proposito della prova legale.
Solo eccezionalmente avviene, che le
parti, prestino giuramento, questo può definirsi d'ufficio, secondo la
legge, per integrare una prova semipiena, si tratta di giuramento
suppletorio, ovvero per determinare un valore della cosa oggetto della
controversia, e si parla in questo momento di giuramento estimatorio,
puo, poi definirsi, ma soltanto su istanza dell'avversario, nonché essere da
questo riferito a colui che originariamente era deferito, per farne dipendere,
come si dice, la decisione totale o parziale della causa, e si riferisce in
questo caso al giuramento decisorio, che è, potremmo dire, il
più eclatante e discutibile dei casi di prova legale.
Infatti, avendo giurato, la parte
può rispondere, in sede penale, della falsità delle sue
dichiarazioni, però, in sede civile il giuramento è una prova
legale assoluta, rispetto alla quale non è ammessa alcuna prova
contraria, salva solo l'ipotesi in cui sia reso in un processo poi estinto , in
questo caso l'applicazione dell'art. 310, in forza del quale le prove assunte
nel processo estinte sono utilizzate in un diverso processo, ma con il valore
di argomento di prova e in quest'ipotesi, il giuramento decisorio perde la sua
forza concludente.
Non produce l'effetto vincolante della
prova legale, il giuramento che sia prestato da soli alcuni fra più litisconsorti
necessari, e ciò in forza del suo carattere indirettamente dispositivo
del diritto sostanziale, comunque, al di la di queste ipotesi invece, il
giuramento è concludente se la parte soccombente, per effetto delle
dichiarazioni così giurate, può ottenere soltanto il risarcimento
dei danni a seguito della condanna penale per falsità del giuramento del
suo avversario, e paradossalmente, non è nemmeno possibile, e la legge
lo specifica, ottenere la revocazione della sentenza sulla base della dimostrazione
che sia stata conseguita, appunto, attraverso una prova falsa, perché la legge
si premura di escluderlo esplicitamente.
L'assurdità del sistema del
giuramento decisorio, che probabilmente è la più medioevale delle
prove legali, spiega, quindi, il perché sia di scarsa applicazione pratica, in
concreto, a prescindere dalla sussistenza dei diritti di ammissibilità
riferibili anche a questo mezzo di prova e che possiamo brevemente ricordare! Deve
vertere su un fatto proprio a conoscenza del fatto altrui, parliamo
rispettivamente il giuramento de veritate o de scientia, non
può avere ad oggetto fatti illeciti, evocandosi una delle tante varianti
del dilemma per la parte se giurare il falso che riconoscere la sua
responsabilità del fatto illecito, inoltre, non può deferirsi in
materia di diritti indisponibili, non può essere utilizzato per la prova
di contratti per i quali la forma è richiesta ai fini della
validità, mentre può essere usato per la prova di contratti, per
i quali la forma sia richiesta ai fini della prova e quindi può essere
utilizzato per provare la trascrizione, e ancora, non può contrastare le
risultanze di un atto pubblico, cioè di una prova legale che ha
un'efficacia conclusiva maggiore rispetto al giuramento decisorio.
Da ultimo, in materia di dichiarazioni
delle parti, occorre, infine, esaminare l'efficacia delle dichiarazioni delle
parti rese fuori dalla sede del giuramento e fuori dalla sede
dell'interrogatorio libero, esaminando in particolare il cosiddetto interrogatorio
formale.
Questo verte, come la testimonianza
solo sulle domande previamente formulate dalle parti, salve ancora, le domande
a chiarimento del giudice sugli stessi fatti, e qui, l'efficacia probatoria
delle risposte dipende dal loro contenuto. Ha valore di prova il rifiuto
ingiustificato di non presentarsi o di non rispondere, lo hanno, teoricamente,
anche le dichiarazioni favorevoli alla parte, però, dato che essa non
risponde penalmente della loro falsità, la loro credibilità
è modesta.
Le risposte a contenuto confessorio,
invece, cioè quelle in cui la parte dichiari fatti a se sfavorevoli e
favorevoli all'altra parte, come pure le dichiarazioni confessorie rese
spontaneamente nel giudizio, cioè al di fuori della sede e
dell'interrogatorio formale e dell'interrogatorio libero purché reso dalla
parte personalmente, ha valore di prova legale proprio della confessione,
ovviamente, quelle rese spontaneamente dalla parte personalmente. Ricordiamo
invece che quelle del difensore costituiscono ammissioni, che così come
le non contestazioni, non escludono invece, che si tenga conto della prova
contraria comunque acquisita a giudizio, restando poi salva la differenza tra
ammissione e non contestazione sotto il profilo della ritrattabilità,
essendo comunque, validamente prestata la contestazione tardiva in
realtà, almeno ai fini della prova, non essendo previsto un onere di
contestazione a pena di decadenza, si potrebbe concludere che la non
contestazione è ritrattabile efficacemente, provvedendo a una
contestazione tardiva almeno nel corso del giudizio di primo grado, poi, per
quel che riguarda l'appello, secondo la giurisprudenza più recente le
cose si fanno complicate, mentre l'ammissione non è tanto
facilmente ritrattabile, perché una volta avvenuta, è chiaro che il
giudice ne terrà conto anche se vi fosse una successiva contestazione.
Le risposte confessorie, si diceva,
hanno, invece, valore di prova legale esclusiva dell'ammissibilità di
qualsiasi prova contraria salve alcune eccezioni, che in realtà sono
abbastanza numerose. Innanzi tutto in materia di diritti disponibili, anche in
questo caso, è liberamente valutabile la dichiarazione, quando essa sia
resa soltanto da alcuni litisconsorti necessari, quindi ovviamente, la dichiarazione
confessoria resa in un processo estinto è liberamente valutabile nel
successivo processo, in cui siano prodotte le risultanze dell'acquisizione di
questa dichiarazione, e inoltre, deve ricordarsi il caso della cosiddetta dichiarazione
complessa, in generale in materia di prove si applica il principio
dell'inscindibilità della dichiarazione, pertanto, nell'ipotesi in cui
la parte nel confessare aggiunga circostanze tali da infirmare l'efficacia
dispositiva della confessione, per fare l'esempio classico"..è vero che
ho preso 100 lire in prestito, ma le ho già restituite!!..", in queste
ipotesi vale il principio dell'inscindibilità, per cui si danno due
alternative; l'una è che la controparte contesti le dichiarazioni aggiunte,
cioè contesti che le 100 lire siano state già restituite, in
questo caso l'intera dichiarazione si considera liberamente valutabile, sia
dalla parte confessoria sia dalla parte in cui sono aggiunte dichiarazioni
contrastanti; nell'ipotesi in cui, invece, la controparte non contesti, in
questo caso ha valore di prova legale la dichiarazione confessoria, ma ce l'ha
la dichiarazione nel suo complesso e quindi anche nella parte in cui aggiunge
la circostanze che infirmano l'efficacia della dichiarazione, e sicché conviene
contestare!
Sono liberamente valutabili le
dichiarazioni confessorie rese fuori del giudizio e che non siano rivolte alla
parte o al suo rappresentante, così come le dichiarazioni confessorie
rese nel corso dell'interrogatorio libero.
Per quel che riguarda le dichiarazioni
rese al di fuori del giudizio, ci sarà anche il problema di provare in
giudizio che la dichiarazione è stata resa, e naturalmente la prova
può essere data tramite prove legali, ovvero tramite prove liberamente
valutabili, per esempio tramite prove testimoniali di terzi che vengano a
riferire che l'avversario ha reso la dichiarazione confessoria. Non bisogna
confondere, ovviamente la più o meno libera valutabilità della
prova che la dichiarazione è stata resa, con la più o meno libera
valutabilità della dichiarazione stessa.
Questa scissione va tenuta presente,
anche per capire il meccanismo di operatività dei mezzi di prova, come
la scrittura privata, in cui l'efficacia vincolante è riferita alla
provenienza delle dichiarazioni, sicché il carattere conclusivo della prova per
scritture private, in realtà, dipende largamente dal contenuto delle
dichiarazioni presentate tramite la scrittura.
Vi è da ricordare la
possibilità della revoca della confessione per errore di fatto, o per
violenza morale, mentre eccezionalmente si attribuisce una rilevanza ai vizi
della volontà, mentre, non rileva,il tono che non comporti errori, nonché l'errore intorno alle
conseguenze giuridiche della dichiarazione. Se c'è proprio violenza
fisica, diventa superflua la regola, perché in questo caso deve escludersi,
addirittura la volontarietà della dichiarazione.
L'inefficacia e l'efficacia di tutte
le prove, riguarda esclusivamente i fatti, pertanto la dichiarazione non
può vincolare il giudice rispetto alle conseguenze giuridiche dei fatti
stessi, il che comunque iure novit curia, sicché, la confessione di
essere debitore, nella misura in cui subisce le conseguenze giuridiche, non ha
efficacia concludente, specialmente a quanto avviene in altri sistemi in cui si
ammette l'efficacia dispositiva al riconoscimento del diritto, convinto per
esempio dal convenuto!
Il giudice non può negare la
sussistenza di atti sostanziali dispositivi attraverso il processo, e qui, il
compimento di atti possono avere sia natura processuale sia sostanziale e si
tende a prevedere che debbano essere compiuti, quindi, dalla parte
personalmente e non dal difensore, perciò, difficilmente si ammette un
meccanismo puramente processuale di disposizione del diritto come quello della confessio
in iure, comunque si diceva stragiudiziale, in quanto in tanto, provata
tramite prova legale o in caso di dichiarazione resa, ha valore di prova legale
resa alla parte o al suo rappresentante e non vi è invece quando resa ad
un terzo , contenuto in un testamento, in qual caso liberamente valutabile.
La dichiarazione resa al di fuori del
giudizio non è più automatico considerarla prova costituenda in
senso stretto, come normalmente la si considera, e va provata in giudizio,
evidentemente, tramite prove precostituite a volte tramite prove costituende,
ma in se, può considerasi prova costituenda.
La distinzione e la disciplina da
applicare tra prove costituende e prove precostituite, si lega alle prove
documentali, che sono tipiche prove precostituite, da contrapporsi, appunto
alle appena esaminate prove orali a cui si possono aggiungere prove
costituende, come le ispezioni, il che provano una disciplina particolare nel
processo del lavoro, qualificandosi come accessi, ispezioni la cui
ammissibilità è limitata da idealisti principi generali, che
limitano l'ammissibilità degli ordini di esibizione e di documenti, a
loro volta derogati in particolari ipotesi in materia di esibizione in materie
contabili, ecc..
A differenza delle presunzioni
semplici, le prove documentali, sono soggette al regime della prova legale, il
che le rende largamente conclusive e di pubblica fede, ma questa pubblica fede
comporta che non sia ammissibile che possa darsi prova contraria intorno alla
sua data, alla sua provenienza da quel pubblico ufficiale che lo ha formato,
nonché intorno alle dichiarazioni che il pubblico ufficiale attesti state rese
dalle parti in sua presenza, nonché, intorno ai fatti che egli, ivi attesta che
si sono verificati in sua presenza o essere stati da lui compiuti.
Si suole osservare, in questa pubblica
fede, che prova l'estrinseco e non l'intrinseco, in particolare, essa concerne
la circostanza che le dichiarazioni delle parti siano state rese, ma non si
estende ad attestare la loro veridicità. Alcuni pubblici ufficiali, in
particolare i notai, sono tenuti anche ad attestare le dichiarazioni sottese in
assenza di vizi di volontà, ma che poi, le dichiarazioni delle parti
siano veritiere, non è minimamente attestato dal pubblico ufficiale,
è vero ciò che dichiara del contenuto il pubblico ufficiale
dell'atto, le dichiarazioni del pubblico ufficiale, sono da considerarsi vere,
ma le dichiarazioni dichiarate delle parti ben possono esser valse senza che
con ciò si abbia una falsità dell'atto pubblico, e la loro falsità
può essere veramente dimostrata.
La falsità del giudice
può essere valutata in una falsità ideologica, che si ha quando
non rispondono al vero le dichiarazioni del pubblico ufficiale, oppure, in una
falsità materiale, che si ha quando il documento è stato
alterato, o modificato successivamente, ovvero contraffatto non è un
documento prodotto da un pubblico ufficiale.
La falsità dell'atto pubblico,
peraltro, può dimostrarsi soltanto attraverso lo strumento del
procedimento di querela di falso, procedimento che è autonomo e
può anche essere proposto in via principalee non in via incidentale nel contesto di una
causa nella quale venga introdotto l'atto pubblico, ed è uno di quei
pochi casi in cui, si suole dire che, il giudicato civile opera rispetto ai
fatti, al mero fatto della falsità del documento intorno all'effetto
giuridico prodotto dal fatto.
La querela di falso può
essere prodotta in via principale, cioè autonomamente, o anche in via
incidentale nel giudizio in cui l'atto è prodotto come prova, in questo
caso occorre il conferimento al difensore di una procura speciale e la querela,
con cui si chiede di dichiarare la falsità dell'atto pubblico deve
contenere anche l'indicazione degli elementi e delle prove della falsità
e gli aspetti della falsità del documento, cioè indicare dove il
documento è stato alterato, ovvero, quali, delle dichiarazioni rese da
pubblico ufficiale, nel redigere l'atto, non rispondano al vero.
L'interpello della parte che ha
introdotto il documento, può rendere inutile il procedimento di querela,
rinunciando ad avvalersene come prova, così si può innescare il
regolamento di competenza funzionale, che può rendere necessario un
sospensione del giudizio di merito che si svolga dinanzi all'autorità
giudiziaria diversa dal tribunale. Nel procedimento di querela di falso
è necessario l'intervento del PM, il documento è soggetto ad un
sequestro , che ha carattere anomalo, perché, si ritiene utile che abbia la
caratteristica del processo penale e non quello civile e non costituisce un sequestro,
in realtà giudiziario di prove.
Il giudicato, si ritiene che operi ultra
partes e l'esecuzione della sentenza di querela può avvenire
soltanto dopo il suo passaggio in giudicato, dove può essere promossa
anche dal PM, e questo, credo che sia da ricordare a proposito della scrittura
privata!!!!!..??
Non si ritiene nella legge una
definizione esplicita della scrittura privata, ma possiamo agevolmente
definirla come un documento scritto e sottoscritto. Il documento è una res
che rechi le tracce degli avvenimenti fattuali, da cui appunto possano
evincersi conclusioni attorno agli avvenimenti stessi, e la sottoscrizione del
documento stesso porta ad un'assunzione di paternità della
dichiarazione, delle dichiarazioni contenute nel testo sovrastante, che può
essere stato scritto da chiunque, ma quello che conta è la mano che ha
compiuto la sottoscrizione, il cui effetto probatorio è regolato
dall'art. 2702, cioè, la scrittura privata fa piena prova, fino a quella
di falso, della provenienza delle dichiarazioni da parte del soggetto che l'ha
sottoscritta.
La sottoscrizione si ha autenticata, e
si identifica quando il pubblico ufficiale attesta che la sottoscrizione
è stata apposta in sua presenza, ma è importante nel processo
civile anche la circostanza che il riconoscimento può essere anche
tacito, o più esattamente che la parte che sia imputata la
sottoscrizione di una scrittura, abbia, allorché la scrittura sia depositata in
giudizio, l'onere di disconoscerla tempestivamente, cioè subito! Una
volta depositata la scrittura, la parte contro cui è prodotta ha l'onere
di disconoscere la sottoscrizione nella prima difesa successiva al deposito
dell'atto.
Particolare è la disciplina che
si applica alle parti contumaci, perché, in queste ipotesi la sottoscrizione si
ha per riconosciuta, ma è anche concesso al contumace di costituirsi
tardivamente e disconoscere la scrittura in quell'occasione. Ricordiamoci, per
altro che la Corte Costituzionale ha modificato l'art. 292 prescrivendo che al
contumace sia notificata personalmente l'avvenuta produzione di scritture
private nei suoi confronti, in tanto in quanto appunto, dal mancato
disconoscimento discendono dalla protrazione dell'inattività del
contumace conseguenze sfavorevoli nei suoi confronti, cioè, la scrittura
si ha per disconosciuta finché il contumace non si costituisca in giudizio.
Il disconoscimento è attenuato
per gli eredi della parte che abbia sottoscritto, i quali possono limitarsi a
dichiarare di non conoscere la sottoscrizione del loro autore senza avere
l'onere ulteriore di affermare che essa non è autentica.
La parte che intenda ancora avvalersi
della scrittura privata come mezzo di prova, può contrastare questo
disconoscimento promuovendo un procedimento che, si dice di verificazione della
scrittura privata, come il procedimento di querela di falso è un
procedimento autonomo a domanda, con la quale si da vita ad un autonomo
giudizio, che ha per oggetto l'accertamento, non di un effetto giuridico, ma di
un fatto, cioè la genuinità della stessa sottoscrizione. Tale
genuinità viene effettuata attraverso ricorso a scritture di
azione, e l'accoglimento della domanda comporta la declaratoria della
sottoscrizione di mano della parte; la legge fa riferimento alla sottoscrizione
e alla scrittura. Posto che, ai fini dell'efficacia della prova legale della
scrittura privata, è del tutto irrilevante di quale sia la mano del
testo sovrastante la sottoscrizione, si è ardito che oggetto del
riferimento di verificazione della scrittura privata, possano anche essere prove
scritte diverse dalla scrittura privata, cioè prove scritte non
sottoscritte, in riferimento a quella serie di prove scritte non sottoscritte
che pure il c.c. regola, come ammissibili mezzi di prova al processo civile,
per esempio le scritture domestiche o le annotazioni a margine di un
documento, che sono utilizzabili nel processo, in tanto in quanto, anche non
sottoscritte, ma in quanto siano olografe della parte interessata, e in questo
caso rileva giuridicamente, la circostanza che sia di mano della parte, la
scrittura, ancorché non sussista alcuna sottoscrizione. Quindi se la
sottoscrittura è vera, la provenienza della dichiarazione può
escludersi ricorrendo soltanto alla querela di falso, cioè solo in
presenza di falsificazioni, pertanto non si può riconoscere la
provenienza del documento, ma non delle dichiarazioni che contiene, magari
affermando di non averle lette, si può, tuttalpiù, far valere il
vizio della volontà, dell'errore, la divergenza davanti alla
dichiarazione trasmessa e quella ricevuta, ma inquesta maniera non si può pregiudicare
i terzi in buona fede, e la fattispecie di maggior rilievo, sotto questo
profilo, è certamente quella del "biancosegno", in cui la giurisprudenza
ritiene che si possa applicare estensivamente, la disciplina della querela di
falso in caso di biancosegno compiuto absque partis, mentre il
riempimento contra pacta non consente l'esperimento della querela di
falso e l'eventuale divergenza tra il prezzo concordato e quello redatto non
può essere fatto valere in pregiudizio dei terzi in buona fede.
Questo spiega, appunto, di cosa non
vada nell'equiparazione alla scrittura privata del documento informatico
sottoscritto con firma digitale, perché la firma digitale è un codice
alfanumerico di cui non ha nemmeno senso verificare se sia di mano.
Oltre a quelle esaminate sino ad ora
ci sono anche le scritture contabili, ed il telegramma con effetti analoghi a
quelli della sottoscrizione della scrittura privata, e questo si verifica
allorquando si possa dimostrare che la parte si sia recata nell'ufficio
telegrafico ad inviare la dichiarazione, inoltre, c'è una disciplina
particolare della prova della divergenza per la dichiarazione trasmessa e la
dichiarazione pervenuta al destinatario, che ha dato adito a qualche difficoltà
interpretativa, perché la norma dispone che è esente da colpa, quelle
divergenze tra la volontà della dichiarazione trasmessa e quella
ricevuta dal destinatario e la giurisprudenza ha riconosciuto che in ogni caso
non è prescritta, alla parte, la collazione del documento, quindi non
può considerarsi in colpa nemmeno la parte che non abbia fatto
collazionare il telegramma.
·I limiti soggettivi del
giudicato
Il primo caso problematico è
quello dell'individuazione della nozione di terzo, perché il codice utilizza il
termine "parte", con una variabile di significati diversi, ci siamo già
imbattuti nel problema di interpretare quando ci si riferisce alla parte per
regolare attività che svolge o possono essere svolte dalla parte, ovvero,
dal suo difensore tecnico munito di procura alle liti, e quando si riferisce
alla parte per intendere la parte personalmente, per riferirsi ad
attività che non possono essere delegate al procuratore. Ricordandoci
questa cosa, affrontiamo un'ulteriore prospettiva dell'ambiguità del
significato del termine parte, che è quella che emerge, che per parte si
possono intendere cose molto diverse: si può intendere il soggetto che
compie gli atti del processo, si può intendere il soggetto nei cui
confronti si producono gli effetti degli atti del processo, e non
necessariamente si tratta della stessa persona, si può intendere il
soggetto nei cui confronti è stata proposta la domanda, si può
intendere quel soggetto, che è in realtà, coinvolto nel conflitto
e che quindi deve essere considerato la giusta parte.
Prendiamo per esempio il disposto
dell'art. 102, nella parte in cui stabilisce che se la sentenza deve essere
pronunciata nei confronti di più parti, tutte queste debbono agire, o
essere convenute nello stesso processo, allora, qui si fa riferimento a parti,
che potrebbero non essere ancora attori o convenute nel processo, e che devono
essere resi tali, cioè le giuste parti, come ama spesso dire la
dottrina, che nel momento in cui si deve applicare l'art. 102, non sono attori
ne convenuti nel processo, quindi non rientrano ancora in nessuna delle tre
possibili definizioni sopra dette, non sono ne soggetti che compiono atti
processuali, ne soggetti nei cui confronti si producono gli effetti degli atti
processuali, perché non sono ancora stati resi parti nel processo e nemmeno
sono soggetti nei cui confronti è posta la domanda.
Per chiarezza, in questo caso, il
legislatore avrebbe dovuto usare il termine di "soggetti" nell'art. 102; quando
la sentenza deve essere pronunciata a favore di più soggetti, tutti
questi devono essere resi parte, cioè occorre che la domanda sia
proposta anche nei loro confronti, acciocché, nei loro confronti si producano
gli effetti degli atti processuali e con ulteriore implicazione, che naturalmente,
questi possano compiere tutti gli atti processuali necessari alla loro difesa.
Il discorso diventa più facile!
È chiaro che possiamo avere una scissione, tra il soggetto che compie
gli atti del processo al quale si producono gli effetti legali del processo, o
addirittura tra il soggetto che compie gli atti del processo, e quello nei cui
confronti è proposta la domanda, tutte le volte che abbiamo l'ipotesi di
rappresentanza legale o di rappresentanza volontaria, nelle quali
è pacifico che sia il rappresentante, il soggetto che compie gli atti
del processo, che però, la domanda è proposta da o nei confronti
del rappresentato, e sarà sempre nei confronti del rappresentato che si
produrranno gli effetti degli atti del processo stesso, e in particolare quello
della decisione della sentenza.
Un caso più delicato, è
quello che riguarda l'ipotesi della sostituzione processuale, perché se
muoviamo dalla premessa secondo cui la sostituzione processuale richiede sempre
necessariamente il litisconsorzio necessario della parte sostituita,
cioè del titolare del diritto che viene da altri fatto valere per
effetto di disposizioni di legge, allora il problema non si pone, nel senso che
quando il soggetto nei cui confronti si produrranno gli effetti degli atti del
processo della decisione, è anche il soggetto che deve essere parte e
nei suoi confronti deve essere proposta la domanda e che quindi è
abilitato a compiere gli atti del processo.
Se, però, muoviamo
dall'ipotesi, in realtà riconosciuta, secondo cui, inqualche particolare caso è possibile
che si abbia sostituzione processuale senza che per questo, il litisconsorte
necessario sia la parte sostituita, allora abbiamo un'ulteriore ipotesi di
scissione, e se noi riconduciamo alla disciplina della sostituzione processuale
i fenomeni che si verificano in occasione della successione nel diritto
controverso, ovvero dell'estromissione dell'obbligato garantito, qui, abbiamo
l'ipotesi in cui gli effetti degli atti del processo si compiono nei confronti
di una persona che non è quella nei cui confronti è proposta la
domanda e nemmeno è persona che compie gli atti processuali, pur
restando fermo che, la disciplina positiva, consente comunque a questo soggetto
di intervenire nel processo ed assumere in proprio il processo stesso, e in questo
caso, torna ad esservi coincidenza tra le varie nozioni di parte.
Comunque, dal momento che l'art. 2909
ci dice che il giudicato produce i suoi effetti nei confronti delle parti degli
eredi e degli aventi causa, possiamo volendo, riferirci al problema
dell'efficacia del giudicato nei confronti di terzi, come un problema
riferibile alle fattispecie di soggetti che siano in posizioni diverse da
quelle di erede o avente causa, anche quando si tratti di eredi o successori,
la cui acquisizione del diritto controverso sia avvenuta nel corso del
giudizio, con tutte le implicazioni che discendono dalla circostanza,
nell'ipotesi in cui la vicenda successoria sia fondamentalmente fonte
dell'interruzione del processo (la morte della parte), il procuratore cella parte
costituita colpita dall'evento, decide autonomamente se provocare o meno
l'interruzione stessa attraverso la dichiarazione dell'evento in udienza o la
sua notificazione alle altre parti, laddove compie la scelta di non dichiarare
l'evento, allo scopo di accelerare la definizione del giudizio, in quel
processo, la parte deceduta si considera processualmente ancora in vita, pur
dovendosi coordinare questa protrazione dell'esistenza in vita della parte
deceduta, con le garanzie spettanti al successore, che può intervenire
impugnando la sentenza, e il problema di tutelare la controparte che non sia a
conoscenza dell'evento, o che lo sia perché lo ha appreso soltanto in via di
fatto, allorquando si tratta di individuare il destinatario dell'impugnazione.
Val la pena di accennare che i limiti
soggettivi di efficacia del giudicato, ai sensi dell'art. 2909, sono un po'
più ampi da questo punto di vista, non coincide con l'ambito soggettivo
dell'efficacia esecutiva della sentenza, poiché l'art. 477 precisa che
l'efficacia del titolo esecutivoè opponibile nei confronti degli eredi, e normalmente si tende a
ritenere che il riferimento esclusivo agli eredi, implichi che l'efficacia
esecutiva della sentenza non possa prodursi nei confronti dei successori a
titolo particolare, quando la vicenda successoria sia successiva, a sua volta,
alla definizione del giudizio.
Nell'ambito dell'enorme categoria dei
terzi veri e propri, possiamo distinguere almeno tre ipotesi principali che
sono quelle su cui occorrerà soffermarsi, e si tratta rispettivamente:
1.dei terzi titolari di situazioni
giuridiche dipendenti, da quella conosciuta e decisa della sentenza passata in
giudicato;
2.quella dei terzi titolari di
situazione incompatibili con il diritto fatto valere nella sentenza passata in
giudicato;
3.quella dei terzi che siano
colegittimati alla proposizione della medesima domanda e all'esercizione della
medesima azione , che ha formato oggetto del precedente giudizio.
Dobbiamo
distinguere queste tre categorie di terzi, e a nostra volta, dobbiamo anche, a
monte, distinguere le diverse categorie degli effetti della sentenza,
soffermandoci questa volta sull'espressione res inter alios acta, perché
abbiamo visto che non c'è incidentalmente coincidenza tra la portata
soggettiva degli effetti di giudicato della sentenza e la portata soggettiva
dei suoi effetti esecutivi, inoltre, si può ipotizzare che la sentenza
produce anche ulteriori effetti, che vengono qualificati quali effetti
imperativi della sentenza, cioè effetti in base ai quali, l'effetto
giuridico dichiarato nella sentenza, non potrebbe essere disconosciuto dai
terzi che siano titolari di situazioni giuridiche dipendenti, se non
dimostrando che la sentenza stessa era ingiusta e questo effetto imperativo si
produrrebbe, in teoria, a rescindere del passaggio in giudicato della sentenza,
e quindi sin dal momento della sua pronuncia. Si può discutere se
all'effetto imperativo della sentenza possa attribuirsi un qualche ambito
soggettivo di efficacia coincidente con quello del giudicato, ovvero, come
quello dell'efficacia esecutiva, che appunto, si produce a favore dei
successori, ma non contro di loro, dei successori successivi alla sentenza.
Di questa
asimmetria della produzione degli effetti esecutivi, nei confronti dei successori
a titolo particolare, possiamo trovare spunti di riflessione ulteriori,
rispetto al fenomeno della produzione degli effetti di giudicato, comunque, gli
effetti imperativi, possiamo immaginare che possano prodursi nell'ambito
soggettivo di efficacia al giudicato, ma anche rispetto al giudicato c'è
chi ha voluto distinguere gli effetti diretti, eventualmente prodotti
dal giudicato nei confronti dei terzi, considerando terzi gli aventi causa, ed effetti
riflessi, che si produrrebbero nei confronti dei titolari di situazioni
giuridiche dipendenti, e che potrebbero risultare più o meno vincolanti.
Perché
più o meno vincolanti a seconda dei punti di vista? Perché qui, occorre
cercare un ordinamento nella disciplina del codice civile, nel quale, diverse
disposizioni accennano o evocano in modo più o meno compiuto
un'efficacia della sentenza nei confronti di soggetti che non siano stati
attori o convenuti nel processo definito con la sentenza della cui efficacia
del giudicato si discute, cioè soggetti nei cui confronti non è
stata proposta la domanda, e che quindi, non hanno acquisito la qualità
di parte che discende dalla modificazione della citazione nella veste
dell'attore o del convenuto a seconda dei casi.
Alcune
disposizioni sanciscono in modo inequivocabile, la soggezione del terzo agli
effetti della sentenza pronunciata inter alios, il caso che spesso si
ricorda è quello di cui all'art. 1595 nella parte in cui dispone che, la
sentenza pronunciata, in rapporti di locazione, nei confronti del conduttore,
produce i propri effetti anche nei confronti del sub conduttore, in altri casi,
si evoca invece, lo schema dell'onere della dimostrazione dell'ingiustizia, e
il più chiaro è quello della garanzia per evizione, disciplinato
dall'art. 1485, in quest'ipotesi, dice la legge che, il compratore chiamato in
causa per l'evizione, ha l'onere di chiamare in causa il suo dante causa
garante per l'evizione stessa, se non lo fa, e quindi il venditore garante per
l'evizione rimane terzo rispetto al processo, il compratore perde la
garanziase il venditore prova che
esistevano ragioni sufficienti per respingere la domanda, ossia se prova che la
sentenza è ingiusta.
In questa
disciplina, si evoca un vecchio dilemma intorno alla natura della chiamata in
garanzia, della responsabilità del garante, tra coloro che sostengono
che il garante ha un obbligo di difesa in giudizio e coloro che sostenevano che
invece il garante, fondamentalmente, risponde delle conseguenze della
soccombenza, che è la tesi più accreditata in giurisprudenza, ma
qui ci interessa la parte in cui, prevede un meccanismo diverso di produzione
degli effetti di giudicato nei confronti dei terzi. Quale dei due dobbiamo
considerare la regola generale e quale legge, o possiamo almeno individuare dei
criteri per stabilire se i vari casi si possono ricondurre all'una o all'altra
ipotesi?
Alcuni,
hanno formulato una posizione di questo tipo: il terzo, subisce gli effetti del
giudicato, in quelle ipotesi in cui e nella misura in cui subirebbe anche gli
effetti di una vicenda negoziale fra le parti, però, questa spiegazione
sembra spiegare, ma non più di tanto, perché sarebbe d'aiuto, se ci
fosse una disciplina che ci chiarisce bene quando il terzo subisce gli effetti
del negozio sopravvenuto fra altre parti, cioè quando altre parti
possono disporre negozialmente di un diritto anche in pregiudizio di un terzo
titolare di una situazione giuridica dipendente.
Tutte
queste cose le veniamo a scoprire quando ci imbattiamo in norme che ci dicono
che nei confronti del terzo si producono gli effetti del giudicato, allora
raggiungiamo la conclusione che il terzo subirebbe anche gli effetti di una
vicenda negoziale traslativa del diritto.
Negli
altri casi siamo un po' incerti, quindi una guida tanto sicura questa regola
non ce la fornisce, regola, alla fine abbastanza elusiva.
Altri,
hanno prospettato, invece, che si debba distinguere fra ipotesi in cui sussiste
un nessi di dipendenza permanente, ricollegato ad un rapporto di durata, e
ipotesi in cui esista un nesso di dipendenza genetica, soltanto fra situazioni
soggettive, con la conseguenza che se il rapporto di dipendenza è
permanente e legato ad un rapporto di durata, necessariamente dovrebbero
prodursi gli effetti del giudicato nei confronti di terzi, mentre, si potrebbe
ammettere, la dimostrazione dell'ingiustizia della sentenza da parte del
titolare della situazione giuridica dipendente nell'ipotesi di dipendenza
genetica di cui sarebbe un tipico esempio l'ipotesi della garanzia per
evizione.
È
buon senso distinguere i casi in cui è ragionevole far gravare sul terzo
l'onere di informarsi o di essere a conoscenza delle vicende e delle
caratteristichedella situazione
giuridica pregiudicante, dai casi in cui non sarebbe ragionevole fargli gravare
tale onere e questo criterio di ragionevolezza, mi pare che non necessariamente
si ricolleghi alla circostanza che il rapporto sia di durata, o il nesso di
dipendenza abbia carattere permanente. Se noi immaginiamo la
responsabilità del garante della responsabilità civile,
dell'assicuratore cntro la responsabilità civile, è banale che in
questo caso non si può far gravare troppo sul terzo assicuratore in
termini di oneri di controllo sulla bontà delle ragioni del suo
assicurato, perché il contratto ha la funzione di favorire l'accettazione del
rischio, e bisogna che non sia necessario seguire troppo l'assicurato,
controllarlo troppo, perché se si risponde eccessivamente a controllarlo
troppo, a quale punto il contratto diventa oneroso e non essere più
utile alla locazione dei rischi.
In casi in
cui, vedi il caso già della garanzia per l'evizione, è un caso
ove è più sensato che il garante debba essere a conoscenza degli
eventuali vizi della circostanza, e che ciò che vende, in realtà
non è sua, quindi si potrebbero gradare diversi oneri di dimostrazione
dell'ingiustizia della sentenza a seconda del nesso tra situazione
pregiudiziale e situazione dipendente e del ruolo sociale che svolge il
soggetto titolare della situazione dipendente.
Ovviamente
questo, dal punto di vista attuale, probabilmente, la soluzione più
congrua, è quella che cerca di limitare al massimo la produzione di
effetti di giudicato pieno, e quindi di giudicato vincolante anche quando sia
sfavorevole nei confronti di soggetti che non siano stati resi formalmente
parti nel processo, perciò, se si vuole teorizzare una produzione degli
effetti della sentenza nei confronti dei terzi, sembra preferibile, che alla
luce della Costituzione vigente il disposto dell'art. 24, della garanzia della
difesa, è di limitare ai soli casi previsti dalla legge, come di quella
del rapporto di sub locazione, la produzione degli effetti del giudicato nei
confronti dei terzi, e casomai, generalizzare l'ipotesi dell'efficacia
imperativa, in base alla quale, anche a prescindere del passato in giudicato
della sentenza, effetti nei confronti di terzi si possono produrre, ma questi
effetti consistono meramente nell'introduzione di un onere di dimostrazione
dell'ingiustizia della sentenza resa sulla controversia pregiudiziale.
Vi sono
altre ipotesi in cui la legge utilizza formule meno chiare! Per esempio: la
sentenza che dichiara la nullità del marchio, o le sentenze che
annullano le delibere assembleari delle S.p.a., si dice che hanno effetto nei
confronti di tutti i soci, anche quando questi non siano stati formalmente
parti nel procedimento, come dobbiamo interpretare queste disposizioni?
Dobbiamo pensare che non si tratta più di titolare di situazione
giuridica dipendente, come quelle che abbiamo fin ora parlato, qui abbiamo
delle ipotesi di colegittimazione, ossia di pluralità di legittimati
all'esercizio di un'iniziativa giudiziaria, l'esercizio di un'azione civile,
ebbene! In alcune ipotesi la colegittimazione comporta che la legittimazione ad
agire è necessariamente congiuntiva, cioè si applica la
disciplina del litisconsorzio necessario, ma in varie ipotesi questo non accade
e può capitare che l'azione sia esercitata da alcuni soltanto, e
probabilmente, la norma più generale di questo tipo di situazioni,
è quella che si rinviene nell'art. 1306, cioè nella disciplina
delle obbligazioni solidali, laddove si ipotizza che la causa sia promossa
soltanto da alcuni concreditori solidali, ovvero nei confronti di alcuni
soltanto far più condebitori solidali, così questa norma, ci dice
una cosa ancora diversa da quelle che abbiamo visto fin ora, che la sentenza,
in questo caso, produce i suoi effetti anche nei confronti dei soggetti che non
abbiano partecipato al giudizio, ma soltanto nella misura in cui si tratti di
effetti a loro favorevoli e non quando si tratti di effetti sfavorevoli. In
questa norma si rinviene il meccanismo del cosiddetto giudicato secundum
eventum litis, cioè, a seconda dell'esito della causa, sicché la
produzione degli effetti di giudicato per i terzi è soltanto degli
effetti favorevoli e non invece degli effetti sfavorevoli.
Ovviamente,
anche questa soluzione va adattata a varie situazioni concrete, una particolare
difficoltà che si presenta, nell'ipotesi in cui la legge ammetta la
produzione di giudicato secundum eventum litis, discende fra il
coordinamento di questa disciplina e quella con cui si è affermato nel
nostro codice, il principio della cosiddetta personalità
dell'impugnazione, sicché l'impugnazione giova soltanto alle parti che
l'abbiano proposta, e non alle parti che siano rimaste passive ed abbiano
accettato la sentenza, inoltre, l'impugnazione, non sempre dev'essere proposta
a pena di inammissibilità nei confronti di tutti quei soggetti che hanno
rivestito la veste formale di parte nel precedente grado di giudizio, e si
potrebbe, anche in quelle ipotesi di obbligazioni solidali, di cui abbiamo
appena parlato, potrebbe essere proposta da alcune soltanto fra queste parti. E
allora! L'eventuale accoglimento dell'impugnazione, proposta nei confronti di
soltanto alcune delle parti coleggittimate attivamente o passivamente, e che
quindi aggraverebbe se producesse i suoi effetti, la loro situazione giuridica,
non produrrà effetto nei loro confronti, ma l'impugnazione proposta da
alcune soltanto delle parti coleggittimate attivamente o passivamente, fin
quanto sia ammissibile, può giovare soltanto a quelle, o anche questa
estende i suoi effetti alle parti nei cui confronti pure si era formato un
giudicato?
La
giurisprudenza, tendenzialmente attribuisce priorità al principio di
personalità dell'impugnazione e quindi non consente la produzione di
effetti utili, dell'impugnazione in capo a quei soggetti che siano invece
rimasti passivi, salva l'esigenza di coordinamento nel regime delle decisioni,
per cui, posto che il fideiussore non può mai rispondere di più
di quanto risponda il debitore principale, se l'impugnazione del solo debitore
principale ha successo e viene accolta, anche la pronuncia contro il
fideiussore finisce per essere travolta nell'applicazione della norma
sostanziale. Fatta salva l'applicazione di queste specifiche norme sostanziali,
la giurisprudenza ammette, invece la diversificazione del contenuto precettivo
delle pronunce nei confronti dei colegittimati, quale effetto della
proposizione dell'impugnazione da parte di alcuni soltanto di essi.
Abbiamo,
poi, quella categoria di terzi che, come abbiamo detto, sono titolari di
diritti incompatibili, come di sentenza di nullità del marchio, e della
sentenza assembleare, in cui si prevede la produzione della sentenza nei
confronti di terzi o di tutti i soci. È chiaro che queste sentenze
producono effetti ultra partes, in quanto sono sentenze di accoglimento
della domanda, se ne dovrebbe desumere che nelle ipotesi di rigetto della
domanda, invece l'effetto nei confronti dei terzi non si dovrebbe produrre,
quindi la sentenza che rigetta la domanda di nullità del marchio o
rigetta la domanda di annullamento della delibera assembleare. Nella seconda
ipotesi l'omogeneità di disciplina e assicurata dal termine decadenziale
per l'esperimento della domanda giudiziale.
È
in questi termini che si deve affrontare, anche, il problema degli effetti di
giudicato sui cosiddetti interessi collettivi.
L'interesse
collettivo è una situazione sostanziale di vantaggio di costruzione
teorica, che risulta tutelabile in giudizio, in tanto in quanto, il legislatore
abbia trasformato l'interesse collettivo, da interesse adespota, all'interesse
imputabile ad uno specifico portatore esponenziale dell'interesse collettivo
che può essere, di volta in volta: l'ente territoriale, o l'associazione
ambientalista, o associazione di consumatori e così via. In tutte queste
ipotesi abbiamo forme di colegittimazione attiva, rispetto alle quali, la legge
non ci dice come debbano prodursi gli effetti di giudicato. Quindi ci sono due
diversi aspetti! Un effetto è quello della produzione di effetto di
giudicato nei confronti dei soggetti che sono effettivamente delle vittime
della condotta illecita lesiva degli interessi collettivi, cioè gli
appartenenti al gruppo il cui interesse collettivo viene leso, altro problema
è invece, posto che qui c'è invece una scissione, tra il ruolo di
vittima dell'illecito e il ruolo di titolare dell'azione, perché il titolare
dell'azione non è la vittima dell'illecito! Quando si dice che
l'associazione dei consumatori tutelano l'interesse collettivo dei consumatori,
ma le vittime del comportamento illecito sono i consumatori, non le
associazioni! Però, sono le associazioni ad essere legittimate
all'azione in giudizio. Allora un conto è il problema della produzione
dell'effetto del giudicato nei confronti dei consumatori, un conto è
l'eventuale produzione di effetti di giudicato degli altri enti colegittimati,
a cui sia imputato dal legislatore l'interesse collettivo. Ebbene! Per quel che
riguarda i singoli, credo che non ci debbano essere dubbi nel riconoscere che
non possono prodursi effetti di giudicato. Tra i vari enti colegittimati, la
soluzione più naturale è ovvia in mancanza di disposizioni
legislative che dicano diversamente e dovrebbe essere quella del giudicato secundum
eventum litis, o tuttalpiù, della cessazione dell'interesse ad
agire, cessazione delle condizioni dell'azione, allorquando vi sia stato
accoglimento della domanda proposta da uno degli enti colegittimati, e
cessazione dell'interesse ad agire per gli altri colegittimati.
Diversamente
da quanto dovremmo dire per l'ipotesi delle obbligazioni solidali, una
disciplina che eventualmente conurasse, una produzione dell'effetto di
giudicato anche sfavorevoli nei confronti degli enti colegittimati,
probabilmente non andrebbe incontro ai problemi di legittimità
costituzionali, che si verificherebbero se avesse la disciplina delle
obbligazioni solidali, perché l'art. 24 conferisce protezione costituzionale
alle situazioni soggettive che abbiano il rango del diritto soggettivo e
dell'interesse legittimo, ma non conferisce protezione costituzionale alle
situazioni soggettive che si qualifichino come meri interessi collettivi, e
quindi rispetto a tali situazioni soggettive, si può pensare anche ad
una produzione di effetti di giudicato sfavorevoli, nei confronti di soggetti
rimasti estranei al procedimento, potrebbe superare una censura di
legittimità costituzionale in astratto, comunque non abbiamo ancora
norme, che esplicitamente ci indirizzino verso questa soluzione interpretativa.
Dicevamo
dei terzi titolari di situazioni incompatibili, ancora, ebbene classicamente si
pensa che il terzo titolare di situazioni incompatibili, non può in
alcun modo essere pregiudicato dagli effetti di giudicato, può subire,
certamente, un pregiudizio di fatto da una decisione resa inter alios,
il classico esempio che si fa! Il vero proprietario del un bene in contesa
subisce un pregiudizio di fatto sulla circostanza che il suo bene venga
dichiarato proprietà di Tizio, nella causa fra Tizio e Caio, per cui
Sempronio in qualità di vero proprietario è legittimato ad
impugnare la sentenza tramite opposizione di terzo semplice ai sensi
dell'art. 404 comma 1°, così come è legittimato ad intervenire
nel processo precedentemente, però, alcuni casi possono essere
considerati un po' di confine in questa classificazione che abbiamo fatto tra
titolari di situazioni dipendenti colegittimati e titolari di situazioni
incompatibili, pertanto ripetiamo l'esempio del litisconsorzio necessario! Il
litisconsorte necessario pretermesso a seconda delle varie ipotesi in cui
può rendersi applicabile questa disciplina, può essere concepito
come sia come titolare di un diritto incompatibile sai come un soggetto
colegittimato; è ovvio che nei suoi confronti non si possano produrre
gli effetti della sentenza, ma più discutibile, è se egli sia
legittimato a proporre opposizione di terzo contro la sentenza stessa, perché
si discute se la sentenza resa a contraddittorio non integro, cioè
pretermettendo un litisconsorte necessario debba considerarsi o meno una
sentenza produttiva di effetti almeno tra coloro che abbiano partecipato al
giudizio. Perché se la si considera produttiva di effetti almeno tra questi
soggetti, allora lo strumento di difesa a disposizione del terzo è, e non
può essere appunto l'opposizione di terzo, ossia un'impugnazione contro
la sentenza stessa diretta ad ottenere la caducazione dei suoi effetti.
Se,
invece, riteniamo che questa sentenza rientri nel novero delle sentenze
qualificabili come giuridicamente inesistenti, a questo punto non ci sarebbe
legittimazione alla proposizione all'opposizione di terzo, bensì, il
terzo pretermesso potrebbe promuovere un'ordinaria azione di accertamento del
proprio diritto, facendo come se la sentenza sopravvenuta tra le altre parti
fosse inesistente.
La
qualificabilità di questa sentenza come inesistente appartiene ad una
tradizione giuridica, cioè di quella dottrina che ha condotto
all'introduzione della disciplina del litisconsorzio necessario, in precedenza
assente nel nostro ordinamento processuale importandola dall'esperienza
giuridica tedesca, per sostenere che si dovesse attribuire al giudice il potere
di ordinare d'ufficio l'integrazione del contraddittorio e quindi di ordinare
d'ufficio alle parti di coinvolgere nella causa un altro soggetto, potere che
contrasta con la tradizione del principio dispositivo, è difficile da
giustificare, perché viene da dire: "..se io sto litigando con Caio, perché
devo chiamare in causa anche Sempronio?!!..con cui non sto litigando!!?!!..",
ebbene per giustificare l'esercizio di questo potere ufficioso, si amava
prospettare in alternativa conseguenze catastrofiche, se non si fosse fatto si
sarebbe lavorato a vuoto! La sentenza sarebbe stata giuridicamente inesistente,
e si capisce che per giustificare l'esercizio di questo potere ufficioso, che
è comunque sensato, nel momento in cui il diritto positivo prevedesse
questo potere, era ragionevole prospettare conseguenze catastrofiche, perché se
non lo si fosse esercitato, ora che abbiamo una previsione esplicita di diritto
positivo non abbiamo più bisogno di prospettare conseguenze
catastrofiche come argomento interpretativo a favore dell'affermazione della
sussistenza di questo potere del giudice, non c'è ne più bisogno!
Anzi, è possibile fare riferimento alla disciplina posta dall'art. 161,
cioè che nella disciplina sulla nullità della sentenza, la legge
prescrive che le nullità si facciano valere solo nei modi e nei termini
previsti per le impugnazioni ordinarie, e che sfugga a questa regola, soltanto
l'ipotesi della sentenza priva di sottoscrizione del giudice, e che comunque,
in via generale, dovremmo limitare al massimo il ricorso al concetto di
inesistenza come concetto che ci consente, ma dovremmo usarlo solo in casi
estremi, di evitare l'applicazione della disciplina delle nullità quando
riterremmo che questa porti a conseguenze sgradevoli.
In
realtà, in questa ipotesi, applicare la disciplina delle nullità,
è tutt'altro che incongruo dal punto di vista della concezione "sportiva
" del processo, perché, immaginiamo di essere Tizio e Caio, e Caio sta
pretermettendo Sempronio perché Tizio non lo sa, e allora la situazione mi
consente di "giocare sporco", infatti, concludiamo tutto il processo, e se
finisce bene per me, la cosa va bene: Tizio è all'oscuro che Sempronio
è ancora vivo in Australia! Se finisce male esaurito tutto il processo a
giochi fatti, tiro fuori l'asso dalla manica..ci siamo dimenticati di
Sempronio!!! Quindi è congruo che coloro che sono stati fondamentalmente
parti del processo, abbiano l'onere di far valere l'eventuale pretermissione
del litisconsorte necessario in quel processo, e non abbiano
l'opportunità di farlo in ogni tempo, potrà farlo in ogni tempo
soltanto il litisconsorte necessario pretermesso, eventualmente consentendo
anche a lui la proposizione dell'opposizione di terzo che era stata
originariamente disegnata soltanto per l'ipotesi del titolare di veri e propri
diritti incompatibili, cioè del vero proprietario del bene in contesa e
non di questa ura ibrida che è quella del litisconsorte necessario
pretermesso.
Sono terzi
completamente diversi, ad questi terzi titolari di diritti incompatibili, quei
terzi che sono legittimati a proporre la cosiddetta opposizione di terzo
revocatoria, quando si ricorda l'azione revocatoria in diritto civile
diventa facile ricordare chi sono anche i soggetti legittimati all'opposizione
e di terzo revocatoria, cioè i creditori aventi causa, legittimati
all'opposizione di terzo revocatoria, e in questo caso abbiamo però, per
un verso aventi causa, cioè soggetti che subirebbero gli effetti del
giudicato e possono ottenere l'annullamento della decisione e sia privata di
effetti, dimostrando che la sentenza è frutto di collusione e accanto ad
essi sono legittimati i creditori all'esercizio dell'azione revocatoria contro
negozi che siano in pregiudizio delle loro ragioni, e che sono soggetti che non
subiscono alcun pregiudizio giuridico dalla sentenza, se non il pregiudizio di
fatto derivante dal depauperamento della garanzia patrimoniale. Una regola
è questa! Potrebbe sembrare poco sportiva! Com'è che questi terzi
fruiscono del giudicato favorevole senza avere corso neanche il rischio di
subire il giudicato sfavorevole?
L'immagine
atistica ci rivela che questa stessa regola è adottata
nell'ordinamento processuale che più di ogni altro forse è
ispirato alla concezione sportiva della giustizia, cioè quello
statunitense, dove costituisce regola generale che il giudicato su formi non
soltanto intorno ai diritti, cioè sull'accoglimento o il rigetto della
domanda sulle situazioni soggettive direttamente attributive del bene della
vita, ma è pacifico che si formi anche sulle mere questioni e
però, che si formi soltanto sulle questioni che siano state
esplicitamente discusse e decise, e non invece, come ama fare la giurisprudenza
da noi, sulle questioni decise esplicitamente. Allora il ragionamento
dell'ottica sportiva diventa sensato, perché, il soggetto nei cui confronti si
produce un giudicato sfavorevole è il soggetto che è stato formalmente
parte del processo, anzi che abbia effettivamente discusso e deciso la
questione, invece consentire a questo soggetto, che ha discusso e deciso la
questione e ne è uscito soccombente di discuterla nuovamente da capo,
soltanto perché è cambiato l'avversario sarebbe poco sportivo, perché,
raddoppierebbe le sue chance di vincere sulla questione, in ragione del numero
di avversari che si trova ad avere, sicché, anche alla luce di una concezione
sportiva del processo giudicato secundum eventum litis nei confronti di
coloro che siano rimasti estranei al procedimento, si giustifica invece
tranquillamente.
·Il litisconsorzio
(pluralità di parti)
Vediamo di affrontare analiticamente il problema della
disciplina della pluralità di parti nel processo, sia nel cumulo
soggettivo!
Abbiamo già visto in larga misura il
fenomeno del cumulo oggettivo, osservando che quando si tratta di causa fra le
stesse parti, più domande contro lo stesso convenuto possono essere
cumulate in un unico processo anche se non abbiano nessun altra connessione tra
di loro, perché una scelta dell'attore, quella di complicarsi il processo di
sua iniziativa, quindi a questo punto dio vista la legge non fa obiezioni,
mentre cause a parti invertite possono essere cumulate nello stesso processo,
intanto in quanto, vi sia una comunanza
di questioni, sicché la domanda riconvenzionale è ammissibile anche al
di la dei limiti previsti dall'art. 36, e cioè anche quando non vi sia
connessione per il titolo o per l'oggetto, ma soltanto una connessione
impropria per questioni di fatto, purché non si modifichi la competenza, mentre
la modificazione vera e propria della competenza è possibile soltanto
nelle ipotesi di connessione propria. E questo per quanto riguarda l'ipotesi in
cui le parti siano le stesse.
Poniamoci il problema di individuare in quale
misura sia possibile proporre domande contro più convenuti in uno stesso
processo! Ebbene! In quest'ipotesi la legge consente di convenire più
soggetti nello stesso processo, sia nell'ipotesi di connessione propria,
ossia quando le domande anche in comune il titolo e l'oggetto, sia in ipotesi
di connessione impropria, e quindi appunto nel caso in cui vi sia una
mera comunanza di questioni a giustificare la proposizione di domanda con
più convenuti in un unico processo, e cosi pure acciocché possano aversi
più attori in uno stesso processo contro un unico convenuto.
Entrambi i fenomeni sono di litisconsorzio
rispettivamente dal lato attivo e dal lato passivo e quando sussista un nesso
di connessione meramente impropria, cioè, possibile soltanto in quanto
non vi sia alcuna deroga alle disposizioni sulla competenza, vale a dire quando
il giudice adito sia originariamente competente per tutte le domande
cumulativamente proposte.
Nelle ipotesi, invece in connessione propria,
è possibile la modificazione della competenza soltanto nei limiti in cui
lo consente l'art. 33, nella parte in cui prevede più soggetti possano
essere convenuti nello stesso processo, ma in questo caso è soltanto
presso il foro che sia foro del domicilio, cioè foro generale di almeno
uno di questi litisconsorti.
Diversi problemi applicativi si pongono perché
nell'art. 33 è molto usato ai fini di forum shoping, cioè ai fini
della scelta se non del magistrato, almeno dell'ufficio giudiziario a cui
rivolgersi, perché tutte le volte che ho disposizione più convenuti,
posso scegliere tutte le volte che questi hanno domicilio in luoghi diversi, di
concentrare il processo dinanzi a uno qualsiasi di questi e magari provo anche
a concentrare in fori più comodi, e quindi, è ricorrente per un
verso l'affermazione che la modificazione della competenza, ex art. 33, non sia
possibile nell'ipotesi del cosiddetto convenuto fittizio, cioè quando
tra i più convenuti c'è ne uno individuato esclusivamente allo
scopo di radicare la competenza presso il suo domicilio, e la giurisprudenza
ritiene di potere sindacare molto approfonditamente, se la domanda proposta nei
confronti di quel convenuto il cui domicilio è presso il foro adito,
nell'ipotesi in cui sia l'unico ad avere domicilio presso il foro adito e la
domanda non abbia carattere collusivo, e qui siamo d'accordo, ma fino ad un
certo punto perché la legge non lo prevede, come non prevede quel potere che
pure la giurisprudenza si auto attribuisce di verificare l'apparenza di
fondatezza della domanda, per verificare che non sia stata proposta
presuntuosamente al solo scopo di modificare la competenza nei confronti degli
altri convenuti. In realtà la giurisprudenza dovrebbe solo verificare se
effettivamente è stata proposta domanda nei confronti di quel convenuto,
però, dobbiamo prendere atto dell'orientamento diffuso onde cercare di
limitare i fenomeni di forum shoping attraverso questa tecnica un poco eversiva
del dettato normativo.
Spesso si dice che non è possibile
convenire più soggetti presso il foro del fatto illecito, cioè
non si possono utilizzare tutti quei fori di cui all'art. 20, allo scopo di
concentrare i litisconsorti presso il giudice così scelto, almeno uno
deve avere effettivamente residenza in quel foro, mentre se il foro è il
foro in cui si è verificato il fatto illecito comune a più
soggetti, ma non è foro di residenza o domicilio di alcuno di essi,
sembrerebbe inammissibile il litisconsorzio facoltativo passivo in
questa ipotesi. Qua bisogna stare attenti alle forzature, in quanto, in
realtà, se il fatto illecito è il fatto generatore della
responsabilità, almeno nella prospettazione di parte, quindi poi, che lo
sia effettivamente, dovrebbe essere sindacabile soltanto in misura modesta,
soltanto nella misura in cui ammettiamo l'assunzione di sommarie informazioni,
quindi se il fatto illecito si è verificato innanzi al giudice
aditoed è quello del fatto
generatore della responsabilità comune ai più litisconsorti, di
fatto il litisconsorzio facoltativo passivo in quel foro, si dovrebbe ammettere
perché non c'è alcuna modifica della competenza, in quanto i
litisconsorti sono concentrati presso un foro che è foro originariamente
competente per ciascuno di essi, sicché, il cumulo soggettivo perso il foro del
fatto illecito dovrebbe risultare inammissibile soltanto in quella ipotesi in
cui il litisconsorzio si fondi, per esempio, sulla comunanza dell'oggetto,allora il fatto generatore della
responsabilità non sia comune a tutti i soggetti, ma ad alcuni soltanto,
e si cerchi di convenire presso quel foro anche coloro a cui non si imputi la
commissione di un illecito presso quel foro.
Il litisconsorzio può essere creato
originariamente per effetto, nell'ipotesi del litisconsorzio del lato passivo
della originaria proposizione della domanda nei confronti di più
convenuti, ovvero, può formarsi successivamente nel corso del
procedimento per effetto di fenomeni di chiamata del terzo che può
avvenire ad istanza di parte, nei casi di cui all'art. 106, cioè
nell'eventualità in cui dove una delle parti ritenga che la causa sia
comune ad un terzo o nell'ipotesi in cui pretenda di essere garantita dal
terzo, ovvero può essere disposto anche dal giudice ai sensi dell'art.
107, e ancora nei casi in cui il giudice ritenga la causa comune al terzo. La
legge non fa esplicita menzione della possibilità del giudice di
ordinare l'intervento del garante, però è abbastanza diffusa
l'idea che il giudice possa ordinare anche l'intervento del garante, rientrando
questa ipotesi nell'ipotesi di comunanza di causa, in tanto in quanto,
la chiamata del garante sia effettuata allo scopo di rendere a lui opponi bile
il giudicato che verrà a formarsi, e quindi evitare che (vedi es. del
art. 1485 che possa dimostrare che la sentenza era ingiusta e che esistevano
ragioni per respingere la domanda), ciò comporti la proposizione di vera
e propria domanda nei confronti del terzo, ossia, questa chiamata del giudice
non amplierebbe l'ambito oggettivo della lite, bensì, sarebbe diretta
solo ad ampliare l'ambito soggettivo dell'efficacia della decisione su quella
stessa causa.
Rispetto al caso del litisconsorzio necessario
di cui all'art. 102, di cui abbiamo parlato prima, dobbiamo ricordare che ci
sono numerose differenze applicative, anzitutto la più evidente è
quando il giudice ordina l'integrazione del contraddittorio ai sensi dell'art.
102 e il decorso del tempo perentorio per provvedervi comporta automaticamente
l'estinzione del processo; nell'ipotesi in cui il giudice ordini di chiamare in
giudizio una parte ai sensi dell'art. 107, il decorso del termine perentorio
per provvedere alla chiamata comporta la mera cancellazione della causa dal
ruolo, e non indirettamente l'estinzione del processo, trattandosi in questo
caso di estinzione mediata in cui l'estinzione stessa sopravviene soltanto col
decorso del termine di un anno dalla cancellazione della causa dal ruolo senza
che nessuna delle parti abbia provveduto a riassumere il giudizio.
Ci sono poi ulteriori differenze,
l'applicazione dell'art. 102, è secondo la giurisprudenza del tutto
priva di discrezionalità, quindi le relative decisioni sono pienamente
sindacabili in sede d'impugnazione, mentre la chiamata del terzo ex art. 106,
toglie dall'obiettivo di ampliare il materiale di causa sulla cui conoscenza
fondare la decisione, comunque dobbiamo ricordarci che il garante è il
potenziale interveniente litisconsortile, secondo alcuni titolare dei rapporti
pregiudiziali e potenziale interveniente principale adesivo nonché ipotesi del
vero legittimato passivo.
La chiamata di parte, che come tale realizza
un litisconsorzio dal lato passivo, va poi tenuta distinta dalla mera denuncia
di lite che è prevista in alcune disposizioni codicistiche, ma non
comporta l'assunzione formale della veste di parte nel procedimento, una
denuncia di lite l'abbiamo vista quando parlando di sospensione abbiamo
accennato all'art. 332, che ha l'onere di notificare la proposizione
dell'impugnazione ai litisconsorti di causa scindibile, pena la sospensione del
processo fino al memento in cui sia decorso il termine dell'impugnazione nei
loro confronti, questa notificazione è mera denuncia di lite, ma non
rende questi soggetti parte del giudizio di gravame, ne così pure denuncia
di lite è quella a carico del conduttore ai sensi dell'art. 1586 c.c.
nell'ipotesi di causa di molestie e così via o nel 1777 del c.c..
Il così chiamato intervento del terzo,
normalmente comporta la realizzazionedel litisconsorzio da lato attivo, perché possa aversi anche un'ipotesi
del litisconsorzio dal lato passivo ingenerato da un intervento volontario del
terzo, nella materia regolata dall'art. 105, che distingue tre diverse ipotesi
di intervento volontario del terzo: si parla in dottrina di intervento principale
per evocare l'ipotesi di quel terzo che intervenga fra una causa tra altre
parti allo scopo di far valere un diritto contro tutte le altre parti,
cioè un diritto incompatibile; si denomina in dottrina interveniente
litisconsortile o adesivo autonomo, da non confondere con l'adesivo
dipendente, adesivo solo se si aggiunge autonomo, e cioè colui che
fa valere in giudizio il diritto, ma nei confronti di alcune soltanto delle
parti, il diritto ovviamente, sempre connesso propriamente con quello dedotto
in giudizio cioè quello dipendente dallo stesso titolo relativo allo
stesso oggetto, e si definisce intervento adesivo dipendente, o
semplicemente adesivo, per coloro che chiamano litisconsortile l'intervento
adesivo autonomo, l'intervento di quel terzo che interviene per appoggiare le
ragioni di una delle parti quando vi abbia un proprio interesse. Questo terzo
tipo di intervento è il più delicato dal punto di vista teorico,
perché si conura come l'intervento di un soggetto che non propone alcuna
domanda, e che quindi, è un intervento che potrebbe realizzarsi anche
dal lato passivo del litisconsorzio, vale a dire potrebbe essere compiuto in
appoggio alle ragioni del convenuto.
Quali soggetti possiamo ritenere legittimati
all'interveto adesivo dipendente perché provvisti di un proprio interesse? Il
pensiero soccorre subito ai titolari di situazioni soggettive dipendenti, i
quali corrono il rischio di subire in misura più o meno accentuata, gli
effetti della sentenza pronunciata inter alios. Quindi il problema
è che la legge non è chiarissima nell'individuaredi quali poteri sia provvisto l'interveniente
adesivo dipendente, sicché, secondo l'interpretazione tradizionale, per trovare
la disciplina di riferimento, occorreva guardare a quella dei poteri attribuiti
al PM, in quelle controversie, in cui, egli fosse interveniente privo del
potere di azione. È una disciplina che abbiamo già ricordato
quando abbiamo parlato delle azioni e mere azioni, nei casi in cui il PM non
è titolare del potere di azione, ma interveniente necessario, per regola
generale, egli non può impugnare la sentenza, fatta eccezione per le
cause matrimoniali ed escluse quelle di separazione tra i coniugi.
È chiaro che le eccezioni delle cause
matrimoniali allude alle accentuate particolarità del nostro
ordinamento, nella traccia di un epoca in cui il nostro ordinamento era molto
diverso da quello del resto del mondo da questo punto di vista, sostanzialmente
si riteneva molto importante impedire che le parti ottenessero il risultato di
divorziare quando nonpotevano
ottenerlo, e che quindi, questo giustificava il potere d'impugnazione del PM
nella cause matrimoniali, che non a caso si escludeva nelle cause di mera
separazione coniugale.
Perciò, da questa disciplina, si
evinceva che il soggetto che partecipasse al giudizio, ma fosse privo del
potere di azione, fosse anche conseguentemente privo del potere di impugnare la
sentenza, però questa soluzione qualche perplessità, la desta, in
quanto avremo ipotesi in cui il terzo titolare di una situazione soggettiva
dipendente a tal punto pregiudicata da quella pregiudiziale, il terzo sarebbe
impotente di fronte agli effetti del negozio concluso tra le parti; ad esempio,
il caso del subconduttore, che pacificamente subirebbe gli effetti del
giudicato, ma, in realtà, il titolare di situazioni giuridiche
dipendenti non sempre sono in una posizione giuridica così debole, anzi,
a volte, avrebbero la possibilità, se non fossero evocati in giudizio,
di dimostrare che la sentenza era ingiusta, quindi, da più parti si
erano sollevati dubbi e si era affermato che fosse ingiusto escludere in via
generale il potere di impugnazione autonomo della sentenza dell'interveniente
adesivo dipendente, per tacere il fatto, che addirittura, in alcune pronunce
giurisprudenziali decisamente inesatte avevano escluso il potere di impugnare
autonomamente la sentenza qualificandolo come interveniente adesivo dipendente
e addirittura del sostituto processuale, il quale nell'ipotesi dell'alienazione
della res litigiosa, ha il potere di impugnare autonomamente la sentenza
e la legge glielo attribuisce esplicitamente, in ipotesi come quelle
dell'azione surrogatoria, sembra strano che sia sprovvisto del potere di
impugnare la sentenza, quando egli avrebbe potuto, se non fosse stato preceduto
dal suo creditore, esercitare in proprio l'azione civile, ed è tra
l'altro un litisconsorte necessario nella causa.
Gli orientamenti di riforma più recenti
sono tutti nel senso di favorire l'affermazione generale della regola opposta,
cioè della regola per cui l'interveniente adesivo dipendente la sentenza
la può impugnare, anche qui con una radicalità estrema, per
esempio, nella nuova disciplina del diritto societario è largamente
riformato il sistema dell'impugnazione della delibera assembleare di società
per azioni, prevedendosi che l'annullamento possa essere chiesto soltanto da
quei soci che siano titolari di una quota minima di azioni, però,
facendo salvo il diritto di tutti i soci comunque ad essere risarciti dei danni
subiti per effetto della cattiva gestione degli amministratori, e quindi anche,
nell'ipotesi in cui si è esercitato un'azione di responsabilità
cumulativamente alla impugnazione della delibera assembleare, di partecipare a
quel giudizio al fine di coltivare l'azione di responsabilità stessa,
trovandosi, però, rispetto all'impugnativa di delibera assembleare in
una situazione di intervento anch'esso dipendente, allora cosa facciamo!
Può impugnare la sentenza anche se non avrebbe potuto proporre la
domanda? L'introduzione nel rito societario della regola per cui
l'interveniente adesivo dipendente può impugnare la sentenza
probabilmente è troppo radicale, nel senso che il socio legittimato alla
sola azione di responsabilità possa certamente proseguirla e coltivarla
anche nel caso in cui la cumulativa azione di annullamento della delibera
assembleare venga rigettata, e la sentenza di rigetto non venga impugnata.
Resta il dubbio se il giudice possa, o meno,
in via incidentale delibare l'illegittimità della delibera e che quindi,
non tenerne conto ai fini dell'azione risarcitoria proposta dal socio che non
sarebbe stato legittimato ad ottenere l'annullamento della delibera, ma sembra
difficile arrivare a sostenere che possa invece impugnare la sentenza che
pronuncia sulla domanda che egli non avrebbe neppure potuto proporre.
Per quanto riguarda, invece, la distinzione
tra intervento principale e intervento adesivo autonomo, occorre
rimarcare che non si tratta di una distinzione che facciamo per il gusto delle
distinzioni, la proposizione di domanda nei confronti di tutti e nei confronti
di alcuni soltanto, incide in modo radicale sulla disciplina della
scindibilità del litisconsorzio nelle fasi di gravame, in particolare,
si ritiene che l'intervento principale dia vita ad un litisconsorzio comunque
di carattere inscindibile in sede di gravame, diversamente l'interveniente
adesivo autonomo propone una domanda, che a seconda dei casi può
risultare scindibile e quindi è compatibile con lo scioglimento del
litisconsorzio e i successivi gradi del giudizio.
Inoltre, la distinzione è rilevante ai
fini della valutazione dei requisiti di tempestività dell'intervento
volontario, difatti, la legge consente, con riferimento al giudizio ordinario
di cognizione, che l'intervento possa aver luogo siano all'udienza di
precisazione delle conclusioni, però, l'interveniente non può con
ciò compiere atti che siano preclusi alle altre parti, salvo che egli
intervenga per l'integrazione necessaria del contraddittorio. Ne consegue che,
se si considera la disciplina della formazione delle preclusioni, la quale
implica che alla conclusione della prima udienza di trattazione non possano in
nessun modo essere introdotte nuove domande, intendendosi la prima udienza
comprensiva di tutti i suoi eventuali scansionamenti giustificati da chiamate,
controchiamate e successivi ampliamenti dell'ambito soggettivo del
contraddittorio, comunque svolte le attività di cui all'art. 183, non
è senz'altro possibile in alcun modo intervenire proponendo nuove
domande, pertanto, l'intervento all'udienza di precisazione delle conclusioni,
è intervento che può essere realizzato solo, o dal litisconsorte
necessario pretermesso ovvero dall'interveniente adesivo dipendente,
cioè del terzo che interviene, ma senza proporre alcuna autonoma
domanda, bensì solo per appoggiare le ragioni di una delle parti. Per
converso, l'intervento principale di intervento adesivo autonomo, dovrebbero
tutti essere convinti entro il termine per la tempestiva costituzione del
convenuto, così come d'altronde, nelle controversie di lavoro si esclude
qualsiasi intervento che non sia stato compiuto, appunto entro questo termine.
Però, l'interveniente principale,
ossia, quel soggetto che può intervenire in primo grado, ma soltanto
entro il termine di costituzione del convenuto, ha la facoltà di
intervenire in grado d'appello, perché l'art. 344 consente l'intervento in
appello di quel soggetto che sarebbe legittimato a promuovere opposizione di
terzo, conurando quella che si definisce come opposizione di terzo
anticipata, è una di quelle ipotesi in cui in grado d'appello proposta
una nuova domanda, tenendosi conto del fatto che se passasse in giudicato, in
sua assenza, la sentenza d'appello, lui potrebbe comunque rivolgersi allo
stesso giudice tramite opposizione di terzo, così si risparmia un grado
di giudizio consentendogli di intervenire direttamente in quella sede.
Per quel che riguarda la chiamata di parte, la
chiamata in garanzia, può darsi che sia compiuta mediante proposiazione
di autonoma domanda, e in questo caso è anche possibile una modifica al
riparto verticale della competenza ai sensi dell'art. 32 e quindi la
concentrazione dinanzi alla fine al tribunale delle due domande, una delle
quali sia in ipotesi di competenza del giudice di pace.
La garanzia si distingue, a loro volta in garanzia
propria o impropria a seconda se si abbia un rapporto giuridico unico,
talché si afferma che nell'ipotesi di garanzia impropria, come quella per
l'assicurazione per la responsabilità civile ha un regime so proprio,
nell'ipotesi di garanzia propria sarebbe applicabile l'art. 106, quindi la
facoltà della parte di chiamare in causa il terzo, ma non sarebbe
applicabile l'art. 32 in tema di modificazione del riparto verticale della
competenza, il che vale appunto, ma non vale per l'assicurazione della
responsabilità responsabilità civile, qui è pacifico che
la modifica della competenza sia possibile, per quel che riguarda la garanzia
propria si distingue a sua volta in garanzia propria reale o dell'effetto
reale, che è collegata al trasferimento di un diritto, come nei casi del
1485, ma anche del 1266 e 1586 del c.c., la garanzia propria reale si distingue
dalla garanzia propria personale, che è quella che si presenta nelle
obbligazioni solidali, nei rapporti di fideiussione, ecc..
Questa distinzione tra garanzia propria e
impropria, però ha sempre meno successo, di recente, in realtà i
limiti all'applicabilità della disciplina della garanzia propria,
emergono quasi tutti in particolare settore che è quello delle vendite a
catena, in cui è particolarmente labile il nesso tra i rapporti
giuridici lungo la scala della catena distributiva, talché gli orientamenti
dottrinali più recenti, sono anche che alla garanzia impropria bisogna
applicare la disciplina della garanzia propria sia dal punto di vista della
modificazione della competenza, sia dal punto di vista della
scindibilità della controversia in sede di gravame, osservando che ai
fini della scindibilità ciò che rileva non è tanto la
distinzione tra il carattere proprio o improprio della garanzia, bensì,
il rapporto tra la sentenza e la domanda d'impugnazione, per cui, in
particolare, si afferma che si dovrebbe avere sempre inscindibilità in
tutte le ipotesi in cui sia necessario la coltivazione anche in via
condizionata della domanda di garanzia, e quindi in tutte le ipotesi di rigetto
della domanda principale, si avrebbe alla fine scindibilità quasi
soltanto nel caso in cui vi sia stato accoglimento della domanda principale e
l'impugnazione investa esclusivamente la pronuncia sulla sussistenza del
rapporto di garanzia, purché la domanda nei confronti del garante sia stata
proposta esclusivamente dal garantito e non sia stata accomnata da una
domanda, nei casi in cui è possibile, direttamente proposta dall'attore
in via principale nei confronti del garante.
·Il litisconsorzio
necessario
Oltre alla conseguenze processuali che abbiamo
descritto, cioè quella dell'estinzione nell'ipotesi di mancata
integrazione del contraddittorio di mancata inottemperanza all'ordine di
integrazione del contraddittorio disposto dal giudice, ovvero, nullità e
inesistenza a seconda delle opinioni della sentenza nell'ipotesi in cui non
venga ordinata l'integrazione del contraddittorio e venga resa pronuncia sul
merito che passi in giudicato, ricordiamoci ancora che c'è la fase
intermedia, cioè l'ipotesi in cui venga pronunciata sentenza sul merito
senza ordinare l'integrazione del contraddittorio nei confronti del
litisconsorte, e però questa sentenza venga impugnata. Per questo caso,
la legge prevede in deroga alla regola generale per cui le nullità
compiute nel corso del giudizio di primo grado possono essere sanate attraverso
la rinnovazione, in grado d'appello, o con possibilità del giudice
d'appello di pronunciare direttamente nel merito della causa deviando dalla
regola generale, in questa ed in alcune altre particolari ipotesi, la legge
prevede che il giudice d'appello rimetta la causa al primo giudice, dovendosi
assicurare al litisconsorte pretermesso il doppio grado di giudizio, e quindi
la facoltà del doppio esame della sua situazione giuridica da parte del
giudice del merito.
Comunque, per ora, ci limitiamo ad osservare
che sia ammesso, in giurisprudenza che la causa possa essere direttamente
decisa nel merito in grado d'appello, allorquando il litisconsorte necessario
intervenuto in appello ex art. 344, chieda lui stesso e con il consenso delle
altre parti che anziché rimettere la causa al primo giudice questa venga
direttamente decisa nel merito in appello.
Laddove nemmeno il giudice d'appello si avveda
della pretermissione del litisconsorte necessario, e tuttavia se ne avvede
invece la Corte di Cassazione, la questione è ovviamente rilevabile
d'ufficio in ogni stato e grado del processo, e sarà la Corte di Cassazione,
in questo caso, a disporre quella rimessione al primo giudice che non era stata
disposta dal Giudice d'Appello.
Particolarmente delicato, in tema di
litisconsorzio necessario, è il problema dell'individuazione dell'ambito
di applicazione di questa disciplina, che non è esplicitamente risolto
dal codice, laddove, nell'art. 102, da per scontato che si sappia quali siano
quei casi in cui la sentenza deve essere pronunciata nei confronti di
più parti, o meglio nei confronti di più soggetti.
Alcuni casi sono esplicitamente previsti dalla
legge e quindi su quelli siamo tranquilli! Esempio il caso dell'azione
surrogatoria, dell'azione di disconoscimento della paternità, il
giudizio di divisione, e numerosi sono i casi in cui la legge prevede la
necessarietà del litisconsorzio, e secondo l'orientamento dottrinale,
non altri potrebbero questi essere, appunto, al di la dei casi previsti dalla
legge, si può solo immaginare, casomai, che sia mancata la notificazione
del litisconsorte della domanda proposta contro di lui, nel quale caso si ha la
violazione della regola del contraddittorio, un ordine di provvedere alla
notificazione, ma non vi è applicazione della disciplina del
litisconsorzio necessario, in realtà, con l'ulteriore conseguenza che si
possa dubitare persino dell'efficacia tra le parti che abbiano partecipato al
giudizio della sentenza.
Altrimenti dicono, i sostenitori della tesi
restrittiva, che tutto sommato è un problema dell'attore avere scelto di
proporre domanda contro alcuni soltanto dei soggetti titolari della complessa
situazione giuridica dedotta in giudizio.
L'opinione maggioritaria, peraltro, è
nel senso che invece, sia possibile individuare casi di litisconsorzio
necessario anche al di la delle espresse previsioni legislative, in particolare
si ascrive a questa opinione colui che maggiormente invocava l'esercizio del
potere ufficioso del giudice di disporre l'integrazione del contraddittorio nei
casi di litisconsorzio necessario, perché ricordiamolo, nel codice previgente
non prevedeva il potere d'ufficio del giudice di disporre l'integrazione del
contraddittorio, ma pur sempre prevedeva varie ipotesi di necessarietà
del litisconsorzio. Ma secondo l'opinione prevalente soi potrebbe individuare
appunto, una serie di categorie di fattispecie, sulla base di un ragionamento
sistematico, nelle quali sia giustificabile se doveroso, applicare la
disciplina litisconsorzio necessario.
Poi, per carità! Volendo tutte le
opzioni sono valide, perché ricordiamo che lo strumento per un verso comprime
il principio dispositivo, pe altro verso, senz'altro incrementa l'efficacia
dell'attività giurisdizionale, perché, se anche noi accettiamo l'ipotesi
che la sentenza produca effetti tra coloro che abbiano partecipato al giudizio,
ma non nei confronti che sia rimasto estraneo, il quale potrebbe proporre
opposizione, è chiaro che se non si evoca in giudizio il litisconsorzio
necessario si pronuncia una sentenza che è comunque instabile, che
rischia di essere posta nel nulla su iniziativa del litisconsorte pretermesso,
e quindi, può essere ragionevole prevenire questa fonte di
instabilità evocandolo in giudizio sin dall'inizio, ma quale sia il suo
ambito di applicazione si può discutere, perché le ragioni dogmatico
sistematiche che vengono formulate per avviare l'applicazione di questa
disciplina, sono largamente opinabili come sono i ragionamenti di carattere
dogmatico sistematico.
Per lo più, si dice tradizionalmente,
che il campo privilegiato di applicazione di questa disciplina si abbia quando,
sia dedotto in giudizio un rapporto giuridico multilaterale e sia esercitata
un'azione di carattere costitutivo. Il ragionamento su cui si basa quest'idea,
è che: allorquando il rapporto giuridico deve cambiare, cioè deve
essere costituito, modificato, estinto tramite il provvedimento del giudice,
questo rapporto giuridico non può cambiare per alcuni soltanto dei
soggetti e non per gli altri. Non è davvero indefettibile questa
conseguenza, perché possiamo immaginare che cambi per alcuni soltanto,
ovviamente in modo più lievemente instabile e non ci sarebbe niente di
male! Tuttavia, dobbiamo tenere presente che quest'opinione è
tradizionale, ampiamente condivisa e largamente applicata in giurisprudenza,
sicché costituisce un diritto vivente indagabile nel settore delle azioni
costitutive la deduzione in giudizio del rapporto giuridico multilaterale
inevitabilmente conduca all'applicazione della disciplina del litisconsorzio
necessario.
Ma c'è di più! La prassi
giurisprudenziale ha finito per individuare anche ulteriori ipotesi di
applicazione della disciplina del litisconsorzio necessario, anche al di fuori
del campo delle azioni costitutive, e ciò sempre sulla base di una
valutazione secondo cui la sentenza, Chiovenda diceva che sarebbe uniliter
data, perché non potrebbe produrre effetto solo nei confronti di alcuni e
non nei confronti di tutti. Anche qui si tratta di una petizione di principio,
per lo più si tratta di casi in cui è molto forte il rischio che
il litisconsorte pretermesso faccia valere le sue ragioni compatibili con
quelle accolte in sentenza, e quindi diventa sensato prevenire questo rischio
estendendo a lui il contraddittorio, cosa che si potrebbe, secondo me
abrogare l'art. 102 e basterebbe l'art. 107 a risolvere tutti i problemi che
ove si afferma che si dovrebbero risolvere secondo l'art. 102!
Comunque, queste fattispecie sono, ulteriori
rispetto a quelle delle azioni costitutive, nel campo delle azioni di
accertamento alcune ipotesi in cui si tratta di accertare l'invalidità
di un titolo comune a più persone, e si tratta di ipotesi in cui
è particolarmente labile il confine tra tutela d'accertamento e tutela
costitutiva, confine che è labile in se, anzi le mode dottrinali sono
tutte nel senso di sostenere che il minor numero di ipotesi possibile va
qualificato come ipotesi di sentenza costitutiva, per cui ci sono monografie
che sostengono che l'annullamento dei negozi non costituisce un'azione
costitutiva, ma dichiarativa. Anche di queste vi invito a diffidare, perché in
realtà la distinzione un trova riscontro nel diritto positivo, e anzi
risulta difficile spiegare perché per esempio, nella disciplina della
trascrizione, il legislatore si premuri di distinguere ai fini della produzione
di effetti retroattivi fra le sentenze che dichiarano la nullità e
invece che annullano il negozi, negli artt. 2652 del c.c.. Hanno interesse a
dire che qui si tratta di azioni o di accertamento, ma sostanzialmente
costitutive o azioni che hanno caratteristiche comuni con quelle azioni che
spesso si chiamano costitutive e che poi, per alcuni sono di accertamento,
comunque, quelle che hanno ad oggetto, si diceva, un titolo comune a più
soggetti, e ancora, questo è il caso più difficile da ricordare,
perché ci sono ragioni pratiche sottili, è dell'ipotesi in cui si chieda,
l'adempimento, e qui si tratterebbe di azioni di condanna, di un obbligo di
fare indivisibile e comune a più soggetti anche in questo caso, secondo
la giurisprudenza, dovremmo rendere applicabile la disciplina del
litisconsorzio necessario.
Io ritengo! Per come è oggi il diritto vigente, è
chiaro che l'art. 102 esiste, non possiamo abrogarlo, ma ritengo preferibile la
tesi che non richiede inuliter data, quindi non ritiene inesistente la
sentenza pronunciata in assenza di litisconsorte necessario, la ritiene idonea
a produrre effetti tra le parti che hanno partecipato al giudizio, e quindi il
litisconsorte pretermesso sia legittimato all'opposizione di terzo in
applicazione estensiva del disposto dell'art. 404 comma 1°, nella parte in cui
esso risulta concepito per essere applicato all'ipotesi del titolare del
diritto autonomo incompatibile.
Questo strumento dell'opposizione di terzo, si
è proposto di utilizzarlo nell'ipotesi largamente di scuola, del
processo condotto nei confronti del falsus procurator, e anche in questo
caso si può immaginare la proposizione di un opposizione di terzo, ha
finito per diventare una carta di riserva molto popolare, per cui, bisogna
trovare un punto di equilibrio tra le individuazioni delle ipotesi di sentenza
nulla opponibile, e l'individuazione di sentenza giuridicamente inesistente in
quei casi in cui è effettivamente congruo parlare di sentenza
giuridicamente inesistente e applicare estensivamente il disposto dell'art. 161
comma 2°.
In una recente monografia, si formula
un'ipotesi abbastanza divertente! E cioè l'ipotesi in cui il processo
venga condotto nei confronti del convenuto, senza che a questo convenuto venga
mai notificato alcun atto del processo. la legge contempla l'ipotesi in cui il
convenuto rimanga contumace e siano nulle tutte le notifiche compiute nei suoi
confronti, il caso è regolato dall'art. 327 comma 2°, dove il quale
attribuisce al convenuto il potere di impugnare la sentenza in ogni tempo,
cioè nei suoi confronti non decorrono i termini perentori che decorrono
normalmente dalla notificazione, o in mancanza dalla pronuncia della sentenza
per la proposizione dell'impugnazione ordinaria. Perciò, questo è
un sistema che protegge abbastanza il convenuto contumace! Anche se in
realtà, c'è un caso in cui se: la domanda viene rigettata in
primo grado e in appello, e accolta dalla Cassazione, che adesso può
pronunciare sul merito in applicazione dell'art. 384, l'art. 327 risulta
inutile al convenuto contumace, perché le impugnazioni ordinarie sono
già esperite dall'attore soccombente nei gradi di merito del giudizio
(teoria fantasiosa)!!
Però questo studio monografico si
riflette sul come trattare il caso in cui al convenuto contumace siano state
compiute notificazioni nulle, cioè notificazioni compiute violando le
prescrizioni formali del dettato legislativo, ma pur sempre compiute a persona
in luogo a che abbiano a che fare col destinatario. Ipotizziamo nessuna
notificazione, il che poi non è così fantasioso, se pensiamo alla
fattispecie delle notificazioni inesistenti, cioè quelle compiute in
luogo e a persona che non hanno nulla a che vedere col destinatario, il giudice
potrebbe non accorgersi di ciò e procedere e accogliere persino la
domanda. Ora ci si domanda come dobbiamo trattare questo convenuto contumace.
Certamente non possiamo assicurargli una posizione deteriore da quella che gli
compete nelle ipotesi di notificazioni nulle, anzi dovremo dargli qualche
opportunità in più, ed ecco che qualcuno dice: "consentiamogli di
proporre opposizione di terzo!". Dal punto di vista di un certo modo di
ragionare, si potrebbe che costui non è stato mai efficacemente reso
parte, perché se la qualità di parte si acquista con la notificazione
della citazione e se è vero che questa notificazione non è stata
mai eseguita, o sono state eseguite notificazioni giuridicamente inesistenti;
lui è stato reso parte nel senso il soggetto nei cui confronti è
proposta la domanda, però non è stato messo in condizioni di
compiere gli atti del processo e non è mai stato individuato un momento,
a partire dal quale egli abbia acquisito la qualità di parte, perché
questo momento non è individuabile, poiché tale qualità la si
acquisisce solo con la notificazione.
Qui la nozione di terzo che si fa riferimento,
quando dicevamo del giudice terzo cioè terzo perché non è
personalmente interessato alla causa, e qui non si tratta di terzo in quel
senso! Il terzo è colui nei cui confronti non è posta la domanda,
e anche qui non è un terzo in questo senso, e parlare di opposizione di terzo
suona strano; finchè si dice: opposizione di terzo del litisconsorte
pretermesso, ci sono due parti e c'e un litisconsorte pretermesso;
finchè si dice l'opposizione di terzo del falsus procurator,
c'è un attore, c'è un falso rappresentante e c'è un
convenuto fittizio rimasto terzo, ma qui, veramente, c'è l'attore e il
convenuto e questa opposizione di terzo sembra un opposizione di secondo, e si
leggono, nei riferimenti dottrinali che supportano questa conclusione teorica,
citazioni di dottrina tedesca e allora vien da dire, un momento! Ma in Germania
parliamo certamente di opposizione, perché in Germania la sentenza contumaciale
è una sentenza abbreviata e sommaria soggetta, la sentenza contro il
contumace, a uno speciale mezzo di impugnazione che ha la forma dell'opposizione,
cioè dell'impugnazione proposta presso lo stesso giudice che ha emanato
la sentenza, ma non è un'opposizione di terzo, è l'opposizione
del contumace. Mentre l'ipotesi che si è immaginata sia un caso
assolutamente appropriato cui parlare di inesistenza giuridica della sentenza,
come l'ipotesi di omessa sottoscrizione del giudice, ipotesi in cui non sia mai
stato compiuto l'atto a decorrere dal quale si acquisisce formalmente la
qualità di parte, è un ipotesi in cui si può immaginare
che la sentenza debba essere trattata come sentenza giuridicamente inesistente,
e quindi, nell'ipotesi in cui si può tranquillamente escludere che la
sentenza produca alcun effetto tra le parti, anche perché non ci sono parti tra
le quali la sentenza può produrre effetto, perché c'è solo una
parte e l'altro soggetto non è mai stato reso parte, perciò
dovremmo ulteriormente ritenere che il soggetto convenuto contumace, a cui non
sia mai stato notificato alcun atto del processo, a cui siano state compiute
soltanto notificazioni inesistenti abbia la facoltà di promuovere
l'opposizione.
La sospensione dell'esecutività
dell'atto, non ha ragion d'essere dovendosi qualificare, quell'atto, come
sentenza data giuridicamente inesistente e quindi priva di efficacia esecutiva,
con la possibilità di far valere il vizio in ogni tempo anche tramite
opposizione all'esecuzione, promossa sulla base di quella che solo formalmente
ha la veste di una sentenza, ma inidonea a produrre gli effetti sostanziali.
·Le impugnazioni civile
(regole generali)
Affronteremo in particolare quella serie di
problemi prodotti dalle norme che vanno dall'art. 323 all'art. 338 del codice
di rito.
Il primo problema da affrontare è
quello della distinzione tra impugnazioni ordinariee straordinarie.
Ci dice il diritto positivo direttamente,
quali impugnazioni impediscono la formazione del giudicato, quindi la
produzione degli effetti propri del giudicato e quali invece no, sono invece
compatibili con questa proposizione, ma si potrebbe domandare se questa
distinzione sia arbitraria o trovi in se un fondamento sistematico .
In particolare, la questione si pone in modo
rilevante soprattutto con riferimento al ricorso per Cassazione, perché il
codice lo qualifica tra le impugnazioni ordinarie, la cui proposizione o
proponibilità impedisce alla formazione della cosa giudicata nel codice
vigente, ma già nel codice del 1865 qualificava il ricorso straordinario
per cassazione come impugnazione straordinaria non impeditiva della formazione
del giudicato e in effetti, la scelta del legislatore, che potrebbe anche
essere diversa in molti ordinamenti, addirittura si ritiene che la formazione
della cosa giudicata avvenga già con la pronuncia della sentenza di
primo grado. Alla soluzione accolta nel codice del '42, si arrivò soprattutto
sulla base di considerazioni di carattere sistematico, articolate da Chiovenda,
il quale sosteneva che il nesso tra ordinarietà e straordinarietà
dell'impugnazione passata in giudicato, consisteva in ciò che dovevano
ritenersi impeditive nella formazione del giudicato tutte quelle impugnazioni
che si fondano su motivi che sono deducibili dall'esame stesso della sentenza.
Per converso tutte quelle che si fondano su motivi che non siano deducibili
dall'esame immediato della sentenza, devono considerarsi straordinarie, e non
impeditive della formazione del giudicato, il che vale per la revocazione
straordinaria i cui motivi sono tutti deducibili da eventi esterni rispetto
alla sentenza, il deferimento di documenti decisivi, la condanna del giudice
per dolo.
Però c'era una teoria sottostante anche
nella qualificazione del ricorso per cassazione, come impugnazione
straordinarie, e teoria che si fondava sulla radicale distinzione di due
categorie di mezzi d'impugnazione e cioè i mezzi d'impugnazione in
senso stretto e i mezzi di gravame, intendendosi per mezzo di
gravame l'appello, sul presupposto che essendo l'appello diretto otteneva nova
pronuncia sul merito della causa, l'appello andava in qualche modo a
qualificarsi come una sorta di naturale prosecuzione del giudizio di primo
grado, quindi, forse per questo, è ragionevole rinviare alla definizione
del giudizio d'appello alla preclusione della sua opposizione agli effetti del
giudicato, così come, allora, solo in tale momento si producevano gli
effetti esecutivi della sentenza di condanna, effetti esecutivi, che nel regime
previgente alla riforma del '90, potevano essere anticipati in determinate
occasioni, ma il provvedimento aveva natura latamente di provvedimento
cautelare, ordinariamente si producevano invece con la pronuncia della sentenza
in grado d'appello, ovvero con decorso del termine per la sua proposizione.
Mezzi di impugnazione tutti gli altri, in
quanto invece fondati sulla specifica deduzione di motivi di invalidità
della sentenza e diretti ad ottenere, in prima battuta, in modo evidente nel
ricorso per cassazione, ma in modo meno evidente comunque rinvenibile anche
nella revocazione, diretto ad ottenere fondamentalmente l'annullamento della
decisione impugnata, e cioè un giudizio di carattere rescindente riservandosi
ad una eventuale prosecuzione del giudizio innanzi allo stesso o qual'altro
giudice nel caso della Cassazione, la pronuncia di un giudizio rescissorio
avente di nuovo ad oggetto il merito della causa.
Questa diversa impostazione del problema dell'ordinarietà
dell'impugnazione, non è del tutto assente anche dal codice vigente, a
prescindere dalla circostanza che l'impostazione chiovendiana abbia perso
attualità, nella misura in cui a seguito di successive riforme anche il giudizio
d'appello va progressivamente perdendo la sua natura di naturale prosecuzione
del giudizio di primo grado, si può rinvenire qualche traccia
dell'antica distinzione tra impugnazione ordinarie e straordinaria, nelle
pieghe del testo del codice, perché il codice è stato scritto, ed in
particolare le norme dell'impugnazione sono state scritte da Piero Calamandrei,
che era il più importante sostenitore della tesi secondo cui il ricorso
per cassazione è un'impugnazione straordinaria.
Un esempio lampante, per non definirli dei
lapsus, in cui incorre Calamandrei nella redazione del codice, in cui si
è scelto di qualificare il ricorso per Cassazione come un'impugnazione
ordinaria, è quello dell'art. 338, esso dice che l'estinzione del procedimento
d'appello e di revocazione ordinaria, comporta il passaggio in giudicato della
decisione impugnata, salvo che ne siano stati modificati gli effetti con
provvedimenti pronunciati nel procedimento estinto.
Il meccanismo è abbastanza facile da
capire! L'estinzione per inattività o per rinuncia nel giudizio
d'appello, comporta passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, a
meno che, nel corso di giudizio di appello sia stata pronunciata una sentenza
non definitiva di riforma della decisione di primo grado, altrimenti il
giudizio d'appello si sarebbe concluso.
Il caso più chiaro è quello di
pronuncia in primo grado di rigetto della domanda, pronuncia in grado d'appello
di sentenza non definitiva di condanna generica del convenuto, la pronuncia di
questa decisione, anche se a portata caducatoria della pronuncia di primo
grado, tale da impedire un passaggio in giudicato della stessa che ormai
è stata riformata sia pure con sentenza parziale.
Discorso analogo si può fare per la
revocazione ordinaria, ma per il ricorso per Cassazione?
In prima battuta potremo pensare, forse, che
il procedimento per cassazione non si estingue, in effetti abbiamo accennato
alla circostanza che, il procedimento per cassazione è animato da
impulso ufficioso e quindi si ritiene passibile di interruzione soltanto in
casi estremi, e non tramite l'applicazione generalizzata della disciplina
dell'interruzione, e anche conseguentemente, si ritiene nell'ipotesi in cui sia
eccezionalmente avutasi interruzione o in cui sia disposta la sospensione del
procedimento di cassazione, può essere riattivato attraverso una
informale sollecitazione d'ufficio, senza bisogno di provvedere ad un atto di
riassunzione nel senso tecnico, però, questo non esclude affatto che il
procedimento per cassazione sia passibile di estinzione, anzi, come si evince
dal disposto degli artt. 390 e 391, è senz'altro ammissibile la rinuncia
al ricorso per cassazione, anzi diversamente dalla rinuncia agli atti compiuta
nel corso del giudizio di merito, la rinuncia è efficace senza bisogno
dell'accettazione dell'avversario, sicché, in questi casi è pacifico che
si determini l'estinzione del procedimento di cassazione. Possiamo dubitare che
ciò non comporti il passaggio in giudicato della decisione impugnata?
È chiaro che in una prima
applicabilità in cassazione di quella seconda parte della normache esclude il passaggio in giudicato
nell'ipotesi di pronuncia di sentenza non definitiva, perché nel procedimento
di cassazione non vi è spazio per la pronuncia di sentenza non
definitiva, eventualmente la Cassazione cassa con rinvio, ma la decisione di
cassazione con rinvio è sentenza definitiva del procedimento di
cassazione, cioè è sentenza cui la Suprema Corte chiude il
procedimento dinnanzi a se senza ulteriore prosecuzione delo stesso, il quale
va eventualmente riattivato dinnanzi al giudice di rinvio attraverso
riassunzione.
Quindi non vi è possibilità per
la pronuncia di sentenza non definitiva che impedisca il passaggio in giudicato
della decisione impugnata, però si deve riconoscere, che l'estinzione
del procedimento di cassazione fa sempre passare in giudicato la decisione
impugnata.
La mancanza nell'art. 338 del riferimento alle
conseguenze dell'estinzione del procedimento di cassazione, probabilmente si
spiega pensando che, nella mente di Calamandrei che scriveva queste norme, non
aveva senso parlare di passaggio della decisione impugnata a seguito
dell'estinzione del procedimento di cassazione, perché dal suo punto di vista,
la decisione impugnata con ricorso per cassazione era già passata in
giudicato.
Qualcuno ha anche riproposto in tempi recenti,
di ritornare all'antico regime e quindi di ripristinare il carattere
straordinario del ricorso per cassazione, ma qui cambierebbe qualcosa! Che in
ogni caso tra i motivi di ricorso per cassazione deve rientrare la violazione
di legge di cui all'ipotesi di violazione di legge.
Nel regime vigente, noi possiamo dire
tranquillamente, che il giudicato civile resiste allo ius superveniens,
cioè la volontà della legge compiuta attraverso il comando
giudiziale passato in giudicato, conserva la sua efficacia a dispetto
dell'eventuale sopravvenienza di una legislazione sostanziale che regoli
diversamente il rapporto anche nell'ipotesi in cui la legge sostanziale intenda
adire l'efficacia retroattiva, e quindi regolare anche i rapporti sorti e
prodottisi anteriormente alla sua entrata in vigore, ebbene, dicevamo, se il
rapporto sorto anteriormente all'entrata in vigore tuttavia regolato dalla
nuova legge, però è stato conosciuto e deciso in giudizio, e dal
giudizio è scaturita una pronuncia passata in giudicato, tale pronuncia
non è colpita dall'eventuale effetto ablativo dei diritti sorti da quel
rapporto per effetto della legislazione sopravvenuta. E lo stesso discorso vale
anche per l'ipotesiin cui lo ius
superveniens consista nella declaratoria di illegittimità
costituzionale della norma su cui si è fondata la decisione, perché,
appunto, la declaratoria di illegittimità costituzionale prevale solo
sul giudicato normale di condanna, ma non sulle altre ipotesi di giudicato.
Se, però, qualifichiamo il ricorso per
cassazione come impugnazione straordinaria e riteniamo il giudicato già
formato per effetto della sentenza d'appello, dovremmo anche ammettere che lo ius
superveniens, soprattutto quando consista in una declaratoria di
illegittimità costituzionale, possa essere fatto valere contro questo
giudicato, perché, il giudice del merito che ha applicato la norma
costituzionalmente illegittima, ha commesso una violazione di legge, perché la
legge stessa gli imponeva in quel caso di disapplicare la norma
costituzionalmente illegittima, o meglio, di rimettere la questione alla Corte
Costituzionale affinché questa provenisse ad una pronuncia declaratoria della
illegittimità costituzionale della norma , che non è di carattere
costitutivo, ma che accerta che la norma è sempre stata
costituzionalmente illegittima.
Quindi se vogliamo far valere lo ius
superveniens consistente appunto in una declaratoria di
illegittimità costituzionale e la sentenza è impugnabile con
mezzi di impugnazione, tra i quali motivi non rientra in generale la violazione
di legge, come il sistema attuale, quindi per esempio possiamo impugnarla solo
con la revocazione straordinaria, allora dovremo sulla base di un valido motivo
di revocazione straordinaria ottenere l'annullamento della decisione, e solo a
seguito di nuova pronuncia sul merito della controversia conseguire anche
l'applicazione della nuova disciplina dello ius superveniens e quindi la
disattivazione della norma costituzionalmente illegittima, ma se la sentenza
è passata in giudicato, tuttavia impugnabile per violazione di legge, a
questo punto, la circostanza che la norma applicata sia stata dichiarata
costituzionalmente illegittima, è di per se sola, valido motivo per
consentire l'annullamento della decisione e il nuovo esame del merito della
pronuncia. Quindi cambierebbe un pò il discorso che dovremmo fare, nel
trattare della resistenza del giudicato al superveniens, e in
particolare dovremo modificare i termini del discorso con riferimento
all'ipotesi della declaratoria di illegittimità costituzionale.
Tutto
questo discorso, peraltro, una volta chiarito, ci consente di capire che nulla
a che vedere con il concetto di straordinarietà, così come ora lo
abbiamo esaminato, il carattere di straordinarietà che si attribuisce al
cosiddetto ricorso straordinario per cassazione.
Si parla di ricorso straordinario per
cassazione con riferimento alla possibilità, ammessa da ormai più
di cinquant'anni dalla giurisprudenza, di proporre ricorso per cassazione
contro tutti quei provvedimenti che, per volontà del legislatore,
abbiano forma diversa da quella della sentenza, e tuttavia ne abbiano il
contenuto sostanziale, e non possano in altra maniera essere oggetto di
controllo in sede di legittimità.
Il principio si applica soprattutto a quella
congenie di ipotesi in cui che si è prevista in corso di questi anni, la
cognizione in camera di consiglio di diritti soggettivi, sul presupposto
che il provvedimento in camera di consiglio, sia passibile di reclamo, ma non
di impugnazione in sede di legittimità, sul presupposto che tale
provvedimento vi incida su diritti soggettivi, e quindi abbia un contenuto
sostanziale di sentenza, e sul presupposto, inoltre, che tale provvedimento non
sia in realtà, pienamente revocabile, nonostante quanto afferma il
disposto dell'art. 742, che esplicitamente ne prevede la revocabilità, e
ciò in quanto, per un verso si ritiene che il provvedimento sia revocabile
per il mutamento delle circostanze, con il che si consente una
revocabilità che tutto sommato finisce per differire pochissimo
dall'inefficacia del giudicato, perché come ricorderete non copre certamente le
fattispecie prodotte e perfezionatesi successivamente alla sua formazione,
salvo il caso della fattispecie perfezionata solo con la manifestazione di
volontà che avrebbe potuto essere resa anche in tempo utile per essere
dedotta nel giudizio che si è formato in giudicato.
Secondo altre tesi, i margini di
revocabilità dei provvedimenti in camera di consiglio sono più
ampi, ma la giurisprudenza ha finito per non soffermarsi più di tanto
sulla questione, perché ha ravvisato sostanzialmente i presupposti
dell'impugnabilità del provvedimento in un suo carattere decisorio e
definitivo anche inteso in senso alquanto lato, quindi decisorio non solo
perché pronuncia su diritti soggettivi, ma anche perché incide su diritti
soggettivi, intendendo tra l'altro, i diritti soggettivi in senso molto ampio,
talché si è preferito per ritenere che fosse comunque doveroso, sia pure
su linee argomentative diverse, ma alla fine, muovendo esplicitamente da questo
presupposto, garantire i controlli di legittimità anche su pronunce di
tutela di possesso, che tradizionalmente non si qualificava come diritto
soggettivo, e intendendo in senso ampio anche il requisito della
definibilità, per cui se si è in presenza della
possibilità di ottenere un controllo di legittimità attraverso un
diverso percorso, è chiaro che il ricorso per cassazione è escluso,
in modello di tutela sommaria come quello del decreto ingiuntivo passibile di
opposizione, e a seguito dell'opposizione formante di un giudizio a cognizione
piena che si conclude con sentenza impugnabile con i mezzi ordinari di
impugnazione, il ricorso per cassazione è inammissibile.
Ma con riferimento ai provvedimenti
bicamerali, e in generale sotto il profilo della questione della
revocabilità, l'amministrazione è stata di manica larga
soprattutto, perché molte volte ha tenuto conto di quella che era
sostanzialmente l'irreversibilità di fatto degli effetti del
provvedimento. un esempio abbastanza lampante è quello dei provvedimenti
che si rendono nel corso del procedimento fallimentare. Lì si ha un bel
dire che il provvedimento camerale di riparto è un provvedimento che non
esclude comunque che il creditore possa, allorquando il debitore è
tornato in bonis agire in via ordinaria e ottenere un giudizio a
cognizione piena sulla propria pretesa, al fine di conseguire magari per
l'intero quanto gli era dovuto, senza che abbia un carattere vincolante la
statuizione contenuta nel piano di riparto del giudice delegato. Però
una volta che il riparto è avvenuto la possibilità di recuperare
in via ordinaria dal debitore tornato in bonis ha poco di concreto,
quindi alla fine, il provvedimento del giudice delegato aveva di fatto il
carattere dell'irrevocabilità, ancorché inidoneo a produrre gli effetti
della vera e propria cosa giudicata.
Pertanto, per un verso la Cassazione
non ritiene indispensabile che il provvedimento abbia il carattere
dell'irrevocabilità proprio dell'idoneità della cosa giudicata,
ma è sufficiente che abbia il carattere di stabilità e una
potenziale reversibilità di fatto degli effetti del giudicato. Per altro
verso, la circostanza che il provvedimento risulti ricorribile per cassazione,
in questa maniera non implica quindi correlativamente, che il provvedimento sia
provvisto degli effetti del giudicato, come qualcuno aveva sostenuto, ossia,
dalla riproponibilità per cassazione non deriviamo la produzione degli
effetti del giudicato nell'ipotesi in cui il ricorso per cassazione non venga
proposto, sul presupposto che, naturalmente come la Corte Costituzionale ha
detto, in realtà non vi sia un diritto costituzionale ad ottenere la
formazione della cosa giudicata sulla propria pretesa, e che quindi il
legislatore goda di un certo margine di discrezionalità nel conurare
la stabilità del provvedimento a seconda delle caratteristiche della
situazione sostanziale tutelata, quindi, ben possa, con riferimento particolare
a quelle situazioni sostanziali che sono tipicamente caduche e soggette
facilmente a mutamenti e trasformazioni, il legislatore possa escludere del
tutto che si formi in senso pieno la cosa giudicata e prevedere invece che si
producano provvedimenti semplicemente stabili, ultrattivi, ma non pienamente
vincolanti, in particolare allorché si discuta di cause dipendenti o connesse
per pregiudizialità.
In tutti questi casi, parliamo di
straordinarietà del ricorso, non certo per intendere che la sua
proposizione non impedisca il passato in giudicato della decisione, anzi,
laddove comunque al provvedimento prende forma diversa da quella della sentenza
non impugnato, tuttavia la legge esplicitamente attribuisca l'idoneità
alla cosa giudicata, anche in questa ipotesi la proponibilità per
ricorso straordinario per cassazione sicuramente impedisce la formazione della
cosa giudicata, quindi il ricorso è straordinario semplicemente perché
si fonda non sull'applicazione della norma di legge ordinaria, ma sulla diretta
applicazione precettiva dell'art. 111 della Costituzione, sul presupposto che
queste norme di diretta applicazione precettiva, siano applicabili e
giustifichino la disapplicazione della disciplina contenuta nella legge
ordinaria, senza bisogno di conseguire una declaratoria di legittimità
costituzionale da parte della Consulta.
Queste norme costituzionali vengono
applicate e fatte prevalere sulla legislazione ordinaria direttamente dalla
giurisprudenza ordinaria senza bisogno dell'intervento della giurisprudenza
costituzionale, quindi la straordinarietà del ricorso è
esclusivamente in questo! Non può fondarsi sull'applicazione della legge
ordinaria. Il campo di applicazione privilegiato sono i provvedimenti a
contenuto decisorio che abbiano forma diversa da quella della sentenza, anche
se si può trovare qualche ipotesi di sentenza a cui si può
immaginareche sia applicabile il
ricorso straordinario per cassazione ed il caso più significativo
è quello della sentenza che decide sulla opposizione agli atti
esecutivi, che è un rimedio alla disposizione delle parti del
procedimento esecutivo allo scopo di far valere le irregolarità degli
atti del procedimento esecutivo, cioè qualsiasi deviazione dallo schema
legale degli atti del procedimento esecutivo e financo all'inopportunità
degli atti del processo esecutivo, talché si dice ad esempio che la parte
poterebbe proporre opposizione contro il provvedimento di fissazione della data
dell'udienza per la vendita dell'immobile, adducendo che in quel periodo i
prezzi salgono e se si rinvia la data dell'udienza si incassa di più.
È una valutazione di mera opportunità e non c'è nessuna
violazione di legge e neanche un'irregolarità in senso tecnico, perché
qui, non c'è una forma prevista dalla legge sia pure non a pena di
nullità, che sia pure stata disattesa, però la sentenza che
decide l'opposizione agli atti esecutivi è qualificata dall'art. 618,
come non impugnabile.
Verrebbe naturale, a questo punto,
applicare il disposto dell'art. 111 Costituzione, salvo che qualcosa si
potrebbe obiettare, e cioè si potrebbe sostenere che siamo in presenza
di provvedimento, che ha si la forma della sentenza, ma non ne ha la sostanza,
perché questo provvedimento non incide realmente sui diritti soggettivi e cioè,
su posizioni di vantaggio attributive di un bene della vita al di fuori del
processo. incide solo su principi di vantaggio che hanno propriamente un
contenuto processuale e cioè, il diritto al regolare svolgimento del
procedimento esecutivo, quindi esisterebbero argomenti per negare la
ricorribilità per cassazione di questa sentenza sulla base dell'art. 111
anche se prevalentemente viene riconosciuta su una base di una piatta
applicazione dell'idea meccanica, secondo cui se abbiamo una sentenza, la
stessa dovrà pur essere oggetto di un riesame di legittimità.
Dobbiamo invece ricordarci che si
qualifica come ricorso ordinario, e non come ricorso straordinario, quello che
si propone contro le sentenze che la legge dichiari inappellabili, posto che il
ricorso per cassazione è previsto dalla legge contro le sentenze
pronunciate in grado d'appello o in unico grado, quindi è applicabile in
questo caso l'art. 360. La distinzione non è puramente accademica,
perché c'è anche un risvolto pratico non rilevantissimo, ma pure
c'è, infatti, secondo la giurisprudenza più recente l'ambito dei
motivi deducibili tramite ricorso ordinario non coincide con l'ambito dei
motivi deducibili tramite ricorso straordinario, perché, col ricorso
straordinario, si può far valere la violazione di legge e tale concetto
può essere considerato comprensivo sia dei cosiddetti errori in
iudicando, cioè delle false applicazioni della legge
sostanziale, sia dei cosiddetti errori in procedendo, cioè
per delle false applicazioni della legge processuale, però con
riferimento al motivo di ricorso per cassazione che è rappresentato
dalla insufficiente, omessa o contraddittoria coltivazione su di un punto
decisivo della controversia, l'orientamento della giurisprudenza più
recente, è nel senso che, nell'ipotesi di omissione della motivazione
sia ammesso ricorso straordinario qualificandosi la stessa come violazione di
legge determinativa di nullità della sentenza, in quanto la sentenza
risulterebbe priva di un elemento indispensabile per il raggiungimento del suo
scopo. Ma nell'ipotesi in cui la motivazione sia semplicemente contraddittoria,
in questo caso non si verificherebbe una diretta violazione della legge
processuale e non sarebbe ammessa la proposizione del ricorso straordinario per
cassazione, sul piano pratico questa distinzione non ha grandissima portata,
perché i ricorsi molto raramente vengono fondati esclusivamente su vizi della
motivazione.
In qualche modo, la Cassazione ha
cercato di anticipare una proposta di riforma che la Cassazione stessa aveva patrocinato,
che prevedeva l'abrogazione del n. 5 dell'art. 360, quindi ha sfruttato la
possibilità offerta dal meccanismo del ricorso straordinario per
cassazione, per verificare gli effetti di questo eventuale cambiamento del
diritto vigente, ha verificato che gli effetti sarebbero scarsi e questa
proposta di riforma non è stata più coltivata, probabilmente
saggiamente, perché alla fine, il riesame della motivazione è
un'attività di controllo che va conservata, sebbene debba rimarcarsi
l'opportunità che venga compiuta senza che la Cassazione travalichi nel
riesame del merito della causa, quindi il riesame dei fatti sostanziali.
Tutto questo discorso vale per quei
provvedimenti che abbiano la sostanza della sentenza in forma diversa, ossia in
forma di ordinanza e di decreto per volontà di legge, questo
è molto importante per la giurisprudenza costante, diversa è la
soluzione da adottarsi in tutti quei casi in cui il provvedimento a contenuto
decisorio sia resa in forma diversa da quello della sentenza a causa di un
errore del giudice, il ragionamento è questo! Nell'ipotesi in cui
è il legislatore a volere che il provvedimento abbia sostanza di
sentenza, ma forma di ordinanza o di decreto, la legge costituzionale è
legge superiore e consente di disapplicare la volontà legislativa, ma se
questo effetto è il risultato di un errore del giudice, allora noi non
possiamo tollerare che un errore del giudice privi la parte di tutto il sistema
dei mezzi ordinari di impugnazione, quindi, il provvedimento è impugnabile,
ma non con ricorso in Cassazione, bensì con l'appello, cioè con
il normale mezzo d'impugnazione nei confronti della sentenza, proponendosi,
casomai, il ricorso per cassazione, naturalmente ordinario, nei confronti della
sentenza di appello.
L'ipotesi non del tutto pellegrina,
trova campo di applicazione e il più illustrativo dei casi è
questo! Muoviamo dall'ipotesi che una sentenza abbia condannato
l'Amministrazione universitaria a chiudere una finestra, sulla base di questo
provvedimento che ha natura di titolo esecutivo si promuove l'esecuzione
forzata dell'obbligo di fare, ai sensi dell'art. 612 occorre, con ricorso al
giudice del luogo dove dev'essere compiuta l'obbligazione, che tale giudice
determini le modalità dell'esecuzione. Poniamo l'ipotesi che nel
determinare le modalità di chiusura della finestra il giudice
dell'esecuzione disponga la costruzione di un muro. Con questo provvedimento,
con cui il giudice avrebbe dovuto semplicemente determinare la modalità
dell'esecuzione, è un provvedimento con cui il giudice abusivamente ha
anche modificato il contenuto dell'obbligo, perché fa chiudere non una ma
quattro finestre. Si tratta di provvedimento abnorme, in cui il giudice
ha abusivamente persino inassenza di
una domanda di parte, esercita un pieno potere decisorio, ma lo fa non perché
autorizzato dalla legge, e che anzi prevedeva che egli si limitasse a
determinare le modalità dell'esecuzione, e questo è il caso
tipico in cui la giurisprudenza ammette pacificamente la proposizione dell'appello
nei confronti di tale ordinanza, che pertanto esclude la proponibilità:
primo dell'opposizione agli atti esecutivi, perché, qui non si parla di
irregolarità, ma c'è un vero provvedimento decisorio, e poi
dell'opposizione all'esecuzione che sarebbe infondata, perché la parte
procedente è in possesso del titolo per agire in via esecutiva, e la
contestazione che muove a provvedimento del giudice è contestazione che
non implica mai che la parte creditrice non abbia il diritto di procedere a
esecuzione forzata.
Conclusivamente abbiamo:
-ricorso straordinario in varie
ipotesi bicamerale, ricorso in realtà straordinario forse
all'opposizione agli atti esecutivi;
-appello quanto si tratta di
provvedimenti abnormi;
-ricorso ordinario quando parliamo
di sentenze inappellabili, come le sentenze del giudice di pace pronunciate
secondo equità, la cui appellabilità comporta la
ricorribilità in Cassazione, ma in via assolutamente ordinaria.
Naturalmente, cosiccome le impugnazioni
ordinarie si fondano su motivi deducibili dall'esame della sentenza, il
termine per la loro proposizione decorre dalla notificazione della stessa,
o in mancanza dalla sua pubblicazione pervenuta tramite il deposito in
cancelleria.
Con riferimento alle impugnazioni
straordinarie i termini decorreranno dal successivo memento in cui
la parte è venuta a conoscenza del motivo di impugnazione straordinaria,
restando caso a parte quella dell'opposizione di terzo semplice che
è impugnazione proponibile senza termine alcuno, per le altre
ipotesi decorre comunque il termine.
La notificazione della sentenza,
ai fini della decorrenza del termine breve e di gravame è notificazione
che va effettuata ai sensi dell'art. 285 a norma dell'art. 170 comma 1°,
cioè al procuratore costituito per la parte nel precedente grado
di giudizio, naturalmente va notificata personalmente alla parte se è
rimasta contumace in quel grado di giudizio, ma la regola generale è
quella della notifica al procuratore ai fini della decorrenza del termine
breve, sicché la notificazione della sentenza ai fini dell'impugnazione
è un fenomeno che va tenuto distinto, dalla notificazione della sentenza
ai fini dell'esenzione, che va invece compiuta alla parte personalmente
allorquando la legge prescriva la notificazione del titolo esecutivo quale atto
prodromico all'esecuzione.
Ove poi, la parte dimostri di essersi
resa involontariamente contumace nel giudizio, risulta applicabile l'art. 327,
che gli consente di impugnare la sentenza in ogni tempo in tanto in quanto
dimostri di essere affetta da nullità qualsiasi notificazione che sia
stata effettuata nel corso del giudizio.
Legittimati attivamente
all'impugnazione sono, fatta parte l'opposizione di terzo, quanti siano stati
parti nel giudizio concluso con la decisione impugnata, intendendo la nozione
di parte in senso ampio, o in particolare con riferimento all'ipotesi di
sostituzione processuale di successione nel diritto controverso, poiché
l'avente causa del successore al diritto controverso è senz'altro
legittimato ad impugnare la sentenza anche se non è stato parte in senso
formale nel procedimento, ovviamente avrà l'onere di dare prova della
sua qualità ai fini dell'ammissibilità dell'impugnazione stessa;
fra le parti, inoltre sono legittimati ad impugnare le parti che si
qualifichino come soccombenti.
La questione della soccombenza come
requisito dell'impugnazione, si presenta diversamente a seconda del mezzo
d'impugnazione, cioè distinguere tra impugnazione e mezzi di gravame,
perché con riferimento all'appello occorre coordinare il regime della
soccombenza con le caratteristiche devolutive dell'appello civile e notiamo
l'art. 346. questa disposizione prescrive che le domande e le eccezioni non
accolte incorso del primo grado di
giudizio, debbono essere espressamente riproposte nel giudizio d'appello
dovendosi in mancanza presumerle rinunciate.
La circostanza che l'effetto della
mancata riproposizione della domanda e eccezione non accolta, sia quello della
rinuncia, implica che si tratti necessariamente di domande che non sono state
accolte, ma non sono state nemmeno respinte, perché se queste domande avessero
formato oggetto di un'esplicita pronuncia di rigetto, la parte avrebbe dovuto
impugnare propriamente quel capo di decisione, non impugnando non può
aversi una rinuncia, ma casomai la formazione del giudicato di rigetto di
quella domanda, e quindi può trattarsi solo di quelle domande sulle
quali legittimamente il giudice omette di pronunciare, e questo accade in tutte
quelle ipotesi in cui si può verificare l'assorbimento della pronuncia
sulla domanda, in tutte quelle ipotesi in cui sussistono nessi di
condizionamento tra le domande posti dalla legge, o anche posti dalle parti,
tali per cui l'accoglimento o il rigetto di una domanda esclude l'esame
dell'altra. Caso chiaro è quello delle domande di garanzia: se la
pronuncia sulla domanda principale è favorevole alla parte garantita,
non c'è ragione per provvedere sulla domanda di garanzia, perché
mancando ad esempio il presupposto della responsabilità civile dell'assicurato,
non c'è ragione per pronunciare sulla pubblicazione risarcitoria
dell'assicuratore. Questo nesso di condizionamento può essere del tutto
naturale o magari posto dalla parte che chiede esplicitamente al giudice di
pronunciare su di una domanda in via subordinata al rigetto o all'accoglimento
di altra domanda.
Le eccezioni, per regola generale con riferimento alla generalità del
sistema delle impugnazioni e quindi comprensivo anche delle impugnazioni in
senso stretto si deve ritenere che sia soccombente soltanto quella parte che
abbia visto rigettare, almeno in parte, una propria domanda o accogliere,
almeno in parte, una domanda proposta contro di se. Quella parte che invece, ha
visto rigettare l'eccezione e però, accoglierne un'altra con conseguente
rigetto della domanda di merito, quindi la parte convenuta che sollevando
più eccezioni se ne vede respingere una e accoglierne un'altra, questa
parte non è soccombente, perché non esiste nessuna, almeno parziale
accoglimento della domanda nei sui confronti, e quindi questa parte non
è legittimata a prendere l'iniziativa di impugnare la sentenza.
In questo caso, però, l'art.
346 prescrive che, al fine di ottenere un nuovo esame dell'eccezione
esplicitamente rigettata, il convenuto vittorioso nel merito abbia comunque
l'onere di riproporre la questione, volendosi ritenere la stessa rinunciabile
in mancanza di tale riproposizione.
L'ambito di applicazione della
disciplina della riproposizione copre parti che non sono coperte da quello
della disciplina dell'impugnazione, sicché, impugnazione e riproposizione sono
fenomeni diversi, talché termini rigorosi sono prescritti per l'impugnazione
della sentenza, ma fino alla riforma del '90, si riteneva che la riproposizione
potesse aver luogo per tutto il corso del giudizio d'appello fino all'udienza
delle precisazioni delle conclusioni in appello, non essendo prescritta
esplicitamente alcuna preclusione, talché molti facevano osservare che vi era
una fortissima sperequazione in danno dell'appellante e a favore della parte
vincitrice in primo grado l'appellante doveva tirare fuori tutte le sue ragioni
di riesame in limite litis, mentre l'appellato con riferimento alle
eccezioni esplicitamente rigettate aveva tutto il tempo nello svolgimento del
giudizio di appello per ricordarsi di riproporre l'eccezione in precedenza
respinta.
Col nuovo regime, alcuni hanno
sostenuto, che applicandosi, per effetto del rinvio previsto dall'art. 359
anche in appello la disciplina delle preclusioni nel giudizio di primo grado,
che si dovrebbe interpretare la nuova disciplina nel senso che anche le
riproposizione debbano, a pena di decadenza, compiersi con la sa di
risposta , o tuttalpiù nella prima udienza del giudizio d'appello,
però si tratta di interpretazioni un po' forzate, e non è detto
effettivamente che la giurisprudenza giunga ad arrivare a queste conclusioni.
Questa disciplina della
riproposizione ci consente di dire in tutta tranquillità, che privo
della legittimazione a impugnare autonomamente la sentenza è il
convenuto che si sia visto respingere un'eccezione, tuttavia, l'appello
è provvisto di questo effetto devolutivo, ma il ricorso per cassazione
sembrerebbe di no! Non esiste nella disciplina del procedimento per cassazione
una norma corrispondente all'art. 346, e qui il problema della parità
delle armi, allora, si potrebbe porre dal punto di vista della parte vittoriosa
con maggior comodo. In particolare, quando si tratti di eccezioni di rito,
perché, se la Cassazione non riesaminando un'eccezione di rito, perviene ad
accogliere il ricorso per un motivo riferito ad un errore illimitato, e
pertanto cassa la sentenza favorevole al convenuto, rinviando al giudice del
merito affinché pronunci nuovamente sulla domanda, e potenzialmente l'accolga,
dinanzi a quel giudice di rinvio, l'eccezione di rito riferita alle precedenti
fasi del giudizio, viene ad non essere più spendibile, perché la
Cassazione, cassando con rinvio proprio formulando il principio di
diritto a cui il giudice di rinvio deve attenersi, secondo la giurisprudenza,
implicitamente, ha anche accertato la regolarità dello svolgimento del
procedimento sino a quel momento, poiché prevale la pregiudizialità
interna fra questioni di rito e questioni di merito, tale per cui, la pronuncia
sull'errore in iudicando può aver luogo soltanto in tanto in
quanto, non sussistano errori in precedendo, e quindi, la parte
vittoriosa del tutto orbata dalla possibilità di coltivare nel corso del
procedimento l'eccezione processuale rigettata nelle precedenti fasi del
giudizio, perciò, per consentire alla parte vittoriosa questa
coltivazione, la Cassazione ha escogitato una strana soluzione! Quella di
consentire a questo soggetto, di impugnare la sentenza, ma non autonomamente,
non in via principale, bensì in via incidentale, cioè a seguito
dell'impugnazione avversaria e qualificando questo ricorso incidentale proposto
da una parte, che in realtà non è soccombente, ma ha solo visto
risolvere a suo sfavore una fra più eccezioni, ha qualificato questo
ricorso incidentale come ricorso incidentale condizionato. Ma condizionato da
che cosa?
Qui, il condizionamento del ricorso
non dipende da un atto di volontà della parte, dipende dalla circostanza
che questa parte è priva della legittimazione ad impugnare
autonomamente, e si può immaginare che questo ricorso sia condizionato
alla fondatezza del ricorso principale, che sarebbe la tesi più
rigorosa, ma questi ricorsi incidentali avevano per oggetto questioni di rito,
e in particolare questioni di rito che erano rilevabili d'ufficio, perché poi
il terreno privilegiato soprattutto è quello delle questioni di
giurisdizione, sicché, le parti tendevano ad avvalersi del rimedio del ricorso
incidentale condizionato per coltivare queste questioni comunque importanti,
dal punto di vista della Cassazione, perché meritevoli di pronuncia da parte
delle Sezioni Unite ecc., la Cassazione ha finito per ritenere condizionati
alla vera ammissibilità del ricorso principale, addirittura l'esame del
ricorso incidentale condizionato ed era consentito che questo venisse valutato
in via prioritaria rispetto all'esame del ricorso principale, probabilmente si
è trattata di un a piccola forzatura, funzionale soprattutto a risolvere
il problema che vi sarebbe altrimenti posto dell'andirivieni fra sezioni
semplici e sezioni unite a seguito dei vari passaggi di valutazione di
fondatezza del ricorso principale da parte delle Sezioni Semplici, allora il
rinvio alle Sezioni Unite della pronuncia sull'incidentale condizionato in tema
di giurisdizione, che avrebbe complicato lo sviluppo del procedimento, sicché,
è finito in più occasioni per ammettere di trattarli non
diversamente dalle impugnazioni incidentali vere e proprie e quindi le
impugnazioni non condizionate.
Questo ha ulteriormente suggerito lo
sviluppo di vari ragionamenti dottrinali, tendenti a riformulare il concetto di
soccombenza ed affermare che dovesse qualificarsi come parte soccombente anche
quella parte che avesse visto risolvere a suo sfavore alcune eccezioni, e in
particolare, secondo alcuni, se vi fosse astato rigetto delle questioni di rito
o accoglimento di quelle di merito, la parte avrebbe avuto anche un diritto a
conseguire un rigetto in rito, anziché nel merito o viceversa, a mio avviso
questo tipo di interpretazione non può essere accolto, perché, la parte
che risulta vittoriosa nel merito, anche se ha visto risolvere a suo sfavore la
questione di rito, non si può qualificare come parte soccombente, e non
può invocarsi un diritto della parte ad ottenere una pronuncia di
rigetto in rito della domanda, anche in considerazione del principio per cui il
processo deve tendere, per quanto possibile, alla pronuncia della sentenza di
merito, in vista della sua capacità preclusiva della sua riproposizione
della domanda, e la definizione del processo in mero rito è sostanzialmente
un fallimento del meccanismo e che bisogna evitare o di ammettere soltanto,
allorché sul piano sostanziale resti comunque esclusa la riproponibilità
della domanda, da limitare a casi particolari e eccezionali non del tutto,
certamente un'ipotesi ci sarà, però mi sembra discutibile
la tendenza di stendere l'ambito di applicazione del concetto di soccombenza e
la legittimazione alle impugnazioni, al solo scopo di favorire il diritto della
parte al conseguimento di una pronuncia di rigetto della domanda di mero rito.
Questioni particolari, poi si pongono
e sono diventate di attualità, con riferimento alla legittimazione
all'impugnazione dell'interventore adesivo dipendente, infatti
tradizionalmente, si pensava che l'interventore adesivo dipendente non potesse impugnare
la sentenza autonomamente, dovendosi a lui applicare il regime della disciplina
dell'impugnabilità della sentenza da parte del PM nelle cause in cui non
è titolare del potere di azione.
Gli orientamenti di riforma
più recenti, sono tutti nel senso di ammettere, invece, che
l'interventore adesivo dipendente possa autonomamente impugnare la sentenza, e
quui probabilmente, si è andati da un eccesso all'altro! Perché nella
vasta congenie delle ipotesi che si possono qualificare come interventi adesivi
dipendenti, era probabilmente eccessivo escludere sistematicamente la
facoltà di impugnazione autonoma dell'interventore adesivo dipendente,
allorquando, si trattasse per esempio di quel terzo che avrebbe subito gli
effetti della sentenza resa inter alios, cioè, nel caso classico
del subconduttore, giusto il disposto dell'art. 1595.
L'interventore adesivo dipendente
è anche in questo caso, come lui subirebbe gli effetti del giudicato iter
alios alla stessa stregua a cui subirebbe gli effetti di un negozio inter
alios e ne potrebbe ridiscuterne gli effetti, perché, l'ipotesi che
l'interventore adesivo dipendente impugni autonomamente non è
esplicitamente, e tutta da coordinare, con il regime di litisconsorzio nei casi
di gravame, cioè, dobbiamo sempre ritenere che l'impugnazione debba
essere proposta nei confronti di tutte le parti, perché se così non
fosse ci si dovrebbe porre il problema se il giudice dell'impugnazione possa
riesaminare la statuizione riferita alla parte adiuvata al solo interesse della
parte adiuvante, e in che misura l'eventuale accorgimento potrebbe riflettersi
sulla posizione sostanziale della parte adiuvata, quindi è
un'innovazione molto delicata.
Delicatissime, sono poi, i problemi
che sul piano pratico spesso si pongono per l'individuazione della
legittimazione passiva all'impugnazione, perché! È banale dire che sono
legittimate passivamente la parte vittoriosa della precedente fase del
giudizio, ma problemi partici enormi e molto frequenti si pongono, tutte quelle
volte che sopravvenga una vicenda successoria, perché qui, dal punto di vista
della legittimazione attiva, la questione è più semplice, poiché
la parte che vuole impugnare da prova della sua qualità, se vuole farlo,
è nel suo interesse e lo fa! La parte legittimata passivamente cerca di
nascondersi! Non facilita volentieri la vita dell'avversario che vuole
impugnare la sentenza che l'ha vista vincere, quindi se questa parte viene
interessata da una vicenda successoria, è facile che non si renda parte
diligente nell'informarne l'avversario.
Se la vicenda successoria è
sopravvenuta nel corso del giudizio precedente che ha colpito una parte
costituita e questa ha omesso la dichiarazione in udienza alla produzione
dell'effetto interruttivo e la riassunzione del processo nei confronti dei
successori non è avvenuta, ecco che la giurisprudenza viene incontro
all'avversario, e dice:" beh! Costui ha il diritto di considerare
processualmente ancora in vita l'avversari, finché l'evento non viene fatto
risultare in processo!" e quindi, è legittimamente e validamente
proposta l'impugnazione nei confronti della parte non più esistente
anche se l'avversario ha comunque appreso daliunde dell'evento, con un
po' più di difficoltà e solo recentemente la giurisprudenza
è giunta a questa conclusione, anche con riferimento a quelle
fattispecie determinative di mutamento della parte che sono invece agevolmente
conoscibili dall'avversario, cioè il conseguimento della maggiore
età, ma la giurisprudenza ha finito per generalizzare questo principio dell'ultrattività
per la legittimazione passiva della parte.
Dato che il diritto positivo che
consente di giungere a questa conclusione è inequivocabilmente
applicabile alle sole ipotesi successorie prodottesi fra la modificazione della
citazione e la chiusura della discussione o l'evento equivalente alla chiusura
della discussione a seconda delle particolari modalità della fase
decisoria scelte dal giudice o dalle parti, comunque fin tanto che vi era la
possibilità per le parti di introdurre a processo la notizia. Ma se
è successo dopo? Con riferimento agli eventi interruttivi prodottisi
dopo la chiusura della discussione, battaglie enormi del codice di rito
regolano la proroga dei termini per l'impugnazione, la necessità di
notificare nuovamente la sentenza ai fini della decorrenza del termine breve
alle parti sopravvenute, cioè agli eredi collettivamente e
impersonalmente se è il caso, ma sembrano non prevedere
l'ultrattività della persistenza in vita della parte ai fini del
processo e quindi se capita che l'avversario deceda nel corso del giudizio, ma
il suo procuratore omette di dichiarare, posso impugnare contro di lui, ma se
l'avversario muore dopo la chiusura della discussione, dovrò rivolgermi
esclusivamente ai successori.
La legge mi viene incontro, perché,
se avevo un termine breve per l'impugnazione questo termine viene meno e
comincia ad operare nuovamente il termine annuale che inoltre, se l'evento si
verifica durante gli ultimi sei mesi del termine annuale, anche il termine
annuale è prorogato e da tempo di andare alla ricerca di quali siano le
parti legittimate passivamente alla impugnazione, però non mi consente
di avvalermi seccamente del dante causa del de cuius come legittimato
passivo. Qui in passato c'era ogni anno un fiume di sentenze perché si cercava
sempre, e qualche volte si riusciva ad ottenere che la Cassazione in qualche
modo desse una mano, quando ci si era sbagliato sull'individuazione del
legittimato passivo.
A seguito della riforma del '90
c'è stato un cambiamento importante, cioè quello della disciplina
degli effetti della sanatoria per il raggiungimento dello scopo delle
nullità di citazione derivanti dall'erroneità dell'individuazione
della controparte, e la legge previgente alla riforma del '90, questo tipo di
vizio della vocatio in ius, era vizio non sanabile retroattivamente,
pertanto, coloro cui venisse notificata un'impugnazione o che avessero notizia
della proposizione dell'impugnazione, nei confronti del loro dante causa
deceduto durante il termine per impugnare, accordamente attendevano di
costituirsi in giudizio, che fosse decorso il termine per impugnare, perché a
quel punto, si costituivano in giudizio al solo scopo di eccepire la
sopravvenuta inammissibilità del gravame.
A seguito della riforma dell'art.
164, oggi, queste ipotesi di nullità della citazione, sono ipotesi
passibili di sanatoria retroattiva per rinnovazione o costituzione del
convenuto e quindi si consente alla parte che abbia sbagliato avversario di
restare in partita, se ha notificato tempestivamente alla parte non più
esistente, purché, ovviamente, se ne accorga in tempo utile, o ci sia la
costituzione dei successori provvista di efficacia sanante, ovvero, una
rinnovazione su ordine del giudice della notificazione dell'impugnazione idonea
a produrre effetti sananti.
I punti essenziali della
acquiescenza, sono innanzitutto l'accettazione della sentenza da parte
della parte soccombente, accettazione che può essere espressa o
può essere anche tacita, cioè compiuta per fatti concludenti,
però bisogna stare attenti perché i fatti concludenti sono molto
difficili da realizzare, perché, un comportamento incompatibile con la
volontà di impugnare la sentenza, è difficile che venga reso,
nella prassi l'unico caso che si presenta con una certa ricorrenza, è
quello dell'adempimento della prestazione a cui la parte è stata
condannata in sentenza, ma attenzione! Questo comportamento può
acquisire il valore della acquiescenza solo se la sentenza non è
provvista di efficacia esecutiva e quindi, in base al regime oggi vigente,
molto raramente visto che normalmente le sentenze sono esecutive, perché se la
sentenza è esecutiva, il amento della prestazione può avere
anche una giustificazione diversa dalla volontà di accettare la
sentenza, e cioè può essere motivato dall'intendimento di evitare
anche le spese dell'esecuzione che già potrebbe essere promossa, quindi
può avere valore di acquiescenza solo l'adempimento della prestazione
previsto in sentenza che non sia esecutivo.Queste due ipotesi, sono ipotesi di acquiescenza propria. Il 2°
comma dell'art. 329, tratta, invece il fenomeno dell'acquiescenza impropria,
stabilendo che, l'impugnazione di una parte soltanto della sentenza implica
acquiescenza alle parti non impugnate che siano autonome e indipendenti
rispetto alla parte impugnata, perché se si tratta di parti dipendenti,
l'accoglimento dell'impugnazione ne estenderà i suoi effetti anche a
quelli parti come disposto dall'art. 336, in materia di effetto espansivo della
sentenza di riforma o di Cassazione.
Se si tratta di parti pregiudiziali?
Qualcuno è giunto a sostenere che l'impugnazione del solo capo
dipendente risulterebbe inammissibile, perché già vincolato dalla
decisione del capo pregiudiziale, in realtà questo è un cattivo
modo di esporre i problemi, perché deve senz'altro ritenersi ammissibile
l'impugnazione del capo dipendente, ovviamente, tale impugnazione non implica
la ridiscussione del capo pregiudiziale, però può implicare che
si ridiscuta se effettivamente la decisione del capo pregiudiziale imponga una
decisione di quel contenuto del capo dipendente o non magari una decisione di
contenuto quantitativamente diverso, quindi non si può generalizzare una
simile idea, potrà tuttalpiù capitare che certe impugnazioni
siano formulate in guisa tale da risultare inammissibili per
impossibilità di accoglimento del loro oggetto in forza della formazione
del giudicato, più facilmente, e lo vedremo tra breve, nelle ipotesi
litisconsortili.
Qual è l'effetto della
acquiescenza? Spesso si dice è il passaggio in
giudicato, a volte si dice inammissibilità dell'impugnazione, ma
è importante sottolineare una cosa, che anche una volta prestata
acquiescenza può capitare che comunque la parte sia legittimata a
impugnare per l'effetto della cosiddetta impugnazione incidentale tardiva, tale
disciplina, posta dall'art. 334, è diretta a favorire l'accettazione
della sentenza. A tale scopo, la disciplina cerca di evitare che la parte
parzialmente soccombente sia indotta a impugnare, in prossimità della
scadenza dei termini per l'impugnazione, per non correre il rischio che sia
soltanto l'altra parte a farlo, cioè, se entrambe le parti potessero
soltanto impugnare entro i termini, in prossimità della scadenza dei
termini ciascuna delle due parti che magari accetterebbero la sentenza, si sentirebbe
indotta a proporre comunque impugnazione per evitare il rischio di essere
l'unica delle due a non avere impugnato, quindi la legge consente, alla parte
contro cui sia proposta l'impugnazione, direttamente o per effetto del
provvedimento d'integrazione del contraddittorio ai sensi dell'art. 331 che
vedremo più avanti, di impugnare la sentenza anche se sono scaduti i
termini per il gravame e anche se questa parte ha prestato acquiescenza. Questa
impugnazione, che ha il carattere dell'impugnazione incidentale proposta su
processo, qualificandosi come tardiva è caratterizzata da un accentuato
grado di dipendenza dall'impugnazione principale, perché lo stesso art. 334
prescrive che l'impugnazione principale dichiarata inammissibile allora ha anche
l'impugnazione incidentale tardiva perde i suoi effetti, e ciò in
quanto, la premessa dell'ammissibilità stessa dell'impugnazione tardiva
è che sia validamente proposta un'impugnazione principale.
Ma sottolineare che questo fenomeno
di dipendenza venga esteso alle fattispecie d'improcedibilità
dell'impugnazione, o alle fattispecie di estinzione o rinuncia all'impugnazione
principale, perché in questo caso, innanzitutto il presupposto
dell'impugnazione incidentale tardiva rimarrebbe fermo perché sarebbe pur sempre
stata validamente proposta l'impugnazione principale e poi, perché, dal punta
di vista dell'equilibrio tra le parti risulterebbe incongruo, il meccanismo,
potesse essere annullato una successiva impugnativa invalidante dell'impugnante
principale, perché le fattispecie di improcedibilità sono
sostanzialmente ipotesi di inattività della parte impugnante successiva
alla proposizione dell'impugnazione, cioè l'ipotesi che nel giudizio di
primo grado verrebbero trattate le fattispecie produttive di estinzione eccepibile
soltanto ad istanza di parte, in sede d'impugnazione essendoci già una
sentenza sono direttamente determinative del rigetto in rito dell'impugnazione
le improcedibilità, quindi la mancata costituzione in termini
dell'appellante, ecc.., pertanto, in queste ipotesi si consentirebbe
all'impugnante principale, vista la malaparata alla luce dell'impugnazione
incidentale tardiva avversa, di fare marcia indietro a discatipo
dell'impugnazione avversaria che pure è stata proposta validamente, rispetto
alle condizioni della sua riproponibilità, quindi, le poche occasioni in
cui la giurisprudenza ha detto diversamente, non debbono indurre alla
conclusione che l'impugnazione incidentale tardiva dipenda solo
dall'ammissibilità e non altro, dell'impugnazione principale.
Si diceva tardiva incidentale,
cioè proposta nello stesso processo. A questo propositi occorre fare un
po' di chiarezza sulla disciplina dell'impugnazione incidentale e in
particolare sull'onere dell'impugnazione in via incidentale.
Ci sono due norme apparentemente in
contraddizione, abbiamo cioè l'art. 333 che ci dice che proposta
un'impugnazione principale, tutte la altre impugnazioni contro la stessa
sentenza vanno proposteappena di
decadenza nello stesso processo, allo scopo di favorire l'obiettivo della
concentrazione in un unico procedimento di tutte le impugnazioni contro la
stesa sentenza. Leggendo l'art. 333 si è indotti a pensare che se una
parte fa una citazione d'appello l'avversario può a sua volta proporre
appello soltanto in quello stesso processo avviato con la citazione d'appello
avversaria, attraverso al sa di costituzione nello stesso procedimento, e
non potrebbe, invalidamente invece, la parte proporre altra citazione d'appello
instaurando il separato procedimento per la propria impugnazione distinto da
quello avviato con l'impugnazione avversaria. La separata citazione d'appello
sarebbe inammissibile!
Però, l'art. 335, subito dopo,
ci dice una cosa che sembra in contraddizione! Le impugnazioni proposte
separatamente contro la stessa sentenza devono essere riunite anche d'ufficio,
ma se devono essere riunite anche d'ufficio allora sono ammissibili! Come
sciogliere il dilemma? Si può sciogliere in modi diversi! E anche qui
una ricostruzione tendente a favorire in un unico procedimento delle
impugnazioni proposte contro la stessa sentenza, quella più ostile alle
impugnazioni separate, dice l'art. 335 che si applica in casi molto
particolari, per esempio nelle ipotesi in cui si deve tenere conto dello spazio
di tempo che incorre fra il momento in cui la parte esaurisce le proprie
attività per la proposizione dell'impugnazione e il momento in cui la
proposizione dell'impugnazione stessa si perfeziona. C'è uno spazio di
tempo che non è più sotto il controllo della parte, perché l'impugnazione
deve essere notificata si consegna all'ufficiale giudiziario e il tempo che
l'ufficiale giudiziario ci mette a consegnarla e tempo che la parte non
può disporre. Orase la parte
consegna all'ufficiale giudiziario, torna casa,e in quel momento riceve la notificazione dell'impugnazione avversa, la
sua impugnazione non è stata ancora perfezionata, perché deve essere
ancora consegnata all'avversario, ma io non ho più il controllo a quel
punto sull'impugnazione, ho già fatto quello che dovevo fare per
promuoverla, sono incolpevole della circostanza che l'impugnazione sia proposta
avviando un processo separato, e allora in questa ipotesi, avverrà la
riunione d'ufficio e non è possibile sanzionare la parte per una
decadenza in cui è incorsa per effetto della impossibilità di
controllare i tempi di perfezionamento della sua iniziativa processuale, poi,
secondo alcuni, sarebbero possibili delle impugnazioni separate, quando si
riferiscano a cause cumulate nello stesso processo, ma connesse soltanto impropriamente.
La giurisprudenza, invece, è
molto generosa, ed è molto aperta ad ammettere che siano avviati
procedimenti separati all'impugnazione contro la stessa sentenza, e intende il
riferimento alla decadenza di cui all'art. 333, nel senso che si possa avere
decadenza in tanto in quanto, vengano violati dei termini e non intanto in
quanto vengano avviati procedimenti separati, quindi il significato dell'art.
333, sarebbe inteso nel senso che, proposta l'impugnazione principale ogni
altra impugnazione dev'essere proposta entro i termini per proporre
l'impugnazione incidentale nel processo avviato con l'impugnazione principale
anche se, le modalità di proposizione in non sono quelle della
proposizione in via incidentale, ma della proposizione separata.
Quindi tornando al caso dell'appello!
Proposta una citazione all'appello, ipotesi magari di sentenza non notificata e
decorrenza del termine annuale, l'impugnazione incidentale nello stesso
procedimento di appello, dev'essere proposta, pena di decadenza, con la
sa di risposta in sede di costituzione tempestiva, e quindi 20 giorni
prima della prima udienza fissata per il procedimento stesso di appello.
Secondo la giurisprudenza è quindi validamente proposta un'altra
impugnazione, anche con separata citazione d'appello, purché sia proposta entro
quello stesso termine della sa di risposta in sede di costituzione
tempestiva, anche se con ciò si sono avviati due procedimenti separati
potendosi provvedere, appunto, alla riunione d'ufficio degli stessi.
Una parte della dottrina, aveva
tentato di proporre una soluzione di compromesso tra le opposte esigenze che
favorissero un po' di più la concentrazione delle impugnazioni contro la
stessa sentenza, dicendo, sì, sarà pure validamente proposta la
citazione d'appello successiva ad altra citazione d'appello, ma proposta entro
i termini per la sa di costituzione nel giudizio di appello
precedentemente avviato, purché, sempre entro quel termine per la sa di
risposta in sede di costituzione tempestiva, la parte richiami la
riproposizione del suo appello con separata citazione e in questo modo renda
possibile l'esercizio del potere ufficioso di riunione. Però la
giurisprudenza non ha voluto accettare neanche questa! È giunta sino ai
limiti più estremi, la possibile interpretazione di questa disciplina,
ammettendo quindi, per un verso in riferimento all'impugnazione
contemporaneamente pendente ai fini di una valida riunione ufficiosa delle due
impugnazioni possa avvenire anche ben oltre il decorso del termine della
tempestiva costituzione del giudizio di impugnazione preventivamente promosso,
e non solo, in realtà, la riunione è esclusa soltanto allorché,
uno dei due procedimenti venga definito e quindi fin tanto che pendono
entrambi, e non solo! Sempre che ovviamente anche il secondo sia stato proposto
tempestivamente, cioè entro il termine per la sa di costituzione e
risposta, la definizione di uno qualsiasi dei due procedimenti d'appello, anche
quello proposto successivamente, rende improcedibile l'altro! Anche ove si
tratti di quello proposto preventivamente! Naturalmente, è chiaro, che
la parte vittoriosa del procedimento preventivamente definito, si trova, a
questo punto, ad avere l'onere di far valere la preventiva definizione
dell'altro procedimento in quello ancora pendente, perché se non lo fa, e si
conclude anche l'altro, allorquando si tratterà , sul piano dei limiti
cronologici del giudicato di discutere quali dei due provvedimenti prevalga,
giungeremo alla conclusione, se ricorderete, che a prevalere sarà il
successivo in ordine di tempo, quindi c'è una successiva altalena di
oneri di far valere cotanto assorbimento, comporta alla fine la soccombenza
della lite , perché, se io ometto anche di far valere la precedente definizione
e viene definito l'altro, è l'altro che prevale, perché successivo,
perché ho avuto la possibilità e non l'ho sfruttata.
Quindi, complessivamente il sistema
dell'impugnazione incidentale tardiva ci consente di osservare questo! Che la
proposizione dell'impugnazione, se ci sono ancora termini molto alti per
l'impugnazione avversaria, li accorcio! Perché costringe l'avversario a
impugnare, magari in via separata, ma pur sempre entro i termini per poter
impugnare in via incidentale in quel procedimento, mentre se i termini stanno
per scadere, li allunga.
Nel primo caso, l'impugnazione anche
separatamente proposta verrà trattata alla stregua dell'impugnazione
incidentale tempestiva, nel secondo caso ovviamente l'impugnazione potrà
essere proposta solo come impugnazione incidentale tardiva essendo decorso il
termine ordinario per l'impugnazione nel contesto dello stesso giudizio di
gravame, quindi tutto questo argomento che all'esame introduco con la domanda:
"l'impugnazione incidentale tardiva si può proporre dopo i termini, ma
fino a quando? Quanto tardiva può essere la tardiva?" non può
essere più tardiva dell'impugnazione incidentale, per cui è
tardiva rispetto ai termini dell'impugnazione principale, ma deve essere sempre
tempestiva come impugnazione incidentale.
Una questione abbastanza delicata
è quella se possa proporre impugnazione incidentale tardiva, se possa
essere proposta dalla parte che abbia prestato acquiescenza impropria. La legge
non distingue esplicitamente, però la giurisprudenza dice, che ciò
non è possibile, perché, il caso che stiamo immaginando e quello in cui
una parte propone l'impugnazione principale, l'altra parte propone impugnazione
incidentale, e allora l'impugnante principale vuole investire ulteriori capi
della decisione, dell'impugnazione tramite l'impugnazione incidentale tardiva
legittimata dalla impugnazione incidentale avversa. La giurisprudenza tende a
dire di no, perché tende a ritenere che i motivi di gravame debbano essere
esaustivamente enunciati con la proposizione dell'impugnazione, e quindi non
sia possibile dedurre nuovi motivi di impugnazione successivamente perché si
verificherebbe un fenomeno di consumazione del diritto d'impugnazione.
Rispetto a questa tesi, credo, si
possano muovere diverse obiezioni, oltre quella banale che la legge, appunto
non distingue allorquando legittima l'impugnazione incidentale tardiva la parte
che abbia prestato acquiescenza, non distingue tra acquiescenza propria e
impropria! Inoltre, è vero che in alcune norme codicistiche si conura
la consumazione dell'impugnazione, però, questo fenomeno è
fenomeno che discende dalla dichiarazione di illegittimità o
improcedibilità dell'impugnazione proposta che comporta, appunto,
l'effetto della non riproponibilità della stessa (ne abbiamo parlato nel
regolamento di giurisdizione che non essendo un'impugnazione disciplina a cui
l'effetto consumativi non si applica, cosicché può essere reiterata),
per le impugnazioni ordinarie in appello e per ricorso in Cassazione è
espressamente esclusa questa possibilità, si, ma per effetto della
declaratoria di inammissibilità, checomporta non riproponibilità della stessa e che incidentalmente,
osservo, non implica affatto, come a volte si dice,passaggio in giudicato della decisione
impugnata, può darsi di si e può darsi di no! Perché se
l'impugnazione è dichiarata inammissibile, perché non è il mezzo
di impugnazione proponibile contro quella sentenza, ma non sono ancora decorsi
i termini per proporre un mezzo d'impugnazione effettivamente esperibile contro
quella sentenza, quella sentenza non è affatto passata in giudicato!
Cioè, se io propongo appello contro sentenza del giudice di pace che ha
pronunciato secondo equità, il mio appello viene dichiarato
inammissibile, non potrà essere più riproposto, ma quella
sentenza non è passata in giudicato, perché ricorribile per Cassazione,
comunque a parte questo inciso, di effetto consumativi si parla in riferimento
alla declaratoria di inammissibilità, ma la fattispecie che stiamo
evocando è fattispecie in cui non c'è alcuna declaratoria di
inammissibilità.
Costantemente la giurisprudenza
interpreta questa disciplina, ammettendo che nell'ipotesi in cui una parte
proponga impugnazione, per esempio non si costituisca in giudizio
determinandone l'improcedibilità, ma pendano ancora i termini per
proporre l'impugnazione e tale improcedibilità non sia stata ancora
dichiarata dal giudice, l'impugnazione possa essere validamente proposta senza
problema alcuno, perché l'effetto consumativo discende solo dalla dichiarazione
e quindi, risono dimenticato di costituirmi tempestivamente, posso ricominciare
daccapo se i termini sono scaduti notificando una nuova citazione di appello
rispetto alla quale ho l'onere di costituirmi tempestivamente, ma che non
sarà affatto preclusa dall'effetto consumativo della declaratoria, in
tanto in quanto, io perfezioni la notificazione dell'impugnazione prima che il
giudice abbia l'opportunità di dichiarare l'improcedibilità di
quella preventivamente proposta.
Inoltre è plausibile che anche
in vista della nuova disciplina delle preclusioni, la parte sia tenuta a
denunciare specificamente i motivi dell'impugnazione, ma è più
che ragionevole che la parte non possa a piacimento introdurre nuovi motivi di
impugnazione nel corso dello svolgimento del procedimento rivolto all'esame
dell'impugnazione stessa e quindi, non è ammissibile che la parte
incorra all'escamotage dell'impugnazione incidentale tardiva
dell'impugnante principale per introdurre nuovi motivi di impugnazione rispetto
ai capi precedentemente impugnati, altro è il discorso, allorché,
attraverso l'impugnazione incidentale tardiva dell'impugnante principale, si
impugnino capi diversi da quelli precedentemente impugnati.
Ricordiamoci tra l'atro che, per
lungo tempo la giurisprudenza ha commesso un errore interpretativo grave in
materia di impugnazioni incidentali tardive, contro cui la dottrina si è
molto battuta finalmente ottenendo ragione nel corso degli anni '80, perché in
passato, la giurisprudenza, riteneva che l'impugnazione incidentale tardiva
potesse colpire solo i capi della sentenza già colpiti dall'impugnazione
principale, ma questa interpretazione è restrittiva e decisamente
contrastante con la ratio della norma, le impediva di svolgere a pieno
la sua funzione di facilitare l'accettazione della sentenza, quindi oggi,
è pacifico che l'impugnazione incidentale tardiva possa colpire capi
diversi da quelli impugnati in via principale.
Direi che l'impugnazione incidentale
tardiva dell'impugnante principale ovviamente, posto che qui non vi è il
problema di favorire l'accettazione della sentenza, ma può comunque
avere senso anche favorire l'accettazione parziale della sentenza, dovrebbe
quindi essere ammessa in tanto in quanto, si individuino con essa, capi di decisione
diversi da quelli oggetto dell'impugnazione principale.
Il litisconsorzio in caso di
gravame Il codice distingue due grandi categorie
di ipotesi e cioè quelle delle cause inscindibili dipendenti, e quelle
delle scindibili dall'altro. Per le ipotesi di cause inscindibili la legge
prevede che l'impugnazione debba essere proposta nei confronti di tutte le
parti del precedente grado di giudizio ove ciò mancata l'impugnazione,
resta pur sempre validamente proposta ai fini dell'impedimento della decadenza,
ma il giudice ha il dovere di ordinare l'integrazione del contraddittorio nei
confronti delle altre parti entro un termine perentorio a pena di
inammissibilità di gravame, ma siamo sicuri che il termine sia
perentorio? Un veloce ripasso! Se la legge non dice niente, un termine è
perentorio o ordinatorio? Ordinatorio! Il problema, quale è!! I termini
ordinatori, per lo più sono rivolti al giudice unico e dato che sono
rivolti al giudice la loro inosservanza, non può essere sanzionata anche
nel processo, o tuttalpiù il giudice potrà andare incontro a
provvedimenti disciplinari, magari in qualche caso estremo alla
responsabilità civile, in via generale la violazione del termine
ordinatorio, da parte del giudice, è priva di sanzione, talché, la
dottrina da molti anni, usa definire questi termini "canzonatori"; il giudice
deve depositare la motivazione entro 15 giorni ..canzonatorio..e la
circostanza, che ovviamente i termini nei confronti del giudice, possano essere
solo ordinatori e mai perentori, ha portato a pensare che i termini ordinatori
siano privi di sanzioni, ma non è così!!
Il termine ordinatorio a carico delle
parti, sono termini comunque la cui inosservanza è comunque sanzionata,
si distinguono quando sono a carico delle parti, i perentorio dagli ordinatori,
per la prorogabilità, il termine ordinatorio è prorogabile quello
perentorio no, ma anche il termine ordinatorio è un termine il cui
decorso non può che produrre la decadenza del dovere di parte di
compiere l'atto. Probabilmente, tutto sommato, non ha sbagliato qui, il
legislatore nel non prevedere che il termine fosse perentorio, cosa è
successo? In qualche circostanza, la giurisprudenza si è imbattuta in
fattispecie in cui era palesemente scusabile il ritardo della parte nel notificare
l'impugnazione ai litisconsorti nel corso delle guerre balcaniche, non si
riuscivano a trovare le controparti in un paio di fattispecie giunte all'esame
della Cassazione, e la Cassazione ha dovuto fare i salti mortali per non
smentire la sua costante qualificazione del termine come "perentorio" e
appendere l'eccezionale scusabilità della sua violazione. Mentre
più linearmente, avrebbe potuto consentire, riconoscendo la natura di
termine ordinatorio, facendo gravare sulla parte l'onere di fare istanza di
proroga del termine, una volta resasi conto della difficoltà di
perfezionare il procedimento notificatorio in termini. Equi si chiude l'inciso!
Mentre nell'ipotesi cause civili, qui
se, l'impugnazione non è proposta, il giudice ordina nei confronti di
tutti di notificare la stessa alle parti nei cui confronti non sia decorso il
termine per impugnare e dove ciò non accada il procedimento è
sospeso fino al decorso di questi termini. Questa notificazione è
notificazione che non rende i litisconsorti parti del giudizio del giudizio di
gravame, ma è una vera denuntiatio litis, è come si dice,
uno strumento per portare a conoscenza ai litisconsorti della pendenza di un
procedimento di impugnazione acciocché, coloro possano qualora vogliano
impugnare in via incidentale in quel processo, cioè è uno
strumento che ha il solo scopo di aiutare la concentrazione in un unico
processo l'impugnazione contro la stessa sentenza.
Il vero problema che pongono gli
artt. 331 e 332 è quello di distinguere il loro ambito di applicazione,
perché ci sono casi che rientrano nell'uno e nell'altro, per esempio!
Nell'ipotesi di litisconsorzio necessario ex art. 102, è chiaro che
questo litisconsorzio non potrà essere scisso in sede di gravame e
quindi si applica l'art. 331. Sul versante opposto, litisconsorzio facoltativo
improprio, caratterizzato da mera comunanza delle questioni, ma è chiaro
che anche qui la causa è scindibile, non ci sono particolari
necessità che giustifichino il coinvolgimento di tutti i litisconsorti
nel gravame promosso fra alcuni soltanto di essi! Se un'intera categoria di
ipotesi che si qualificano come ipotesi di litisconsorzio facoltativo, quanto
all'instaurazione, ma necessario quanto alla prosecuzione del processo,
cioè tale per cui una volta il processo potrebbe svolgersi fra sole due
parti, ma una volta che è entrata nel processo una terza parte bisogna
arrivare in fondo tutti insieme.
E quali sono queste ipotesi? Secondo
la giurisprudenza anzitutto nei caso in cui si è avuta chiamata del
terzo per ordine del giudice ai sensi dell'art. 107, conclusione che vale per
l'ipotesi di chiamata non innovativa, perché la scissione del litisconsorzio
implica la sussistenza di più cause, mentre nell'ipotesi di chiamata del
terzo non innovativa, la causa è sempre unica e immaginare una scissione
non ha senso.
Sulla base di questo tipo di
argomentazione si giunge anche alla conclusione che sia inscindibile il
litisconsorzio determinato da intervento adesivo dipendente, che pure a
carattere non innovativo, e quindi anche qui, si tende a dire, come
nell'ipotesi di litisconsorzio necessario, vi è un'unica causa e su
quest'unica causa non è possibile separare le posizioni delle parti.
Inscindibile è pure il
litisconsorzio determinato dall'intervento principale, cioè
dall'intervento, come si dice nel terzo che affermi di essere vero proprietario
del bene in contesa, così come quello determinato dalla chiamata del
vero legittimato passivo da parte del convenuto. Qund'è allora che le
cause sono scindibili? Sembra quasi mai! I due campi di applicazione più
importanti, in cui le questioni sono più complesse, sono le cause di
garanzia e le obbligazioni solidali, perché, qui vale la regola che
il litisconsorzio a volte è scindibile, a volte non dipende, ma da cosa
dipende? Dipende dal rapporto tra il contenuto della sentenza e quello
dell'impugnazione, così è detto in modo da non dire nulla!
Vediamo i casi concreti.
Nell'ipotesi delle cause di garanzia
possiamo immaginare scindibilità nel caso in cui venga impugnato
esclusivamente la pronuncia sulla causa di garanzia senza che venga in nessun
modo discussa la pronuncia sulla causa principale. Ad esempio, nella normale
fattispecie assicurativa, ad accoglimento di entrambe le domande, l'assicuratore
impugna esclusivamente la pronuncia di attribuzione della sua
responsabilità negando la sussistenza di un rapporto di garanzia tra lui
e il garantito e senza minimamente contestare la responsabilità del
garantito nei confronti dell'attore principale, possiamo scegliere, e
l'impugnazione può essere proposta semplicemente dal garante nei
confronti del garantito senza coinvolgimento del cosiddetto molestante e
cioè dell'attore principale.
Per converso, nell'ipotesi di
assorbimento della domanda di garanzia per effetto di pronuncia sulla domanda
principale determinativa di tale assorbimento perché favorevole alla parte
garantita, ebbene, a questo punto il molestante ha onere di impugnare anche nei
confronti del garante, il che sembra paradossale perché il garante non è
il suo avversario! Questa regola dovrebbe valere anche nel caso in cui il
molestante non abbia proposto alcuna domanda diretta nei confronti degli altri,
ma perché arriviamo a questa conclusione? Se così non fosse, e fosse
consentito al molestante di impugnare solo nei confronti del garantito senza
evocare in causa anche il garante, il garantito, perderebbe
l'opportunità di coltivare la domanda di garanzia in quello stesso
procedimento, in quanto il garantito è vittorioso, ed essendo vittorioso,
non ha la possibilità di impugnare, lui pure e di provvedere lui
l'evocazione in causa del garante alla coltivazione della causa di garanzia,
perché la sua domanda è rimasta assorbita, e se noi gli togliamo questa
possibilità, tra l'altro, corriamo anche il rischio di privarlo della
stessa garanzia, in quanto, se ricordate il disposto dell'art. 1485 che abbiamo
a suo tempo evocato, il garante che è stato parte in grado di giudizio
in cui il garantito è risultato vittorioso e vede evocare dal garantito
la sua responsabilità per effetto di una sentenza resa nel corso di un
giudizio di impugnazione in cui lui non è stato chiamato, è il
garante che ha il dovere di dimostrare che la sentenza era ingiusta perché non
ha partecipato al procedimento in cui questa sentenza si è formata,
sicché il diritto del garantito di essere ritenuto indenne dalle conseguenze
della soccombenza, rischierebbe di venir meno per effetto di una combinazione
di di iniziative processuali di fronte alle quali il garantito risulterebbe
senza difesa. Così, in alcune occasioni, la giurisprudenza ha voluto
inventarsi l'istituto dell'appello incidentale condizionale, consentendo
al garantito di evocare in giudizio il garante pur essendo lui totalmente
vittorioso nel merito, tramite un'impugnazione analoga a quel ricorso
incidentale per cassazione che vedevamo prima. Solo che con riferimento
all'appello in realtà, questa deviazione dei principi non ha senso e non
gli ha accettati, perché solo con riferimento per ricorso in cassazione che si
può immaginare l'impugnazione condizionata della parte vittoriosa del
merito, ma ci manca solo che si estenda al grado di appello questa
possibilità!
Mi rendo conto che a qualcuno
può piacere perché coerente con un processo dispositivo l'idea di un
processo in cui sono le parti a determinare i loro avversari, ma in
realtà ci dobbiamo rendereconto
sempre di più, che invece, i poteri di integrazione del contraddittorio
del giudice sono fondamentali affinché l'amministrazione della giustizia possa
svolgersi in modo efficiente e quindi un correttivo all'iniziativa di parte si
giustifica ampiamente in un buon numero di situazioni, salvo magari discutere
sulle sanzioni e sulle conseguenze del mancato esercizio di tale potere, ma
almeno la sua previsione dev'essere senz'altro accettata, e quindi è di
gran lunga preferibile, dal punto di vista dell'efficienza generale
nell'amministrazione dell'attività della risoluzione dei conflitti, far
gravare sul molestante che voglia impugnare la sentenza di rigetto della domanda,
l'onere di evocare in giudizio oltre al suo avversario, anche quel garante che
il suo avversario aveva fatto entrare nel processo così come d'altronde,
avrebbe l'onere di evocare anche quel terzo il cui ingresso nel processo sia
stato ordinato dal giudice ex art. 107, e che è terzo a cui veramente la
causa sia comune, la cui necessità della vocazione nel giudizio di
impugnazione viene raggiunta dalla giurisprudenza, sulla base della più
labile motivazione secondo cui l'esercizio del potere ufficioso, di cui
all'art. 107 dell'esercizio di un potere discrezionale, e quindi insindacabile
in sede d'impugnazione perché discrezionale, ed meno forte di quella che sembra
sorreggere l'onere di estensione del contraddittorio nel giudizio di gravame in
capo alla parte soccombente nei confronti della parte garantita. Non va preso
sul serio, l'affermazione spesso ricorrente secondo cui ai fini della
scindibilità occorrerebbe distinguere tra garanzia propria e garanzia
impropria, perché o intendiamo per garanzia impropria, fattispecie che solo
molto rientrano latamente nell'ipotesi di garanzia come le vendite a catena,
ma, ma se invece la distinzione, è la distinzione che si fonda
nell'ipotesi dogmatica di ipotesi il cui unico fatto generatore della responsabilità
è quello in cui siano diverse, ma esiste in realtà un rapporto di
garanzia, in senso comunque, qualificabile come rapporto di garanzia,
dovrebbero valere regole uguali per tutti, quindi senza distinzioni tra
garanzia dell'assicuratore, garanzia dell'evizione, ecc.. E questo per la
garanzia!
Sull'obbligazione solidale,
bisogna ricordarci che ci sono le due grandi categorie, cioè obbligazioni
solidali ad interesse comune e obbligazioni solidali interesse
unisoggettivo, cioè la fideiussione.
Per quel che riguarda i casi di
fideiussione, la giurisprudenza, in linea generale è tradizionalmente
favorevole alla scindibilità, ed è giunta a una cosa che
può sembrare strana, cioè, se il creditore impugna la sentenza
soltanto nei confronti del fideiussore, l'impugnazione è inammissibile
perché? Perché il fideiussore non può rispondere mai di più di
quello che risponda il garantito, e quindi è un'impugnazione con la
quale il creditore chiede un risultato giuridico impossibile, e questo è
un fenomeno che però, io credo, debba essere coordinato con
l'art. 331, perciò non si dovrebbe direttamente dichiarare inammissibile
tale impugnazione, bensì, disporre l'integrazione del contraddittorio
nei confronti della parte garantita acciocché si renda giuridicamente ammissibile
anche un accoglimento pieno della domanda parzialmente accolta, poi
eventualmente rigettata in primo grado, nei confronti di entrambe le parti,
cioè il giudice dovrebbe applicare quei meccanismi correttivi delle
deficienze dell'iniziativa processuale di parte.
Con riferimento alle obbligazioni
solidali, c'è un classico ragionamento sancito ex art. 1306, il quale
chiarisce che può aversi giudicato nei confronti di alcuni creditori o
condebitori e non nei confronti degli altri con la conseguenza che sia loro
opponibile soltanto se favorevole, ma non sfavorevole il giudicato secundum
eventum litis, quindi si desume che non c'è litisconsorzio
necessario nell'ipotesi di obbligazioni solidali. Ma una volta che siano stati
evocati in giudizio più condebitori solidali, è possibile
impugnare solo nei confronti di alcuni? Perlopiù la giurisprudenza dice
di si! Quindi è normale che nei confronti di un condebitore passi in
giudicato una sentenza favorevole e nei confronti dell'altro una sentenza
sfavorevole a seguito del vittorioso esperimento dell'impugnazione solo nei
confronti di lui. Infatti, non sarebbe opponibile al creditore la sentenza
favorevole ottenuta dal condebitore solidale, da parte di quel condebitore
solidale che non sia rimasto estraneo al giudizio come sembrerebbe presupporre
l'art. 1306, ma che egli al giudizio stesso ha partecipato e in quel giudizio
sia risultato soccombente.
Però il problema sta, nella
circostanza che tra condebitori solidali esiste la disciplina dell'azione di
regresso, quindi se noi consentiamo al creditore soccombente in primo grado di
impugnare solo nei confronti di alcuni condebitori solidali, noi gli
consentiamo di privare questi dell'azione di regresso, perché quando quei
condebitori solidali, in ipotesi soccombenti in appello e tenuti
successivamente a are, e dimostrare in contraddittorio l'inesistenza
dell'obbligazione.
Ora! Se in primo grado la domanda del
condebitore solidale è accolta, i condebitori solidali soccombenti,
possono decidere se evocare in giudizio solo il loro avversario o anche gli
altri condebitori, se per caso la loro situazione migliora i condebitori non
impugnati non possono lamentarsi di avere perduto l'azione di regresso nei loro
confronti per effetto del loro conseguimento di un giudicato di rigetto della domanda
non estensibile, a loro non impugnabile nei confronti del quale il passaggio in
giudicato è un giudicato di accoglimento della domanda. Perché loro
potevano impugnare e non hanno impugnato, quindi, l'idea di generalizzare
l'applicazione dell'art. 331 alle obbligazioni solidali passive, evocata nelle
recenti monografie, è sballata nella misura in cui la si generalizza,
perché in questo caso, la perdita dell'azione di regresso è conseguenza
di una inattività processuale del condebitore solidale soccombente, che
ha accettato la sua soccombenza a differenza degli altri condebitori, ma nel
caso opposto in cui la sentenza è stata di rigetto della domanda, i
condebitori solidali non avevano il potere di impugnare, perché parti
vittoriose, non erano legittimate ad impugnare e rischiano di perdere l'azione
di regresso per effetto dell'impugnazione dell'avversario e allora sembra
ragionevole che non si possa consentire all'avversario di determinare
arbitrariamente quali tra i coobbligati solidali assoggettare il rischio della
perdita dell'azione di regresso e quali no, pertanto nell'ipotesi di sentenza
di rigetto della domanda, e in ogni caso di impugnazione della sentenza da
parte del creditore, bisogna far gravare sul creditore l'onere di proporre la
stessa nei confronti di tutti i litisconsorti, cioè si deve qualificare
come inscindibile la controversia avente ad oggetto obbligazioni solidali
passive, quale conseguenza della scelta iniziale, del creditore, di evocare
più condebitori solidali nello stesso processo. Conseguenza che
d'altronde, se non l'avesse fatto comunque, quelli estranei si sarebbero potuti
giovare della sentenza favorevole.
Si tratta in sostanza di ripescare
una disposizione, e questa in effetti era abbastanza sensata nella disciplina
del litisconsorzio nelle fasi di gravame nel codice del 1865, in quella
disciplina, era ancora, in qualche misura influenzata dal principio della
legalità dell'impugnazione, per cui si prevedeva l'estensione degli
effetti di impugnazione in varie ipotesi, anche a parti non impugnanti, sistema
che è stato superato nel codice del '42, dove si adotta il principio
della personalità dell'impugnazione, per cui l'impugnazione giova solo
alle parti che la propongono, e non a quelle che ne rimangono estranee, ma si
è mancato di trascinare una regola che invece era un importante portato
della trasformazione del passaggio, già allora in corso, dal principio
della personalità, cioè la regola per cui, quando la parte
impugna nei confronti di più condebitori solidali, deve impugnare nei
confronti di tutti, e cioè, in questo caso, tradotto nel sistema
normativo del codice vigente, si deve, in realtà applicare l'art. 331 e
considerare inscindibili le cause cumulativamente proposte e decise nel
precedente grado di giudizio.
·L'Appello
Il giudizio di appello merita diverse
approfondite considerazioni, perché, per diversi aspetti desta a
interpretazioni opinabili e controverse anche nell'esperienza giurisprudenziale
e possiamo prendere le mosse, a questo proposito, dall'esame del disposto
dell'art. 342, nella parte in cui prevede che l'appello richieda l'indicazione
degli specifici motivi di gravame, molto ampliamente si dibatte ancora intorno
al quesito sul quale sia l'effettiva funzione dei motivi d'appello, su cos si
dibatte.
Una prima impostazione, tradizionale
se vogliamo, è quella secondo la quale, la funzione dei motivi d'appello
consiste essenzialmente, nel determinare quali capi della sentenza siano stati
impugnati.
Alla luce di questa impostazione, le
eventuali enunciazioni dei morivi di gravame riferiti a questioni di merito,
può comportare il fenomeno dell'acquiescenza impropria, nel senso che,
se i le doglianze di merito si riferiscono solo ad alcuni tra più capi
della decisione, ecco che sugli altri capi, in quanto si tratti di capi
autonomi indipendenti, può prodursi il fenomeno dell'acquiescenza
impropria, e si aggiungeva tradizionalmente! Allorché la doglianza riguardi una
questione di rito, nessun fenomeno di acquiescenza impropria può
effettivamente prodursi, e ciò perché, esiste una necessaria
pregiudizialità interna tra questioni di rito e questioni di merito tale
per cui, l'annullamento della sentenza, la riforma della sentenza,
l'accoglimento dell'impugnazione della stessa per un motivo di rito, importa la
caducazione per intero, tutta la sentenza risulterebbe invalida, con una
precisazione, però, che questa impostazione richiede di essere
coordinata per il principio secondo il quale, l'appello svolge la funzione di
consentire un nuovo esame sul merito della domanda, è un mezzo
d'impugnazione a critica libera e non a critica vincolata, e come tale
diretto non soltanto alle eventuali violazione di leggi, ma in generale alla
ingiustizia della sentenza.
Con questo discorso, sovente si
allude a questa circostanza, che nel giudizio d'appello, allorquando venga
accolta l'impugnazione riferita a questioni di rito e sia stata anche richiesta
una nuova pronuncia sul merito della causa, il giudice d'Appello provvede a
dare pronuncia sul merito della causa previa rinnovazione delle attività
istruttorie e della attività processuali eseguite validamente nel corso
del primo grado, nel corso del precedente grado di giudizio, con l'ulteriore
conseguenza che, se in sede di pratica formulazione dell'atto d'appello, la parte
si limita a dedurre la violazione di una norma del processo, senza con
ciò chiedere una nuova pronuncia sul merito della causa, quale
conseguenza della predeligittimità della sentenza di primo grado per
motivi processuali, l'appello stesso è inammissibile, perché inquesta ipotesi, la parte ha proposto un mezzo
d'impugnazione che è stato, si rivolto alla Corte d'Appello, ma non
è un mezzo d'impugnazione di appello, bensì un mezzo
d'impugnazione che è in realtà un ricorso per cassazione, se non
si chiede anche una nuova pronuncia sul merito della causa.
Quindi tale appello risulterebbe
inammissibile, fatte salve quelle ipotesi in cui il vizio processuale è
tale da giustificare la rimessione della causa al primo giudice ai sensi degli
artt. 453 e 454, casi eccezionali indicati tassativamente nei quali invece
validamente è proposto un appello e si fondi su doglianze di natura
esclusivamente processuali, come ricorderete, però, non asottizare in
modo estremo, questa ricorrente deformazione giurisprudenziale, perché, in realtà,
debbono pur sempre sussistere anche, nei casi in cui, il vizio processuale
è motivo valido e sufficiente d'appello, anche se non rientra fra le
ipotesi di rimessione della causa al primo giudice, perché si tratta di un
vizio processuale impeditivo di una qualsiasi pronuncia sul merito della causa,
un vizio processuale non sanabile e tale per cui, se il giudice d'appello
pronunciasse nel merito della causa l'eventuale ricorso per cassazione verrebbe
accolto con provvedimento di Cassazione senza rinvio, cioè con una
sentenza definitiva di rito di rigetto della domanda.
E in quali casi? Un tema è
dato dall'ipotesi in cui si sia prodotta una nullità di citazione
riferibile ad un vizio cosiddetto di edictio actionis, cioè i
casi in cui non sia stato determinato l'oggetto della domanda, o non siano
stati enunciati i fatti costitutivi nella misura in cui ciò sia
richiesto ai fini dell'individuazione del diritto fatto valere in giudizio. In
questa ipotesi, infatti, si deve ritenere che non sia applicabile la disciplina
della rinnovazione in grado d'appello con possibilità di pronuncia sul
merito della causa e ciò, non tanto perché operi un generale principio
del doppio grado di giurisdizione, quando perché una precisa norma di diritto
positivo, cioè l'art. 345, vieta la proposizione di nuove domande in
appello, sicché la formulazione della domanda avvenuta soltanto in grado
d'appello a seguito dell'integrazione della citazione sin dal primo grado e mai
precedentemente sanata, non deve ritenersi ammissibile ai sensi dell'art. 345,
e non esiste altra maniera per definire il processo, se non appunto, con
sentenza in mero rito assolutoria del convenuto dall'osservanza del giudizio.
Ma c'è di più nella
problematica della disciplina dell'Appello, innanzi tutto occorre tener conto
del requisito della specificità dei motivi d'appello, che rende
come tale inammissibile un atto d'appello che si limiti ad una doglianza di
carattere generico, cioè che si limiti a denunciare, per esempio,
l'ingiustizia della sentenza senza indicare le ragioni per cui la sentenza
è ingiusta e il contenuto della sentenza giusta.
A proposito della distinzione tra
illegittimità e ingiustizia, si pone sul presupposto che allorquando il
contenuto della decisione cambia perché il giudice ha diversamente valutato
rispetto al giudice del precedente grado di giudizio, le risultanze probatorie,
si avrebbe una riforma della decisione di primo grado non perché, appunto,
illegittima, poiché il giudice di primo grado nel trarre conclusioni diverse
dalle risultanze probatorie lo avrebbe fatto esercitando validamente il suo
potere discrezionale di apprezzamento delle prove liberamente valutabili,
quindi sarebbe ingiusta , ma non illegittima, perché non vi sarebbe stata
alcuna violazione di legge.
Questa distinzione muove da un
presupposto che la discrezionalità del giudice nell'apprezzamento delle
risultanze probatorie, sia una discrezionalità piena e non sia invece,
come sembra preferibile e coerente, una discrezionalità fortemente limitata
dalla circostanza che il criterio di valutazione delle prove liberamente
valutabili è quello del prudente apprezzamento e non quello
dell'arbitrario apprezzamento, pertanto, il giudice dell'impugnazione che
intende riformare una sentenza di primo grado sulla scorta di un diverso
apprezzamento delle risultanze probatorie, con ciò stesso, in
realtà ritiene, illegittima, perché violativa della regola del prudente
apprezzamento delle risultanze probatorie della sentenza impugnata.
Non va trascurato completamente,
soprattutto per i riflessi che ha, allorquando dovremo chiarire quali sono le
caratteristiche distintive del controllo di legittimità in sede di
Cassazione, sotto il profilo del riesame del fatto e quali siano in particolare
le ragioni che limitano i poteri del riesame del fatto della Corte di
Cassazione.
Il requisito della
specificità, dicevamo, impone anche di indicare da che punto di vista,
la sentenza impugnata è ingiusta/illegittima. La vera questione
controversa, però, è se la Corte d'Appello, il giudice
dall'appello più in generale, possa riformare la sentenza o meglio i
capi impugnati della decisione, anche per ragioni diverse da quelle enunciate
dalla parte impugnante in sede di indicazione dei motivi di gravame.
Certamente, se si tratta di questioni
rilevabili d'ufficio, intorno alle quali non si sia avuta alcuna pronuncia da
parte del giudice di primo grado, è chiaro che in questa ipotesi, il
giudice di appello, può senz'altro prendere in considerazione la
questione salvo che per qualsiasi motivo essa risulti preclusa, come
nell'ipotesi della questione di competenza per materia che il risultato
è rilevabile soltanto in prima udienza di trattazione, ancorché
l'ufficio, evidentemente, non può essere rilevata la prima volta in
grado d'appello, sopendosi, tuttalpiù porsi il problema della competenza
per l'appello del giudice adito con l'atto d'appello.
In tali casi, però,
l'orientamento recente della giurisprudenza è sempre più
restrittivo a questo proposito, sulla scorta dell'idea, che anche in vista
delle riforme della disciplina positiva dell'appello, questo vada sempre
più considerato come una revisio priori istantie, che è
come un novum iudicium, è sempre più un mezzo
d'impugnazione in senso stretto e sempre meno come un mezzo di gravame,
però è vero che in questa evoluzione, in qualche misura si
può riscontrare, ma è un evoluzione che incontra numerosi limiti.
Mi sembra
illustrativo un esempio! Nella misura in cui, in larga parte, sia ancora il
giudizio di appello, una sorta di naturale prosecuzione del giudizio di primo
grado, la circostanza che in grado d'appello, non operi quel principio
dell'impulso d'ufficio che abbiamo visto operare nel giudizio di cassazione e
bensì, sia ancora l'impugnazione, soggetta alla regola dell'impulso di
parte. Trattandosi, quindi ancora di fase di merito della causa, abbiamo alcune
ipotesi in cui l'inattività delle parti, in particolare della parte
impugnante, determina l'estinzione del procedimento d'impugnazione in mero rito
nell'ipotesi, di cui abbiamo accennato, di improcedibilità dell'appello,
ma ciò non esclude l'applicabilità nella disciplina generale
dell'estinzione per inattività delle parti, e di conseguenza la
rilevabilità non d'ufficio, ma soltanto su eccezione di parte di gran
parte delle potenziali fattispecie estintive del procedimento per
inattività, per cui, è vero che la legge prescrive che sia
dichiarato improcedibile l'appello laddove l'appellante non si sia costituito
in termini, ma questa pronuncia è possibile se e solo se, sia costituito
in termini l'appellato, perché, se nessuna delle due parti si è
tempestivamente costituita in giudizio in questo grado d'appello, si applica,
in vista del rinvio alla disciplina del procedimento in primo grado contenuto
nell'art. 359, si applica ancora l'art. 307, e la conseguenza è che in
questa ipotesi, si debba disporre la cancellazione della causa dal ruolo e non
già dichiarare l'improcedibilità dell'appello, con conseguente
acquiescenza attuale del processo e possibilità della sua riattivazione
tramite riassunzione, e questi residui, si possono certamente considerare dei
residui, ma suggeriscono prudenza nel dedurre dalle riforme del diritto
positivo recentemente sopravvenute, la conclusione che anche le norme non
toccate dalle riforme devono nuovamente essere interpretate nello spirito della
concezione dell'appello come revisio priori istantie, e quindi occorre
discutere senza estremismi, la questione della conurazione di due importanti
caratteristiche del giudizio d'appello tuttora previste dal diritto positivo e
tuttora tali da differenziare in maniera radicale rispetto al ricorso per
cassazione, cioè la circostanza che l'appello sia provvisto dell'effetto
sostitutivo ed è così dell'effetto devolutivo.
Si tratta di espressioni per le quali
si possono intendere diverse cose, però, cominciamo convenzionalmente a
trattare dell'effetto sostitutivo, dicendo appunto, che la destinazione
naturale dell'appello, è quella di contenere una pronuncia rescissoria,
e alludo con ciò quanto appena descritto, cioè alla circostanza
che unatto d'appello che contenga la
deduzione di doglianze solo esclusivamente riferite al rito, fuori dai casi
dell'art. 353 e 354, è inammissibile, perché non è diretto ad
ottenere una nuova pronuncia sul merito della causa.
L'effetto sostitutivo della pronuncia
d'appello, in qualche misura, è stato valorizzato dalle riforme, per
esempio in quella parte in cui si è prevista l'immediatezza della
produzione dell'effetto sostitutivo da parte della sentenza d'appello, e ci si
riferisce con ciò alla riforma dell'art. 336, che è norma
relativa all'appello in generale, di cui abbiamo visto, il primo comma,
cioè quello che regola l'effetto espansivo interno, tale per cui,
appunto, l'accoglimento di doglianza riferita al rito, implica necessariamente
la caducazione di tutte le statuizioni di merito rese dal giudice di primo
grado, e la necessità della loro sostituzione con statuizioni sul merito
da parte del giudice di secondo grado, previa rinnovazione delle
attività dell'istruzione probatoria in precedenza compiute.
Nel secondo comma, che è
quello riformato dell'art. 336, si prevede che la riforma della sentenza
estenda i suoi effetti anche agli atti e provvedimenti dipendenti dalla
sentenza impugnata. Si parla in questo caso di effetto espansivo esterno,
contrapposto all'effetto espansivo interno che è quello regolato dal 1°
comma e che regola i rapporti fra i vari capi della stessa sentenza.
Per spiegare le ragioni di questa
riforma, con le ragioni e gli effetti di questa riforma, occorre prendere le
mosse dall'impianto originario del codice del '42, che non prevedeva
l'immediata impugnabilità delle sentenze non definitive e la conseguente
possibilità di raddoppiamento del giudizio di impugnazione riferito alla
stessa causa, per effetto della moltiplicazione delle sentenze sulla stessa
causa nel corso del procedimento di primo grado.
Nel 1950, però, venne
reintrodotta l'impugnabilità immediata della sentenza non definitiva,
contestualmente alla facoltà di formulare riserva all'impugnazione della
stessa sentenza definitiva e si pose il problema di coordinare le vicende del
procedimento nel cui ambito venissero rese sentenze non definitive con le
vicende dei procedimenti di impugnazione immediatamente promossi contro le
stesse, e in particolare, si modificò, proprio l'art. 336, per prevedere
che l'effetto caducatorio degli atti dipendenti derivanti dalla riforma della
sentenza impugnata, si producesse soltanto a seguito del passaggio in giudicato
della stessa, per evitare che per esempio, le attività di istruzione
probatoria successiva alla pronuncia di una sentenza di condanna generica,
fossero soggetti a continui andirivieni per effetto dell'eventuale riforma, o
cassazione della sentenza di riforma, e così via, della sentenza di
condanna generica, sentenza non definitiva, che non è prvvista degli
effetti di titolo esecutivo, ma comunque utile al creditore, in quanto,
costituisce titolo per l'iscrizione dell'ipoteca giudiziale, per esempio,e
produce comunque gli effetti secondari della sentenza riformata.
Tra queste disposizioni, merita
ricordare le soprattutto dell'art. 129 bis delle disposizioni di attuazione,
nella parte in cui prevede che laddove la pronuncia di riforma della sentenza
non definitiva a sua volta sia investita di ricorso per cassazione, il
procedimento di primo grado, al cui prosecuzione trova fondamento nella
validità della sentenza non definitiva, ormai riformata, quindi
caducata, a sua volta, però è una sentenza impugnata essa pure
per ricorso per cassazione, si diceva, l'attività di istruzione
probatoria non si è affatto automaticamente sospesa, bensì possa
essere sospesa su istanza di parte, e conseguentemente anche, in mancanza di
istanza di parte, non possa essere sospesa affatto, cioè debba
naturalmente proseguire, benché trovi il suo titolo in una sentenza oramai
caducata.
La riforma compiuta nel '90 dell'art.
336, che ha ripristinato la regola della immediatezza dell'effetto sostitutivo
della sentenza di riforma, cioè la regola, per cui la caducazione della
sentenza di primo grado impugnata in appello è immediata, a seguito
della pronuncia d'appello e opera a prescindere dalla circostanza che la
pronuncia d'appello, sia a sua volta investita di ricorso per cassazione, deve
però essere coordinata con la sopravvivenza di norme quali l'art. 129
bis delle disp. di att., che qualcuno ha immaginato essere stato abrogato
implicitamente per effetto della riforma dell'art. 336, però, bisogna
dire che la riforma del '90 con cui si è modificato l'art. 336, è
una riforma molto specifica nell'indicare gli articoli abrogati, e che
conurare un'abrogazione implicita in questo caso, costituisce una forzatura,
sicché, deve preferirsi l'opinione secondo la quale l'art. 129 bis è
ancora in vigore e quindi a questi fini, senz'altro, non si produce in
realtà l'effetto caducatorio della sentenza d'appello, anche perché,
poi, le motivazioni che hanno animato la riforma dell'art. 336, hanno poco a
che vedere con la questione della prosecuzione dell'istruzione a seguito della
riforma della sentenza definitiva di condanna generica, perché questa norma
è stata modificata soprattutto per tenere conto di un problema
completamente diverso, cioè il problema della stabilità degli
effetti esecutivi della sentenza di primo grado riformata.
Infatti, sulla scorta del vecchio
testo dell'art. 336, in un sistema in cui, prima della riforma del '90 soltanto
in casi particolari la sentenza di primo grado era esecutiva, in questi casi
particolari, l'esecutività della sentenza di primo grado, eccezionalmente
prevista, era talmente forte e stabile da sopravvivere anche alla riforma della
sentenza stessa di primo grado, poiché l'effetto caducatorio si produceva solo
col passaggio in giudicato della sentenza di riforma, il che, per un verso,
ovviamente, incentivava la proposizione di ricorsi per cassazione contro le
sentenze di riforma della sentenza di primo grado allo scopo di procrastinare
nel tempo la produzione dell'effetto caducatorio della decisione impugnata, e
delle attività esecutive compiute in base ad esse, e per altro verso,
faceva gravare su quei soggetti che erano tipicamente destinatari di sentenze
di primo grado immediatamente esecutive, in combinazione con certi aspetti del
diritto sostanziale, faceva gravare importanti costi derivanti da una soccombenza
in primo grado di giudizio, perché in realtà, il terreno privilegiato
d'azione della sentenza di condanna immediatamente esecutiva, era quella della
condanna alle retribuzioni del lavoratore subordinato illegittimamente
licenziato, e se anche questa sentenza veniva riformata in grado d'appello, e
persino nell'ipotesi in cui, la stessa sentenza d'appello di riforma che
dichiarava la legittimità del licenziamento venisse confermata in
Cassazione, le retribuzioni dovute e corrisposte per tutto il periodo intercorrente,
tra l'esecuzione della sentenza di primo grado e l'effettiva caducazione degli
effetti esecutivi, restavano irripetibili,perché, la vicenda processuale aveva istituito come un rapporto di
lavoro di fatto, perché in pendenza del giudizio di impugnazione, il lavoratore
aveva comunque messo le sue energie a disposizione del datore di lavoro, e
quindi, le retribuzioni spettandogli per effetto di quella sua messa a
disposizione della propria opera, gli restavano comunque dovute.
Questo indusse il legislatore a
premere perché venisse ripristinata l'immediatezza dell'effetto sostitutivo,
immediatezza, la quale implica che l'esecuzione non possa essere ne iniziata,
ne proseguita l'esecuzione della sentenza di primo grado a seguito della
pronuncia della sentenza di riforma in appello, e ciò, ancorché la
sentenza di riforma in appello venga a sua volta investita per ricorso in
cassazione, il che, peraltro non esclude, che in larga misura almeno alcuni
atti dell'esecuzione forzata producano effetti, che sono da questo punto di
vista irreversibili, che stanno in piedi da soli, e non possono, nonostante la
dipendenza dell'atto esecutivo, dalla validità del suo titolo, ove
esserne caducate per effetto della caducazione del titolo stesso.
Si tratta di quegli atti di
esecuzione forzata produttivi di effetti in capo a soggetti che nulla hanno a
che vedere con la validità del titolo esecutivo, quindi si parla delle
vendite forzate.
Coerentemente alla regola per cui la
vendita forzata soffre le nullità del suo stesso procedimento, ma non
risente delle nullità del titolo su cui si fonda l'esecuzione durante la
quale si è compiuta la vendita forzata stessa, deve ritenersi
certamente, che non possa risultare pregiudicata dalla riforma dichiarata in
grado d'appello, o anche con sentenza passata in giudicato di quella sentenza
che aveva svolto le funzioni di titolo esecutivo, e questo perché, altrimenti,
i terzi acquirenti del bene soggetto a vendita forzata sarebbero disposti a
are ancor meno e ancor meno si realizzerebbe dalla vendita forzata se
dovessero farsi carico non solo del vizio del rischio occulto, ma anche del
rischio di vedersi sottratto il bene per effetto di vicende caducatorie del
titolo intorno alle quali, non hanno potere nemmeno di interloquire.
Più complessa è
questione dell'effetto devolutivo del giudizio di appello. In qualche misura
può parlarsi di effetto devolutivo con riferimento a disposizioni
specifiche del codice e in particolare il disposto dell'art. 346, e cioè
la circostanza che possono formare oggetto del giudizio d'appello domande ed
eccezioni che non siano oggetto di un'impugnazione , ma solo oggetto di una
mera riproposizione da parte della parte interessata, se, parlando di effetto
devolutivo, ci si riferisce a questo fenomeno, non si dice nulla di
trascendentale, ma quando si parla di effetto devolutivo, si vuol dire anche
altro, in realtà, cioè che la presunzione di rinuncia delle
domande ed eccezioni non riproposte, ed è una tesi questa che a volte si
ritrova anche in giurisprudenza, si produce se e soltanto se, vi è stata
costituzione della parte appellata in giudizio, ma se la parte appellata nel
giudizio d'appello rimane contumace, allora mancherebbe quella implicita
manifestazione di volontà abdicativi, consistente nella mancata riproposizione,
giustificativa della regola per cui il giudice d'appello di quell'eccezione, di
quella domanda non possa conoscere, sicché, la contumacia, dell'appellato,
comporterebbe l'automatica devoluzione al giudice d'appello del potere di
conoscere di tutte le domande e le eccezioni non accolte nel precedente grado
di giudizio.
In realtà, questa
interpretazione prima comporta sul piano pratico strategie e conseguenze
abbastanza paradossali, cioè che possa essere conveniente non
costituirsi che costituirsi, come modalità di esercizio
dell'attività difensiva, il che è cosa che in linea di massima
bisogna combattere, perché non si può consentire che un'attività
difensiva possa essere più efficace se svolta attraverso il non
compimento degli atti processuali, sicché attraverso il compimento degli
stessi, e poi, perché, si fonda su un'interpretazione discorsiva del diritto
positivo, in quanto la parte che non si costituisce è parte che non
ripropone, e in nessun luogo nell'art. 46, si prevede che l'effetto rinunciatario
si produca solo per la causa della mancata riproposizione della parte
costituita, pertanto si tratta di una interpretazione fortemente discorsiva del
dettato positivo che si basa sulla petizione di principio per cui l'appello
abbia un effetto devolutivo tale da comportare l'automatica trasmissione in
grado d'appello salvo abdicazioni risultanti da fatti concludenti della parte
appellata. Quindi questa interpretazione deve essere respinta, ancorché, nella
giurisprudenza recente se ne trovi eco anche ripetutamente.
La contumacia dell'appellato implica,
inevitabilmente, decadenza o rinuncia, inammissibilità da parte del
giudice d'appello di domande ed eccezion i che non siano state accolte nel
precedente grado di giudizio.
Il peso, inteso in questi termini,
l'effetto devolutivo però, non così automaticamente si passa alla
conclusione secondo la quale, una volta individuati da parte dell'attore i capi
della decisione impugnata attraverso l'individuazione di motivi specifici,
accomnati, ovviamente, dalla richiesta di nuova pronuncia sul merito della
domanda, non è necessario inferire che impedisca al giudice d'appello di
riformare i capi della decisione anche per ragioni diverse da quelle indicate
dall'attore, in particolare, allorquando, si tratti di applicare norme
giuridiche diverse da quelle indicate dalle parti impugnanti. Tuttalpiù,
ponendosi qualche dubbio, allorquando si tratti di prendere in considerazione
fatti diversi posti alla base di motivi di gravame da parte dell'appellante. Così
è fallace sostenere che sull'effetto devolutivo debba ritenersi
necessario, indispensabile in applicazione del principio del doppio grado di
giudizio. Perché non ci basta dire che il doppio grado di giudizio non è
oggetto di garanzia costituzionale, salva l'ipotesi del processo
amministrativo, sicché la Costituzione garantisce si, il controllo di
legittimità in Cassazione, ma non garantisce il diritto ad un doppio
esame del merito della domanda.
Occorre aggiungere che il doppio
grado di giudizio, inteso come diritto ad un doppio esame del merito della
domanda, non è assicurato nemmeno dal diritto positivo e lo si evince
già dalla circostanza secondo cui, fatti salvi i casi degli artt. 353 e
354, la sentenza di rigetto della domanda in mero rito, sentenza come tale
definitiva di un giudizio in cui non si è avuto alcun esame del merito
della domanda, può essere sostituita da una diretta pronuncia sul merito
da parte del giudice d'appello previa rinnovazione degli atti processuali
validamente compiuti nel primo grado di giudizio. In questo caso, l'unica
pronuncia sul merito della domanda, è quella del giudice d'appello,
quindi anche nella legislazione ordinaria il primo grado di giudizio non
è oggetto di una garanzia generalizzata, tanté che appunto, soltanto in
quei casi tassativamente indicati dagli artt. 353 e 354, si può dire che
trovi concretizzazione la dimensione positiva del doppio grado di giudizio,
cioè, ciò che è garantito nel diritto positivo, è
soltanto questo; che in tali particolari occasioni, abbia luogo la rimessione
della causa al giudice di primo grado, affinché egli, di nuovo, esamini la
domanda ed eventualmente pronunci sul merito se non sussistono ulteriori
condizioni ostative all'esame del merito della domanda, e fermo restando che,
se a seguito del rinvio nel successivo ed ulteriore giudizio d'appello, il
giudice d'appello potrà direttamente pronunciare nuova sentenza sul
merito.
Pertanto, l'art. 345 nella parte in
cui vieta la proposizione delle nuove domande in appello, va intesa come regola
che vieta la proposizione di nuove domande in Appello e non come regola che
ribadisce la necessità di un doppio grado di giudizio e quindi propone
il doppio esame del merito della domanda, di conseguenza sono fortemente
discutibili quelle interpretazioni, fra l'altro dominanti in giurisprudenza,
secondo le quali, le droghe al divieto di nuove domande previsto dall'art. 345,
debbono essere interpretate coerentemente con la regola del doppio grado del
giudizio.
A cosa mi riferisco? L'art. 345, vietando la proposizione di nuove domande, prevedendo che
le proposte siano dichiarate inammissibili anche d'ufficio, salva la loro
riproponibilità in quanto compatibile con le decadenze sostanziali,
magari nel frattempo maturate in un diverso giudizio di primo grado, trova
eccezione in alcune ipotesi esplicitamente previste con riferimento alle
domande relative a interessi, frutti, spese e danni, maturati successivamente
alla sentenza impugnata.
Qui il dato di diritto positivo
sembra essere chiaro, come avviene generalmente accomnato da osservazioni
che travalicano facilmente dal descrittivo al prescrittivi, cioè si
tende a dire, con tono magari descrittivo, a queste domande, sono domande
legate da un fortissimo nesso di accessorietà rispetto alla domanda
principale, sono domande consequenziali rispetto alla domanda principale
stessa, sono domande il cui avviamento in grado d'appello non è
propriamente innovativo dell'oggetto del giudizio. Qui si è già
passati dal descrittivo al prescrittivo! Perché, si evince da questa classificazione
secondo la giurisprudenza, che la parte possa ,si, chiedere gli interessi maturati successivamente alla sentenza
impugnata in grado d'appello per la prima volta, ma se e solo se in primo grado
ha già domandato gli interessi maturati fino alla sentenza, sicché, la
domanda degli interessi successivi, appunto ed effettivamente costituisca il
normale sviluppo di domanda proposta già in primo grado. Perciò,
se per esempio,io ho chiesto in primo
grado gli interessi maturati fino alla sentenza pronunciata nel 2003, in
secondo grado potrò chiedere gli interessi maturati dal 2003 fino a
quando verrà pronunciata la sentenza d'Appello, ma se in primo grado, io
ho chiesto esclusivamente il capitale, allora, non potrò in Appello
proporre come nuova domanda quella riferita agli. interessi maturati
successivamente alla pronuncia della sentenza di appello.
Ebbene, in realtà, questa
interpretazione, che possa non piacere l'idea di una parte che domanda gli
interessi solo dopo la sentenza e non prima, e possa non piacere perché ci si
pone il problema che: poi questi interessi possano essere domandati in un
successivo giudizio? O dobbiamo ritenerli preclusi? Naturalmente possiamo
rispondere di si o di no a sec onda della concezione che adottiamo in tema di limiti
oggettivi del giudicato e di frazionabilià della domanda giudiziale, ma
l'una e l'altra soluzione certamente, qualche problema lo provoca, il problema
per cui o questa parte degli interessi è irrimediabilmente perduta per
non averla proposta tempestivamente in primo grado, ovvero anche l'idea che si
promuova un autonomo giudizio soltanto per il prezzo degli interessi prodotti
nel corso del tempo. Però, è un'espressione discorsiva di un
dettato che è molto chiaro, sulla base di considerazioni sistematiche
cheun preciso fondamento in diritto
positivo non ce l'hanno, perché non esiste questa regola del doppio grado di
giudizio così come la si vorrebbe intendere, se non nella misura in cui
essa trova fondamento nelle specifiche disposizioni del giudizio d'Appello, e
quindi se ci dice esiste una regola in secondo grado di giudizio nella misura
in cui l'art. 345 , in linea di massima vieta la proposizione di nuove domande,
siamo tutti d'accordo! Ma non c'è da qualche altra parte una norma che
ci faccia leggere l'art. 345 in senso più restrittivo ancora di quanto
esso è già formulato.
In merito alle nuove domande proponibili in
Appello, va anche ricordato che vi sono ulteriori possibilità di
proposizione di nuove domande rispetto a quelle espressamente previste
dall'art. 345 e che sono individuabili attraverso l'interpretazione sistematica
tuttaltro che contrastante col diritto positivo. Un caso lampante è
quello dell'art. 344, che consente al soggetto legittimato a proporre
opposizione di terzo di intervenire in grado d'Appello, e tradizionalmente si
ritiene che il terzo legittimato all'opposizione di terzo semplice sia quel
terzo che vanta un diritto autonomo incompatibile a quello di tutte le altre
parti, cioè colui che avrebbe potuto spiegare in primo grado
l'intervento principale e che interviene proponendo una domanda che rispetto a
quel processo è nuova. È assolutamente ragionevole che questa
domanda possa essere proposta già in grado d'Appello, perché, stante la
proponibilità dell'opposizione di terzo, se non fosse consentito
l'intervento del terzo direttamente in Appello, si pronuncerebbe una sentenza
d'Appello instabile perché fortemente esposta alla proposizione
dell'opposizione di terzo da parte del preteso affermato titolare del diritto
autonomo incompatibile, quindi tanto vale farlo intervenire in Appello, ma
questa è certamente una nuova domanda direttamente proponibile nel
giudizio d'Appello.
E c'è un altro caso ancora,
legato alla circostanza che sia stata introdotta nel '90 la regola dell'esecutività
immediata generalizzata delle sentenze di primo grado. Nell'impianto originale
del codice, muovendosi dalla premessa che siano immediatamente esecutive le
sentenze di primo grado, solo quando ci siano ottime ragioni per la loro
immediata esecutività, trae anche l'implicazione, che le domande di
restituzione, ripetizione dell'indebito e rimessione in pristino di quanto
ottenuto in esecuzione della sentenza impugnata, possano essere proposte
direttamente al giudice di rinvio a seguito della cassazione, ai sensi
dell'art. 389, perché la Cassazione segue a una pronuncia d'Appello, in quel
regime la generalità delle pronunce d'appello comunque, e lo è
tuttora, immediatamente esecutiva, e quindi è conseguenza normale
dell'esecutività immediata della sentenza d'appello, e possa eseguirsi
anche in casi in cui non ci siano eccezionali ragioni di urgenza, perciò
sia ragionevole, consentire alla parte che ha subito quell'esecuzione a seguito
della cassazione di quella sentenza così eseguita con rinvio di proporre
la domanda di ripetizione direttamente al giudice del rinvio, in questo caso,
ovviamente saltando un grado di giudizio.
Orbene! Nel momento in cui si
è introdotta la generalizzata esecutività di tutte le sentenze di
primo grado, allora è sembrato normale alla giurisprudenza di ritenere
ammissibile, a questo punto direttamente in grado d'appello, delle domande di
restituzione e rimessione in pristino, perché, ormai, non appartiene più
al blocco delle ipotesi decisionali, il caso della sentenza di primo grado
eseguita già ancor prima della definizione del giudizio d'appello,
così come, nel giudizio di rinvio, si ritengono applicabili le deroghe
al divieto di nuove domande applicabili ai criteri esplicitamente previsti per
il giudizio d'appello dell'art. 345, sicché anche in sede di rinvio, sebbene la
legge non lo dica espressamente, sono senz'altro proponibili le domande
relative a frutti, interessi, spese e danni maturati successivamente alla
sentenza d'Appello impugnata per ricorso in Cassazione accolto in giudizio di
rinvio, del pari in grado d'Appello, si ritengono applicabili le deroghe al
divieto di nuove domande previste dal giudizio di rinvio, ottenute nella norma
che autorizza la proposizione a quel giudice delle domande di restituzione o di
rimessione in pristino di quanto ottenuto in esecuzione della sentenza
riformanda, a questo punto, della sentenza di cui si chiede la riforma.
L'art. 345 prevede inoltre un divieto
di nuove eccezioni che non siano rilevabili d'ufficio, ovviamente per quel che
riguarda le eccezioni rilevabili d'ufficio, ovviamente sono ammissibili quando
siano nuove, perché è chiaro che se la questione è rilevabile
d'ufficio ha formato oggetto di pronuncia da parte del giudice di primo grado e
il giudice d'appello può conoscerne solo ove questa sia oggetto di
impugnazione o di riproposizione, a seconda se si tratti di questione di
eccezione risolta da una sentenza favorevole al convenuto o meno, si pone
naturalmente il problema, che abbiamo già affrontato, di stabilire quando
un'eccezione sia o meno rilevabile d'ufficio, cioè di stabilire,
allorché la legge non lo dica espressamente, che l'eccezione sia o meno
rilevabile d'ufficio, e qui vi ricordo il discorso sull'automatismo della
produzione degli effetti estintivi e modificativi, automatismo, cioè
sulla circostanza che tali effetti si producano senza bisogno di una specifica
manifestazione di volontà della parte al di fuori del processo, sicché
non si rende necessario ai fini della pronuncia intorno a tale effetto che tale
manifestazione venga reiterata nel processo dalla parte interessata, e si pone
poi ancora l'ulteriore problema, che è problema comune a quello della
disciplina delle nuove domande dell'applicazione di questo divieto dei nova,
teso come divieto di mutamento delle richieste di pronuncia sugli effetti
giuridici, al divieto dei nova inteso come divieto di introduzione di
nuovi fatti nel processo, intendendosi di nuovi fatti principali, perché al
deduzione di nuovi fatti secondari va esaminata sotto il profilo delle eventuali
preclusioni alle deduzioni istruttorie, essendo i fatti secondari strumenti per
l'accertamento dei fatti principali, ma dal punto di vista del potere di
dedurre nuovi fatti principali, cioè nuovi fatti determinativi
dell'effetto giuridico, si pone il problema delicatissimo che da origine a
fiumi di giurisprudenza.
Secondo un'interpretazione, ildivieto di nuove richieste implica
necessariamente anche il divieto di deduzione di nuovi fatti produttivi degli
effetti giuridici, anche quando si tratti di fatti produttivi di quegli stessi
effetti giuridici che si sono invocati.
Però per un verso è
molto diffusa l'idea che l'onere dell'indicazione di fatti gravante sulle parti
in sede di introduzione della causa del giudizio in primo grado, l'indicazione dei
fatti costitutivi in particolare, va coordinato con l'idea secondo cui
quest'onere non è tanto funzionale da assicurare il diritto di difesa
della controparte e quando ad assicurare l'individuazione dell'oggetto del
giudizio, sicché, nell'ipotesi in cui l'oggetto del giudizio risulti comunque
determinato a prescindere dalla specifica indicazione dei fatti costitutivi e
della pretesa azionata, cioè la pretesa introdotta nel giudizio stesso,
il mutamento di questi fatti, comporti modificazione della domanda e possa
essere autorizzato in quanto modificazione e secondo alcune visioni estreme,
quindi potrebbe essere possibile persino in particolare riferimento a quelle
ipotesi di accertamento del diritto di proprietà su di un bene, per il
quale si invochi titoli di acquisto diversi.
Un discorso analogo potrebbe farsi
anche per le eccezioni, dicendosi che fermo restando l'effetto giuridico
invocato, allorché, non sia necessario per l'individuazione della situazione
sostanziale di vantaggio, in questo caso esercitata in funzione solamente
difensiva, l'enunciazione specifica dei suoi fatti costitutivi, mi sembrerebbe
che questi fatti possano cambiare. Naturalmente, qui ci sono delle opzioni di
valore a guidare la scelta. Prendiamo il caso dell'art. 1453! Si prevede
esplicitamente, in questa norma, che l'attore promossa l'azione di adempimento
del contratto possa, nel corso del giudizio, trasformare la sua domanda
mutandola in domanda di risoluzione del contratto. In questa parte,
chiaramente, la domanda è diversa! In che misura possiamo ritenerlo
possibile? Nella misura in cui è ammesso il mutamento della domanda al
ricorso del processo civile in via generale? Per lo più si ritiene di
no, perché si dice che cosa ci sta a fare una disposizione specifica nella
legge sostanziale, evidentemente questa deve consentire il mutamento della
domanda anche quando non sarebbe consentita in base alla regole generali, e si
aggiunge, vale osservare, che qui il mutamento della domanda implica la
deduzione di fatti diversi; perché ai fini della domanda di adempimento
è sufficiente che non ci sia stato adempimento, mentre per la
risoluzione è necessario che vi sia stato un grave inadempimento e la
gravità dell'inadempimento è un fatto in più e può
rientrare anche nella logica del principio di trattazione.
Nella dottrina tedesca quello che noi
enunciamo come principio dispositivo, viene enunciato come principio di
trattazione, con il che si allude anche alla circostanza, che il processo
civile sia in qualche modo anche una trattativa. Una forma di trattativa tra le
parti in conflitto che deve cercare di risolvere il conflitto anche
eventualmente con forme di accordo.
Nell'ambito della concezione del
processo come strumento di negoziato, può essere sensato, dicono alcuni,
che l'attore inizialmente non calchi troppo la mano sulla gravità
dell'inadempimento del convenuto per non pregiudicare eccessivamente i rapporti
nell'ipotesi di una loro continuazione a seguito della composizione del
conflitto e che solo quando questo si sia aggravato in guisa tale da non poter
essere più ricomposto attraverso una prosecuzione dei rapporti
commerciali, la domanda si trasforma in domanda di risoluzione e allora si tira
fuori tutte le lamentele. E allora per forza devono entrare dei nuovi fatti!
Per non parlare poi della questione probatoria, perché, lo abbiamo accennato
parlando in materia di onere della prova, l'interpretazione rigorosa del
diritto positivo prevede che, se si agisce per l'adempimento, l'attore abbia
l'onere di provare il contratto, ma non di provare l'inadempimento, gravando
caso mai sul convenuto ai fini del rigetto della domanda ha l'onere di provare
l'adempimento, mentre se l'attore agisce per la risoluzione del contratto egli
ha senz'altro l'onere della prova del grave inadempimento in capo a lui, e
quindi, in questo caso l'orientamento prevalente sembra essere nel senso che
tale norma debba anche implicare l'ammissibilità dell'introduzione di
nuovi fatti, pur quando questa introduzione possa risultare preclusa ai sensi
delle disposizioni generali del codice di rito e addirittura, potrebbe anche
essere intesa come norma suggestiva della più generale soluzione secondo
cui, il divieto di nuove richieste di pronuncia sugli effetti giuridici non si
traduca nel divieto di allegare nuovi fatti se non nella misura in cui
l'allegazione di nuovi fatti implichi necessariamente la richiesta di pronuncia
su un nuovo effetto giuridico, perché se il fatto costitutivo è anche
individuativo della situazione sostanziale azionata, è chiaro che se io
cambio il fatto costitutivo, a quel punto necessariamente propongo una nuova
domanda la cui proposizione, appunto, è vietata.
Per quanto riguarda invece
l'attività probatoria, l'art. 345 prevede una disposizione che secondo
l'interpretazione prevalente non è nemmeno dettata, come si potrebbe
pensare, dall'esigenza di garantire ordine nello svolgimento del processo al
fine di non rendere eccessivamente gravosa l'attività difensiva
dell'avversario che si trovi prodotte a sorpresa nuove prove. Secondo l'interpretazione
prevalente, la disciplina del divieto di nuove prove nel giudizio dell'Appello,
ha come ratio quella di favorire la concentrazione del giudizio
d'Appello, e cioè, il suo svolgimento nel minor numero possibile di
udienze, possibilmente, tendenzialmente in una unica udienza, e pertanto, va
letteralmente restrittivamente intesa come divieto di ammissibilità di
nuovi mezzi di prova, ma non come divieto di ingresso di nuove prove. E si
allude alla circostanza che vi siano prove che non richiedono mezzi di prova
per essere acquisite al processo, e cioè le prove precostituite; tutte
le prove documentali la cui acquisizione la processo e poi compiuta attraverso
il deposito in cancelleria e non richiede un'attività di acquisizione
delle prove attraverso la fissazione di udienza, non siano quindi prove
costituende, siano prove che liberamente trovare ingresso per la prima volta
nel giudizio dell'appello.
Solo le prove costituende, come il
giuramento l'interrogatorio formale, il giuramento in realtà poi
è sempre ammissibile, l'interrogatorio formale, la prova testimoniale
fondamentalmente, sono prove il cui ingresso in grado d'appello è
possibile solo alle restrittive condizioni poste dall'art. 345, e cioè
nel caso del giuramento decisorio, che può essere deferito addirittura
nel corso del giudizio di rinvio, il caso di quelle prove che il giudice
ritenga indispensabili, cioè non semplicemente irrilevanti come in
generale devono essere le prove ai fini della loro acquisizione nel processo
come prove costituende, ma che siano prove decisive tali da attaccare
drasticamente il contenuto della decisione trasformando l'accoglimento in
rigetto e viceversa, e ancora, in applicazione dei principi generali in materia
di rimessione in termini, tutte quelle prove che la parte dimostri di non aver
potuto produrre in precedenza per causa non imputabile.
Possiamo notare che nella
legislazione vigente, si riscontra una tendenza a ritornare alla regola che
impedisce la coltivazione di procedimenti le cui menzioni si riferiscono alla
stessa causa, uniti dalla moltiplicazione di procedimenti di impugnazione
riferiti alla stessa causa, restando possibili, alla luce dell'interpretazione
giurisprudenziale di cui abbiamo parlato, e restando possibile, comunque il
moltiplicarsi persino dei procedimenti riferiti alla stessa sentenza in
virtù della lettura che la giurisprudenza da della disciplina delle
impugnazioni incidentali. Per esempio nelle disposizioni del nuovo rito
societario che lo si prevede esplicitamente nelle ipotesi in cui le parti abbiano
fatto istanza congiunta di fissazione di udienza e quindi, in un certo senso,
abbiano entrambe manifestato l'aspirazione ad ottenere celermente una decisione
sul merito della causa, è indubbia l'applicabilità della nuova
disciplina in mancanza di questa condizione, cioè nell'ipotesi in cui
l'istanza di fissazione dell'udienza sia stata compiuta da una parte sola,
prevede che in quei casi in cui il giudice nelle cause soggette al rito
ordinario pronuncerebbe sentenza non definitiva, cioè una sentenza di
rigetto dell'eccezione non accomnata dall'accoglimento della domanda, il
giudice debba invece pronunciare ordinanza, dovendosi la stessa qualificare
come provvedimento non autonomamente impugnabile e quindi sendo
l'istituto della sentenza non definitiva, salva l'ipotesi
dell'impugnabilità, che non può comunque escludersi, di quel
provvedimento di rigetto dell'eccezione senza accoglimento della domanda, che
costituisca però pronuncia sull'eccezione di competenza, perché in questo
caso, il provvedimento anche in vista della giurisprudenza dominante in
proposito, sembrava di potersi negare la qualifica di provvedimento decisorio
sulla competenza necessariamente soggetto a regolamento di competenza e che
èimpugnazione a sua volta non
riservabile, ma proponibile immediatamente, e per altro, rispetto alla quale,
in effetti, non si pone il problema della moltiplicazione dei procedimenti
d'appello nei confronti della stessa decisione, trattandosi appunto di
decisione impugnabile soltanto direttamente in Cassazione.
Questa
impostazione, piace molto, questa di prevedere che la questione sia risolta con
ordinanza, anziché, come era nel codice del '42, comunque con sentenza
però non immediatamente impugnabile, ma solo impugnabile alla pronuncia
della sentenza definitiva, cerca di suggerire anche l'idea che la pronuncia su
mere questioni sia pronuncia inidonea la giudicato! Invito a ricordarvi la
questione del problema che abbiamo visto nelle prime lezioni della formazione
del giudicato sulle sentenzenon definitive
di merito o di rito.
Ci sono supposizioni teorico generali
come quelle riferibili al principio dell'effetto sostitutivo e dell'effetto
devolutivo dell'appello e del principio del doppio grado di giudizio, sia
suggestivo ai fini dell'interpretazione delle norme di diritto positivo
relative al giudizio d'appello, più nel contesto della pressi
giurisprudenziale che facilmente prende sul serio questo tipo di
argomentazioni, che in sede propriamente scientifica, ove in realtà,
qualche perplessità nei confronti di applicazioni così
automatiche di principi generali di difficile individuazione in termini
specifici di diritto positivo, possa destare delle perplessità.
Vediamo altri tre casi illustrativi
di questo tipo di problema, che tipicamente si pone nella disciplina
dell'appello!
1)Uno è quello riferibile
alla differenza di disciplina riscontrabile fra l'Appello e ricorso per
Cassazione dal punto di vista del termine per l'impugnazione incidentale.
Quando abbiamo parlato dei termini per l'impugnazione incidentale, per
semplicità ci si è limitati ad accennare la circostanza
dell'impugnazione incidentale in appello tardiva o tempestiva che sia si compie
con la sa di risposta in sede di costituzione tempestiva nel giudizio di
appello, però occorre rimarcare che, mentre nella disciplina del ricorso
per Cassazione sembra potersi evincere che il termine per la impugnazione
incidentale sia comune a tutte le parti dovendosi compiere il ricorso
incidentale nel controricorso, il quale a sua volta va depositato entro un
termine di 40 giorni dall'ultima notificazione, in Appello, l'art. 343, che
esprime su che linea generale il termine sia quello per la tempestiva
costituzione in giudizio dell'appellato alla sa di risposta, ma prevede
anche al 2° comma, finché sia ancora ammissibile, qualificandosi come tardivo o
tempestivo a seconda se sia decorso il termine per l'impugnazione principale,
l'appello incidentale proposto nell'udienza successiva alla proposizione di
altro appello incidentale da quella parte il cui interesse ad appellare sia
sorto soltanto per effetto della proposizione di altro appello incidentale, con
riferimento alle controversie con pluralità di parti. In realtà
si può arrivare ad un'interpretazione che consente di giungere alla
stessa soluzione con riferimento al giudizio di Cassazione, ma più in
generale, io direi, che l'eventualità che si attribuisca un
termine unico per l'impugnazione incidentale comune a tutte le parti ai fini
del ricorso per Cassazione, un termine potenzialmente differenziato ai fini del
giudizio di Appello, potrebbe non essere motivo di particolare scandalo,
dovendosi ricollegare alla particolare disciplina dell'Appello rispetto a
quello della Cassazione, alla circostanza che l'appello continui comunque ad
essere ancora un giudizio nel merito diretto ad una funzione naturalmente di
proseguire la pronuncia anche rescissoria in quello stesso giudizio e
d'altronde il giudizio di Cassazione conserva ancora, seppure in questa
caratteristica sia andata, come vedremo, attenuando progressivamente nel corso
degli anni, la natura di un giudizio con una funzione che per natura
normalmente rescindente, non diretta quindi ad ottenere un nuovo esame del
merito della decisione impugnata.
2)Altro tema è quello della
possibilità di rinvenire nella disciplina dell'appello, un divieto di reformatio
in peius, e cioè una regola per cui la sentenza non potrebbe essere
riformata in pregiudizio della parte impugnate l'opinione più plausibile
da dare per la soluzione di questo problema di chi ritiene che al dispetto di
quanto affermava parte della dottrina, anche della dottrina che ha scritto il
codice del '42 (Piero Calamandrei), un fondamento di diritto positivo in tema
di reformatio in peius non esiste, e si deve ritenere che tanto in
Appello quanto in Cassazione non si possa negare la possibilità per il
giudice di rilevare d'ufficio questioni sulle quali non si è formata
preclusione e non sia ancora pervenuta ad una pronuncia nei precedenti gradi
del processo, nella possibilità di rilevare d'ufficio nuove questioni,
conduce all'eventualità che l'attore che si sia visto parzialmente
respingere la domanda di condanna e sia unico impugnante la sentenza, si
ritrovi a conseguire in grado d'Appello una pronuncia di rigetto totale del merito
della domanda stessa, in tutte quelle ipotesi in cui, ad esempio non sia stato
individuato l'oggetto del giudizio nella citazione, questa, pertanto, sia
affetta da nullità radicale sotto il profilo dell'edictio actionis,
sia siasi avuta comunque una pronuncia di parziale accoglimento della domanda
da parte del giudice di primo grado senza provvedere alla sanatoria della
nullità di citazione, il giudice di appello che dispone di tale
nullità, deve necessariamente definire il giudizio in rito con rigetto
totale della domanda, e questa imparità non può essere esclusa
sicché, possiamo immaginare un divieto di reformatio in peius soltanto
nella misura in cui siano disposti ad affermare che in realtà, che
questa riforma non è una riforma peggiorativa sulla base che l'attore
potrebbe, in questa ipotesi riproporre la domanda e in tal caso anche ottenere
una pronuncia di integrare essa in un successivo procedimento, ma si tratta di
un modo per arrampicarsi sugli specchi per sostenere che questa pronuncia non è
una pronuncia peggiorativa per l'attore, rispetto al contenuto della pronuncia
da lui stesso impugnata, e da questo punto di vista non rinvengono elementi che
consentano di distinguere fra procedimento d'Appello e procedimento di
Cassazione.
3)Infine, ultima questione, che
invocando il principio del doppio grado di giudizio si possano trovare
argomenti per prendere posizioni in merito all'ambito d'applicazione
dell'istituto della rimessione al primo giudice. È inequivoco il dettato
legislativo che prevede che la
rimessione della causa al primo giudice possa aver luogo soltanto nei casi
espressivamente, tassativamente indicati dagli artt. 353 e 354, e ricordiamone
i casi che sono sei: (a) - l'ipotesi in cui il giudice d'appello
riformi la sentenza con cui il giudice di primo grado ha negato la propria
giurisdizione, sbagliano tutti quelli che cominciano in sede
d'esame, dicendo "quando venga riformata la sentenza sulla giurisdizione", no! Solo
quando venga riformata la sentenza che nega la giurisdizione, sul
presupposto che in quest'ipotesi soltanto la parte sia meritevole di ottenere
un nuovo esame del merito della domanda del giudice di primo grado, e non
nell'ipotesi in cui invece venga riformata la sentenza che afferma la
giurisdizione, perché se il giudice d'appello nega la sentenza della
giurisdizione, non vi è ragione per rimettere la causa al giudice di
primo grado essendo affermata l'insussistenza della giurisdizione.
Un tempo l'art. 353 contemplava anche l'ipotesi della riforma in
Appello della sentenza con cui il giudice avesse negato la propria competenza,
norma applicabile soltanto agli appelli contro quelle sentenze, prima del
conciliatore poi del giudice di pace, sentenze declinatorie della competenza,
non soggette a regolamento di competenza per il disposto dell'art. 46, che
esclude la proponibilità del regolamento contro le sentenze di
competenza del giudice di pace e del conciliatore. Il legislatore del '90 aveva
abrogato il 2° comma dell'art. 353, nella parte che prevedeva questa possibilità,
in connessione con l'introduzione della generale regola
dell'inappellabilità delle sentenze del giudice di pace, risultavano
sempre e soltanto ricorribili per Cassazione e sicché non aveva senso
immaginare a quel punto che priva di ambito d'applicazione l'ipotesi
dell'appellonei confronti di sentenza
declinatoria della competenza, poiché la stessa era soggetta a regolamento di
competenza o in mancanza al ricorso per Cassazione. Successivamente,
però è stata ripristinata l'appellabilità delle sentenze
del giudice laico, quando non siano pronunciate secondo equità,
pertanto, quando si tratti di sentenze declinatorie della competenza, il mezzo
d'impugnazione a disposizione delle parti, in questo caso è, l'appello.
Il giudice di pace che, erroneamente abbia declinato la propria competenza,
è un giudice che ha emanato una sentenza erronea e viziata per motivi di
rito, ma non si vede perché non debba accadere, come accade nella
generalità delle ipotesi di pronunce viziate di rito, che possano essere
sostituite dalla sentenza nel merito del giudice d'Appello, senza bisogno di
far ricominciare la causa dal grado precedente del giudizio, visto che,
tralaltro, questo errore del giudice di pace non si è tradotto nello
svolgimento del processo dinanzi ad un giudice diverso da quello competente,
perché effettivamente era lui il giudice competente, il che implica che si
abbia il diritto che venga riformata la sentenza con cui il giudice di pace ha
erroneamente confermato la propria competenza, ma in questo caso, non si viola
la tassatività della rimessione al primo giudice, di cui agli artt. 353
e 354, perché, questa è una rimessione in primo grado ad altro giudice
non al primo giudice, e questo può suggerire che il regolamento di
competenza è utile nei confronti delle erronee pronunce affermative
della competenza nei confronti delle erronee pronunce denegatorie della
competenza del tutto meno utile, perché tutto sommato il giudizio d'appello
potrebbe ben svolgere la sua funzione di controllo in maniera efficiente ed
esauriente rispetto a questo tipo di pronunce. L'accelerazione dei tempi che
deriva dalla circostanza che non sia possibile un ulteriore impugnazione della
sentenza che riforma l'erronea pronuncia affermativa della competenza, forse
poterebbe non essere così rilevante da giustificare, come oggi
giustifica, la possibilità di raddoppiare l'accesso alla Corte di
Cassazione perché è valido il riferimento alla stessa causa che è
invece la conseguenza dell'applicabilità del regolamento di competenza.
(b) - il caso della pretermissione del litisconsorte necessario e qui è sufficiente richiamare quanto più volte detto, e
accanto a questo caso vi è quello speculare, cioè;
(c) - il caso dell'erronea estromissione di una parte, entrambe sono ipotesi il cui procedimento di primo grado si è
svolto senza l'evocazione in giudizio di una parte necessaria, per converso,
non è motivo di rimessione al primo grado la circostanza che abbia
invece partecipato al giudizio una parte che doveva essere estromessa, quindi,
non tutte le volte che si riformino le pronunce in tema di estromissione,
bensì solo quando da tale riforma si evinca che avrebbe dovuto
partecipare una parte in più, se invece ha partecipato una parte in
più, non dico che non valga la regola utile per inutile non vitiatur,
però, la circostanza che una parte purtroppo sia stata evocata nel
giudizio di primo grado, può certamente giustificare la riforma della
sentenza impugnata, ma non la rimessione della causa al primo giudice.
(d) - ipotesi della sentenza priva di sottoscrizione del giudice, cioè quella sentenza a cui si attribuisce l'inidoneità
del passaggio in giudicato, giusto l'art. 161 comma 2, nella parte in cui
esclude l'applicazione a tale sentenza della regola della necessaria
conversione delle nullità per motivi di gravame, talché la
nullità della stessa può essere, si dice, fatta valere anche
oltre il suo passaggio in giudicato formale. La circostanza che, sia l'ipotesi
di pretermissione del litisconsorte necessario, sia l'ipotesi di omissione
della sottoscrizione al giudice, siano qualificati come casi di rimessione al
primo giudice, non deve però, necessariamente suggerire che debba
equipararsi il trattamento delle due ipotesi nei casi di passaggio in giudicato
formale della sentenza, e cioè che si debba addivenire alla conclusione
che la sentenza resa in assenza del litisconsorte necessario sia inuliter
data o inesistente, e quindi, il vizio possa essere fatto valere anche
oltre al passaggio del giudicato formale, persino da quanti abbiano partecipato
a quale giudizio oltre, ovviamente, alla parte del litisconsorte pretermesso.
Preferibile è la conclusione per cui, le parti che hanno partecipato al
giudizio sono private della possibilità di far valere tale
pretermissione come motivo di nullità, anche successivamente al
passaggio in giudicato formale della sentenza.
(e) - ipotesi in cui venga riformata la sentenza dichiarativa
dell'estinzione del processo resa a seguito di reclamo, perché intorno alla questione dell'estinzione del processo, la legge
prevede una particolare modalità di pronuncia nell'ipotesi in cui la
causa sia soggetta a riserva di collegialità. Questa disciplina non
è applicabile ai casi di composizione monocratica dell'organo
giudicante. Nei casi di composizione collegiale si prevede che l'estinzione
possa essere dichiarata ai sensi dell'art. 308, con ordinanza dal giudice
istruttore e che tale provvedimento, non possa essere oggetto di reclamo al
collegio. Reclamo a seguito dell'esperimento del quale soltanto, il collegio
pronuncia una vera e propria sentenza sulla questione, risultando prevista
l'impugnabilità con appello, solo della sentenza che dichiara
l'estinzione, e non già dell'ordinanza non reclamata. Si tratta
dell'unica ipotesi in cui è sopravvissuto un istituto di larghissima
applicazione, in epoca precedente alla riforma del '90, cioè
dell'istituto del reclamo al collegio che trovava applicazione in precedenza,
con riferimento anche a tutte le ordinanze in materia di ammissione dei mezzi
di prova. Eliminata questa reclamabilità, anche alle ipotesi in cui
sussista riserva di collegialità, è residua ancora l'ipotesi
della reclamabilità dell'ordinanza dichiarativa dell'estinzione del
processo, ebbene, l'art. 354, prevede altresì, che laddove la sentenza
dell'estinzione del processo così dichiarata, venga riformata in
Appello, venga anche disposta la rimessione della causa al primo giudice, sul
presupposto che anche in questo caso, la parte sia meritevole di ottenere un
nuovo, più approfondito esame della propria domanda da parte del giudice
di primo grado, peraltro, ovviamente, non può aversi nessuna rimessione
ne, nelle ipotesi in cui la declaratoria di estinzione sia avvenuta prettamente
con sentenza da parte del collegio, in quei casi in cui soltanto in quella fase
si è prodotta la fattispecie estintiva, si sia prodotta quando questa
già si è giunti alla fase decisoria della causa, e anche,
applicabile questa soluzione, in tutti i casi in cui l'estinzione sia stata
dichiarata da un giudice monocratico, perché il giudice monocratico, sull'eccezione
di estinzione pronuncia invece, direttamente con sentenza, senza quella che
sarebbe un'inutile superfetazione, della pronuncia di ordinanza con reclamo a
se stesso, ma dal punto di vista della parte, e cioè del pregiudizio che
subisce la parte, se un pregiudizio vi è, meritevole di conseguire la
rimessione al giudice di primo grado, nell'ipotesi in cui l'estinzione sia
dichiarata con sentenza a seguito di reclamo contro l'ordinanza, tale
pregiudizio consiste nella circostanza che l'estinzione sia stata dichiarata
prima di avere esaurito la trattazione dell'esame del merito della causa e
l'acquisizione delle risultanze probatorie in proposito, ma se la causa si
è svolta dinanzi al giudice monocratico, la pronuncia di sentenza,
direttamente da parte del giudice monocratico, si può avere in quelle
stesse ipotesi, in cui può avvenirela pronuncia con sentenza a seguito di reclamo contro l'ordinanza da
parte del giudice collegiale. E perché mai viene disposta la rimessione al
primo giudice? Perché in un caso e non nell'altro? Si potrebbe dire, perché il
legislatore del '42 nello scrivere questa norma, aveva in mente come ipotesi
generale quella della collegialità, e come caso eccezionale quello della
monocraticità, perché in generale era competenza del tribunale, mentre i
giudici monocratici svolgevano una giustizia minore e meno importante, quindi,
meno garantita perché minore, dovendosi garantire meglio, invece, la giustizia
innanzi al tribunale in ipotesi dedicate alle cause più importanti. Però,
al di la degli intendimenti del legislatore storico, se noi analizziamo le
risultanze del diritto positivo oggi vigente, dobbiamo giungere alla
conclusioneche l'individuazione dei
casi di rimessione al primo giudice, è totalmente arbitrario, non ha
nessun carattere di sistematicità, e quindi, non costituisce affatto un
argomento per affermare sul piano sistematico la vigenza del doppio grado di
giudizio, e men che meno passibile di interpretazione correttiva alla luce
dell'affermazione del principio del doppio grado di giudizio, che nemmeno trova
riscontro in altre disposizioni del diritto positivo come principio generale.
Queste considerazioni ci introducono l'esame del problema più delicato
posto dalla tassatività dei casi di rimessione al primo giudice,
cioè;
(f) - ipotesi della nullità della notificazione della
citazione, perché il caso è
problematico? Soprattutto alla luce del diritto vigente, nella parte in cui
almeno le nullità di citazione riferibili alla cosiddetta voctio in
ius, sono soggette ad un regime analogo a quello delle nullità di
notificazione. Lo spirito che informa la disciplina delle nullità di
citazione a seguito della riforma del '90, è uno spirito molto diverso
da quello che informava la disciplina previgente, perché, la disciplina
previgente tendeva a seguire l'idea di fondo, e cioè che, le
nullità di notificazione, in linea di massima, fossero imputabili
all'ufficiale giudiziario, e quindi per quello dovevano perdonarsi più
facilmente, per quello doveva ammettersi la retroattività dell'effetto
sanante della rinnovazione, mentre le nullità di citazione, erano
imputabili alla parte, però, l'applicazione pratica , per un verso, ha
messo in luce come in realtà, le nullità di notificazione possano
trovare causa anche nel comportamento della parte, che indica all'ufficiale
giudiziario un luogo di notificazione diverso da quello giusto, e per altro
verso, si è osservato! Alcune nullità di citazione, ma non
proprio di citazione e si spiega il perché, non dipende dalla parte, perché, si
era diffuso sempre di più, l'utilizzazione del modello di introduzione
della causa tramite ricorso, in luogo del sistema della citazione ad udienza
fissa, e il meccanismo dell'istruzione della causa tramite ricorso, determina
un'inversione dell'ordine dei soggetti destinatari dell'atto, cioè, la
citazione si notifica alla parte e poi si deposita in giudizio, e dato che si
notifica alla parte prima ancora di accedere al giudice dato che quando si
notifica alla parte bisogna anche dire all'avversario quando ci si vede,
è l'attore ad indicare la data dell'udienza, la indica provvisoriamente
poi in caso si sposta in avanti, e deve lasciare dei termini a ire, il
termine a ire è un termine acceleratorio per la notifica della
citazione rispetto alla data dell'udienza scelta dalla parte, cioè se
l'udienza è il giorno "x", devo notificare la citazione al convenuto un
bel po' di giorni prima del giorno "x" affinché possa prepararsi, altrimenti
sono violati i termini di difesa, e la disciplina generale classica della
citazione, quella del codice del '42, la violazione di questo termine si
qualificava come nullità della citazione, ed era inequivocabilmente
imputabile alla parte che si è mossa tardivamente nel promuovere la
notificazione, ovvero aveva scelto una data d'udienza troppo ravvicinata. Se
però la causa si introduce per ricorso, prima il ricorso si deposita in
cancelleria, e il giudice indica la data dell'udienza e a quel punto, l'attore
notifica al convenuto ricorso unitamente al decreto che fissa la data d'udienza.
Questo modello di introduzione della causa, era apprezzato per la sua funzione
acceleratoria, sulla base dell'idea che se invece l'attore cita udienza fissa,
è lui stesso a scegliere la data d'udienza, e potrebbe avvalersi di
questa opportunità ai fini dilatori, potrebbe anche l'attore avere
motivi dilatori e può succedere che l'attore voglia perdere tempo, e
quindi, si dice col sistema ad un udienza fissa, ma niente gli impedisce di
fissare l'udienza da qui a quattro anni! Oggi, quando sento dire da parte dei
settori maggiormente orientati a difendere i comportamenti e le prassi
dell'avvocatura, e sento dire: "questa è una panzana!.. ma quando mai ,
l'attore ha sempre fretta!", ma non sanno che la giurisdizione italiana
è nota per l'effetto torpedine? Poi, non dobbiamo neanche esaltare il
meccanismo del ricorso, perché, non era completamente insensato l'idea di
affidare al giudice la determinazione della data della prima udienza. Poi il
sistema del ricorso ha anche altri problemi, come accennato a suo tempo,
all'utilizzabilità del sistema del ricorso ai fini della scelta del
magistrato designato alla trattazione della causa.
Qui il giudice fissa l'udienza e naturalmente l'attore notificare
ricorso e decreto rispettando i termini a ire, ma ben può darsi
che il giudice fissi l'udienza in una data in cui l'attore non ha materialmente
modo a rispettare i termini a ire, perché l'udienza è talmente
ravvicinata che non è possibile notificare il decreto tempestivamente, e
quindi avremmo una nullità qualificata come nullità di citazione
che però non è imputabile alla parte, e si cominciò a dire
che forse era meglio ricondurre la disciplina della nullità degli atti
introduttivi del giudizio, e in particolare la disciplina della
retroattività delle sanatorie delle nullità degli atti in
giudizio, ad una diversa ratio cioè non quella della distinzione
fra errori imputabili alla parte ed errori imputabili all'ufficiale giudiziario
o al giudice, bensì alla distinzione fra errori impeditivi della
determinazione dell'oggetto del giudizio ed altri errori, sul presupposto che
quelli impeditivi della determinazione dell'oggetto del giudizio siano talmente
gravi da non meritare sanatoria retroattiva, non potendo essere sanati per
raggiungimento dello scopo, poiché, la costituzione tempestiva del convenuto
non comporta comunque raggiungimento dello scopo dell'atto, perché non è
sufficiente acconsentire, comunque l'individuazione dell'oggetto della domanda,
mentre per gli atri errori, si può ragionevolmente concludere; quegli
errori che consistano nell'individuazione della parte, quelli
dell'individuazione del giudice adito, e così via, una sanatoria per il
raggiungimento dello scopo per effetto della costituzione del convenuto,
fissando eventualmente il nuovo termine per il compimento delle attività
previste a pena di preclusione in favore del convenuto costituitosi magari per
caso conoscendo il giorno prima della causa, però, con la costituzione
del convenuto, senz'altro, si evince all'individuazione del giudice adito, all'individuazione
che era lui l'avversario c'è arrivato, lo ha capito lo stesso anche se
ci eravamo sbagliati a scrivere! E quindi lo scopo è raggiunto, e in
questi casi, indipendentemente che l'errore sia imputabile alla parte piuttosto
che all'ufficiale giudiziario, si possa ammettere l'efficacia retroattiva della
sanatoria per raggiungimento dello scopo consistente nella costituzione del
convenuto, e quindi, analogamente anche, l'efficacia retroattiva della
sanatoria per rinnovazione dell'atto, retroattiva, cioè tale da
risultare compatibile con la produzione degli effetti sostanziali e processuali
della domanda dal momento della sua originaria, seppure viziata proposizione,
anziché, dal momento della sanatoria per rinnovazione della nullità stessa.
Gli effetti sostanziali della domanda sono l'interruzione e la sospensione
della prescrizione, nel senso che non solo si produce l'effetto interruttivo,
ma il nuovo periodo comincia a decorrere dal giudicato ed è sospeso il
ricorso della prescrizione per tuta la durata dello svolgimento del processo a
meno che, si estingua. (effetti sostanziali della domanda: provvedimenti
ultrattivi, caducazione generale altrimenti degli atti, sopravvivenza
dell'effetto forse impeditivo della decadenza, senz'altro del mero effetto
interruttivo della prescrizione, caducazione dell'effetto interruttivo
sospensivo, impedimento della decadenza, l'obbligo di restituzione dei frutti
del possessore di buona fede) questi un po' di effetti sostanziali della
domanda, tutte manifestazioni del principio per cui, la durata del processo non
deve tornare a pregiudizio dell'attore che abbia ragione. Cosiccome la
disciplina della probatio iurisdictionis, alienazione della res
letigiosa, tutte norme convergenti nell'attuare questo principio generale.
Si discute molto, allorquando la causa introdotta mediante ricorso, su
quale sia il momento esatto di proposizione della domanda ai fini della
produzione dei suoi effetti sostanziali processuali, perché, quale causa
introdotta con citazione in base alle regole generali, si ritiene ormai
acquisito che tali effetti si producano dal momento della notificazione della
citazione, a seguito, soprattutto, della teorizzazione di Chiovenda, perché un
tempo, molti ritenevano che si producessero soltanto quando si fosse
perfezionato il rapporto giuridico processuale attraverso il contatto fra tutte
le parti di quel rapporto, cioè allorquando l'attore avesse contattato
sia il giudice, sia il convenuto. Invece nel codice del '42, notificazione alla
citazione quello è il momento, ma in caso del ricorso, almeno alcuni
effetti si producono al momento del deposito, per altri occorre anche attendere
la notificazione del ricorso del pedissequo decreto di fissazione dell'udienza,
e cioè con riferimento all'effetto interruttivo della prescrizione, per
il quadro della disciplina sostanziale del codice civile, fa riferimento alla
notificazione della domanda, e alla luce della ratio della disciplina
della prescrizione, disciplina che tende a proteggere il diritto della parte, a
disfarsi delle prove a se favorevoli dopo un certo periodo di tempo, e che
quindi deve operare con riferimento alla conoscenza del contenzioso da parte
della parte interessata. Casomai, potendosi, in riferimento della decadenza
come disciplina diretta, invece, a far gravare sulla parte interessata un onere
di tempestiva attivazione che si può ricollegare al deposito del
ricorso, potendosi lo stesso, qualificarsi appunto come iniziativa sufficiente
a manifestare la volontà di attivarsi a difesa della posizione sostanziale
da parte dell'attore. La prescrizione protegge soprattutto il convenuto, e
quindi l'interruzione opera dal momento della notifica, la decadenza,
soprattutto è un onere fatto gravare sull'attore che si definirebbe dal
deposito. In questo tema molte posizioni si battono, e molta diffusa è
l'idea che nei casi di ricorso gli effetti sostanziali si producano con la
notificazione e gli effetti processuali, come perpetuatio iurisdictionis,
litispendenza, cioè per la proposizione della domanda innanzi ad altro
giudice ex art. 39, si producano dal momento del deposito del ricorso stesso,
però questa distinzione è troppo meccanica e convince poco, e
quindi questo riferimento alla distinzione tra effetti sostanziali e
processuali non è molto convincente sul piano dell'analisi della rationes
della disciplina più forte, preferisco quella a secondo dell'effetto
distingue alla luce della ratio di quella norma che produce quell'effetto
stesso.
Ma torniamo alla riforma dell'art.
164, cioè della riforma tra vizi sanabili per il raggiungimento il fine
dello scopo a seguito della costituzione del convenuto e vizi rispetto ai quali
la costituzione del convenuto non può comportare sanatoria per il
raggiungimento dello scopo.
Così riformulata la disciplina
dei vizi degli atti introduttivi del processo, dobbiamo ritenere che debba
reintegrarsi coerentemente anche la disciplina dell'ipotesi di rimessione al
primo giudice? E che quindi, tale rimessione debba disporsi, oltre che nei casi
di nullità della notificazione della citazione, anche nei casi di
nullità della citazione, perlomeno in quelle ipotesi in cui i vizi
afferiscano alla vocatio in ius? E possano essere quindi sanati
retroattivamente come suggerisce la soluzione al primo giudice che consente
quanto meno la conservazione degli effetti della domanda proposta nel giudizio
di primo grado? Alcuni l'hanno sostenuto, però, anche qui potremmo dire
che la riforma del '90 avrebbe potuto prevedere anche la modifica dell'art. 354
e non lo ha fatto.
In altre ipotesi abbiamo visto ora
parlando del problema della riforma delle sentenze dichiarative
dell'estinzione, capita che dinanzi a pregiudizi analoghi per la parte
soccombente impugnante, in alcuni casi sia rivisto la rimessione al primo
giudice e in altri no, senza che sia possibile individuare una reale ragione
della distinzione, sicché, pare automatico concludere, che appunto,
l'individuazione dei casi di rimessione è assolutamente arbitraria, e
proprio per questo, non suscettibile di alcuna applicazione ne analogica ne
estensiva, e quindi che soluzione dobbiamo adottare nell'ipotesi di
nullità di citazione? Se si tratta di nullità riferibile alla vocatio
in ius, a questo punto sembra naturale ammettere che la rinnovazione possa
essere disposta direttamente dal giudice d'Appello e possa condurre quindi,
alla pronuncia anche di una sentenza di accoglimento della domanda nel merito
da parte del giudice d'Appello, previa rinnovazione dell'attività
d'istruzione probatoria validamente compiuta in primo grado, anche quando
ovviamente, il convenuto siasi costituito soltanto nel giudizio d'appello, o
addirittura, ancora, se è rimasto contumace nel giudizio d'appello, in
quanto, in questi casi, il diritto positivo non attribuisce alla parte il
diritto a conseguire un nuovo esame della controversia da parte del giudice di
primo grado, e dato che il diritto positivo non lo prevede non ci sono ragioni
per introdurloin via interpretativa.
Diverso è il discorso da farsi
nell'ipotesi in cui il vizio concerna l'edictio actionis, perché qui la
possibilità di sanarla tramite attività da compiersi direttamente
in grado d'appello, appare esclusa dall'interpretazione, non già
dall'invocazione di un generico principio del doppio grado del giudizio, ma
dall'invocazione specifica della norma contemplata dall'art., che appunto,
inequivocabilmente esclude la proposizione di nuove domande in grado d'appello,
dovendosi qualificare chiaramente la domanda che per la prima volta venga
effettuata e individuata in tale sede, come tale domanda in tale sede nuova, e
quindi inammissibile, sicché, in questa ipotesi il giudizio deve concludersi
necessariamente con sentenza assolutoria dell'osservanza del giudizio del
convenuto.
·La Cassazione
Per molto tempo, l'umanità ha
pensato che per due punti passasse una e una sola retta, però non
è così, esistono anche geometrie non euclidee, per cui per due
punti di retta non ne passa neanche una o magari ne passano più d'una,
dico questo come ad una domanda che dovremmo porci parlando della Cassazione.
Per un caso esiste una e una sola soluzione giusta o almeno una e una sola
soluzione conforme alla legge? È un bel quesito, perché, compito della
Corte di Cassazione è quello previsto dall'art. 65 ord. giud., che assicurare
l'esatta uniforme applicazione della legge, e sovente si contrappone il ricorso
per Cassazione ai mezzi di gravame dicendo che quello è proposto ad
assicurare la legalità delle decisioni e questi ad assicurarne la
giustizia.
Proviamo a capire cosa si cerca di
intendere con queste formulazioni, prendendo le mosse da una questione
abbastanza sottile! Come ricorderete le pronunce del giudice di pace,
pronunciate secondo equità sono ricorribili per Cassazione, e quando il
giudice di pace pronuncia secondo equità, si tratta di un'equità
sostitutiva e non meramente integrativa, sicché, il giudice di pace
nell'applicare l'equità, ben può disapplicare norme di legge,
anzi, è normale che ciò accada, perché si dice, la giustizia di
equità è giustizia del caso concreto, mentre l'applicazione della
legge prescinde dal tener conto dei dettagli della fattispecie, ed invece una
sensibilità emendativa che tende all'esigenze del caso concreto si
considera irrilevante. E allora perché consentire il ricorso in Cassazione? Per
verificare che la decisione presa secondo equità non applica
direttamente le norme di diritto? Appunto è ciò che deve fare! In
realtà esiste una maniera per giustificare il ricorso per Cassazione nei
confronti di queste pronunce concludendo che il controllo della Cassazione da
soltanto su particolari aspetti, per esempio; la norma che autorizza il giudice
di pace a decidere secondo equità è norma di legge, e quindi, la
sua applicazione è controllabile in Cassazione, sicché la parte
soccombente è in tempo a ricorrere sostenendo che il caso deciso secondo
equità non rientrava fra quelli che secondo la legge potevano essere
decisi in quella maniera; e poi ancora! Il giudice autorizzato a decidere
secondo equità, ma non a procedere secondo equità, sicché per
eventuali violazioni di norme processuali compiute nel giudizio dinnanzi al
giudice di pace, sono denunciabili in Cassazione senza che frustri il potere
attribuito al giudice di pace di decidere secondo equità. E poi ancora!
La norma che conferisce al giudice il potere di decidere secondo equità,
è norma di legge ordinaria, pertanto, vuol giustificare la
disapplicazione di norme di legge ordinarie, ma giammai la disapplicazione di
norme costituzionali, sicché, anche l'eventuale violazione di queste può
essere denunciata in Cassazione.
Più problematica è
l'ipotesi, che alcuni conurano, secondo cui la Cassazione potrebbe
controllare se la decisione equitativa del giudice è stata abbastanza
equa, perché è problematico questo? Perché, è appunto, la regola
di equità, la regola di un caso concreto, di un caso particolare, che
tiene conto di dettagli, mentre il controllo della Cassazione dovrebbe essere
un controllo passibile di generalizzazione, e prescindere dal dettaglio, che
assicura un'interpretazione della legge e che abbia caratteristiche di
esattezza e anche di uniformità di generalizzabilità della
decisione, sicché se si concedesse alla Cassazione di elaborare una
giurisprudenza equitativa la cui applicazione possa invocarsi ai fini
dell'annullamento delle pronunce del giudice di pace, allora si, frustreremmo
l'intento che si voleva perseguire attribuendo al giudice di pace poteri di
decisione negativa.
Consideriamo un altro aspetto! Quello
che riguarda il rapporto tra il riesame dell'applicazione delle norme giuridiche
e il riesame del fatto, talché si dice che la capacità dell'appello di
porre rimedio alle ingiustizie delle decisioni, dipende dalla circostanza che
il giudice d'Appello possiede un proprio potere di libero apprezzamento, quindi
di nuova, libera, seppure prudente, comunque portando un certo grado di
libertà alla capacità di apprezzamento delle risultanze
probatorie che sarebbe invece sottratta alla Cassazione, il cui apprezzamento
delle risultanze probatorie deve essere compiuto su base esclusivamente documentale.
Alle opposte valutazioni delle
risultanze probatorie, non è sufficiente dire che una delle due è
ingiusta, occorre dire anche che una delle due sia illegittima e più in
generale la contrapposizione tra questioni di rito e questioni di fatto, e soprattutto
se la si osserva in chiave atistica, rivela avere sul piano ontologico
scarsa tenuta a prescindere dai dubbi che si possono porre su delle
ricostruzioni filosofiche e che ancora hanno per gara questa distinzione, la
classica analisi di Sall sulla distinzione fra fatti bruti e fatti
istituzionali, comunque, ci accorgiamo che la distinzione tra fatto e diritto
ricorre in vari ordinamenti, ma non è sempre uguale, perché, per esempio
negli ordinamenti di common law tende a ricalcare la ripartizione dei poteri
fra il giudice e al giuria, sicché si dice, che la giuria è il giudice
del fatto, ma ciò che la giuria compie è un giudizio che
comprende anche aspetti di connotazione giuridica, perché la giuria non si
limita a dire che Tizio ha sparato a Caio, ma Tizio è colpevole di
omicidio. Su questo c'è un episodio storico volendo abbastanza simpatico
da ricordare e consente di spiegare cosa ci sia dietro all'idea di costruire un
organo di vertice dell'autorità giudiziaria preposto al controllo di
mera legittimità delle decisioni.
Ci sono due aspetti informatori di
questo tipo di istituto! Un aspetto è schiettamente organizzativo. Dal
momento in cui si prevede che gli organi preposti all'amministrazione della
giustizia siano organizzati secondo un modello gerarchico piramidale, reclutati
per una carriera burocratica sin da giovane età, una carriera che si
svolge attraverso una progressione lungo i gradini della gerarchia
dell'amministrazione della giustizia, succede che ovviamente siano molto numerosi,
i soggetti preposti a difendere una prima decisione impugnabile, ma man mano
che si sale i gradini della gerarchia i magistrati diventano sempre meno
numerosi al vertice della piramide, però, devono riesaminare tutte le
decisioni e se un gruppo ristretto deve riesaminare tutte le decisioni di un
gruppo di persone molto più ampio, ha una sola possibilità per
non affogare e per tenere il passo del loro lavoro, e questa possibilità
è compiere l'attività di controllo nella maniera più
possibile standardizzata, nel creare il più possibile una routine, e
questo sistema, si rafforza, per cui, coloro che sono posti ai gradini
più bassi e che magari, per fare carriera, si adeguano al sistema e
fanno in modo di rendere le loro decisioni, anche loro in maniera più
possibile standardizzata per facilitare il riesame nel senso di renderlo
più veloce e naturalmente questo implica, poi che la standardizzazione
serva anche a loro a conservare dei margini di discrezionalità non
controllabili, sicché alla fine l'esperienza detta che è più
utile al soldato l'amicizia del maresciallo che quella del generale, attraverso
le tecniche di qualificazione e inquadramento della fattispecie che molto, in
realtà, riesce per sfuggire alla possibilità di legittimità
, e a sua volta, l'esame di legittimità investe tutte le decisioni, ma
in modo standardizzato e in questo senso si capisce perché nell'analisi
dell'esperienza storica, gli studiosi italiani del processo civile che, in
particolare Piero Calamandrei, costruirono il modello di Cassazione, riuscirono
ad estrapolare l'idea, che la Cassazione svolgesse non solo il compito di
assicurare un'interpretazione esatta della legge , ma anche un'interpretazione
uniforme, cioè generalizzata standardizzata, non legata alle
peculiarità del caso concreto, ma a quelle peculiarità che non
siano destinate a ripetersi, a ripresentarsi nella generalità delle
fattispecie ripetibili.
L'idea nella fase di applicazione
esatta della legge, risponde in larga misura ad un'ideologia illuminista,
all'idea che la generalizzabilità della soluzione dell'interpretazione
giuridica assicuri l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, sul
presupposto che l'analisi seria si rivela infondato e fallace a cui si è
a lungo creduto, che l'attività dell'applicazione della legge possa
avere caratteri di meccanicità, il giudice possa essere una bocca della
legge che applica meccanicamente, attraverso la tecnica della sussunzione,
cioè che riporta una determinata fattispecie nel caso generale previsto
da una norma di legge, una norma chiara a fatti ben identificati.
Quindi siamo più scettici nei
confronti dell'idea che l'interpretazione della legge possa essere esatta e una
e una sola possa essere l'interpretazione esatta, e quindi, ancor più
scettici dell'idea che l'interpretazione della legge possa essere
contemporaneamente esatta ed uniforme addirittura.
Tuttavia, questo non ci deve indurre
a sottovalutareche l'esercizio della
funzione nomofilattica della Cassazione può svolgere nel rendere
conoscibili e relativamente più prevedibile l'interpretazione della
legge da parte di singoli tribunali, in tanto in quanto, dovrebbe questa,
risultare conforme agli orientamenti della Corte di Cassazione e anche,
può svolgere utilmente una funzione evolutiva dell'interpretazione, che
pure può essere utile quando guidata da magistrati esperti. Questa
riflessione ci fa capire perché, questo modello incontri molte
difficoltà e in questi anni, si sia andato in misura crescente
annacquando, sicché, oggi, lo svolgimento di funzioni nomofilattiche da parte
della Cassazione è in larga misura inadeguato, e questo accade non
soltanto perché il modello cosiddetto puro di Cassazione è stato in
larga misura snaturato, perché, probabilmente, più di tanto un certo
modello non può dare, per cui, l'esperienza dell'informazione
autoritativa dell'orientamento giurisprudenziale attraverso la redazione delle
"massime", finisce per suggerire un'idea di una Cassazione animata da molti
più contrasti di quanti ve ne siano effettivamente, per paradosso, e
vediamo un pochino perché!
Un modello puro di Cassazione
dovrebbe prevedere, non soltanto che dinnanzi alla Corte di Cassazione non si
svolga istruzione probatoria, e la Cassazione non pronunci mai comunque sul
merito della causa, che la Cassazione non rivaluti i fatti di causa sulla base
di diverso apprezzamento delle risultanze probatorie, ma a monte, addirittura,
richiederebbe che il ricorso alla Cassazione sia possibile solo per violazione
di leggi, intendendosi solo la violazione della legge sostanziale, cioè
quel tipo di ricorso che rinveniamo nel n. 3 dell'art. 360, dovrebbe essere
l'unico, modello puro di Cassazione a poter essere utilizzato.
Già, la circostanza che si
possano far valere oltre ai cosiddetti errores in iudicando, anche gli errores
in procedendo, è chiaro che sul piano teorico si può
giustificare, che c'è comunque sempre un error in iudicando de iure
procedendo, eppure già comporta che il modello puro sia un po'
snaturato e ancor più, questo modello estremo lo è diventato a
seguito dell'affermazione della giurisprudenza sulle cosiddette sentenze in
senso sostanziale, su provvedimenti a contenuto decisorio aventi forme diverse
da quella della sentenza, che ha finito per trasformare la garanzia del ricorso
per Cassazione un effetto della previsione dell'art. 111 della Costituzione
della garanzia del diritto al controllo di legittimità sulle decisioni,
la garanzia del controllo in Cassazione è diventata da una garanzia
dell'ordinamento, a una garanzia soggettiva spettante alle parti, tale da far
si che, il numero dei ricorsi, sia divenuto enorme ativamente rispetto a
quanto accade nelle corti supreme degli ordinamenti simili al nostro, in cui
può capitare che vengano rese anche centinaia di sentenze all'anno. Ma
da nessuna parte si arriva alla situazione italiana, in cui è
fisiologico, che la Cassazione civile renda più di 10000 sentenze, ed
è più facile che abbiano la forma dell'ordinanza anziché della
sentenza, o meglio, possiamo dire più di 10000 provvedimenti all'anno
vengono definiti dalla Cassazione.
Questo naturalmente ha reso
necessario riforme legati ai pubblici organici, forte incremento degli organici
l'articolazione della Cassazione in numerose sezioni, che ha favorito la
diffusione di contrasti di giurisprudenza diacronici e persino sincronici,
cioè di interpretazione di diritto diametralmente opposti e resi,
magari, nello stesso giorno da diverse sezioni della cassazione e addirittura
dalla stessa sezione composta da magistrati diversi.
Questi contrasti poi, addirittura
compaiono essere persino più di quelli che sono realmente, perché,
seguendo l'ideologia, più che l'ideologia del giudice che invoca la
legge interna che è automatico e meccanico della stessa, si è
affermata la prassi della giurisprudenza per massime, cioè del dire a
secondo cui il teso di legge interpretato dalla giurisprudenza, altro è
che un testo di legge più dettagliato, e quindi si risolve nella
formulazione di una massima, ma, in realtà, la Cassazione è
diventata un organo per fare giustizia in ogni controversia, per conferire
giustizia ad ogni cittadino interessato, la Cassazione finisce per cercare, e
lo fa volentieri, di fare giustizia del caso concreto.
In questa giustizia del caso
concreto, viene poi riassunta in queste massime, a volte in modo ancor
più contraddittorio di quanto sia realmente, nel senso in cui le
decisioni appaiono in contrasto, non sono realmente in contrasto se si va ad
esaminare la concreta fattispecie decisa, la fattispecie concreta è
stata definita diversamente perché c'era una rilevante particolarità che
giustificava una decisione diversa, ma per spiegare questa particolarità
non è sufficiente una massima, è necessario scrivere una
inetta! Ed ecco che, appunto, la capacità di sintetizzazione
generalizzante nelle regole giuridiche applicate in sede di interpretazione si
forma ampliato ai margine del suo potere di controllo, persino al di la di
quanto gli consentisse la legge per estendere le sue funzioni di organo della
giustizia nel caso concreto, per esempio attraverso la qualificazione dei fatti
come fatti processuali anziché sostanziali. Si dice tradizionalmente che la
Cassazione non riesamina il fatto, intendendosi con ciò il fatto che ha
dato origine alla controversia, e questo divieto del riesame del fatto,
è coerente con l'impossibilità di svolgere istruzione probatoria,
ma finisce per essere anche delimitato da questo limite, per cui, si dice che
questa regola non vale per i fatti processuali, perché i fatti processuali sono
documentati dal verbale del fascicolo di causa e su di essi non ha senso
svolgere istruzione probatoria e quindi di tali fatti la Cassazione conosce
direttamente.
Ma se ricordate di quando abbiamo
parlato di azioni in senso astratto e azioni in senso concreto, succede che una
questione come quella della legittimazione passiva, a seconda se si segua una
concezione dell'azione in senso astratto e in senso concreto, può essere
qualificata come una questione di rito, o come una questione di merito nel
senso che il difetto di titolarità passiva dell'obbligazione si traduce
in un difetto di legittimazione passiva come condizione dell'azione in senso
concreto, questione senz'altro di merito. Si qualificherebbe come questione di
rito soltanto se questo difetto di illegittimazione passiva emergesse dalla
stessa prospettazione attoria, difettando in questo caso una condizione
dell'azione in senso astratto.
Ebbene! Può capitare, che la
Cassazione profittando della circostanza che il difetto di legittimazione
passiva si possa conurare come condizione dell'azione in senso astratto, e
quindi come questione di rito, venga dichiarato anche quando si tratti di
difetto di titolarità passiva, emanando una sentenza che formalmente
è sentenza di rito di Cassazione senza rinvio, ma in reasltà,
è decisa su presupposti, che sono presupposti della sentenza di merito.
Ancora più eclatante è
il fenomeno della cosiddetta cessazione della materia del contendere, perché
questa può trovare origine in fatti quali ad esempio, la morte della
parte in un giudizio di divorzio ovvero, dice sovente la giurisprudenza, in
atti abdicativi della parte attrice, sicché, si tende a dire per esempio che
sopravvenuta una transazione fra le parti, nelle more del procedimento di
legittimità successivamente alla proposizione del ricorso, il documento
attestante il l'intervenuto accordo delle parti, può comunque essere
acquisito a giudizio in quanto, inciderebbe su un fatto processuale e
cioè sulla sussistenza dell'interesse ad agire della parte ricorrente e
la Cassazione poterebbe, ben appunto, tenerne conto per pronunciare di nuovo la
sentenza di Cassazione senza rinvio della decisione impugnata, sul presupposto
che, se la cassazione non tenesse conto di questa vicenda transativa,
pronuncerebbe una decisione nata morta, perché, l'efficacia dell'accordo
transativo in tanto in quanto non deducibile nel giudizio, prevarrebbe sul
risultato del giudizio stesso per essere dal punto di vista giuridico
cronologicamente successivo allo stesso, in applicazione dei principi dei
limiti cronologici dell'efficacia del giudicato. Strano! Ma anche in questo
caso, la Cassazione rende una decisione che si basa su di un fatto che in
realtà è una forzatura, considerare processuale, dal momento in
cui si è introdotta una distinzione fra fatti processuali e fatti sostanziali
che è giustificata dalla circostanza che i fatti processuali siano
conosciuti a verbale, perché quella transazione non è conosciuta a
verbale, e in realtà quella transazione, è un fatto sostanziale
non processuale, che di fatto, più corretto sarebbe giungere ad una
decisione che abbia esplicitamente le caratteristiche di una pronuncia sul
merito della causa, e quindi sia idoneo a produrre gli effetti di un giudicato
sostanziale, eventualmente recependo il contenuto dell'accordo transativo, in
tanto in quanto si ritenga di poterne conoscere.
La Cassazione estende i suoi poteri
di riesame attraverso la teoria, affermatasi recentemente, secondo cui è
questione di diritto quella relativa all'applicazione delle cosiddette clausole
generali, come la regola della buona fede, sicché, rientrerebbe nei poteri
della Cassazione accertare se un certo comportamento, qualificato come un
comportamento di buona fede dal giudice di merito, ossa essere ritenuto di
buona fede, e anche qui, si dice chiaramente, ai giudici di Cassazione a fare più
giustizia di quanto la legge richieda da loro, in quest'ottica si deve anche
capire, che finiamo ad non avere più, n realtà, un'efficace guida
interpretativa, talché, lo stesso legislatore in qualche modo, è convito
di questa trasformazione. Si pensava alla questione dell'interpretazione delle
clausole dei contratti collettivi di lavoro del pubblico impiego.
Tradizionalmente si dice, si può denunciare per violazione la falsa
applicazione di norme di rito la sentenza che disapplichi norme provenienti da
fonti del diritto e non solo le leggi, ma anche le norme consuetudinarie, le
norme di diritto straniero sul presupposto che in particolare, a seguito
dell'espressa introduzione del potere ufficioso di disporre l'acquisizione di
pareri per l'accertamento del contenuto del diritto straniero da applicare alla
fattispecie, si debba, il diritto straniero applicabile in forza delle norme di
diritto internazionale privato, non già come fatto ma come diritto,
però, per quel che riguarda le norme dei contratti, può denunciarsi
in Cassazione tuttalpiù,la
libazione delle norme che regolano l'interpretazione del contratto,
trattandosi, in questo caso certamente di norme di diritto, ma non la diretta
violazione delle norme contrattuali, posto che l'accertamento del loro contenuto,
e questione di fatto e con la cui risoluzioneè riservata al giudice di merito, e però, con l'eccezione,
che c'è sempre stata per contratti collettivi, che si soleva recepire in
DPR, cioè contratti collettivi del pubblico impiego, che in quanto recepiti,
appunto, in DPR, assumevano caratteristiche di norme di predilezione della
giurisprudenza della Cassazione.
Ancora! In quella direzione è
la riforma che ha introdotto la possibilità per la Cassazione di
pronunciare sul merito della causa in particolari occasioni, cioè quando
la sentenza sia viziata soltanto da un errore in iudicando e non
occorrano ulteriori accertamenti di fatto, ai sensi dell'art. 384 novellato.
Nelle riforme della Cassazione
civile, poco è stato fatto in realtà, per ripristinare la
funzione puramente nomofilattica, tutto sembra andare nella direzione della
trasformazione del giudizio di Cassazione in un giudizio di revisione, restando
alla fine, fermo, soltanto il divieto di procedere ad istruzione probatoria e
qualche implicazione di questo divieto. Lo si è visto, anche nel
delicato dibattito in tema di controllo sulla motivazione della sentenza,
perché il controllo della motivazione, si riduce, fortemente a compiere
surrettiziamente un riesame di fatto. Un esempio lo abbiamo visto quando
abbiamo parlato del grado di certezza della presunzione necessario per
giustificare l'accertamento del fatto. Le oscillazioni giurisprudenziali
nell'interpretazione del requisito della certezza, cioè la circostanza
che a volte la Cassazione ritenga sufficiente una buona probabilità e a
volte richieda la certezza assoluta, sembrano essere, in realtà,
strumento attraverso i quali la Cassazione decide sulla base del riesame del
fatto, senza dirlo! Il controllo sulla motivazione è quello che
più si presta, perché, poi ricordiamo, il controllo sulla motivazione in
Cassazione riguarda esclusivamente gli aspetti attinenti all'accertamento del
fatto. La circostanza che la motivazione della sentenza sia folle e delirante,
sul piano del diritto è completamente irrilevante, cioè non
è motivo della cassazione della sentenza, lo si desume dalle
disposizioni che prevedono, che laddove il dispositivo sia conforme al diritto,
la Cassazione si limiti a correggere la motivazione, norma questa che può
applicarsi, soltanto alle ipotesi in cui la motivazione non tiene dal punto di
vista delle considerazioni giuridiche, perché, se non tiene dal punto di vista
del ragionamento giuridico, ma tiene dal punto di vista dell'accertamento del
fatto, allora e solo allora, si può verificare che almeno il dispositivo
sia conforme al diritto, e naturalmente, se il dispositivo non è
conforme al diritto, la Cassazione cassa a prescindere dall'illogicità
della motivazione, perché è già sufficiente la circostanza che si
ha contrario al diritto dispositivo.
Se il dispositivo è conforme
al diritto, ma la motivazione è sballata sul piano giuridico la
Cassazione può correggere la motivazione, ma se la motivazione è
insufficiente o contraddittoria sul piano dell'accertamento del fatto, la Cassazione
non è in grado di stabilire se il dispositivo sia, o meno, conforme al
diritto, ed allora in questo solo caso che la Cassazione cassa esclusivamente
per vizio di motivazione.
In varie occasioni, soprattutto una
decina di anni orsono, si pensò di limitare il controllo della
Cassazione sulla motivazione e sul presupposto che in realtà, la mera
illogicità della motivazione in tema di accertamento del fatto di per se
non comportasse nullità della sentenza, sicché, il controllo doveva
ritenersi eccessivo rispetto alle esigenze di assicurare un controllo di
legittimità della decisione, e tale orientamento, è stato in
qualche modo recepito dalla giurisprudenza della Cassazione, laddove, essa
afferma che ai fini del ricorso straordinario per Cassazione, ex art. 111 della
Costituzione, cioè di quel ricorso che si può promuovere
esclusivamente per violazione di legge, possa denunciarsi soltanto l'omissione
della motivazione direttamente determinativa della nullità della
sentenza, ma non anche la sua mera illogicità.
Tale conclusione, però,
qualche perplessità la desta, a meno per chi ritenga, come me,
che l'accertamento del fatto non sia arbitraria, ossia del tutto liberante, e
quindi, sia riesaminante, sia pure senza provvedere a nuova istruzione
probatoria appunto attraverso il controllo sulla motivazione. Il n. 5 dell'art.
360, non è stato abrogato anzi è rimasto in vigore, nonostante
che su una diffusa ancorché infondata opinione, esso contribuisse allo
snaturamento delle funzioni propriamente nomofilassiche nel giudizio di
Cassazione.
Vorrei far seguire un'analisi esegetica delle disposizioni in materia, cioè quali
elementi sono impugnabili per Cassazione? Sono le sentenze pronunciate in grado
d'Appello in un unico grado, ove si aggiunge eventualmente l'ipotesi del
ricorso omissio medio, come si dice, ed è un ipotesi priva di
applicazione pratica in cui le parti siano d'accordo per omettere l'Appello,
una cosa che no succede mai! E poi i provvedimenti a contenuto decisorio, ex
art . 111 Costituzione, e quindi i provvedimenti che incidono sui diritti
soggettivi che sono ne revocabili, ne modificabili e nemmeno impugnabili, e
quindi, dobbiamo escludere tutti quei provvedimenti di carattere ordinatorio
che incidono esclusivamente su situazioni soggettive a contenuto processuale, i
provvedimenti cautelari perché sono revocabili e modificabili,i provvedimenti sommari strutturati sul
modello della tutela monitoria come il decreto ingiuntivo, perché, sono
altrimenti impugnabili, cioè impugnabili tramite opposizione, e ogni
provvedimento di volontaria giurisdizione sul duplice presupposto che del verso
non incida su diritti soggettivi, quindi con i dubbi che si pongono quando,
invece incidano, e che siano revocabili, con i relativi dubbi, quando risulti
che siano revocabili solo per fatti sopravvenuti o che la loro
revocabilità di fatto lasci sprovvisto di tutela il titolare della
pretesa.
Quali sono i motivi di ricorso per
Cassazione? Motivi aderenti alla giurisdizione, salvo che si sia formato un
giudicato all'interno, anche implicito sulla questione, che può formarsi
tutte le volte che si sia formato un giudicato parziale sul merito, e
aggiungiamo che questo è l'unico motivo di ricorso proponibile contro le
sentenze del Consiglio di Stato della Corte dei Conti; poi ci sono motivi alla
competenza salvo che sia necessario il regolamento di competenza, cioè
salvo che la sentenza abbia pronunciato solo sulla competenza, sempre purché,
non si sostenga che la pronuncia sulla competenza era avvenuta in violazione
del sistema delle preclusioni a rilievo della questione di competenza, nel qual
caso non è necessario il regolamento di competenza, anzi la sentenza
è impugnabile solo nei modi ordinari ancorché abbia pronunciato soltanto
sulla competenza; poi c'è la violazione e falsa applicazione delle norme
di diritto che comprende anche la violazione di norme di diritto straniero
intanto in quanto, applicabile alla fattispecie, i regolamenti amministrativi
con efficacia interna, mentre per i contratti occorre fare il discorso sui
limiti alla denunciabilità della violazione di norme dei contratti fatta
eccezione peri i contratti collettivi del pubblico impiego. Si può
denunciare la violazione di norme di diritto sopravvenute? Si! Perché non si
è ancora formato il giudicato! Ricordate il discorso sulla questione se
il giudicato possa formarsi, laddove il legislatore lo voglia, anche in
pendenza del termine per ricorso in Cassazione? Il legislatore potrebbe
scegliere questa soluzione, ma non lo ha fatto! La proponibilità del
ricorso per in Cassazione per il rinvio del passaggio in giudicato della
sentenza, e quindi, è senz'altro applicabile in Cassazione lo ius
superveniens. Se così non fosse, sarebbe applicabile solo quello di
un superveniens che consiste in declaratoria di illegittimità
costituzionale, mentre ci dovremmo porre seriamente il dubbio per un superveniens
di altra natura. Ovviamente questo non è possibile deporre lo ius
superveniens, se per dedurlo occorre introdurre in Cassazione questioni
nuove, poiché questioni nuove in Cassazione possono introdursi se, e solo se,
sono rilevabili d'ufficio, quindi se si tratti di questioni inerenti al rito
rilevabili d'ufficio, certamente si può introdurre lo ius
superveniens, anche se la questione non è mai stata posta in
precedenza, anzi, perché se posta in precedenza, o c'è l'impugnazione o
si forma un giudicato preclusivo della deduzione della questione in Cassazione,
se non è mai stata posta ecco che possiamo dedurlo e, naturalmente
possiamo dedurlo se è stata decisa e impugnata tempestivamente.
Poi, la nullità della
sentenza, tipico errore in procedendo, la norme allude alla
nullità della sentenza o del procedimento, naturalmente la
nullità del procedimento possono dedursi in Cassazione in tanto in
quanto, si riflettano sulla sentenza che non le dichiari. Si discute se queste
nullità debbano qualificarsi come nullità per derivazione della
sentenza, ovvero, considerando la sentenza come un atto che trova in se stesso
la fattispecie costitutiva dei propri effetti, e quindi, non patisce la
nullità per derivazione, qualificandole, piuttosto, come errori in
iudicandode iure procedendo, dal punto di vista teorico, in
realtà, probabilmente questa seconda qualificazione è più
attendibile, per vizio della motivazione su di un punto decisivo della
controversia, ovviamente deve trattarsi di un punto attinente la ricostruzione
del fatto, inoltre, più discutibilmente, si dice di solito,
relativamente ad un fatto principale. A dire il vero, che il fatto sia
principale, cioè di un fatto direttamente produttivo di effetti
giuridici, in quanto strumento per la ricostruzione dell'accertamento della
sussistenza di un fato principale, non vuol dire che solo esso sia un fatto
decisivo, in realtà, anche la ricostruzione di un fatto secondario
più risultare decisivo per la causa, e quindi anche l'accertamento di un
atto secondario, cioè di un fatto in base al quale si accerti la
sussistenza o meno di un fatto principale, potrebbe avere carattere decisivo e
anche la motivazione su di esso dovrebbe poter essere controllata, almeno
così dice la dottrina più attenta.
Il carattere decisivo è
proprio, più che latro, del fatto, non in quanto principale o
secondario, ma in quanto un suo diverso accertamento possa implicare con
certezza o con ragionevole probabilità, una diversa risoluzione della
controversia viziata la motivazione che sia, anzitutto omessa, è chiaro
che nell'applicazione è raro che la motivazione sia completamente
omessa. I problemi pratici si possono porre rispetto al caso della motivazione
per relationem e della motivazione implicita, va detto che la
giurisprudenza è molto lassista nell'ammettere motivazioni d carattere
implicito come anche pronunce di carattere implicito, rispetto alla motivazione
per relationem, si è più consolidato il principio nel
senso che occorre che il giudice d'Appello per far fronte alla motivazione
già redatta dal giudice di primo grado dimostri di aver tenuto conto
delle critiche rivolte alla sentenza dalle parti con l'impugnazione,
lasciandolo però libero di fare largamente riferimento alla motivazione
già redatta in primo grado.
Viziata, poi la motivazione
insufficiente e tale si qualifica quella che si ha ambigua perché generica, e
ancora, la motivazione contraddittoria, il cui esempio più eclatante
è quello della contraddittorietà con il dispositivo che a volte
si presenta, soprattutto nel diritto del lavoro.
Le proposte di abrogare il controllo
sulla motivazione hanno avuto scarso successo anche ritenendosi che avrebbero
avuto una scarsa portata deflativa perché sono molto poco numerosi i ricorsi
che si basino esclusivamente sul vizio della motivazione, si è seguita
una strategia diversa e cioè quella di alleggerire gli oneri di
motivazione della sentenza, sul presupposto che in particolare, nel settore della
giustizia civile, la difficoltà di relazione della motivazione sia causa
di dilazione, perché i requisiti sono requisiti di completezza della
motivazione richiedono notevole dispendio di tempo, sicché,una disposizione come l'art. 184 bis trova il
suo senso esclusivamente nella circostanza che alleggerisce l'onere della
motivazione in capo al giudice, perché l'art. 184 bis consente all'apertura
dell'istruzione di ottenere l'accoglimento della domanda con ordinanza, con un
provvedimento quindi, che può essere motivato succintamente, e si tratta
di pronuncia di una sentenza vera e propria e di impugnare direttamente
l'ordinanza. Entrambe le parti, in questa logica, l'una esplicitamente, l'altra
implicitamente, e cioè l'attore nel formulare l'istanza diretta a
conseguire il provvedimento anticipatorio, rinuncino ad ottenere un
provvedimento compiutamente motivato. Sembrache non c'è più problema per nessuno, ma qualche
perplessità si può conservare, perché non è detto che la
motivazione si redatta esclusivamente nell'interesse delle parti, c'è
anche il loro interesse, perché per lungo tempo si è considerato, la
motivazione, come uno strumento diretto a favorire l'impugnazione in un
contesto come il nostro, di ordinamento giudiziario fortemente gerarchizzato,
per cui, appartiene alla formalità delle ipotesi che la sentenza venga
soggetta a riesame dinnanzi all'autorità giudiziaria gerarchicamente
sovraordinata, è la motivazione è strumentale soprattutto al
riesame per via documentale della decisione, e infatti l'onere della
motivazione è previsto dalla Costituzione tipicamente in questo tipo di
ordinamento.
Negli ordinamenti anglosassoni, cui
la matrice gerarchica è molto più attenuata, in cui, addirittura,
la decisione sul fatto è compiuta da una giuria di laici, non
professionisti del diritto, la motivazione sul fatto della giuria, non è
motivata e non si rinviene una garanzia costituzionale della motivazione,
però esiste anche e si ritrova ancora, sin dai tempi della Rivoluzione
Francese.
Gli elementi del ricorso; è fondamentale la questione della sottoscrizione del difensore
abilitato al patrocinio presso le giurisdizioni superiori e munito di procura
speciale, requisiti entrambi, ricordiamo che incidentalmente non sono invece
richieste ai fini della proposizione del regolamento di competenza sul
presupposto che questo, poi costituisca un mero incidente nell'ambito del
procedimento di primo grado e quindi possa essere proposto dal difensore anche
sulla base della procura conferita unicamente per il giudizio di primo grado.
La procura speciale, invece, è richiesta, nella generalità delle
ipotesi quanto, speciale deve essere per un verso, quando abbiamo parlato delle
nullità, anteriore alla notificazione del ricorso, non essendo applicabile
il disposto dell'art. 125 nella parte in cui consente di conferire la procura
dopo la notifica della citazione, poiché in questa procura speciale tale norma
non è applicabile, inoltre, posteriore alla sentenza impugnata
difettando,altrimenti questa dei
caratteri della specialità, cioè del suo conferimento
appositamente per il ricorso per Cassazione.
Se la procura è conferita con
atto separato, ovviamente è richiesta l'indicazione della sentenza
impugnata e della data, se invece conferita nel ricorso, lo stesso difensore
agisce come pubblico ufficiale nell'attestare la genuinità della firma,
ma non la data di apposizione della stessa, sicché, l'escamotage è stato
a lungo utilizzato, quello del conferimento della procura nel ricorso per
legittimare la proposizione di ricorso sulla base di procure, che in
realtà sono conferite fuori dallo spazio di tempo in cui la legge lo
prevede. Resta qualche perplessità nei confronti della riforma che ha
voluto legittimare l'escamotage qualificando le procure apposte in calce al
ricorso quelle che siano semplicemente spillate allo stesso o unite
materialmente allo stesso, che non dà come darebbe invece l'apposizione
in calce al ricorso prova della loro posteriorità della redazione dello
stesso, anziché, come forse sarebbe stato più semplice consentire il
conferimento della procura in uno spazio di tempo più ampio, se si
riteneva, come pure si potrebbe ritenere, che l'accesso alla Corte d Cassazione
non debba essere ostacolato dall'onere di conferire la procura in uno spazio di
tempo ristretto.
Dopo la notificazione, l'avversario
ha tempo 40 giorni dalla data dell'ultima notificazione, e cioè 20
giorni dalla scadenza di questo termine per costituirsi a sua volta,
notificando controricorso, in mancanza non è possibile di contribuire
con memorie al procedimento di Cassazione, però può ugualmente
partecipare alla discussione, se non si è tempestivamente costituita.
Esclusivamente nel controricorso deve
essere contenuto il ricorso incidentale, che può essere tardivo rispetto
alla notificazione della sentenza, ma non rispetto alla notificazione del
ricorso principale , ricorso incidentale che può essere condizionato nel
senso in cui abbiamo già parlato, laddove verta su questioni
pregiudiziali o preliminari sorte sfavorevolmente alla parte che sia
però vittoriosa nel merito.
Non abbiamo l'omissione! Lo si
è detto! L'istruzione probatoria in Cassazione! Ma questo, non vuol dire
che non siano ammesse in Cassazione nuove prove, e quali sono? Esclusivamente i
nuovi documenti di cui fa parola l'art. 372, cioè nuovi documenti
riguardanti l'ammissibilità o l'inammissibilità del ricorso o la
nullità della sentenza impugnata. Qui, il nuovo materiale probatorio
ammissibile, risulta avere contemporaneamente la caratteristica di riguardare i
fatti processuali, (l'ammissibilità del ricorso o del controricorso e
nullità della sentenza), e di consistere in documenti che evidentemente
non avrebbero potuto depositarsi, introdursi al processo in precedenza, in
quanto, relativi a fatti processuali successivi alla definizione del
procedimento impugnato, tuttavia, date le propensioni della Cassazione,
è facile intuire che la norma viene interpretata con grande larghezza,
al punto da includervi, e questa è l'ipotesi più importante, il
documento che comprovi la sopravvenuta transazione tra le parti, sul
presupposto che, la prova incida sull'ammissibilità del ricorso, secondo
certi orientamenti, con risultato che dovrebbe essere quello a rigetto del
ricorso, sul presupposto che per effetto della transazione sia cessato l'interesse
ad agire della parte, salvo che poi la Cassazione quando tiene conto di queste
transazioni tra le parti, in realtà, coglie il ricorso cassando la
sentenza per eliminare ogni pericolo che questa sentenza sia considerata come
la sentenza risolutiva della controversia, quando invece a risolvere la
controversia è stata la transazione. Questa è un'interpretazione
che lasci molto perplessi, anche perché, la Cassazione viene a conoscere di un
nuovo fatto, che non è un fatto processuale, ma un fatto sostanziale negoziale,
conosce di manifestazioni di volontà delle parti per la ricostruzione
del cui contenuto dovrebbe essere ammissibile anche la deduzione di prove
costituende, per la ricostruzione della volontà delle parti manifestata
dal suo accordo transativo, e quindi, se ne tenga conto così facilmente
lascia un po' perplessi.
Quali sono i casi in cui la
Cassazione pronuncia a Sezioni Unite? Essi sono la
giurisdizione, questioni di massima di particolare importanza, contrasti di
giurisprudenza sono state respinte sulle legittimità costituzionali in
proposito sulla parte in cuinon
può consentire alle parti di replicare oralmente le conclusioni orali
del pubblico ministero.
In Camera di Consiglio, invece non si
tiene pubblica udienza, va invece notificati alle parti le conclusioni del
pubblico ministero prima dell'adunanza in Camera di consiglio della corte, e
viene fissato un termine per le memorie di replica delle parti stesse. È
importante l'ambito di applicazione, perché, è stato oggetto di una recente
riforma e tradizionalmente in Camera di Consiglio, un procedimento che tra
l'altro è compatibilecon la
composizione a Sezioni Unite della Corte e può anche capitare che la
corte giudichi a Sezioni unite in Camera di consiglio; tradizionalmente
prevedeva solo, oltre al caso di regolamento di competenza, solo ipotesi molto
semplici da decidere, quelle di rinuncia la ricorso, l'inammissibilità
dello stesso, le ordinanze di integrazione del contraddittorio e il rigetto del
ricorso per mancanza assoluta dei motivi.
Ultimamente si è steso molto
il procedimento in Camera di consiglio in particolare per includere oltre al
regolamento di giurisdizione, soprattutto, le ipotesi di manifesta infondatezza
e manifesta fondatezza del ricorso, cioè in casi in cui, si suppone esista
già una buona serie di precedenti conformi sulla risoluzione della
questione di diritto e quindi la Corte possa semplicemente applicare precedenti
già formatisi e senza particolari problemi cercare di accogliere anche
il ricorso stesso.
Particolarmente rilevante
è infine la tipologia dei provvedimenti.
Appunto per chiarire che si sono comprese le implicazioni sistematiche della
distinzione, è importante che si distingua i casi di cassazione senza
rinvio in senso stretto dai casi di cassazione senza rinvio con
pronuncia del merito, perché i casi di cassazione senza rinviocon pronuncia nel merito, ossia quando la
Cassazione accoglie ricorso per applicazione o falsa applicazione di norme di
diritto, non occorrono accertamenti di fatto, comporta che la Cassazione renda
una pronuncia di contenuto rescissorio come tale idonea al giudicato
sostanziale. I casi tradizionali della Cassazione senza rinvio, sono casi in
cui almeno in linea teorica, la pronuncia della Cassazione non idonea a
produrre gli effetti del giudicato sostanziale, e anzi, nessuna pronuncia della
Cassazione sarebbe idonea la giudicato sostanziale, se non appunto nel caso
della pronuncia del merito, ex art. 384, talché, la impugnabilità con
revocazione ordinaria della sentenza di Cassazione, possibilità
introdotta dalla Corte Costituzionale poi recepita dal legislatore del '90,
sicché la sentenza della Cassazione che una volta si poteva tranquillamente
definire non più interiormente impugnabile, può oggi essere
impugnata con revocazione nell'ipotesi di errore di fatto, ossia quando la
sentenza si fondi sull'esistenza di un fatto la cui inesistenza è dovuta
incontrastabilmente dagli dati di causa e viceversa, e si diceva, la
impugnabilità per la revocazione della sentenza di Cassazione, ha posto
un problema sistematico, perché, questo motivo di Cassazione è un motivo
di revocazione ordinaria. Quindi seguendo l'impostazione sistematica di
Chiovenda la sua proponibilità è impeditiva della formazione del
giudicato sostanziale. Però, il legislatore del '90 ha scelto di non
seguire l'impostazione sistematica chiovendiana! Di rifarsi a una distinzione
tra impugnazioni ordinarie e straordinarie e che non si ricolleghi in
realtà ne alla reperibilità del vizio all'esame della sentenza,
ne all'idoneità dell'impugnazione a produrre un effetto naturalmente
costitutivo della decisione impugnata, come veniva nel pensiero di Calamandrei,
ma sembra avere seguito un criterio diverso ed in alcune legislazioni pure si
rinviene, e cioè di qualificare come straordinario le impugnazioni
inusuali, straordinarie perché, capitano di rado, e quindi di qualificare
questa impugnazione come straordinaria, pur scrivendo esplicitamente, che la
proponibilità della revocazione contro la sentenza di Cassazione non
impedisce il passaggio in giudicato della sentenza impugnata per ricorso in
Cassazione respinto. Perciò, se la sentenza di Cassazione è di
rigetto del ricorso il giudicato si forma, ma si forma sulla sentenza
d'Appello, perché è quella la sentenza che passa in giudicato e la proponibilità
della revocazione nei confronti della sentenza di Cassazione che ha rigettato
il ricorso,non impedisce la formazione
di questo giudicato da parte della sentenza d'Appello.
Se la sentenza di Cassazione e
sentenza con rinvionon si ha nessun passaggio
in giudicato, perché la sentenza impugnata è stata cassata, e si forma,
tuttalpiù, giudicato sulla fattispecie, che è giudicato del tutto
sui generis costituito dal principio di diritto, ma non è un vero
e proprio giudicato.
Ma se la sentenza di Cassazione senza rinvio
pronuncia sul merito, questo caso la norma non la contempla e dovremo
propendere per l'ipotesi che la proponibilità della revocazione
ordinaria non impedisca il passaggio in giudicato della sentenza, questa volta
di Cassazione, dato che non impedisce la formazione del giudicato nell'ipotesi
in cui invece sia stato rigettato il ricorso nei confronti della sentenza
d'Appello, quindi la revocazione contro le sentenze di Cassazione debba
anomalmente qualificarsi come impugnazione straordinaria ancorché, si fonda su
vizi desumibili dalla lettura della sentenza.
Ritengo importante che si distinguano i casi di cassazione senza rinvio con pronuncia
del merito, dai casi di cassazione senza rinvio tradizionali, in cui
la decisione non dovrebbe essere idonea al giudicato sostanziale, salvo che i
casi di cassazione senza rinvio tradizionali si possono raggruppare in tre
categorie:
1.Ipotesi di difetto
assoluto di giurisdizione ipotesi a cui
dobbiamo ricondurrei casi in cui si
affermi la giurisdizione straniera, la sussistenza della giurisdizione del
giudice straniero, e forse i casi di difetto assoluto di giurisdizione a causa
dei poteri attribuiti alla pubblica amministrazione, che secondo la
interpretazione prevalente, sembrerebbero sussistere ancora, a dispetto
dell'entrata in vigore della Costituzione, e che questo tipo di intervento di
giurisdizione non abbia più cittadinanza nell'ordinamento giuridico
italiano a seguito dell'entrata in vigore della Costituzione.
2.Ipotesi in cui la
domanda non poteva essere propostasono quei casi in cui si produce una carenza delle condizioni
dell'azione, di difetto di legittimazione ad agire o di interesse ad agire, o i
casi in cui siano violate le disposizioni sull'onere del patrocinio, o in cui
vi siano più vari tipi di difetto in presupposti processuali. Qui
però, dobbiamo ricordarci per quanto riguarda la sentenza sulla
giurisdizione che si dice spesso che non produce giudicato sostanziale, ma si
ammette che produca giudicato panprocessuale, e cioè che sia invocabile
in diversi giudizi, sia pure solo come sentenza risolutiva della questione di
rito e quindi senza, parrebbe, vincolare la pronuncia per esempio sulle
controversie dipendenti, tuttavia, è molto esiguo il margine di estendibilità
degli effetti di questo giudicato dagli effetti di un giudicato sostanziale. Se
io la domanda non la posso proporre perché manca la giurisdizione e nessuno
potrà più contestare che manchi la giurisdizione, si ha un bel dire
che questa pronuncia soltanto di rito, di fatto questa pronuncia mi impedisce
la riproposizione della domanda nel modo più assoluto, mi impedisce di
far prevalere la pretesa sostanziale nel modo più assoluto, e quindi su
tratta di quelle sentenze che alcuni dicono "a cavallo" tra rito e merito,
è uno di quei casi in cui, in realtà il controllo sulle questioni
di rito è esercitato dalla Cassazione anche largheggiando nell'esercizio
dei suoi poteri e finisce per tradursi su una pronuncia sul merito. Per non
confondersi cassazione giudice del fatto e cassazione giudice del
merito. In prima battuta vale questa regola: la Cassazione è giudice
del merito se e solo se non è giudice del fatto, cioè se non
occorrono accertamenti di fatto e nuove valutazioni dei fatti, per converso, a
rigore, la Cassazione è giudice del fatto se e solo se non è
giudice del merito, perché gli unici fatti di cui dovrebbe poter conoscere
direttamente come giudice, sono i fatti attinenti al processo, attinenti al
rito e quindi fatti non attinenti al merito. Ma occorre aggiungere che le
questioni qualificate come questioni di rito e che si fondano su fatti che sono
considerati dalla giurisprudenza come fatti attinenti al processo, in
realtà sono decisioni che si fondano su fatti che non sono propriamente
processuali, non sono fatti di cui si abbia prova attraverso il fascicolo di
causa, ma di cui si ha prova in modi diversi, che certamente vogliono produrre
effetti sul processo, però, in via secondaria, subordinata, derivata,
perché principalmente producono effetti sulla situazione sostanziale delle
parti.
3.Ipotesi in cui il
processo non poteva essere proseguito qui
possiamo avere ipotesi come quelle in cui sia omessa la declaratoria di
estinzione del processo e in questa categoria rientrano anche le ipotesi in cui
il giudice d'Appello può aver dovuto dichiarare l'inammissibilità
o la improcedibilità dell'Appello. Possiamo notare che in queste ultime
ipotesi la cassazione senza rinvio è compatibile con la formazione del
giudicato sostanziale di merito tutte le volte in cui la sentenza di primo
grado è la sentenza sul merito, perché in questo caso la Cassazione
cassa senza rinvio esclusivamente la sentenza d'Appello che ha pronunciato su
un'impugnazione inammissibile o improcedibile, ma questa cassazione della sentenza
d'Appello, comporta una caducazione dell'effetto caducatorio della pronuncia di
primo grado computo dalla sentenza d'Appello stessa e quindi anche la
riviviscenza della sentenza di primo grado riformata invalidamente dal giudice
d'Appello, quindi inquesto caso la
cassazione senza rinvio è incompatibile con la formazione del giudicato
sostanziale sul merito, da parte non però della sentenza di Cassazione
in questo caso, bensì, da parte della sentenza del giudice di primo
grado. In tutti gli altri casi la Cassazione se cassa, cassa con rinvio.
Tipici sono i casi di cassazione
senza rinvio in senso stretto e in senso lato, nella generalità delle
ipotesi la Cassazione cassa con rinvio, ma anche ai fine della
Cassazione con rinvio, bisogna compiere una distinzione fondamentale,
cioè, i casi di rinvio prosecutorio o proprio, dai casi di
rinvio restitutorio o come si dice improprio. Qui spesso i manuali non sono
tanto chiari e allora diciamolo direttamente!
Abbiamo rinvio proprio se e solo se, la Cassazione cassa per violazione o falsa applicazione
di norme di diritto e /o vizio di motivazione, cioè se cassa per un erroreiniudicando o per vizio di motivazione. In tutti gli altri
casi il rinvio è improprio restitutorio.
Questa distinzione si compie perché,
le regole dettate dal codice per il giudizio di rinvio si applicano
integralmente esclusivamente alle ipotesi di rinvio proprio e quindi è
solo in questi casi che si applicano tutte le regole per cui la Cassazione
enuncia un principio di diritto la cui efficacia sopravviva all'eventuale
estinzione del procedimento di rinvio; la causa è rinviata al giudice di
pari grado a quello che ha pronunciato la sentenza impugnata e si applica il
regime di preclusioni proprio del giudizio di rinvio. In tutti gli altri casi,
e cioè la Cassazione cassa per un errore in procedendo, il rinvio
è improprio, in quanto, per effetto dell'accertamento dell'errore in
procedendo il processo regredisce a quello stadio in cui si possa compiere
la rinnovazione delle attività processuali invalidamente compiute
indispensabile al fine di un valido raggiungimento di una pronuncia sul merito
della causa.
In quei casi particolari in cui la
Cassazione cassa la sentenza del giudice d'Appello, perché questi ha omesso di
rimettere la causa al primo giudice ai sensi degli artt. 353 e 354, la
Cassazione stessa rinvia al primo giudice direttamente, ma anche in tutti gli
altri casi in cui la Cassazione rinvia per errore in procedendo, il
rinvio è sempre improprio e quindi in tutti gli altri casi di
nullità processuali, la Cassazione, anche se la nullità
processuale siverificata sin dal primo
grado, rinviaal giudice d'Appello,
perché sono casi in cui il giudice d'Appello avrebbe potuto sanare la
nullità provvedendo alla rinnovazione delle attività innanzi a se
e pronunciando lui sesso sentenza sul merito.
In tutti questi casi il rinvio
è improprio e il regime di preclusioni che si applica è quello
delle preclusioni formatesi al momento in cui si è verificata la
nullità processuale determinativa della nullità della sentenza,
sicché, se questa nullità è nullità di cui agli artt. 353
e 354 verificatasi in primo grado,si rinvia al primo giudice affinché dinnanzi
a lui si provveda per esempio all'integrazione del contraddittorio nei
confronti del litisconsorte necessario pretermesso. In tutti i casi di
nullità che non rientrino in questo elenco tassativo, e quindi, per
esempio nei casi di nullità della citazione per difetto della vocatio
in ius, che sono sanabili tramite rinnovazione dinnanzi al giudice
d'Appello con successiva pronuncia del merito da parte di quest'ultimo, la
causa è rinviata al giudice d'Appello e si applica il regime delle
preclusioni così previsto per il giudizio d'Appello, e nemmeno si fa
luogo all'applicazione della regola per cui la causa è rimessa ad altro
giudice di pari grado a quello che abbia pronunciato la sentenza impugnata,
perché nei casi di rinvio improprio è invece naturale che la causa venga
rimessa o allo stesso primo giudice o a quello stesso giudice d'Appello dinanzi
al quale avrebbero dovuto svolgersi le attività processuali sananti che
egli ha invece omesso di far svolgere prima di rendere la sua pronuncia sul
merito. Ha carattere atipico il rinvio improprio.
Sulla questione della competenza del
giudice per il rinvio, si può osservare che la competenza indicata dalla
Corte di Cassazione nel cassare con rinvio la sentenza, non è
ulteriormente contestabile, ma in passato si riteneva che questo non implicasse
l'inammissibilità del regolamento di competenza contro quella sentenza
del giudice di rinvio che comunque avesse pronunciato sulla questione. Si
diceva in questo caso, che se la sentenza pronuncia sulla sola competenza,
questa è comunque impugnabile con regolamento e la Cassazione si limita
a reiterare la propria precedente statuizione, ma col mutamento recente di
giurisprudenza, secondo cui i casi di questa sorta non è più
ammissibile il regolamento necessario di competenza, dobbiamo concludere che la
sentenza del giudice di rinvio che si dichiara incompetente vada impugnata con
i modi ordinari, e quindi con ricorso ordinario se è sentenza al giudice
d'Appello con Appello se è sentenza del primo giudice.
Le preclusioni nel giudizio di
rinvio proprio sono particolarmente intense, anzitutto in forza della
necessità di applicare il principio di diritto che comporta anche,
accertati davanti a quei termini, la decisione debba avere quel contenuto, ma
non solo, l'enunciazione del principio di diritto comporta anche, lo abbiamo
accennato parlando del ricorso incidentale condizionato, un giudicato implicito
di rigetto di tute le eccezioni di diritto riferibili alle pregresse fasi del
procedimento, sul presupposto che la Cassazione casi per errore in
procedendo, i tanto in quanto non vi siano errori in iudicando che
hanno carattere di pregiudizialità logica interna.
Inoltre, se la cassazione è
avvenuta esclusivamente per errore di diritto e non anche per vizio della
motivazione, è altresì escluso il riesame del fatto o meglio il
riesame delle risultanze probatorie introdotte nei precedenti gradi del
giudizio.
Inoltre, più in generale non
possono prendersi, dice l'art. 394, nuove conclusioni, termine vastissimo,
salvo che siano rese necessarie dalla sentenza di cassazione, pertanto dobbiamo
ritenere ammissibili nuove domande in sede di rinvio solo in alcune particolari
ipotesi; per esempio possiamo ammettere quelle giustificate dallo ius
superveniens, non però quelle giustificate solo da mutamenti di
giurisprudenza; possiamo ammettere le modifiche delle conclusioni giustificate
da fatti sopravvenuti rispetto al momento in cui potevano allegarsi nelle
precedenti fasi di merito, in particolare quando si tratti di fatti
modificativi o estintivi del diritto fatto valere e cioè, in sede di rinvio,
certamente senza problemi si può conoscere la sopravvenuta transazione
tra le parti al fine di emanare una sentenza di merito recettiva dell'avvenuto
accordo transativo; poi possono ammettersi appunto, in applicazione
dell'esplicito dettato della norma quelle nuove conclusioni che derivino dalla
modificazione della materia del contendere e dall'eventuale ridefinizione del
rapporto sostanziale compiuto dalla Cassazione per esempio qualificando
diversamente la fattispecie giustifichi una modificazione delle domande; poi,
possono ammettersi le domande relative alla rivalutazione monetaria da
compiersi d'ufficio, in casi come quello di cui all'art. 429 in materia di
lavoro, e anche possono ammettersi senz'altro le domande relative a interessi,
spese, frutti e danni maturati successivamente alla pronuncia della sentenza
d'Appello, ma alla luce dell'interpretazione giurisprudenziale del problema di
cui abbiamo parlato in precedenza, è plausibile che si possano ammettere
solo se analoghe domande sono state coltivate nelle pregresse fasi del giudizio
con riferimento al periodo di tempo intercorrente fino alla pronuncia della
sentenza d'appello; e poi, ancora, quelle domande di restituzione e riduzione
in pristino, restituzione di quanto conseguito in forza della sentenza cassata
e riduzione in pristino in forza dell'esplicito disposto di cui all'art. 389.
Inoltre non sono ammesse nuove prove,
salvo il giuramento decisorio, che è esplicitamente previsto
dalla legge, da poi, e ciò in forza della garanzia al diritto alla prova
rinvenibile all'art. 24 della Costituzione, e tutte quelle prove che siano
relative agli aspetti fatturali delle nuove deduzioni che si ritengano
ammissibili in forza di quanto dicevamo prima, quelle giustificate dalla
qualificazione giuridica della fattispecie compiuta dalla Cassazione, dallo ius
superveniens che si ritenga applicabile, e così via.
Inoltre sono ammesse, e ciò
vale anche per l'Appello, quelle relative alle questioni assorbite in
forzadella sentenza cassata, e poi
ancora, è qui in applicazione di una clausola generale in materia di
rimessione in termini, tutte quelle che la parte dimostri di non aver potuto
produrre prima per causa non imputabile e non solo, come tradizionalmente si
diceva, allorquando potrebbero giustificare la revocazione della sentenza, che
sembrerebbe non sensato non ammettere quelle prove che dovrebbero giustificare
l'impugnazione straordinaria della sentenza stessa, ma più in generale,
quelle per le quali sia giustificabile la rimessione in termini secondo i principi
generali, ancora, può aversi istruzione probatoria, in corso di rinvio,
per effetto dell'iniziativa ufficiosa del giudice in tutti quei casi in cui
questa è generale ammessa, e quindi lo svolgimento dell'interrogatorio
libero, dell'ispezione, possono essere previste nuove consulenze tecniche
d'ufficio.
Più problematica è
l'ipotesi che si applichi anche al giudizio di rinvio quella deroga, che
secondo una giurisprudenza non incontrastata, risulta applicabile al
procedimento d'appello, cioè possono ammettersi in generale le nuove
prove precostituite. In appello si tende dire ciò, anche se recentemente
la giurisprudenza sembra far marcia indietro sul presupposto, però che,
il divieto di nuove prove nel giudizio d'appello si spieghi soltanto alla luce
dell'esigenza di favorire la concentrazione del processo, cioè il suo
svolgimento nel numero più ridotto possibile di udienze concentrate nel
tempo. La ratio delle preclusioni del giudizio di rinvio, probabilmente
comprende anche le esigenze ulteriori, anche perché, la chiusura del giudizio
di rinvio proprio si giustifica anche per dar modo alle parti di ottenere una
risoluzione del conflitto senza approfondire ulteriormente l'indagine sul
fatto, bisogna ad un certo punto arrivare ad una conclusione e quindi è
da respingere l'idea che possa, in generale, prodursi qualsiasi tipo di nuova
prova precostituita in Appello, consideriamo, d'altronde, che già in
Cassazione solo alcune particolari prove precostituite sono ammesse,
perciò sarebbe incomodo che si aprisse la finestra a ogni prova
precostituita nel corso del giudizio di rinvio.
·La Revocazione o petizione
di terzi
Sulla revocazione si va dicendo che
rappresenti caratteristiche comuni in parte con l'appello e in parte con
ricorso in Cassazione, e il ricorso per Cassazione è a critica vincolata
per cui sono tipici e predeterminati motivi per ricorso per revocazione, e
tuttavia incorre in Appello la circostanza di essere anch'esso un mezzo di rimediare
all'ingiustizia della decisione, ha in comune la caratteristica di poter avere,
in tanto in quanto, sia riconosciuta la sussistenza del vizio, quindi
successivamente a una pronuncia di carattere rescindente anche a una pronuncia
a contenuto rescissorio e di poter quindi produrre anche un effetto devolutivo,
anche se ovvio subordinatamente all'accertamento della sussistenza del vizio
denunciato, ed ecco che investe anche il giudizio di fatto e non
necessariamente in base a una denuncia di errore in procedendo o in
iudicando, cioè per una specifica violazione di legge.
Esaminiamo quali provvedimenti
possano essere impugnati per revocazione.
Innanzi tutto le sentenze pronunciate
in grado di appello in unico grado, cioè le sentenze che sarebbero
soggette a ricorso per Cassazione, per quel riguarda la revocazione nel suo
complesso, però per abitudine, la revocazione, è possibile
impugnare anche ulteriori provvedimenti; in particolare il decreto ingiuntivo e
lodo arbitrale, quando non siano più soggette a rispettive impugnazioni
ordinarie, proposizioni o impugnazioni per nullità, sono tuttavia
soggette alle impugnazioni straordinarie, inoltre la Corte Costituzionale ha
introdotto, a seguito di declaratoria di legittimità costituzionale per
le norme di riferimento, l'impugnabilità, tramite revocazione ai sensi
del n. 1 e quindi con riferimento ad un caso di revocazione straordinaria, come
art. 395, ma anche, perché questi sono i casi in cui si è imbattuta il
problema della legittimità costituzionale, ai sensi del n. 4 con
riferimento ad un caso di revocazione ordinaria, anche contro i provvedimenti
di convalida di sfratto, che sono anch'essi provvedimenti di carattere sommario
dove la soprattività sopravvive all'eventuale istruzione del giudizio in
cui vengano resi a contenuto anticipatorio del diritto fatto valere
dall'attore, in caso in ispecie, il diritto alla riconsegna dell'immobile
locato a seguito della cessazione della locazione, vi possono essere anche dei
provvedimenti fra i la mancata previsione di tali provvedimenti impugnabili
tramite locazione, è stata superata dalla giurisprudenza della Consulta
in queste due occasioni, lasciando emergere l'idea che per superare qualsiasi
motivo di revocazione anche diverso da quelli nei quali è espressamente
intervenuta la Consulta, si possa ragionevolmente portare ove sussistano i
presupposti della legittimità costituzionale che esprima il rimedio.
Naturalmente i casi previsti per gli altri numeri bisognerà sempre
passare attraverso la sollevazione della questione in attività
costituzionale.
Importante è che la Consulta
abbia esplicitamente previsto l'impugnabilità tramite revocazione ai
sensi del n. 4 sempre con riferimento ad un caso di revocazione, che
teoricamente sarebbe di revocazione ordinaria, nelle sentenze della Corte di
Cassazione con riferimento ai soli ricorsi per Cassazione ai sensi del n. 4
dell'art. 360, cioè ricorsi per Cassazione per errori in procedendo
in quelle ipotesi in cui si poteva riscontrare un esame per il fatto da parte
della Cassazione e quindi, nell'accertamento del fatto rispetto alla lettura
degli atti interni al procedimento in cui il legislatore ha poi introdotto una
norma di recensione di questa giurisprudenza della Corte costituzionale,
prevedendo nell'art. 391/bis l'esperibilità della revocazione nei
confronti delle sentenze della Corte di Cassazione, sempre solo per il motivo
di cui al n. 4 dell'art. 395 cioè sempre solo per errore di fatto,che però, indipendentemente dal motivo
di ricorso per Cassazione utilizzato dalla parte ai fini dell'esperimento del rimedium,
sicché, possono essere impugnate per revocazione e per errore di fatto anche
sentenze che la Cassazione abbia reso su ricorsi fondati, invece sul numero 3
dell'art. 360, anche sui ricorsi che si erano fondati su errori in iudicando,
fermo restando, però, che il controllo sulla decisione resa dalla Corte
di Cassazione, dovendo vertere comunque sugli errori da questa compiuti
nell'accertamento del fatto, l'errore revocatorio potrà sussistere con
riferimento ad un errore in procedendo, anche se nel ricorso è
stato esperito per un motivo riferito ad un errore in iudicando, sul
presupposto che possa sempre, anche in occasione della promozione di questo
tipo di ricorsi, prospettarsi ufficiosamente dinanzi alla Cassazione un errore
in procedendo in tutte le occasioni in cui si sia avuta violazione di norma
processuale rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio e su cui,
ovviamente, non siasi formato in precedenza un giudicato interno per effetto di
pronuncia non impugnata da parte di alcuno dei giudici di merito
precedentemente all'intervento della Cassazione.
Ci ricordiamo, che rispetto a queste
ipotesi abbiamo la rottura del sistema rispetto alla distinzione tra
impugnazione ordinaria e straordinaria, perché il legislatore ha voluto dire
che l'esperibilità della revocazione nei confronti della sentenza di
cassazione, non impedisce il passaggio in giudicato della sentenza impugnata
con il ricorso per Cassazione respinto, sicché questo motivo di ricorso che
curerebbe il motivo di revocazione ordinaria quando si fonda su di un vizio
deducibile già dall'esame della sentenza, tuttavia, è un motivo
di ricorso la cui proponibilità non impedisce la già avvenuta
formazione del giudicato da parte, non della sentenza di Cassazione, ma della
sentenza d'Appello, nell'ipotesi in cui la sentenza di Cassazione che si voglia
impugnare, sia sentenza di rigetto del ricorso.
Quindi l'impugnazione può
concorrere con il ricorso per Cassazione, non può invece concorrere con
l'Appello, sono infatti impugnabili per revocazione anche le sentenze
pronunciate in primo grado, ma se e solo se, siano passate in giudicato nel
qual caso sono impugnabili per revocazione, ovviamente solo per motivi di
revocazione straordinaria, cioè per quei motivi che non sono desumibili
dall'esame della sentenza. E qui potremo porci un problema. E se io scopro il
motivo di revocazione straordinaria! Scopro i documenti decisivi nascosti per
fatto dell'avversario il giorno prima della scadenza per appellare! Non posso
proporre revocazione, perché la sentenza è ancora appellabile. Si
è vero, ma ho solo un giorno per introdurre anche questo fra i miei
motivi d'appello. Sono messo un po' in difficoltà., e il legislatore
quindi mi viene incontro prorogando il termine per l'Appello, che riprende a
decorrere dando prova del momento in cui si è venuti a conoscenza del
motivo di revocazione.
Un tempo il procedimento per
revocazione aveva sempre la precedenza rispetto al procedimento per il ricorso
per cassazione, prioritava la revocazione perché, il controllo di
legittimità presuppone che l'accertamento del fatto siasi svolto
correttamente, pertanto, è prioritario verificare che il fatto si sia
svolto correttamente e quindi prevedeva l'effetto sospensivo automatico del procedimento
di Cassazione o del termine per proporre ricorso per Cassazione, per effetto
della proposizione del ricorso per revocazione. Però alcuni sollevarono
il problema che l'eventuale utilizzazione del ricorso per revocazione, al solo
scopo di procrastinare il passaggio in giudicato della sentenza, sul
presupposto che potesse esservi un interesse a procrastinare il mero passaggio
in giudicato della decisione. Questo interesse, a dire il vero non è
fortissimo, cioè non è forte come l'interesse a procrastinare la
pronuncia o l'esecutività della decisione, ritardare il passaggio in
giudicato può avere qualche utilità ma non è poi
così importante e in effetti, non è che nella pratica fosse
sentito in modo particolarmente grave il problema dell'abuso del ricorso per
revocazione, tuttavia, non si può lamentare l'intervento del legislatore
del '90 perché ha deciso di eliminare questo automatismo, e in realtà
è buona cosa che si eliminino in via generale gli effetti sospensivi
automatici, subordinando esplicitamente in base al nuovo dettato dell'art. 398,
la sospensione del procedimento per cassazione o del termine, a uno specifico
provvedimento giudiziale da chiedersi e si ottiene dal giudice adito per
l'istanza di revocazione, provvedimento di sospensione basato su una delibazione
di una non manifesta infondatezza dell'istanza di revocazione, quindi il
provvedimento è dato da quello stesso giudice che dovrebbe pronunciare
sull'istanza di revocazione, diversamente dal meccanismo che si opera nel
regolamento di giurisdizione in cui la delibazione sull'esistenza di fondatezza
non è data dal giudice che deve decidere sul regolamento.
Il punto è che l'allocazione
del potere discrezionale di valutazione dell'apparenza di fondatezza del
ricorso, deve necessariamente essere affidata ad un giudice del merito perché
richiede una discrezionalità valutativa che è incongrua affidare
alla Corte di Cassazione, cosiccome i provvedimenti di sospensione
dell'esecutività della sentenza impugnata si chiedono al giudice
d'Appello quando la sentenza impugnata sia sentenza di primo grado, cioè
al giudice a cui si rivolge l'impugnazione, ma laddove invece, la sentenza di
cui si chiede di sospendere l'esecutività sia sentenza d'appello e la
sospensione dell'esecutività sia richiesta in pendenza della proposizione
di ricorso per Cassazione, l'istanza di sospensione (cosiddetta inibitoria)
dell'esecutività della sentenza si richiede di nuovo al giudice
d'Appello, ancorché sembra paradossale chiedere ad un giudice di sospendere
l'esecutività di una sentenza che lui stesso ha reso, ma questo accade
perché sarebbe incongruo affidare l'esercizio di potere discrezionale di questa
fatta alla Corte di Cassazione.
Congruamente i criteri per stabilire
se sospendere o no l'esecutività della sentenza quando si tratti di sentenza
di primo grado impugnata con l'appello, ricomprendono sia una valutazione se
vogliamo, in senso molto lato l'esercizio di un potere cautelare, quindi come
accade in via generale, i presupposti per la concessione della tutela urgente
provvisoria cautelare, cioè apparenza del buon diritto e pericolo del
ritardo rispetto all'inibitoria si trasforma, perché si richiede un
contemperamento del pregiudizio del ritardo che soffre l'attore nel vedere
procrastinata l'esecuzione della sentenza, con il pericolo definibili da
anticipazione e cioè il pregiudizio che soffre il convenuto per effetto
di un eventuale anticipazione o meno dell'esecutività della sentenza,
sicché, messa in questi termini, se raffrontiamo i criteri per la sospensione
dell'esecutività della sentenza di primo grado con quelli per la
sospensione dell'esecutività della sentenza d'Appello, vediamo che, se
si tratta di sentenza di primo grado il giudice può tener conto sia il periculum
in mora latamente inteso, sia dell'apparenza di fondatezza della
impugnazione, laddove si prevede che la sospensione dell'esecutività
possa essere concessa sulla base di gravi motivi individuandosi l'effetto di
chi ponga opposizione generica e ne ha comprendere sia motivi attinenti
all'apparenza di fondatezza dell'impugnazione, sia motivi attinenti alla
azione di pregiudizi che le parti rispettivamente soffrono per effetto
dell'anticipazione o del differimento dell'esecuzione della sentenza.
Laddove invece, si tratta di
sospendere l'esecutività di una sentenza d'Appello, il criterio per
concedere la sospensione è quello del danno grave irreparabile
che si prevede si debba subire al fine dell'esecuzione, cioè quello che
definirei come pericolo da anticipazione, intendendosi la locuzione
riferita al danno grave irreparabile che si soffrirebbe per effetto
dell'anticipazione dell'esecutorietà del provvedimento, e passerebbe
valutabile andolo con il pregiudizio che invece riceverebbe l'attore dal
differimento dell'esecuzione della sentenza che gli ha dato ragione,
però in questa sede si valutano solo i rispettivi pericula et mora,
ma il giudice di appello non ha alcun potere di valutare l'apparenza di
fondatezza dell'impugnazione proposta contro la sua stessa sentenza, ancorché
proposta ad un giudice diverso, in quanto questo è compito riservato
alla Cassazione e si lascia al giudice d'Appello solo la valutazione sui
pregiudizi da esecuzione.
Nel caso della sospensione del
procedimento di Cassazione in pendenza di revocazione, abbiamo un giudice che
valuta l'apparenza di fondatezza dell'istanza proposta, però, davanti a
se e quindi non sospende nei casi di manifesta infondatezza dell'istanza di
revocazione.
Questa sospensione, diversamente
dalla sospensione per pregiudizialità tra controversie di cui all'art.
295, non opera fino al passaggio in giudicato della sentenza sulla revocazione,
bensì soltanto fino alla sua comunicazione, ovvero in mancanza di
costituzione delle parti, cioè rispetto alle parti non costituite, alla
sua pubblicazione, sicché, potrà proporsi poi il ricorso per Cassazione,
sia contro la sentenza che ha pronunciato sulla revocazione, sia contro la
sentenza revocando nell'ipotesi in cui l'istanza di revocazione sia stata
rigettata, e quindi la sentenza revocata non sia stata cassata a seguito della
fase rescindente del procedimento di revocazione.
La sentenza sulla revocazione
è soggetta per l'art. 403, agli stessi mezzi d'impugnazione che
sarebbero stati proponibili contro la sentenza revocando, e in quei ricorsi
eventualmente proposti contemporaneamente contro entrambe le decisioni,
potranno essere eluditi, secondo la giurisprudenza della Cassazione, che
secondo alcune decisioni è anche possibile in questo caso, proporre un
unico ricorso ancorché diretto nei confronti di due provvedimenti diversi.
Se non viene disposta la sospensione
del procedimento per Cassazione, e quindi i due procedimenti proseguono
contemporaneamente, si propone il problema del loro coordinamento, e qui
c'è da osservare che secondo alcuni, l'eventuale cassazione della sentenza
revocando farebbe cessare la materia del contendere del procedimento di
revocazione. La soluzione qualche perplessità la desta, perché sembra
non tenere conto della circostanza che il procedimento di cassazione è
procedimento che oggi può anche concludersi con una pronuncia sul merito
che si aggiunge alla pronuncia rescissoria, il procedimento di cassazione che
ben potrebbe essere stato instaurato, infatti sebbene contestualmente al
procedimento di revocazione, per denunciare un mero errore in iudicando e
potrebbe quindi sfociare con la pronuncia sul merito della causa, pronuncia,
però,che presuppone che si sia
avuto un corretto accertamento del fatto, sicché, la circostanza che
l'accertamento del fatto sia posto in dubbio attraverso la tempestiva proposizione
di un procedimento per revocazione, mi sembra tale da non permettere di
giungere così facilmente alla conclusione. Se la sentenza è
cassata, si! Ma è cassata con rinvio proprio o con diretta pronuncia del
merito, cioè sostanzialmente non è cassata senza rinvio o con
rinvio improprio, mi sembra che dovrebbero essere conservate le chance
della parte che ha proposto la revocazione, di ottenere una declaratoria
invalidante dell'accertamento del fatto su cui si fonda una sentenza di
cassazione che avrebbe altrimenti un effetto preclusivo alle coltivazioni delle
contestazioni sollevate dalla parte tutte le volte in cui si tratti appunto, di
sentenza di Cassazione con pronuncia nel merito o cassazione con rinvio proprio
e quindi con fase rescissoria chiusa e non passibile di avere per oggetto
ulteriori contestazioni intorno all'esame del fatto, in particolare, del fatto
processuale.
Al contrario, invece è
plausibile, la conclusione più generale secondo cui l'accoglimento della
domanda di revocazione comporti la cessazione della materia del contendere
rispetto al ricorso per revocazione che sia stato proposto, sospeso o non
sospeso che sia stato il procedimento stesso, perché fa venir meno il
presupposto del ricorso per Cassazione stesso, ossia quella sentenza che per
ricorso per Cassazione era stata impugnata, e quindi, il caso inverso è
invece plausibile e accettabile la soluzione dell'interferenza del procedimento
tale da determinare la cessazione della materia del contendere, cessazione di
cui, la Cassazione potrebbe tenere conto trattandosi di fatto sopravvenuto di
contenuto processuale senza con questo travalicare i limiti del proprio potere
cognitorio e decisorio.
Tutto ciò premesso, vediamo a
questo punto quali sono i motivi di revocazione.
I motivi di revocazione
straordinaria emergono dall'esame della sentenza,
sicché, il loro termine è mobile e sono proponibili anche contro
sentenze di primo grado che siano passate in giudicato e non siano più
soggette ad appello. Il giudice, sul presupposto che sia stato accertato con
sentenza passata in giudicato pertanto non è possibile farlo accertare
dallo stesso giudice della revocazione e d'altronde si propone a quello stesso
ufficio giudiziario che aveva pronunciato la sentenza revocanda, quindi sia
opportuno che il dolo sia stato previamente accertato, è motivo di
revocazione il dolo di una parte ai danni dell'altra, e il dolo di entrambe le
parti rileva per l'opposizione di terzo revocatorio della parte, e il dolo
della parte si ravvisa allorquando vi siano stati veri e propri raggiri, come
l'usi di documenti falsi. Se la parte impugnante non può provare la
consapevolezza dell'uso di documenti falsi da parte dell'avversario, la mera
falsità dei documenti stessi o di altri mezzi di prova, può
fondare la revocazione ma solo a condizioni più restrittive, e qui
occorre che la falsità del documento sia stata o dichiarata con sentenza
passata in giudicato nei confronti dell'avversario, quindi non passata in
giudicato con un giudizio fra altre parti in un giudizio civile in cui
l'avversario sia rimasto estraneo, ovvero riconosciuta dall'avversario prima
della domanda di revocazione e dopo la pronuncia della sentenza revocanda,
perché se la falsità è stata accertata prima, la parte impugnante
aveva l'onere di far valere questa falsità nel procedimento conclusosi
con la sentenza revocata, si fa eccezione per il caso in cui la parte possa
essere rimessa in termini dimostrando di essere venuta a conoscenza della
dichiarazione della falsità successivamente alla sentenza revocata,
quantunque queste si siano verificate prima della pronuncia.
Poi abbiamo la scoperta di documenti
decisivi cui è equiparabile la scoperta dell'effettivo contenuto dei
documenti decisivi della cui esistenza si era a conoscenza, credendo che il
loro contenuto fesse diverso, che però, può costituire motivo di
revocazione soltanto in tanto in quanto, non sia conurabile negligenza della
parte nella mancata produzione del documento. Da questo punto di vista è
opportuno ricordare che secondo l'orientamento prevalente della giurisprudenza,
il divieto di produzione in Appello di nuovi mezzi di prova è divieto
che si applica solo alle prove costituende, cioè ai mezzi di prova in
senso proprio, sicché, sono metodi, essendo preordinato a favorire la
concentrazione del giudizio d'appello in un'unica udienza o in minor numero di
udienze, sul presupposto che siano le prove costituende e soltanto esse a
determinare il rallentamento dei tempi della decisione rendendo necessaria la
fissazione di una pluralità di udienze, così, di solito la norma
viene interpretata nel senso che sia ammessa senza limiti la produzione di
nuovi documenti e di nuove prove precostituite in grado d'Appello, attraverso
il loro deposito in cancelleria, pertanto la parte che avesse avuto
l'opportunità di depositare in cancelleria il documento decisivo in
grado d'Appello, non potrebbe poi avvalersi di tale documento ai fini della promozione
di un procedimento per revocazione della sentenza.
( accertamento giudiziale della
falsità della provaNella falsità delle prove fa eccezione a questo regime, in
particolare,il problema della
falsità del giuramento decisorio. Trattandosi di uno strumento in parte
probatorio ma anche in parte dispositivo che riesce per assumere una rilevanza
particolarmente tenue, la sua falsità, perché l'eventuale declaratoria
giudiziale della falsità del giuramento, non costituisce motivo della
revocazione della sentenza, anche quando questa declaratoria avvenga dopo la
pronuncia della sentenza revocanda e prima della proposizione dell'istanza di
revocazione, perché rispetto a questa particolare ipotesi di falsità
l'unica sanzione a carico dello spergiuro, è una responsabilità
penale con l'eventuale responsabilità risarcitoria conseguente
all'illecito penale, ma la definizione della causa conseguita attraverso il
mendacio resiste all'accertamento dello spergiuro stesso).
Si riprende il discorso sulla
scoperta di documenti decisivi, perché qui vi è un punto più
sottile da osservare è quello che concerne il problema dell'esibizione
di documenti. Abbiamo visto che la disciplina soffre di forti carenze di
effettività, perché se il documento decisivo non è in mano alla
parte che ha interesse a produrlo, questa parte può farlo acquisire al
processo per effetto di un ordine di esibizione ottenuto dal giudice in
presenza di presupposti particolarmente restrittivi, ma anche quando si riesce
ad ottenere quest'ordine di esibizione, tuttavia, la parte interessata non ha i
mezzi per eseguirlo coattivamente, per cui l'ottemperanza all'ordine stesso
è di fatto rimessa alla buona volontà della parte a cui sia
diretto, poiché trattandosi di un terzo si può forse immaginare, ma la
cosa è dubbia e in ogni caso sul piano pratico è irrilevante,
comunque si può immaginare che sia condannato ad una pena pecuniaria
dall'ammontare modesto e si allude alla diretta coercibilità dell'ordine
si espone persino che si possa fare acquisire il documento attraverso il
sequestro giudiziario della prova stessa.
La parte che ha ottenuto l'ordine di
esibizione del documento ma non è riuscita a farla acquisire al
processo, potrebbe poi proporre domanda di revocazione una volta che scopra che
questo documento contiene la prova che gli da ragione? La giurisprudenza ha
finito per adottare una soluzione compromissoria, per cui, se la mancata
esibizione del documento consegue ad un fatto dell'avversario, cioè il
documento è in possesso dell'avversario cui ha rifiutato di esibirlo, e
di conseguenza è andato incontro alla conseguenze probatorie sfavorevoli
di cui all'art. 116 2° comma, ebbene non è ammessa la revocazione,
secondo la giurisprudenza in questo caso prevede che il meccanismo probatorio
ha operato nella maniera in cui il legislatore voleva che operasse e quindi la
parte non si è potuta avvalere di quel documento, ma si è potuta
avvalere delle conseguenze probatorie derivanti dalla omissione della
produzione del documento. Invece, se, il documento era nelle mani di un terzo e
quindi è stato il terzo a rifiutarsi di esibirlo, a seguito della
pronuncia dell'ordine stesso, allora si riconosce la sussistenza di una causa
di forza maggiore tale da giustificare l'esperimento della revocazione
allorquando la parte scopra l'effettivo contenuto del documento. È una
soluzione un po' di compromesso, se vogliamo, perché, in realtà, si
potrebbe giustificare tanto la soluzione che effettua la revocazione in
entrambe i casi, quanto quella che entrambe i casi la rifiuta.
Ancora a carattere straordinario con
collegamento non banale perché viene da una lettura immediata del sistema
codicistico, altri casi di revocazione straordinaria sono quelli che può
far valere il PM ai sensi dell'art. 397, e cioè nelle ipotesi di revocazione
proponibili al PM, la collusione della parti per frodare la legge, o la sua
pretermissione in motivi che il PM può far valere entro termini
decorrenti dal momento in cui ha avuto effettivamente conoscenza della
sentenza, da cui arguiamo che la nullità ex art. 158 da pretermissione
del PM, nullità assoluta e insanabile però, come tutte le
nullità, soggetta al regime della conversione ex art. 161 e quindi
sanabile per effetto della formazione di un giudicato parziale sul merito
all'interno dello stesso processo, comunque sanato dalla formazione del
giudicato, e sanata rispetto alle parti, ma non è sanata rispetto al PM
che sia rimasto estraneo al processo e che conserva quindi la facoltà di
farla valere e la logica, che dovrebbe appunto ispirare, l'interpretazione
della disciplina delle conseguenze della pretermissione del litisconsorte
necessario, che secondo una lezione tramandata, la sentenza resa a
contraddittorio non integro è inuliter data, giuridicamente
inesistente e improduttiva degli effetti persino tra le parti, ma in
realtà si capiva che si prospettassero conseguenze così drastiche
e drammatiche, allorquando sotto il vigore del codice previgente non si
prevedeva il potere del giudice di ordinare l'integrazione del contraddittorio,
ove si voleva giustificare l'esercizio di questo potere ufficioso del giudice
prospettando appunto, che se non lo si esercita conseguenze terribili, oggi che
il potere di ordinare l'integrazione del contraddittorio da parte del giudice
è espressamente prevista dalla legge, non abbiamo più bisogno di
evocare questi scenari catastrofici per potere giustificare questa deroga al
principio dispositivo, ed è accettabile, invece, che si applichi quel
tipo di disciplina che vediamo applicata nel caso della pretermissione del PM,
e cioè quindi che, la sentenza tra coloro che hanno partecipato al
giudizio produca i suoi effetti a seguito del suo passaggio in giudicato, e
coloro che abbiano partecipato al giudizio non abbiano la possibilità di
dedurre essi stessi la pretermissione del litisconsorte necessario. Il vizio
della sentenza potrà essere fatto valere in ogni tempo, ma dal
litisconsorte necessario pretermesso e nonda coloro che avrebbero avuto l'opportunità di far valere questo
vizio nell'arco di tre gradi di giudizio, non l'abbiano fatto per poi magari
tenersi di riserva la carta per giocarla a partita chiusa per consentirla di
ricominciare daccapo. Quindi anche questi, appunto del PM vanno quindi
qualificati come motivi di revocazione straordinaria.
Motivi di revocazione ordinaria, invece, emergono appunto dalla stessa sentenza. Abbiamo in parte
visto il motivo di allocazione consistente nella contrarietà della
sentenza di un precedente giudicato fra le stesse parti. Il presupposto
dell'accoglibilità di questo motivo di revocazione è che non se
ne sia avuta pronuncia alcuna sull'eccezione di giudicato, e da queste
disposizioni si evince di solito che nel contrasto tra due sentenze passate in
giudicato entrambe, prevalga la seconda. Secondo la giurisprudenza prevalente
rileva in questo motivo di ricorso la violazione del solo giudicato esterno,
cioè il giudicato formatosi in un diverso processo, perché si tende a
dire tradizionalmente, il giudicato interno, quello formatosi nell'ambito dello
stesso processo che ha carattere largamente di preclusione processuale, mentre
il giudicato interno è rilevabile d'ufficio, si dice quindi, si ha
sempre una pronuncia sull'eccezione di giudicato. Il passaggio è forzato
e discutibile, in particolare occorre dire che secondo la dottrina dominante e
ormai anche secondo la giurisprudenza, perché la Cassazione si è
orientata in questo senso, anche il giudicato esterno è revocabile
d'ufficio. Dove nasce il problema? Dalla circostanza che nel giudicato interno
il giudice ha conoscenza perché la fattispecie che lo produce trova riscontro
nel fascicolo di causa, e il giudicato esterno è prodotto da una
fattispecie che il giudice non potrebbe non sapere nulla, perché se nessuno
provvede ad integrare gli atti il giudice non verrà a conoscenza della
fattispecie e non può pronunciarsi, quindi vale anche per fasi come
quello della formazione del giudicato la regola per cui il giudice soffre del
privilegio di scienza privata, "ciò che non è agli atti non
può essere conosciuto", e non potrebbe neanche giuridicamente andare lui
in cerca delle altre eventuali sentenze sopravvenute tra le stesse parti, ma
altro è il problema del divieto di scienza privata e quindi il problema
per cui il giudice non può conoscere gli effetti di un giudicato
prodotto da una sentenza che non risulta nel suo fascicolo. Altro è che
le parti possano disporre dell'effetto di questo giudicato una volta che, in un
modo o nell'altro, per iniziativa dell'una o dell'altra delle parti, tale
sentenza sia stata ritualmente introdotta nel giudizio attraverso il deposito
del fascicolo, sul presupposto che ciò siasi verificato, deve ritenersi
che il giudicato esterno sia rilevabile d'ufficio e quindi che gli effetti di
tale giudicato il giudice debba tenere conto anche se nessuna delle parti
pronuncia le magiche parole evocative dell'effetto stesso e chiede al giudice
di pronunciarsi intorno a quell'effetto. In ipotesi può accadere che una
parte produce una sentenza pensando che le giovi, e scopre poi che invece la
sentenza le nuoce, e però il giudice, giustamente in questo caso, tiene
conto dell'effetto giuridico sfavorevole alla parte che improvvidamente ha
depositato la sentenza, in quanto tale effetto non è disponibile si
produce automaticamente una volta che siano ritualmente acquisite a giudizio
gli elementi costitutivi della fattispecie.
Quindi, una volta raggiunta la
conclusione che anche il giudicato esterno è rilevabile d'ufficio come
il giudicato interno è chiaro che non possiamo più accontentarci
dell'interpretazione che dice: "non è esperibile la revocazione tutte le
volte che si fondi su un contrasto di giudicati rilevabile d'ufficio", perché
in questo caso si è sempre avuta la relativa eccezione, ciò
implicherebbe che non sia mai possibile la revocazione per contrasto di
giudicati, si deve dunque riferire che se la circostanza che il giudicato sia
rilevabile d'ufficio non è minimamente ostativa all'esperimento di
un'impugnazione per revocazione nei confronti della sentenza che lo disattenda.
Dovendosi riferire invece ad un
elemento ostativo alla proposizione dell'istanza di revocazione solo nella
circostanza in cui vi sia stata esplicita pronuncia del giudice sull'eccezione
di giudicato. Se ci è stata una pronuncia esplicita allora certamente
non abbiamo modo di esperire l'impugnazione per revocazione e l'unico rimedio a
disposizione delle parti resta la proposizione di un ricorso per cassazione
fondato sulla violazione dell'art. 2909 del c.c., cioè sulla violazione
di giudicato. Se invece non c'è stata alcuna pronuncia esplicita sull'eccezione
di giudicato, dovrebbe ammettersi l'esperimento della revocazione sia
nell'ipotesi di violazione di giudicato esterno, sia nell'ipotesi di violazione
di giudicato interno, perché non vi è motivo di differenziare le due
ipotesi.
Infine, per quanto riguarda la revocazione,
è particolarmente importante sul piano applicativo il motivo, proprio
perché esperibile anche nei confronti delle sentenze di cassazione, consistente
nel cosiddetto errore di fatto, cioè quando la sentenza si fonda
sull'esistenza di un fatto la cui inesistenza risulta incontrastabilmente dagli
atti di causa e viceversa, quando si fonda sull'inesistenza di un fatto di cui
risulta incontrastabilmente l'esistenza, abbiamo cioè un contrasto tra
gli atti causa e la sentenza intorno all'esistenza di un fatto.
Presupposti, anche qui sono innanzi
tutto che non vi sia stato un giudizio esplicito sul fatto da parte del giudice
della sentenza evocata, perché si dice che se il giudice esplicitamente ha
detto che il fatto risulta in questo senso, sulla base di questi atti di causa
che pure elidano il contrario, ma in realtà vanno interpretati in modo
da suggerire questa conclusione, qui non c'è la revocazione. La
revocazione si fonda sul presupposto che il giudice si sia distratto! Non si
sia accorto che dai documenti doveva concludersi il contrario di quel che ha
concluso, non quando si sia sbagliato accorgendosene e così pure l'altro
presupposto che non vi sia stata contestazione tra le parti sul fatto, poiché
se vi è stata contestazione sul fatto automaticamente anche il giudice
non può essersi distratto, ma nel valutare il fatto in quel modo lo ha
necessariamente fatto criticamente tenendo conto delle diverse possibili
prospettazione e quindi in questo caso ancora, l'unico rimedio resta quello del
ricorso per Cassazione e del controllo sulle modalità con cui si
è accertato il fatto che può svolgersi anche eventualmente
attraverso il controllo sulla motivazione, per cui quella sentenza con la quale
il giudice dirà che è vero che i documenti puntano tutti in questa
direzione, ma ritengo che si possa, in realtà, lo stesso concludere che
il fatto esista o non esista contrariamente a quanto significa, abbiamo cassato
per vizio di motivazione da cui emerge un travisamento di fatti, perché la
motivazione stessa denuncia che queste risultanze di causa le ha valutate in
modo incongruo non ragionevole, in una maniera nella quale non poteva
ragionevolmente giungersi a quella conclusione.
Ulteriore presupposto, infine,
è che tale fatto abbia carattere appunto tale da determinare l'esito
della causa.
L'ipotesi quindi va tenuta distinta
sia dalla insufficienza di motivazione, dal travisamento dei fatti, che ha
luogo invece nel diverso caso che abbiamo descritto poc'anzi, va naturalmente
tenuta distinta anche dall'ipotesi in cui vi sia stato errore di diritto,
cioè quando il giudice abbia applicato una norma travisandone
completamente il contenuto e in questo caso è chiaro che c'è solo
il ricorso per Cassazione per violazione o falsa applicazione di norme di
diritto, e ancora va distinto, e qui spesso nella pratica la distinzione
può risultare problematica, dal cosiddetto errore materiale o di
calcolo, il cui rimedio secondo la legge, non è la revocazione della
sentenza, bensì la sua correzione che è oggetto di un
procedimento non a carattere impugnatorio proponibile in ogni tempo. Si dice,
in linea di massima, che si ha errore materiale tutte quelle volte in cui sia
evidente che il giudice ha scritto una cosa intendendo dirne un'altra, mentre
avremo errore quando il giudice è lui incorso in un errore cognitivo e
non espressivo. Si! In astratto i conti tornano, poi in concreto, stabilire se
l'errore in cui è incorso il giudice sia nato in sede cognitiva o in
sede espressiva è tutt'altro che facile, perché è chiaro che se
il giudice nel fare i conti dice che il convenuto deve 1000 a questo titolo e
poi 1000 ad altro titolo e totale 200, questo è un errore di calcolo
passibile di correzione, ma quando il giudice fa il nome di una parte al posto
di un'altra, sarà un errore materiale o un errore revocatorio?
Effettivamente sul piano pratico è molto difficile distinguere, e
quindi, il legislatore in riferimento al problema della revocazione nei
confronti delle sentenze di Cassazione, ha pensato di prevedere un unico
procedimento per i casi sia di correzione, sia revocazione. Entrambi sono
disciplinati dall'art. 391bis quando siano riferiti a sentenze pronunciate
dalla Corte di Cassazione, sicché la parte sembra essere sgravata del compito
di distinguere fra l'una e l'altra ipotesi, salvo che resta un problema che
è quello del termine. Il motivo di revocazione di cui al n. 4 dell'art.
395 palesemente motivo di revocazione ordinaria, deducibili entro termini
decorrenti dalla pubblicazione o notificazione della sentenza, ma se si trattasse
di un vizio passibile di mera correzione dovremo prevedere un termine lo
stesso? Il legislatore del '90 nell'art. 391bis, aveva previsto un termine pure
all'ipotesi dell'istanza di correzione, ma in argomento è intervenuta la
Corte Costituzionale, perché se una sentenza è passibile di correzione
in ogni tempo quando si è resa in grado d'Appello, appare incongruo che
sia passibile di correzione solo entro un tempo ristretto e limitato quando sia
resa dalla Corte di Cassazione, pare non essere ragionevole la distinzione fra
le due ipotesi, e quindi la Corte di Cassazione l'ha cancellata dichiarando
costituzionalmente illegittimo l'art. 391bis nella parte in cui non prevede di
esperire in ogni tempo il procedimento di correzione tutte le volte che
l'errore denunciato possa qualificarsi come mero errore materiale e quindi come
un errore in fase espressiva anziché in fase cognitiva.
·L'opposizione di terzo
Non moltissime sono le cose
importanti da dire da dire a proposito dell'opposizione di terzo perché si
tratta di uno strumento di non grandissima applicazione, e tra l'altro non
è molto ricca l'esperienza giurisprudenziale in materia.
Possiamo distinguere, già
dalla lettura dell'art. 404 due grandi categorie di ipotesi, cioè per un
verso quella dell'opposizione di terzo semplice o ordinaria, come alcuni
dicono di cui al comma 1°, che pur essendo a volte nominata ordinaria è
ovviamente un'impugnazione straordinaria anzi l'unica per la quale non sia
previsto termine alcuno, e al 2° comma la opposizione di terzo revocatoria.
Di questa, già dal titolo si
capisce di cosa si tratta, perché evoca immediatamente l'azione revocatoria, il
pregiudizio alla garanzia patrimoniale che l'azione revocatoria ordinaria
è diretta a prevenire e che l'azione revocatoria fallimentare, nell'ipotesi
del fallimento rimedia in maniera ancora più incisiva. Nel caso di
opposizione di terzo revocatoria, anzitutto abbiamo una sentenza che è
effetto di dolo o collusione della parti a danno del terzo, e qui è
immediato evocare l'azione revocatoria ordinaria dove c'e appunto il consilium
in fraudis ai danni del creditore e i soggetti legittimati sono i
creditori, appunto, e gli aventi causa, cioè i soggetti che subiscono
gli effetti del giudicato intercorso fra le parti, sia soggetti come i
creditori che subiscono solo un pregiudizio di fatto e quindi non sono
vincolati dall'effetto giuridico pronunciato nella sentenza, sia gli aventi
causa che invece subiscono direttamente gli effetti del giudicato. L'unico
punto forse non banale che la giurisprudenza ha riconosciuto è che la
legittimazione spetta anche a quei soggetti che abbiano acquisito
successivamente alla sentenza la qualità di aventi causa.
Più complesso è
l'istituto di cui al 1° comma in cui vi sono legittimati all'opposizione i
terzi a cui la sentenza risulta pregiudizievole e chiarire la natura di questo
pregiudizio non è tanto agevole, dato che si muove dal presupposto, in
via generale, i terzi non subiscono gli effetti della sentenza quindi non si
capisce come ne possano essere pregiudicati, ovvero se li subiscono in quei
casi in cui le subiscono le subiscono legittimamente, quindi non si vede come
possano lamentarsi, il fatto sta che in realtà il caso che avevano in
mente quegli ordinamenti in cui quest'istituto è sorto, ordinamenti di
derivazione francese, è quello dell'intervento principale, che
storicamente si identifica nell'ipotesi in cui un terzo affermi di essere il
vero titolare del diritto in contesa, sicché al pregiudizio di cui all'art. 404
allude è un pregiudizio di mero fatto che grava sul terzo per effetto
dello stato di incertezza attorno alla titolarità del diritto che viene
determinato dalla sussistenza di una sentenza attributiva di quel diritto ad un
altro soggetto, ancorché non pronunciata nei confronti di quel terzo che afferma
di essere il vero titolare.
Col tempo si è arrivati ad
individuare ulteriori due fattispecie, una in realtà molto di scuola per
l'assai improbabile verificazione che è quella della sentenza resa
contro il falso rappresentante, ed è un fenomeno non molto
frequente, comunque si immagina che questa ipotesi siapossibile, al falsamente rappresentato,
proporre opposizione di terzo qualificando lo stesso come un soggetto che non
subisce gli effetti della sentenza, non essendo possibile nel processo nessuna
forma di negotiorum gestio o di rappresentanza senza poteri, per cui vi
è l'invalidazione di una rappresentanza compiuta senza poteri neppure
per effetto di ratifica posteriori, ritenendosi che l'interesse del falsamente
rappresentato a togliere di mezzo dal punto giuridico una sentenza che
apparentemente ha per oggetto i suoi diritti, possa essere corretto tramite il
rimedio dell'opposizione.
Più rilevante potenzialmente,
è invece l'ipotesi dell'applicabilità dell'istituto al caso del
litisconsorte necessario pretermesso, nell'ipotesi in cui una sentenza sia
produttiva di effetti tra le parti ma non nei confronti del terzo.
Questo tipo di conclusione suggerisce
quindi che si debba aderire all'opinione prevalente secondo cui l'accoglimento
dell'opposizione elimina la sentenza e gli effetti della sentenza anche tra le
parti originarie, cioè rimuove l'efficacia del giudicato non solo
rispetto alla posizione giuridica del terzo accertata e riconosciuta dalla
sentenza, ma anche nei rapporti fra queste due parti.
L'altro problema non banale che offre
la disciplina dell'opposizione di terzo è quello dell'individuazione
dei provvedimenti impugnabili, perché, il codice prevede esplicitamente
l'opponibilità per opposizione di terzo delle sentenze che siano passate
in giudicato o comunque esecutive nonché dei lodi arbitrali ex art. 827 e, ai
soli fini dell'opposizione di terzo revocatoria, il decreto ingiuntivo come
prevede il 2° comma dell'art. 656 che consente la proposizione oltreché della
revocazione straordinaria anche l'opposizione di terzo revocatoria contro il
decreto ingiuntivo nei cui confronti siano scaduti i termini per l'opposizione.
Sono però tutte sentenze della Corte Costituzionale, che hanno disteso
in vario modo l'ambito di applicazione dell'istituto, includendo quelle
ordinanze di convalida di sfratto, di cui abbiamo già parlato a
proposito del rimedio costituzionale della revocazione, la giurisprudenza
anticipando le conclusioni a quelle che sarebbe giunta la Corte Costituzionale,
provvedendo direttamente ad un'interpretazione costituzionalmente orientata del
diritto positivo, ha previsto l'impugnabilità con opposizione di terzo,
alché i provvedimenti come il decreto di repressione della condotta
antisindacale previsto dall'art. 28 delle Statuto del Lavoratori. Questo
decreto è un provvedimento sommario che viene reso a seguito di una
necessaria fase sommaria del procedimento, fase che peraltro prevede
l'attivazione del contraddittorio tra le parti che debbono essere sentite prima
dell'emanazione dello stesso decreto e questo decreto può essere
impugnato tramite opposizione, a seguito della quale il riesame del
provvedimento avviene con le modalità della cognizione piena
caratteristiche del procedimento speciale a condizione piena per controversie
di lavoro, e sfocia in una sentenza che ha le normali caratteristiche della
sentenza. Dove, invece, il decreto non venga impugnato tramite tempestiva
opposizione, lo stesso acquisisce gli effetti della sentenza e cioè del
provvedimento idoneo a produrre gli effetti della cosa giudicata sostanziale
ancorché reso in via sommaria sulla base di un'attività di istruzione
probatoria sommaria e semplificata, cioè secondo il modello
dell'assunzione di sommarie informazioni, e che abbia una forma diversa da
quella della sentenza.
Questo provvedimento è stato
ritenuto impugnabile con opposizione di terzo nelle fattispecie in cui se ne
è trattato, e ciò avveniva sul presupposto che, in realtà,
sussistesse un conflitto fra più sindacati, tale per cui la
soddisfazione delle pretese di un sindacato nei confronti del datore di lavoro
risultasse pregiudizievole per le pretese contrastanti di altri sindacati nei
confronti dello stesso datore di lavoro. Qui, quello che è interessante
ed efficace ai fini della memorizzazione degli istituti, istituire un
parallelismo che individui le differenze tra i presupposti per la
impugnabilità con ricorso straordinario per Cassazione e i presupposti
delle impugnabilità con opposizione di terzo dei provvedimenti che non
abbiano la forma della sentenza, perché quando parliamo di ricorso
straordinario per Cassazione ci ricordiamo che la caratteristica del
provvedimento per risultare impugnabile deve essere un provvedimento decisorio
e definitivo, cioè dal punto di vista sostanziale decisorio e
cioè idoneo a incidere su diritti soggettivi vale a dire idoneo a
incidere su situazioni sostanziali di vantaggio attributive di un bene della
vita estraneo al processo, e può essere inteso come definitivo, quando
il provvedimento non sia ne revocabile, ne altrimenti impugnabile, ebbene,
però, ai fini dell'opposizione di terzo, possiamo dire in via generale,
che il provvedimento acquisisce la natura del provvedimento impugnabile tutte
le volte che sia decisorio e tutte le volte che non sia revocabile e tutte le volte
che non sia stato impugnato, anche se risulti altrimenti impugnabile, perché se
ci dobbiamo mettere nella prospettiva della tutela del terzo, la circostanza
che il provvedimento sia altrimenti impugnabile, ma impugnabile su iniziativa
delle parti, è di nessuno interesse per il terzo, se poi effettivamente
le parti di questa opportunità non si avvalga, e quindi la circostanza
che il provvedimento sia altrimenti impugnabile non impedisce la soggezione
all'eventuale opposizione di terzo tutte le volte che effettivamente il
provvedimento non sia stato impugnato tra le parti.
·I provvedimenti cautelari
La tipologia dei provvedimenti
cautelari, tra cui il tradizionale è il sequestro che si
distingue in sequestro giudiziario e sequestro conservativo, il sequestro
conservativo è strumento diretto ad assicurare l'integrità
della garanzia patrimoniale, sicché colpisce beni del debitore allo scopo di
precostituire una posizione poziore, prioritaria del creditore ai fini
dell'espropriazione, perciò si dice anche che costituisce una sorta di
pignoramento anticipato e a conferma di ciò la legge stessa prevede nel
momento in cui venga pronunciata sentenza di condanna a favore del creditore il
sequestro conservativo si converta in pignoramento.
Diversa è la natura del sequestro
giudiziario che a sua volta si può articolare in due diverse ipotesi
una delle quali è quella del sequestro di beni cui sia controversa la
proprietà o il possesso e l'altra quella del sequestro di documenti che
possono costituire elementi di prova quando sia controverso il diritto
all'esibizione, della quale ci limitiamo a ricordare che si è giunti
alla conclusione che lo strumento non costituisca un meccanismo efficace per
assicurare l'effettività del diritto all'esibizione, in quanto, il
sequestro del documento non implica l'acquisizione dello stesso al processo
nell'ambito del materiale probatorio, sicché la sua utilizzazione non è
stata così significativa da portare un definitivo chiarimento intorno ai
dubbi che in realtà possono comunque porsi intorno al suo ambito di
applicazione, di dubbi che sono anzitutto se davvero possa riferirsi questo
meccanismo, anche ai casi in cui il diritto all'esibizione abbia un fondamento
meramente processuale e non anche un fondamento sostanziale, e in secondo luogo
se il provvedimento possa concedersi soltanto prima e secondo alcuni soltanto
dopo la pronuncia dell'ordine di esibizione ex art. 210, comunque si tratta di
uno strumento alla fine, secondario visto che non assicura l'effettiva esibizione
del documento.
Caso a parte è quello del
cosiddetto sequestro liberatorio che viene conseguito su iniziativa
dello stesso debitore quando sia controverso il modo dell'adempimento della
prestazione.
La distinzione che rileva fra
sequestro giudiziario e sequestro conservativo soprattutto perché sono diverse
le modalità di esecuzione, perché il sequestro conservativo si esegue
poi nelle forme del pignoramento, il sequestro giudiziario seguirà le
forme della esecuzione per consegna o rilascio.
Importante anche distinguere la
funzione del sequestro giudiziario di prove da quella dello strumento
cautelare che è invece diretto ad assicurare preventivamente
l'acquisibilità al processo delle risultanze sul mezzo di prova che
è il cosiddetto accertamento tecnico preventivo al quale sono
applicabili solo in minima parte le disposizioni sul procedimento cautelare
uniforme, sul presupposto che rispetto a questo tipo di provvedimenti
l'esigenze garantistiche siano tutto sommato meno sentite, sicché si applica
solo la disciplina che assicura il rispetto della garanzia del contraddittorio
eventualmente posticipato rispetto all'emanazione del provvedimento ai sensi
dell'art. 669sexies.
Questo, diciamo è il sequestro
che abbiamo più o meno approssimativamente individuato i confini di
applicabilità costituisce il più tradizionale dei provvedimenti
cautelari. Anche tradizionali sono i provvedimenti di denuncia di nuova
opera e danno temuto, che sono in sostanza provvedimenti cautelari
che assistono la tutela del possesso fermo restando che invece i provvedimenti
a contenuto propriamente possessorio secondo l'interpretazione che abbiamo a
suo tempo parlato, ha invece il contenuto di una tutela piena nel merito, la
tutela del possesso, e non di una tutela meramente provvisoria, sicché in
realtà, hanno natura propriamente cautelare, sono soggetti alla
disciplina dei provvedimenti cautelari, solo questi provvedimenti che assistono
la tutela del possesso, appunto la nuova opera e danno temuto, non invece alle
domande di reintegrazione, manutenzione, spoglio e così via che sono
invece soggette a un accertamento pieno e a seguito di provvedimento
interdittale all'automatica trasformazione del procedimento sommario in
procedimento pieno, quindi la parte cosiddetta interdittale è soltanto una
fase sommaria urgente nell'ambito del più complesso procedimento
destinato a sfociare in un accertamento pieno, sia pure di una situazione
soggettiva non qualificabile propriamente come diritto soggettivo.
Il più moderno dei
provvedimenti cautelari è il cosiddetto provvedimento d'urgenza, l'art.
700 che è quello che lo regola ha finito per diventare la più
famosa delle norme del c.p.c., poiché la disciplina è diretta ad
assicurare il famoso principio di Chiovenda, quello per cui la durata del
processo non deve tornare a pregiudizio dell'attore che abbia ragione. Sulla
scorta di questo principio si giunge alla conclusione che non era affatto
pacifica nell'ordinamento previgente che qualsiasi tipo di situazione
sostanziale di vantaggio sia passibile di tutela sommaria cautelare in tutte le
occasioni in cui, come recita l'art. 700, durante il tempo corrente a far
valere il diritto in giudizio in via ordinaria, questo corra il pericolo di
subire un pregiudizio imminente e irreparabile, fuori dai casi previsti dagli
articoli precedenti e cioè, in tutti i casi in cui la tutela cautelare
della situazione di vantaggio non possa essere adeguatamente assicurata dai
provvedimenti tutelari tipici.
Il provvedimento di urgenza ha invece
natura atipica nel senso che è concesso al giudice il potere di disporre
della protezione del diritto qualsiasi provvedimento risulti più consono
alle circostanze del caso concreto, sicché non è predeterminato il
contenuto degli effetti giuridici del provvedimento, fermo restando
però, che deve affermarsi il principio per cui non è possibile
concedere in via di tutela d'urgenza effetti giuridici che non potrebbero
essere concessi anche in sede di merito, talché, rispetto al particolare
problema della tipicità delle misure inibitorie, generalmente affermata
dalla dottrina, alcuni avevano sostenuto che la misura inibitoria potesse
eventualmente concessa in fase cautelare anche quando non poteva essere
concessa al termine del procedimento di merito, ma l'opinione che ha prevalso
alla fine è stata quella secondo cui il provvedimento può avere
anche un contenuto pienamente anticipatorio degli effetti della sentenza di
merito, ma non un contenuto più ampio di quanto la sentenza stessa di
merito potrebbe prevedere.
Alcuni dubbi si sono ragionevolmente
posti, in realtà attorno all'applicabilità del provvedimento
d'urgenza alla generalità delle situazioni di vantaggio attributive del
bene della vita, in particolare per esempio, si è dubitato della
anticipabilità degli effetti giuridici di carattere costitutivo, sul
presupposto che per effetto dell'esercizio potestativo la situazione di
vantaggio si perfezioni soltanto a seguito del passaggio in giudicato della
sentenza di accoglimento della domanda, e pertanto non possa essere protetta
interinalmente, però a dire il vero, l'orientamento prevalente è
stato diverso, nel senso che non soltanto si è osservato che normalmente
la tutela costitutiva viene chiesta, ma anche accomnandola a una tutela di
carattere esecutivo riferita ad effetti giuridici conseguenti alla costituzione
del rapporto. Per fare un esempio si chiede nella costituzione di una
servitù di passaggio e anche la condanna del convenuto a rimuovere gli
ostacoli al passaggio stesso. Orbene, in linea di massima anche ai fini
dell'esecutività immediata della sentenza di merito si giunge facilmente
alla conclusione che possa immediatamente promuoversi l'esecuzione anche di
quei capi di condanna che pure dipendano da capi costitutivi, e ancorché i capi
costitutivi non siano ancora passati in giudicato e correlativamente, alcuni si
sono anche spinti a dire che nell'immediatezza degli effetti esecutivi della
sentenza di primo grado discenda in via generale, l'immediatezza della
riduzione degli effetti costitutivi. Forse non è necessario spingersi
fino a questo punto, e probabilmente questa tesi è un po' troppo forte e
converrebbe tenere ferma l'idea per cui l'immediatezza della produzione di
effetti esecutivi concerne solo gli effetti esecutivi cioè quelli
riferiti ai capi di condanna, anche se s tratta magari di capi di condanna
dipendenti da statuizioni non ancora passate in giudicato. Però,
ciò non esclude in realtà la tutela in via d'urgenza dei diritti
potestativi perché questa deve essere riconosciuta sulla base del principio
chiovendiano e cioè sulla base che in tanto in quanto sussistano le
ragioni d'urgenza, cioè sussiste il pericolo di un pregiudizio imminente
e irreparabile alla situazione attributiva del bene della vita, allora, senza
dubbio anche effetti di natura costitutiva debbono poter essere anticipati
attraverso il provvedimento d'urgenza.
Limiti all'esecutività
immediata dei capi della sentenza alla fine sono riscontrabili in determinati
ipotesi di particolare accessorietà, per esempio: secondo la
giurisprudenza prevalente si ritiene che il capo di sentenza contenente la
condanna alle spese del soccombente, non sia immediatamente eseguibile nelle
ipotesi in cui esso acceda a una sentenza di rigetto della domanda e sia
immediatamente eseguibile solo quando accede ad una sentenza di accoglimento
della domanda sul presupposto della particolarmente intensa accessorietà
della condanna alle spese rispetto ad un provvedimento che nell'ipotesi di
rigetto della domanda è privo di effetti esecutivi perché consiste in un
mero accertamento negativo della sussistenza della pretesa.
Si tratta di una ricostruzione un po'
opinabile infatti la dottrina prevalentemente la contesta e ritiene che
l'esecutività immediata debba valere anche per il capo contenente la
condanna alle spese nell'ipotesi di rigetto della domanda, ma tornado al
provvedimento d'urgenza dobbiamo concludere senz'altro in favore
dell'anticipabilità degli effetti costitutivi a prescindere dalla
sussistenza di effetti esecutivi dipendenti immediatamente eseguibili.
Altro problema, di cui ci siamo
già imbattuti, è quello dell'anticipabilità degli effetti
di mero accertamento a proposito dell'interesse ad agire, perché è
ragionevole porsi il problema se sussista un interesse a conseguire un
accertamento mero in via d'urgenza è costituito dalla
disponibilità dell'esperimento di soddisfare la situazione di vantaggio
fatta valere e posto che l'azione di mero accertamento è diretta a
risolvere uno stato di incertezza intorno all'appartenenza del diritto e che
questo stato d'incertezza è dissipato solo dal passaggio in giudicato
della decisione che pronuncia intorno all'appartenenza del diritto, dato che il
provvedimento cautelare è inidoneo a produrre gli effetti della cosa
giudicata sostanziale verrebbe automatico dire che non esiste un interesse a
conseguire un mero accertamento che non possa essere provvisto di tale
autorità, di un'efficacia vincolante intorno all'accertamento stesso, il
ragionamento sembra filare salvo che poi, quando si esamina la
giurisprudenza,si scopre che il provvedimento d'urgenza di mero accertamento
vengono concessi perché se si osserva questa prassi, ci si accorge come questi
provvedimenti non siano provvedimenti di mero accertamento, perché tipicamente
quelli che vengono concessi non sono provvedimenti che accertano un diritto di
proprietà, ma provvedimenti bensì che accertano che un dato
comportamento è illecito, ossia si tratta di provvedimenti che tendono
ad avere un contenuto inibitorio e la ragione per cui si tende a qualificarli
come provvedimenti di mero accertamento, si riconduce a una teoria, che
è la teoria della necessaria correlazione tra condanna ed esecuzione
forzata, secondo cui si qualificano come provvedimenti di condanna solo quelli
che sono passibili di esecuzione forzata nelle forme tipiche previste dalla
legge, la teoria in realtà è arbitraria ed è anche
ideologicamente orientata a conseguire determinati obiettivi di frustrazione
della tutela delle situazioni di vantaggio sostanziali.
Dobbiamo invece riconoscere che
questa correlazione necessaria non esiste, che la tutela di condanna ha un
ambito di applicazione più vasto di quello di formazione del titolo
esecutivo diretto a promuovere l'esecuzione forzata nelle forme previste dalla
legge. Il provvedimento inibitorio va anch'esso qualificato come provvedimento
di condanna e qui si capisce perché per un verso sia possibile ottenere questo
tipo di tutela anche in via d'urgenza, per altro verso questa tutela possa
essere conseguita purché si tratti di tutela di condanna soltanto quando
sussista una specifica dimostrazione dell'interesse ad agire determinato dallo
stato d'incertezza intorno all'illiceità di un comportamento che viene
effettivamente tenuto o seriamente minacciato, in cui quindi, si può
conseguire un'inibitoria che pur non costituendo titolo per l'esecuzione
forzata ha in realtà la natura di provvedimento di condanna.
Più fondato è invece il
discorso che individua limiti di applicabilità della tutela d'urgenza
per effetto del riferimento della norma alla irreparabilità del
pregiudizio, perché qui corre un argomento abbastanza forte e formulabile
come segue.
Ai sensi dell'art. 2740, il creditore
risponde delle sue obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri,
pertanto l'obbligazione a contenuto pecuniario sembrerebbe non essere passibile
di subire un pregiudizio irreparabile l'eventuale pregiudizio che il creditore
soffra per effetto dell'inadempimento, sembrerebbe sempre riparabile
eventualmente sulla base dell'esecuzione forzata compiuta sui beni di cui il
debitore in futuro diverrà proprietario, però anche questo
ragionamento conosce alcune eccezioni. In linea di massima crediti a contenuto
pecuniario non sono passibili della tutela d'urgenza, però in alcuni
casi c'è da osservare che la legge prevede un credito a contenuto
pecuniario allo scopo di perseguire un obiettivo ulteriore rispetto a quello
della soddisfazione pecuniaria, o meglio il credito pecuniario è
strumentale alla soddisfazione di altri valori. Il caso più evidente
è quello del credito alimentare, in questo caso il amento è
diretto ad assicurare una dignitosa esistenza in vita del titolare, e quindi,
rispetto a questo credito la tempestività del amento assume una sua
autonoma rilevanza poiché la sua tardività rischia per ledere
irreparabilmente, non tanto il diritto e il credito stesso quanto il valore che
il redito è diretto a soddisfare cioè può ridurre alla
fame la persona che sarebbe titolare del credito alimentare, e questa fame
è conurabile come pregiudizio irreparabile, a poco rileva a quel
punto, difendersi affermando che resta pur sempre salva la possibilità
di conseguire le somme maggiorate degli interessi in un successivo momento.
Un discorso analogo si fa rispetto
credito a contenuto pecuniario spettante al lavoratore subordinato, sul
presupposto che in forza della norma costituzionale che attribuisce al
lavoratore il diritto a un'esistenza libera e dignitosa per se e la propria
famiglia sulla base della propria retribuzione, la tardività nel
amento delle somme può frustrare questo valore ulteriore la cui
soddisfazione è realizzata attraverso il credito retributivo,
perciò, anche in questo caso si ammette il ricorso alla tutela di
urgenza.
Il procedimento cautelare
uniforme, introdotto dal legislatore del '90,
disciplina quella materia degli accertamenti tecnici preventivi e di
disciplinare, in via generale la materia della tutela cautelare. Qui il
legislatore ha compiuto diverse operazione in tema di competenza cautelare, in
tema di stabilità del provvedimento, di reclamabilità e così
via e vediamo di esaminare in ordine non del tutto sparso, ma con andamento
esegetico.
In materia di competenza, qui occorre ricordare che il legislatore rinnovando, rispetto al
passato, perché in passato per esempio per i provvedimenti cautelari era
prevista competenza funzionale del pretore, sicché era previsto un verticale
riparto della competenza, oggi, la regola generale è quella della
coincidenza tra la competenza per la cautela e la competenza per il merito,
questo vale sia per le ipotesi in cui il provvedimento cautelare sia richiesto
ancor prima dell'inizio della causa di merito, sia nell'ipotesi in cui il
provvedimento cautelare sia richiesto in pendenza della causa di merito. Per il
caso in cui il provvedimento cautelare sia richiesto ante causam, come
si dice, la competenza è attribuita al giudice che sarebbe competente
per il merito, il che vuol dire che esistono fori concorrenti per la tutela
cautelare, tutte le volte che esistano fori concorrenti per il merito; per i
diritti di obbligazione l'attore ha anche facoltà di scelte in genere
tra più giudici alternativamente competenti, questa facoltà di
scelta può essere esercitata anche ai fini del provvedimento cautelare.
Non credo che si debba però giungere alla conclusione che l'incardinamento
della competenza di uncerto foro
attraverso la richiesta a tale foro del provvedimento cautelare vincoli in
alcun modo la parte attrice nella scelta del giudice da adire per la causa di
merito, laddove per ipotesi sussista una pluralità di fori competenti,
nulla escluda che l'attore promuova la causa di merito dinanzi a giudice
diverso da quello che avviene sul provvedimento cautelare purché anch'egli
competente.
Ci sono alcune eccezioni alla
regola della coincidenza competenza cautelare con la competenza per il merito,
ossia casi in cui la competenza cautelare viene attribuita ad un giudice che
non sarebbe competente per il merito. Anzitutto vi è il caso dei
giudici di pace, i quali sono del tutto privi di competenza cautelare
così come in materia di competenza esecutiva, sicché la relativa domanda
cautelare si pone al tribunale sovraordinato. Poi c'è il caso del
compromesso, cioè dell'ipotesi in cui la causa sia soggetto di
compromesso per arbitrato. Si nega l'attribuzione agli arbitri dei poteri
cautelari e quindi la competenza cautelare è affidata a quel giudice che
sarebbe stato competente se non ci fosse stato il compromesso. Problemi
particolari desta l'ipotesi del compromesso per arbitrato libero, perché
tradizionalmente la giurisprudenza riteneva che il compromesso per arbitrato
libero, conurandosi come una sorta di transazione fosse pertanto esclusa, in
realtà, la tutela cautelare dalla circostanza che le parti avessero
sostanzialmente rinunciato alla giurisdizione come sovente si diceva. Questa
ricostruzione giurisprudenziale è fortemente contestata dalla dottrina
che ha sempre invece ritenuto ed affermato che la potestà cautelare non
può essere esclusa dalla presenza di un compromesso per arbitrato
libero, e con varie indicazioni normative recenti e tendenze interpretative
anche giurisprudenziali sembrano rendere sempre più vicino l'avveramento
dell'idea secondo cui, appunto, anche in presenza di arbitrato libero
sarà possibile ottenere il provvedimento cautelare.
Altra eccezione è quella in
cui la giurisdizione spetti al giudice straniero, in questo caso, non
è esclusa in via di principio la possibilità che possa sussistere
la giurisdizione ai fini della tutela cautelare, anzi nell'abito dello spazio
giudiziario europeo, è abbastanza frequente la circolazione di provvedimenti
cautelari resi da giudici che sarebbero privi della giurisdizione sul merito
della causa. L'art. 24 della Convenzione di Bruxelles e il Regolamento 44/2001
n. 35, consente esplicitamente di conseguire provvedimenti cautelari da
giurisdizioni che sarebbero prive del potere di giudicare sul merito della
causa e normalmente si permette l'esercizio di questo potere di solito
ricollegandolo alla competenza del giudice del luogo ove si trovano i beni di
cui dovrà eseguirsi il provvedimento. ebbene! Posto quindi che non
è escluso in partenza la sussistenza della giurisdizione cautelare anche
quando manchi la giurisdizione del merito, poi il legislatore si preoccupa di
individuare quale giudice sia competente in questo caso e lo individua,
coerentemente con quanto scelgono di fare quasi tutti gli ordinamenti europei,
appunto del giudice del luogo di attuazione della misura cautelare, del luogo
in cui questa dovrà essere eseguita.
Infine, c'è un altro caso
sottile di non coincidenza della tutela cautelare con la coincidenza della
tutela del diritto, ed è dato dall'ipotesi in cui il provvedimento
cautelare sia richiesto in pendenza per i termini per l'impugnazione della
sentenza, perché qui la legge consente di richiedere il provvedimento
cautelare, e sembra un po' paradossale che si richieda un provvedimento
cautelare dopo una sentenza, perché si potrebbe dire: "ma ..o la sentenza mi ha
riconosciuto il diritto e casomai eseguo questa! ..oppure non me l'ha
riconosciuto.e allora come posso chiedere la cautela!!??..". In realtà,
è possibile che si abbia diritto a una cautela in pendenza dei termini
per l'impugnazione della sentenza, perché non è detto necessariamente
che il contenuto della tutela cautelare coincida con il contenuto della sentenza
di merito, non può avere un contenuto più ampio, non può
avere un contenuto radicalmente diverso, però potrebbe avere un
contenuto non completamente coincidente e meritevole di essere anticipato
nell'ipotesi in cui non si possa immaginarne l'immediata produzione di effetti
della sentenza, e però, nel corso dei termini per la sua impugnazione
siano solo allora prodotti i pericula in mora, i pericoli di pregiudizio
imminente e irreparabile ad esempio, che non si erano prodotti in precedenza,
sicché si ritiene appunto, che il provvedimento contrario fosse richiesto anche
quando la causa pende in grado d'Appello e persino quando pendono i termini per
l'impugnazione della sentenza di primo grado, dovendosi richiedere il
provvedimento al giudice che ha pronunciato la sentenza, e quindi qui manca
coincidenza tra competenza per il merito e competenza cautelare, perché il
giudice che ha pronunciato la sentenza ormai si è spogliato del potere
di pronunciare sul merito della causa, e quindi non è più
competente per il merito della causa, tuttavia, conserva questa potestà
cautelare.
In tutti gli altri casi in cui il
provvedimento cautelare sia chiesto lite pendente, la competenza è
attribuita al giudice presso cui pende la causa, ma qui sono possibili due
interpretazioni. Secondo alcuni il giudice presso cui penda la causa di merito
è competente per la tutela cautelare anche se non è competente
per il merito e ciò in quanto, il criterio attributivo della competenza
previsto dalla legge, fa riferimento alla mera pendenza presso quel giudice
della causa per merito. Ma secondo altri, invece, la norma va interpretata nel
senso che la potestà cautelare spetti al giudice presso cui penda la
causa per il merito purché, egli sia competente per il merito.
Il punto è abbastanza delicato
perché se il criterio di competenza è determinato dalla mera pendenza
della causa del merito, indipendentemente dalla circostanza che si appella
dinanzi al giudice competente per il merito, giungiamo alla conclusione che di
fatto la competenza non costituisce un presupposto della tutela cautelare
litependente, perché se è sufficiente l'atto unilaterale dell'attore che
proponga la domanda dinanzi al giudice competente per radicare la competenza cautelare
di fatto è come dire che non esistono criteri di competenza cautelare,
che l'attore si sceglie il giudice che vuole per il provvedimento cautelare che
ha un potere/dovere di renderlo indipendentemente dalla sua competenza per il
merito. Cosa che di per se non potrebbe neanche essere scandalosa! Consideriamo
che nella giurisdizione amministrativa si ritiene che la competenza non sia un
presupposto della tutela cautelare, ma ci sono aspetti di
irreversibilità del provvedimento cautelare soprattutto nella giurisdizione
amministrativa che forse suggerirebbero una maggiore prudenza.
In generale, però, non ci si
può accontentare molto facilmente delle interpretazioni che dispensino
di fatto dal requisito della competenza ciò indipendentemente dal fatto
che le statuizioni sulla competenza cautelare non siano passibili di controllo
in Cassazione tramite regolamento di competenza, questo è un aspetto di
cui abbiamo parlato trattando del regolamento di competenza. La Cassazione
è alla fine giunta ad ammettere che non possa promuoversi regolamento di
competenza ne alcuna forma di controllo per Cassazione contro le pronunce sulla
competenza cautelare diversamente da quanto accadeva in passato e ciò su
una scorta di un ragionamento ben poco sistematico, perché, la Corte ha detto
non ammettiamo più il regolamento di competenza perché adesso c'è
il reclamo che è cosa incongrua perché ilo vero argomento per
negare l'accessibilità alla Cassazione ai fini del controllo su queste
pronunce, e quello di osservare che non vi è accesso alla Cassazione ai
fini generali del controllo di queste pronunce, e allora se non ci si
può arrivare ai fini del generale controllo di legittimità, non
si capisce perché ci si debba arrivare soltanto ed esclusivamente ai fini del
controllo sulla pronuncia della competenza, ma questo ragionamento che fila,
filava anche prima dell'introduzione del reclamo.
Il reclamo conferisce una garanzia in
più alle parti, ma non sembra influire sulla struttura sistematica della
disciplina positiva, resta il fatto che è bene tenerne conto
nell'esperienza pratica, capita spesso che la Cassazione risolva problemi di
interpretazione sulla base di argomentazioni non rigorose legate a una sua
valutazione di sufficienza o meno delle garanzie offerte alle parti.
Oggi, appunto, la Cassazione nega che
possa dedursi con regolamento di competenza la questione della competenza
cautelare, ciò non vuol dire che tale competenza non costituisca
presupposto per l'emanazione del provvedimento, sia quando si tratti di
provvedimento ante causa, sia quanto si tratta di provvedimento reso
litependente e non soltanto nel senso che comunque deve sussistere quel
criterio di competenza costituito dalla pendenza della lite davanti a quel
giudice, sicché, abbiamo incompetenza cautelare allorquando la domanda sia
proposta litependente, ma a un giudice diverso da quello presso cui dipenda la
causa di merito, ma anche nel senso che il giudice cui penda la causa di merito
ma che sia incompetente per quella causa di merito, deve anche rigettare
l'istanza cautelare perché sprovvisto della competenza per la stessa.
Alcuni hanno tentato di combattere
questa opinione sul presupposto che altrimenti si correrebbe il rischio di
veder qualificare la pronuncia di rigetto dell'istanza cautelare per
incompetenza come provvedimento decisorio sulla competenza, ovvero la pronuncia
in cui il giudice adito litependente per il provvedimento cautelare, dichiari
di essere competente per il provvedimento cautelare è appunto, come
passibile di impugnazione tramite regolamento di competenza, in quanto
contenente attraverso il riferimento alla competenza per il merito, anche una
pronuncia oltre sulla competenza cautelare anche sulla competenza per il
merito. Però questo rischio si può evitare riaffermando e sottolineando
che la valutazione per la competenza per il merito fatta ai fini della
valutazione della competenza cautelare conserva il carattere della valutazione
cautelare, quindi della valutazione non idonea al giudicato, passibile di
diversa decisione nel successivo sviluppo del provvedimento e quindi priva
della natura del provvedimento decisorio sulla competenza per il merito
impugnabile come tale, salva l'ipotesi in cui il giudice si spinga a dire
esplicitamente che si ritiene competente per il merito non soltanto ai fini dell'emanazione
del provvedimento cautelare.
Altro discorso è quello della
eventuale sopravvivenza del provvedimento cautelare reso litependente alla
declaratoria di incompetenza per il merito per il giudice che l'abbia reso per
effetto di una diversa valutazione della propria competenza per il merito,
resa, appunto, ai fini della pronuncia sulla competenza per il merito anziché
soltanto ai fini delle pronuncia sulla competenza cautelare. Al circostanza che
il processo a seguito di riassunzione dinnanzi al giudice indicato come
competente continui, che la competenza si qualifichi come presupposto della
validità della sentenza e non anche degli altri provvedimenti del
giudice, che gli effetti caducatori dei provvedimenti giudiziali diversi dalla
sentenza si producano solo per effetto della estinzione del provvedimento, e
non soltanto nella translatio iudici realizzata attraverso riassunzioni
al giudice indicato come competente, consentono di giungere alla conclusione
che il provvedimento cautelare conservi i suoi effetti, ancorché reso dal
giudice riconosciutosi successivamente non competente per il merito, poiché,
è stato reso comunque da giudice che ha esaurito nell'ambito del
procedimento cautelare la propria valutazione sulla propria competenza cautelare,
cosicché, la stessa, in realtà, non può più essere messa
in discussione neanche implicitamente in dipendenza del riconoscimento
dell'incompetenza del giudice che ha concesso questo provvedimento cautelare
prima di rendersi conto di essere incompetente per il merito.
Questo discorso va fatto in relazione
alla problematica della cosiddetta strumentalità strutturale del
provvedimento cautelare.
Prima di esaminarla, incidentalmente,
approfondiamo un momento la disciplina più strettamente procedimentale
contemplata dagli artt. 669bis e segg., in particolare occorre ricordare che
l'atto introduttivo della causa ha la forma del ricorso, e che
l'attività di istruzione probatoria o meglio di indagine sui fatti nel
contesto del procedimento cautelare non va qualificata affatto come
un'attività di valutazione ipotetica dei fatti, come un'attività
di ricostruzione dei fatti che sostanzialmente consenta l'accoglimento
dell'istanza cautelare tutte le volte che risulti verosimile la prospettazione
attoria sulla base inquod plerumque accidit, anziché sulla base di
riscontri probatori di quanto effettivamente accaduto, cioè non è
sufficiente, come alcuni affermavano,raccontare una storia coerente non inverosimile, occorre che le
affermazioni sui fatti siano correlati da riscontro, e non solo, che questi
riscontri siano svolti mediante attività di istruzione probatoria,
cioè di vera e propria raccolta di prove nel contraddittorio delle parti
assicurando la celerità del procedimento attraverso una semplificazione
dell'attività di istruzione probatoria, per cui ai sensi dell'art.
669sexies gli atti di istruttoria probatoria si compiono, ma solo quelli che
siano necessari e indispensabili in relazione alla natura degli effetti del
provvedimento richiesto e quindi non si raccolgono tutte le prove rilevanti, ma
soltanto quelle principali, inoltre la raccolta di questi elementi di prova
avviene omettendo le formalità che non siano indispensabili al
contraddittorio, il che vuol dire che questa attività di istruzione,
come si dice sommaria o semplificata, può prevedere per esempio che
dalle persone informate sui fatti si raccolgano deposizioni anche senza bisogno
previamente di sottoporle a giuramento. Questa è una prassi molto
frequente nell'ambito della tutela cautelare e che è compatibile con le
esigenze di sommarietà e di celerità che devono caratterizzare il
procedimento.
In quelle ipotesi in cui la
convocazione della controparte potrebbe pregiudicare l'attuazione del
provvedimento, questo può essere anche concesso, come si dice, inaudita
alteraparte a contraddittorio posticipato. E quali sono le ragioni?
Essenzialmente sono di due ordini, ci sono ragioni di eccezionale
celerità e urgenza, per cui la perdita di tempo derivante dall'esigenza
della convocazione della controparte a poter pregiudicare l'attuazione del
provvedimento, e poi ci sono tutte quelle ipotesi nelle quali il rischio di
pregiudizio di attuazione del provvedimento discende dalla circostanza che sia
l'avversario a poterlo rendere ineseguibile ove messo preventivamente a
conoscenza del timore di subirlo. In particolare ai fini dei sequestri è
chiaro che spesso si può ottenere ragionevolmente, che l'esibizione del
provvedimento possa essere frustrata dalla sua previa conoscenza da parte
dell'avversario che provvede a distruggere o a far sparire il documento che si
intende sequestrare, quindi anche in queste ipotesi è ragionevole che si
possa concedere il provvedimento inaudita altera parte. In questo caso
però, sempre è richiesto che la narrativa di fatto attoria sia
corredata da un supporto probatorio, ma l'attività di indagine sui fatti
è ulteriormente semplificata dalla circostanza che, appunto, non vi
è contraddittorio sicché, il legislatore ricorre a una conclusione che
ritroviamo in tanti luoghi del codice, ire quando si fa riferimento
all'attività di indagine sui fatti senza contraddittorio, cioè si
dice che il giudice assume sommarie informazioni, il che non vuol dire che si
tratta meramente allo stato degli atti e soltanto su risultanze precostituite.
Possono acquisirsi risultanze nel
corso del procedimento di nuovo, ad esempio, attraverso l'audizione di persone
informate sui fatti, di tali ipotesi il provvedimento non è concesso con
ordinanza che è la tipica forma del provvedimento inidoneo al giudicato,
ma reso in contraddittorio, bensì viene resa con decreto, che è
la forma tipica del provvedimento inidoneo al giudicato, ma reso senza
contraddittorio delle parti. Decreto, il quale, però, è fortemente
instabile poiché è destinato a perdere i suoi effetti se la parte non
provveda all'immediatamente successiva attivazione del contraddittorio,
attraverso notificazione del decreto all'avversario del decreto che concede il
provvedimento, e che fissa l'udienza nella quale nel contraddittorio delle
parti si discuterà di nuovo di questa tutela cautelare e si avrà
un riesame automatico del provvedimento con facoltà del giudice,
ovviamente, di confermarlo o anche di revocarlo o modificarlo, naturalmente con
ordinanza avendosi l'attivazione del contraddittorio tra le parti.
Il provvedimento richiesto
può, quindi, avere sia quando sia reso immediatamente in contraddittorio
sia a seguito di contraddittorio posticipato un contenuto di accoglimento anche
solo parziale dell'istanza o di rigetto. Il regime di stabilità del
provvedimento cautelare cambia a seconda se il contenuto della pronuncia sia di
accoglimento o di rigetto, perché nell'ipotesi di pronuncia di accoglimento si
applica, ed è tuttora la regola generale, il principio per cui alla
strumentalità funzionale del provvedimento cautelare si accomni una
strumentalità strutturale. Cosa si intende dire? Quando parliamo di
strumentalità funzionale tendiamo ad alludere alla circostanza che il
provvedimento cautelare è diretto ad assistere, a proteggere, ad
accomnare una tutela nel merito, e quindi può avere per contenuto
l'anticipazione degli effetti della sentenza di merito ovvero, la conservazione
della situazione inesistente in attesa della sentenza di merito, ovvero, come
dicevamo nel caso dell'accertamento tecnico, l'acquisizione delle risultanze
probatorie in attesa del procedimento di merito. Ma a questa
strumentalità funzionale, tradizionalmente si accomna una
strumentalità strutturale, tale per cui il provvedimento perde i suoi
effetti se non viene tempestivamente instaurata se reso antecausa, o comunque
regolarmente coltivata anche la causa per il bene. Sicché il provvedimento che
accoglie l'istanza cautelare, deve necessariamente contenere, se reso anta
causam, per avviare la causa di merito, e se la causa di merito non viene
avviata in tempo, ovvero comunque si estingue, ovvero comunque si conclude con
una sentenza che dichiara inesistente il diritto cautelato, anche quando si
tratti di sentenza non passata in giudicato, ecco che il provvedimento
cautelare è caducato, per i suoi effetti diventa inefficace, che
consegue tralaltro all'ipotesi in cui venga previsto il versamento di una
cauzione già versata e che poi si applichi con adattamenti alle varie
ipotesi in cui il procedimento di merito debba essere coltivato dinanzi ad
arbitri, e in questo caso deve essere tempestivamente richiesta
l'esecutorietà del lodo straniero, oppure si svolga dinnanzi ad una
giurisdizione straniera, anche in questo caso si deve, poi, richiedere tempestivamente
l'esecuzione del provvedimento straniero e così via!
Il legislatore ha anche previsto un
mini procedimento per ottenere una specifica declaratoria della sopravvenuta
inefficacia del provvedimento cautelare derivante dalla mancata attivazione e
coltivazione della causa di merito, perché esiste un interesse della parte che
ha subito il provvedimento cautelare a vedere dichiarata inequivocabilmente, la
sua sopravvenuta inefficacia e a dar fine il procedimento previsto dall'art.
669novies, che prevede che con ricorso al giudice che ha promanato il
provvedimento cautelare sia possibile ottenere questa dichiarazione della
sopravvenuta inefficacia con un provvedimento che ha forma diversa a seconda
che sussista o meno contestazione della sopravvenuta inefficacia da parte
dell'avversario. Se non vi è contestazione alcuna, diviene necessario
attivare il contraddittorio e sentirlo, se attivato il contraddittorio la
controparte non contesta, la sopravvenuta inefficacia è dichiarata con
ordinanza.
Quando si ha contestazione del
convenuto, la sopravvenuta inefficacia sulla questione, vi si rende una
sentenza a sua volta impugnabile sicché può aver luogo un procedimento a
cognizione piena avendo ad oggetto la declaratoria della sopravvenuta inefficacia
del provvedimento cautelare.
Tale declaratoria, peraltro, è
resa d'ufficio con separata ordinanza dal giudice di merito che dichiari
l'inesistenza del diritto cautelato, tuttavia laddove il giudice di merito
ometta di provvedere a questa ordinanza, la ricostruzione più plausibile
sia quella che prevede che anche in queste ipotesi sia possibile chiedere al
giudice chi ha emanato un provvedimento che in ipotesi sia diverso da quello
che dichiarato l'inesistenza del diritto cautelare a tale declaratoria.
Qui c'è da fare un discorso
importante, e cioè, che si tratta di una regola che finirà per
essere abbandonata in larga misura e in parte è stata già
abbandonata, perché ci si è accorti che in tutte quelle ipotesi in cui
il contenuto del provvedimento cautelare è anticipatorio degli effetti
della sentenza di merito, può ben darsi che la parte sia soddisfatta
degli effetti prodotti dal provvedimento cautelare e che non abbia particolare
interesse a vedere consolidati questi effetti dal passaggio in giudicato di una
sentenza di merito che li affermi, sicché, se la parte potesse contare la parte
attrice sull'ultrattività di questi effetti, cioè sulla
stabilità degli effetti del provvedimento cautelare a prescindere dalla
coltivazione della causa di merito, probabilmente non la coltiverebbe affatto e
si accontenterebbe della risoluzione sommaria del conflitto ancorché sprovvista
dell'efficacia vincolante del giudicato, con un effetto deflativo del
contenzioso fortemente benefico per un sistema che fa molta fatica stare al passo
con la domanda di giustizia proveniente dalla cittadinanza.
A questa conclusione sono arrivati da
molto tempo i francesi assicurandosi un'efficienza maggiore della nostra
dell'amministrazione della giustizia, in Belgio, in Olanda, e si finirà
per arrivarci anche da noi e in qualche misura ciò è già
vero per quel che riguarda il cosiddetto contenzioso societario, poiché nella
riforma del diritto societario, che parleremo, la riforma avente l'obiettivo di
anticipare e sperimentare gli effetti della più generale forma del rito
civile, è già esplicitamente previsto che non sussista
strumentalità strutturale per i provvedimenti cautelari anticipatori e
curiosamente per tuttiprovvedimenti di
urgenza. quindi la scelta legislativa è forse discutibile indipendentemente
dalla circostanza che abbiano un contenuto meramente anticipatorio, di che
sembrerebbe ammettere l'ultrattività che i provvedimenti di urgenza di
carattere meramente conservativo, che forse è più discutibile,
perché rispetto ai provvedimenti di carattere conservativo sembra più
congruo richiedere alla parte di coltivare il processo sino alla pronuncia di
una sentenza sul merito. Però prendiamo atto della scelta legislativa e
diciamo quindi che in queste ipotesi il provvedimento cautelare conserva i suoi
effetti anche se non vi è alcuna tempestiva instaurazione della causa di
merito e anche se si estingue il procedimento sul merito.
Si verifica senz'altro la caducazione
allorché il giudice del merito dichiari l'inesistenza del diritto cautelato, e
questo rimane ferma la prevalenza della sentenza sul provvedimento cautelare.
Il vecchio sistema per la
stabilità del provvedimento cautelare si distingueva fra l'ipotesi del
sequestro che era dotata di una compiuta regolamentazione e le altre in cui la
regola, invece, andava trovata sulla base di regolamentazioni sistematiche. Per
il sequestro il legislatore prevedeva non soltanto il requisito della
tempestiva attivazione della causa per il merito, ma anche l'attivazione di un
giudizio a cognizione piena avente ad oggetto la verifica della sussistenza dei
presupposti per la stessa emanazione del sequestro, questo procedimento che era
denominato procedimento di convalida, si articolava in tutti i suoi tre gradi
di giudizio a cognizione piena e la regola attribuiva anche una particolare
stabilità al provvedimento di sequestro una volta concesso, poiché
quasto perdeva l'effetto soltanto a seguito del passaggio in giudicato della
sentenza che dichiarasse inesistente il diritto cautelato.
Il nuovo sistema, invece, per tutti i
provvedimenti cautelari prevede la caducazione per effetto della sentenza di
rigetto della domanda di merito anche se non passata in giudicato e quindi sin
dal momento della sua pronuncia, e anche per tutti, prevede esplicitamente uno
strumento di riesame dei presupposti della concessione del provvedimento, che
però non è più un intero giudizio di cognizione piena
articolato in tre diversi gradi, bensì si qualifica come un mero e
più agile reclamo, scché il riesame dei presupposti di legittimità
della concessione del provvedimento uò essere innescato attraverso
proposizione del reclamo al giudice di volta in volta individuato come
competente per lo stesso in relazione alla competenza del giudice che ha
emanato il provvedimento in primo grado, implica che sia assicurato il
principio per cui il riesame venga compiuto da un giudice diverso da quello
anche nella sua composizione personale nella formazione del collegio, diverso
da quello che ha reso il provvedimento in prima istanza.
Accanto a questo sistema del reclamo
con decisione sul reclamo non passibile di ulteriore impugnazione e di
ulteriore forme di riesame come tale, accanto al sistema del reclamo sussiste
poi il meccanismo della revoca o modifica del provvedimento cautelare
per effetto di mutamenti delle circostanze, sistema che prevede che la relativa
istanza vada però proposta al giudice istruttore della causa di merito,
talché, la revoca o la modifica del provvedimento cautelare fondata sulla
sopravvenienza di nuove circostanze, postulerebbe in base a questo sistema
l'attivazione della causa di merito, attivazione che peraltro, pur non essendo
sempre necessariamente a disposizione anche della parte che abbia subito il
provvedimento cautelare, perché e vero che si è larghi di manica per la
legittimazione di accertamento negativo, però sembrerebbero pur sempre
sussistere le ipotesi in cui il convenuto in sede cautelare non è
legittimato a proporre in proprio la domanda di accertamento negativo della
sussistenza della pretesa vantata nei suoi confronti dall'attore, ma in ogni
caso, dubbi della ragione del convenuto sono assicurate dalla circostanza che
l'accesso al giudice della causa di merito è assicurato dall'iniziativa
dell'attore poiché questi ha l'onere di compiere tale iniziativa a pena di
inefficacia della misura cautelare, cioè grava sull'attore il compito di
attivare la causa di merito altrimenti perde effetto il provvedimento cautelare
e con ciò l'attore fornisce al convenuto, anche, un giudice a cui
richiedere l'eventuale revoca o modifica del provvedimento. Però restava
una lacuna. Poniamo l'ipotesi che il mutamento delle circostanze venga
immediatamente dopo la pronuncia del provvedimento, quanto tempo mi tocca
aspettare a me convento, prima di poter accedere al meccanismo dell'istanza di
revoca? Il legislatore trovò una starna soluzione di compromesso,
prevedendo che in pendenza del procedimento di reclamo, si possa chiedere per
gravi motivi sopravvenuti la sospensione dell'esecutività del
provvedimento cautelare concesso. Si tratta di una stranezza, perché in un
certo modo abbiamo qui una cautela contro la cautela, una cautela al quadrato,
in cui in via sommarissima il giudice del reclamo valuta se sospendere
l'esecutività del provvedimento sommario, che pure è destinato a
riesaminare in via sommaria, nel contesto di questo riesame sommario un esame
sommarissimo nell'ambito di un sub procedimento interno al procedimento di
reclamo dell'opportunità della sospensione dell'esecutività. Solo
che, già introducendo questa possibilità, il sistema delle
garanzie cominciò ad esplodere. Perché? Perché se noi concediamo al
giudice del reclamo di conoscere dei mutamenti di circostanze, ai fini della
sospensione dell'esecutività, possiamo poi imporgli di ignorarle ai fini
della conferma del provvedimento? Cioè possiamo acchiarare il giudice
del reclamo: "confermi il provvedimento perché legittimo pur avendo ritenuto
che la sua esecutività vada sospesa per effetto di circostanze
sopravvenute". Sembra assurdo e anche disumano chiederlo, appunto che infatti,
si è generalizzata l'opinione che in realtà, il mutamento di
circostanze possa essere dedotto anche in sede di reclamo, anche ai fini della
revoca, modifica o conferma del provvedimento, e quindi si è determinata
una parziale sovrapposizione di strumenti di tutela che sembravano essere stati
pensati come previsti per situazioni diverse.
La questione diventa ancora più
complessa se abbandoniamo la strumentalità strutturale, perché in questo
caso l'attore non ha più l'onere di mettere a disposizione del convenuto
il rimedio dell'istanza di revoca per mutamento delle circostanze, perché
può contare sulla conservazione degli effetti del provvedimento
cautelare a prescindere dall'instaurazione della causa di merito, perciò
correlativamente, si prevede nella riforma del rito societario che la revoca
per mutamento di circostanze possa essere richiesta anch'essa a prescindere
dall'instaurazione del giudizio del procedimento che è stato oggetto del
merito della causa.
Ma non è finita con il
problema delle sovrapposizioni, perché, il legislatore aveva a sua volta
conurato un sistema di contrappesi tra le parti diversificato, per cui, nel
disegno del legislatore del '90 era passibile di reclamo esclusivamente il
provvedimento di concessione della misura cautelare, e non anche il
provvedimento di rigetto dell'istanza. Conseguentemente, però, al
provvedimento del rigetto dell'istanza si attribuiva un'efficacia preclusiva
alquanto inferiore di quella del provvedimento di accoglimento, perché il
provvedimento di accoglimento era passibile di reclamo, e inoltre se ne poteva
ottenere la revoca sulla base di mutamento delle circostanze. Il provvedimento
di rigetto, invece, può essere ribaltato molto più facilmente,
perché si consente la riproposizione dell'istanza cautelare rigettata, anche
sulla base della mera allegazione di nuove ragioni di fatto e di diritto
ancorché queste, non siano affatto sopravvenute, cioè non siano prodotte
successivamente alla pronuncia del provvedimento. Messa in altri termini! Il provvedimento
di accoglimento dell'istanza copre anche il deducibile, sicché il provvedimento
può essere posto nel nulla tramite la revoca soltanto sulla base di
elementi che non erano stati dedotti in precedenza perché non erano deducibili
in precedenza, perché non si erano verificati, per converso il procedimento di
rigetto può essere ribaltato, cioè sostituito da un provvedimento
di accoglimento anche sulla base di elementi di fatto e di diritto che erano
già deducibili nel precedente procedimento conclusosi con ordinanza di
rigetto dell'istanza cautelare, basti che si tratti di ragioni nuove quindi di
ragioni non precedentemente dedotte, anche se già deducibili in quel
momento.
Il provvedimento di rigetto, ha
quindi una stabilità molto più tenue, non solo, nell'ipotesi in
cui il rigetto sia dovuto all'incompetenza del giudice adito, il legislatore
prevede che l'istanza sia riproponibile. Si è discusso se tale
riproponibilità vada intesa nel senso che sia ammessa persino la
riproposizione a quello stesso giudice che ha rigettato l'istanza per
incompetenza. Più plausibile, forse se che l'istanza si possa riproporre
tale e quale, ma ad un giudice diverso, in ogni caso la rilevanza pratica
dell'attribuzione all'attore della possibilità di reiterare la richiesta
allo stesso giudice è probabilmente abbastanza tenue, perché è
chiaro che è una di quelle iniziative che non facilmente si sceglie di
investirci dei soldi sopra!
E se l'istanza è rigettata per
altri motivi di rito? Quale regime dobbiamo applicare, quello che consente la
riproposizione soltanto sulla base di nuovi elementi, di nuove ragioni di fatto
e di diritto, o quello che ammette la libera riproponibilità? Si sono
dette cose abbastanza confuse! Se intendiamo nuove ragioni di fatto e di
diritto come necessariamente nuove ragioni attinenti al fumus e al periculum
ai presupposti di concessione del provvedimento cautelare di imminenza del
pregiudizio e apparenza del buon diritto, è condivisibile l'opinione di
quanti ritengono che il regime del provvedimento di rigetto per motivi di rito
sia equiparabile a quello del rigetto per motivi di competenza, cioè che
l'istanza possa essere riproposta tale e quale. È chiaro però,
che è necessario che l'istanza venga proposta sanando il vizio procedimentale
che aveva portato al rigetto dell'istanza stessa, sicché, se si intende invece
la sussistenza di nuove ragioni di fatto come comprensiva dell'ipotesi in cui
la nuova istanza sia esente dai vizi che ne abbia impedito l'accoglimento in
occasione della sua prima proposizione, allora dobbiamo giungere alla
conclusione che invece, il ricorso non è riproponibile tale e quale,
è riproponibile, ma soltanto in tanto in quanto, a seguito della sua
riproposizione sia sanato quel vizio. Mi sembra discutibile che
l'effetto preclusivo si estenda fino a dover ricomprendere anche ciò che
è stato esplicitamente deciso in occasione del primo procedimento,
cioè altro è dire; è possibile la deduzione di ciò
che era deducibile, altro è dire di limitarsi alla nuova deduzione
esclusivamente di ciò che è stato già dedotto e insistere
nel pretendere, per esempio, che una certa modalità di riproposizione
del ricorso sia ritenuta legittima e non invece viziata sul piano
procedimentale, ai fini della cognizione cautelare dovrebbe ritenersi precluso,
una volta risolta sfavorevolmente una questione e di rito la possibilità
di ottenere il riesame di questa stessa decisione di rito nel contesto stesso
della tutela cautelare.
A ciò e intervenuta la Corte
Costituzionale, la quale ha ritenuto che le garanzia di difesa delle parti, la
parità delle armi, l'equilibrio delle loro possibilità difensive,
non fosse sufficientemente assicurato dalla libera riproponibilità
dell'istanza, perché, questo strumento non assicurava alla parte il riesame
della decisione da parte di un giudice diverso nella sua composizione e
formazione, pertanto doveva ritenersi costituzionalmente illegittima la
disciplina del reclamo nella parte in cui consentiva di proporre a reclamo
stesso anche i provvedimenti di rigetto dell'istanza cautelare, però a
questo punto, cominciano a prodursi interferenze tra i vari meccanismi
protettivi che finirono per incrementarne la ridondanza continuamente, perché a
quel punto, se dobbiamo ritenere passibili di reclamo i provvedimenti anche di
rigetto dell'istanza, perché su ogni pronuncia cautelare dobbiamo consentire un
riesame da parte di un giudice diverso, allora, e qui ci è arrivata
rapidamente la giurisprudenza, sono soggetti a reclamo i provvedimenti di
rigetto per motivi, diciamo, di merito nel senso non di rito non per
incompetenza non per il rito, ma anche i provvedimenti di rigetto per
incompetenza e di rigetto per motivi di rito nonostante la maggiore
tenuità dei loro effetti preclusivi rispetto ai provvedimenti di rigetto
per altri motivi, ma addirittura, dobbiamo consentire il riesame da parte di
giudice diverso dei provvedimenti di revoca e modifica, perché anche quelli si
basano su una pronuncia cautelare riferita a questioni di fatto e di diritto
non precedentemente dedotte e discusse, e perché non dobbiamo avere un riesame
tramite reclamo anche di queste.
L'art. 669septies nel trattare del
provvedimento negativo, prevede anche una pronuncia sulle spese. Come mai solo
nelle ipotesi di provvedimento negativo è previsto una pronuncia sulle
spese? In realtà , in passato, non si aveva mai pronuncia sulle spese
del procedimento cautelare, ma si è osservato che nelle ipotesi in cui
il giudice rigetta il provvedimento, le spese conseguenti normalmente alla
soccombenza dovrebbero comunque spettare alla parte vincitrice, e in questo
caso al convenuto, ma il convenuto non ha alcun onere e quindi neanche alcun
interesse e a volte nemmeno alcuna legittimazione ad attivare il procedimento
di merito. Nell'ipotesi in cui, invece, le spese debbano attribuirsi all'attore
perché il provvedimento è d'accoglimento, si fa già gravare
sull'attore stesso l'onere dell'instaurazione di una causa di merito e quindi
ben può differirsi la pronuncia delle spese al momento in cui il giudice
pronuncerà sul merito della causa, se invece il provvedimento è
di rigetto, non si può immaginare un differimento della pronuncia al
successivo sviluppo del contenzioso derivante dal raggiungimento di una
decisione sul merito della causa, e quindi si costringerebbe il convenuto che
volesse ottenere le spese spettategli per effetto della soccombenza nel
procedimento cautelare ad esperire un autonomo giudizio di cognizione al solo
ed esclusivo fine di ottenere il amento delle spese. E allora, sembra
preferibile, a quel punto, piuttosto che far gravare sul convenuto l'onere di
instaurare un giudizio a cognizione piena per le sole spese, consentire che
sulle stesse pronunci direttamente il giudice adito per la tutela cautelare,
solo che questo provvedimento, provvedimento sulle spese, non è un provvedimento
cautelare, questo è certamente un provvedimento a contenuto decisorio
riferibile ad una situazione di vantaggio attributiva di un bene della vita e
che deve essere idoneo alla produzione degli effetti della cosa giudicata
sostanziale, pertanto, il legislatore aggiunge che questo provvedimento non si
impugna con reclamo, ma eventualmente si impugna con le forme ad opposizione a
decreto ingiuntivo. Così, l'attore che ritenga ad esempio eccessive le
spese liquidate a favore del convenuto vincitore, promuove la sua contestazione
avviando un giudizio a cognizione piena intorno alla liquidazione delle spese
attraverso un'opposizione, ex art. 645, contro quel capo del provvedimento
cautelare che contiene la pronuncia sulle spese.
Però succede che tutto questo
sistema ha un senso e una coerenza, quando il provvedimento di accoglimento non
è soggetto a reclamo, ma se il provvedimento di accoglimento è
soggetto a reclamo e per effetto del reclamo si ha quindi un nuovo esame
sull'istanza cautelare originariamente proposta è chiaro che la
pronuncia sulle spese non può non dipendere dall'esito del reclamo nei
confronti del provvedimento. Come andiamo a coordinare allora, questo punto?
L'eventuale risultato dell'opposizione contro la pronuncia sulle spese con il
risultato del reclamo contro il provvedimento? È certo che la
caducazione del capo sulle spese conseguente alla caducazione del capo
principale a seguito del reclamo, ha effetto anche sul procedimento a
cognizione piena innescato dall'eventuale opposizione contro il provvedimento
di liquidazione, contro la pronuncia sulle spese riferibili al provvedimento
reclamato, ma poniamo che succeda qualche cosa di più complicato! Ad
esempio che il giudice ometta di pronunciare sulle spese. Per esempio che la contestazione
del provvedimento cautelare tramite reclamo, sia riferita soltanto sulla
pronuncia sulle spese, perché, per esempio sono state poste a carico della
parte vincitrice. C'è stato un provvedimento di rigetto dell'istanza e
però, accomnato da una condanna alle spese della parte convenuta.
Oppure, ancora, possiamo immaginare un accoglimento della domanda cautelare
accomnato lo stesso da pronuncia sulle spese, ancorché la legge non la
prevedesse, da una condanna sulle spese che nei confronti della parte convenuta,
ovvero, ancora magari della parte attrice. Alla fine la linea di tendenza
sembra che si vada affermando della giurisprudenza, sia quella di consentire
che anche la mera pronuncia sulle spese sia passibile di reclamo. E qui, il
provvedimento soggetto a opposizione, è il provvedimento sulle spese
contenuto, a questo punto, nella pronuncia sul reclamo, salvo
l'eventualità e la possibilità che rimane alla parte di proporre
opposizione solo ed esclusivamente nei confronti della pronuncia sulle spese, nella
sola ipotesi in cui egli non promuove in alcun modo il reclamo nei confronti
del provvedimento, altrimenti si è finito per dare priorità al
sistema del reclamo e quindi prevalenza a questo sistema rispetto a quello
dell'opposizione che diventa indispensabile soltanto a seguito dell'esperimento
del reclamo o del decorso del termine per esperirlo.
Inoltre questa norma richiede un
adattamento, come ha previsto la nuova disciplina del diritto societario, con
riferimento a quelle ipotesi in cui il provvedimento di accoglimento sia idoneo
all'ultrattività, perché in questo caso, se noi vogliamo che l'attore
possa accontentarsi della risoluzione cautelare del conflitto, dobbiamo anche
congruamente prevedere che possa aver luogo pronuncia sulle spese e anche nel
provvedimento di accoglimento dell'istanza cautelare quando si tratti appunto,
di accoglimento di istanza cautelare a contenuto anticipatorio riferibile ad un
provvedimento d'urgenza la cui stabilità, come tale,non sia quindi condizionata dall'instaurazione
di una causa di merito, perché anche in questo caso, altrimenti, se non
concedessimo alla parte la possibilità di conseguire la pronuncia sulle
spese nell'ambito del procedimento cautelare la incentiveremmo ad esperire un
autonomo giudizio a cognizione piena allo scopo di conseguire lo stesso
risultato.
Abbiamo, poi da ricordare, una non
meno problematica disciplina dell'attuazione del provvedimento cautelare.
Qui la norma di riferimento è costituita dall'art. 669decies, che fa
salve le norme relative all'esecuzione dei sequestri, che abbiamo accennato
sopra, per cui i sequestri si eseguono nelle modalità
dell'espropriazione nell'ipotesi del sequestro conservativo, e dell'esecuzione
per consegna o rilascio nell'ipotesi del sequestro giudiziario, si prevede
fatte salve queste regole, una formula il cui significato non è del
tutto trasparente, cioè si dice, che si eseguono nelle forme di cui agli
articoli 491 e seguenti, i provvedimenti cautelari che abbiano per oggetto
somme di denaro, in tutti gli altri casi l'attuazione avviene dinanzi al
giudice che ha emanato il provvedimento cautelare il quale risolve con
ordinanza, difficoltà e contestazioni ogni altra questione va proposta
nel giudizio di merito. Qui le parole scelte hanno tutte un particolare significato,
intanto la scelta di parlare di attuazione anziché di esecuzione è una
scelta che vuole evocare l'idea che la tutela cautelare per la sua
atipicità, possa anche realizzarsi in forme atipiche in ipotesi
differenti da quelle tipiche previste per la vera e propria esecuzione forzata.
Si potrebbe sulla base di questo
elemento trarre qualche argomentazione nel senso che sia realizzabile in via
cautelare anche una tutela che non sia realizzabile ai fini dell'esecuzione del
provvedimento di merito, però in questa interpretazione, sarebbe
probabilmente troppo forzata ed eccessiva, comunque residua un'importante
differenza tra i meccanismi di esecuzione e i meccanismi di attuazione del
provvedimento cautelare, che sta non soltanto nella circostanza che la competenza
sia attribuita allo stesso giudice che ha emanato il provvedimento cautelare
anziché secondo le regole per il riparto della competenza per i procedimenti
esecutivi, c'è di più, e cioè, c'è la circostanza
che di quando si parla di esecuzione, come vedremo, è data alle parti
ampia facoltà di innescare nel contesto del procedimento esecutivo delle
cosiddette parentesi di cognizione, cioè di avviare procedimenti di
cognizione che hanno ad oggetto, a volte la sussistenza del diritto di
procedere a esecuzione forzata, a volte, se ricordate ne abbiamo accennato
parlando delle nullità e irregolarità avente per oggetto la
regolarità dello svolgimento del procedimento esecutivo, ebbene, il
riferimento all'attuazione vale soprattutto a suggerire che in tale contesto
queste parentesi di cognizione non possano essere aperte e pertanto, non sia
possibile contestare il diritto di procedere a esecuzione forzata tramite
opposizione all'esecuzione, o contestare la regolarità dello svolgimento
delle attività di attuazione promuovendo una opposizione agli atti
esecutivi, e questa idea è ulteriormente confermata dalle due scelte
lessicali compiute dal legislatore della norma, e cioè per un verso,
quella di prevedere ove insorgano difficoltà o contestazioni il giudice
le risolva con ordinanza, con ciò alludendo a quelle ipotesi in cui nel
contesto di un normale procedimento esecutivo si potrebbero promuovere
opposizione agli atti esecutivi, cioè questa locuzione suggerisce l'idea
che in tutti quei casi in cui potremmo proporre opposizione agli atti esecutivi
se fossimo nel contesto della esecuzione vera e propria del provvedimento
giurisdizionale, allorquando siamo invece nel contesto dell'attuazione di un
provvedimento cautelare, non possono essere proposte innescando un giudizio a
cognizione piena come quello di opposizione agli atti esecutivi, bensì
vengono risolti in via breve, ovviamente con ordinanza in contraddittorio, da
parte del giudice preposto a presiedere all'attuazione della misura cautelare.
Inoltre, nella parte in cui la norma
dice "ogni altra questione va fatta valere in sede di merito", si è
dell'idea secondo cui la sussistenza del diritto di procedere a esecuzione,
ossia ciò che formerebbe oggetto di proposizione all'esecuzione se ci
trovassimo nel contesto di un procedimento esecutivo, in realtà non
può in quella sede formare oggetto di opposizione all'esecuzione e deve
essere necessariamente dedotta dinanzi al giudice del merito della causa,
affinché questi provveda eventualmente alla revoca del provvedimento cautelare
ove sussistano i presupposti, ovvero alla pronuncia di un provvedimento di
merito caducatorio degli effetti del provvedimento cautelare ai sensi dell'art.
669novies, in quanto sentenza di merito che riconosca l'inesistenza del diritto
protetto tramite la misura cautelare.
Tutto ciò sembra abbastanza
chiaro, sennonché resta il problema di interpretare che cosa invece voglia
intendere e disporre il legislatore per l'ipotesi di provvedimenti cautelari
che abbiano ad oggetto somme di denaro, e che naturalmente, di tanto inquanto, non si tratti di provvedimenti di
sequestro, in realtà potremmo porci il dubbio, ma come dicevamo, i
provvedimenti d'urgenza non possono avere ad oggetto somme di denaro,
però, in qualche caso è possibile che il provvedimento d'urgenza
abbia ad oggetto somme di denaro. Ebbene, cosa intendere dire il legislatore
quando ci rinvia agli articoli 491 e seguenti. È chiaro per tutti che
intende dire che la parte può procedere al pignoramento, all'attività
corrispondente al pignoramento delle somme anche senza bisogno di svolgere
quelle attività prodromiche al pignoramento che sono previste nella
disciplina dell'esecuzione forzata in generale, cioè, la modificazione
del titolo esecutivo e del precetto, che come vedremo devono precedere l'inizio
della vera e propria esecuzione realizzata attraverso il pignoramento del bene.
Ma coso ci dice a proposito del tema che forse più interessa e
cioè quello della proponibilità delle opposizioni e magari anche
considerato che qui si fa riferimento non più all'ipotesi che in sede
esecutiva vedrebbero applicare un meccanismo dell'esecuzione per consegna o
rilascio, dell'esecuzione di fare o di non fare, appunto il meccanismo
dell'esecuzione per espropriazione, che dire dell'ammissibilità del
concorso dei creditori della loro partecipazione alla distribuzione delle somme
che si possono eventualmente dalla vendita del bene sottoposto a pignoramento
sulla base di un provvedimento cautelare? Questi sono terreni, in cui ancora
regna incertezza interpretativa.
In una recente monografia leggo
un'argomentazione di questo tipo:".la legge non prevede esplicitamente che
possa promuoversi l'opposizione all'esecuzione agli atti esecutivi.." quindi
dobbiamo ritenere che questa non sia possibile anche in questi casi, quindi
dobbiamo ritenere che la norma sia costituzionalmente illegittima perché non
prevede questi strumenti di tutela. È un modo di argomentare ben
curioso, perché esiste l'interpretazione costituzionale orientata, allorquando
esiste un certo grado di opinabilità almeno fra inerpretazioni
concorrenti, e una sola di esse risulti essere coerente con la Costituzione,
è chiaro che sarebbe, casomai, quella da preferire, mi sembra
difficile dedurre dalla mancata esplicita previsione dell'ammissibilità
del ricorso alle opposizioni ineluttabilmente che queste non siano ammissibili
così ineluttabilmente da doversi giustificare a quel punto una
declaratoria di illegittimià costituzionale. Se il testo è
incerto e si ritiene che l'accesso alle opposizioni sia costituzionalmente
doveroso, allora il testo deve essere interpretato in modo di ammetterle, ma in
realtà, è fortemente opinabile anche la tesi secondo cui sia
costituzionalmente doveroso assicurare l'acesso alla opposizioni. In
particolare il riferimento che a volte si rinviene alla dimensione
costituzionalmente protetta della garanzia della par condicio creditorm
e quindi del ditto al concorso dei creditori alla partecipazione dei risultati
dell'espropriazione ogni qualvolta questa venga promossa a tutela dei crediti a
contenuto pecuniario, mi sembra abbastanza forzata soprattutto se si
considera che le ipotesi in cui è èpossibile ottenere un
provvedimento cautelare diverso dal sequestro, ma aventa ad oggeto somme di
denaro, sono ipotesi in cui il credito pecuniario, in realtà, è
diretto alla protezione di valori ulteriori anch'essi di rilevanza
costituzionale, e plausibilmente aventi una rilevanza costituzionale poziore
rispetto a quella attribuibile attarverso un'interpretazione al principio della
par condiciocreditorum.
Stiamo parlando di crediti può
o meno latamente alimentari, la circostanza che attraverso la tutela cautelare
questi possano essere soddisfatti più facilmente degli altri crediti di
denaro sembra ragionevole e tuttaltro che inaccettabile, quindi, non debba
essere necessariamente respinta a priori l'idea che nonostante il riferimento
all'art. 491 e seguenti, e quindi la forte suggestione che siano ricompresi nel
rinvio acnhe gli articoli 615 e seguenti, cioè quelli che trattano del
sistema delle opposizioni, sembra plausibile che nel contesto di questa
modalità di attuazione che rimane attuazione del provvedimento
cautelare, tutti questi strumenti non siano esperibili, e il rinvio agli
artcoli 491 e seguenti, consista in un mero rinvio alle modalità di
esecuzione del pignoramento, come modalità di realizzazione del credito
e a una modalità di vendita del bene pignorato, ma non invece all'intero
sistema del concorso dei creditori all'espropriazione e al sistema della
opposizioni all'esecuzione all'opposizione degli atti esecutivi.
PROCESSO ESECUTIVO
PRINCIPI GENERALI E DINAMICHE DELL'ISTITUTO
In linea di massima il processo esecutivo è diretto
strutturalmente a conseguire l'adempimento dell' obbligazione, a prescindere
dalla cooperazione dell'obbligato.
Questo tipo di definizione, cioè la circostanza che si prescinda
dalla volontà dell' obbligato, rende discutibile la riconduzione alla
categoria dei procedimenti esecutivi delle forme di esecuzione indiretta che
è l'unica possibile rispetto a quelle obbligazioni di fare di carattere
fungibile rispetto alle quali l'interesse del creditore non può essere
soddisfatto da un'esecuzione per surroga e per la realizzazione delle quali si
rende costituzionalmente doverosa la predisposizione, in un sistema
generalizzato di misure coercitive tendentia prendere sulla volontà dell'obbligato con scopo di indurlo ad
adempiere.
Il diritto positivo vigente, in reatà, le contempla solo in casi
particolari, al punto che parte della dottrina si spinge fino a sostenere che
le sentenze di condanna a prestazioni di fare di carattere infungibile non
sarebbero neppure qualificabili come vere e proprie sentenze di condanna, in
quanto, per definizione la pronuncia , non potrebbe costituire titolo
esecutivo, in quanto non potrebbe essere utilizzata per promuovere i
procedimenti di esecuzione forzata diretta e, quindi, la pronuncia avrebbe un
mero carattere di accertamento, secondo alcuni o di accertamento costitutivo
secondo altri.
È una tesi che tende a negare la forza propulsiva che si
può riconoscere all'art 24 della Costituzione in termini di produzione
della tutela, da cui dovrebbe discendere il riscontro di una lacuna del
sistema, dove, rispetto alle sentenze che invece vanno qualificate come
sentenze di condanna ad obblighi di fare di carattere infungibile non è
predisposto un idoneo apparato di strumenti.
Realizzare il principio chiovendiano secondo cui il processo deve
consentire all'attore che abbia ragione di conseguire tutto quello e proprio
quello che gli spetta in base al diritto sostanziale. Le riserve che molti
muovono nei confronti dei sistemi di misure coercitive non vanno
sopravvalutate, è chiaro che sarebbe eccessivo e inaccettabile
ripristinare l'istituto della prigione per debiti, quindi si tratta di
applicare un sistema di sanzioni pecuniarie progressive, commisurate al
protrarsi nel tempo dell'inadempimento dell'obbligazione a ciò che
queste continuino a premere sulla volontà dell'obbligato; che poi qui si
abbia adempimento a prescindere dalla cooperazione dell'obbligato NO,
però la cooperazione dell'obbligato è indotta, e coartata,
però sembra più sensato ricondurre questi strumenti alla
categoria dei metodi di esecuzione dell'obbligazione civile.
Ciò premesso, è chiaro che il diritto positivo si
articola in modo tale da prevedere esplicitamente i procedimenti esecutivi, in
realtà con riferimento a tutte le altre categorie di obbligazioni.
Qui bisogna distinguere tra PROCEDIMENTI DI ESECUZIONE IN FORMA SPECIFICA
e PROCEDIMENTI DI ESECUZIONE PER ESPROPRIAZIONE O IN FORMA GENERICA.
1)ESECUZIONE
IN FORMASPECIFICA con riferimento agli
obblighi di fare e di non fare, per alcuni dei quali (e cioè gli
obblighi di consegna di beni mobili), rilascio di beni immobili è
previsto un procedimento particolare. Al di là di queste due ipotesi
particolari, per la generalità delle obbligazioni di fare e di non fare
è previsto il procedimento che risulta applicabile tantoin quanto l'obbligazione di fare e di non
fare in cui si ottiene l'adempimento, non sia infungibile.
®ai
fini dell'esame è da ricordarsi a proposito dell'esecuzione per gli
obblighi di fare e di non fare:
·Il titolo
esecutivo deve essere costituito indefettibilmente da una sentenza;
·Occorre,
a seguito della notificazione a titolo esecutivo del precetto, rivolgersi al
giudice dell'esecuzione con ricorso.
·La
competenza del giudice dell'esecuzione è determinata dal luogo in cui
deve rendere sull'obbligazione.costui con propria ordinanza determina le
modalità di adempimento dell'obbligazione.
Il prof ricorda un altro passaggio da ricollegare alla disciplina della
individuazione della sentenza nellaparte senso sostanziale perché si dice: delle ipotesi in cui il giudice
dell'esecuzione adito per la determinazione dell'obbligo di fare travalichi la
disposizione e con provvedimento abnorme modifichi il contenuto sostanziale
dell'obbligo non limitandosi a determinare le modalità, ma estendendone
il contenuto, il provvedimento va codificato come sentenza in senso
sostanziale, resa però non per volontà di legge, ma per errore
del giudice con la conseguenza che i rimedi esperibili nei confronti di questa
pronuncia abnorme non è il ricorso per cassazione, ma è
l'appello, cioè l'impugnazioneè obbligabile perché altrimenti
l'errore del giudice priva quella parte di un grado di giudizio.
·È
da ricordare in questa materia che le spese dell' esecuzione dell'obbligo che
si trasforma in un fare e in un disfare a seconda se sia stato rilevato un
obbligo di fare o di non fare, le spese vanno anticipate dal creditore. A
conclusione del procedimento il giudice liquida l'ammontare con provvedimento
che a sua volta costituisce pronuncia in senso sostanziale e titolo esecutivo,
quella ripetizione della stessa attraverso un procedimento espropriativo.
2)PROCEDIMENTO
DI ESECUZIONE PER ESPROPRIAZIONE.
In realtà la gran parte delle disposizioni generali in materia
di processo esecutivo sono pensate soprattutto con riferimento alla disciplina
dell'esecuzione per espropriazione e presentano vari problemi di adattamento
quando si tratta di discutere degli altri procedimenti e quindi dell'esecuzione
di espropriazione parliamo riferendoci sia alla sua disciplina specifica sia ai
principi generali che sono meglio illustrati e soprattutto attraverso l'esame
di questo istituto. La legge richiede che l'esecuzione possa promuoversi
soltanto in forza di un titolo esecutivo, fatti salvi quei casi con
l'istituzione di obblighi do fare e di non fare in cui il titolo esecutivo
può essere costituito dalla sentenza, cioè un provvedimento di
formazione giudiziale.
La regola generale scelta dal nostro
ordinamento è stata quella di non richiedere necessariamente che il
titolo esecutivo debba avere formazione giudiziale, cioè si consente
alle parti di formare privatamente titoli esecutivi, quindi il titolo esecutivo
non contiene in sé necessariamente un accertamento giurisdizionale della
sussistenza del diritto di cui si chiede l' esecuzione.
Si discute in che misura possa
qualificarsi come accertamento negoziale o accertamento convenzionale quello
posto in essere dalle parti, è chiaro però che in realtà
comunque lo si denomini altro è il caso in cui le parti effettivamente
compongono le liti in via transattivi, altro è il caso in cui formino un
titolo esecutivo firmando cambiali o assegni. Qui in realtà non
può rinvenirsi alcun limite alla potestà del giudice di valutare
la sussistenza effettiva del diritto sottostante.
I titoli esecutivi di formazione
stragiudiziale sono i titoli di credito, assegni, cambiali ed altri atti a cui
la legge specificamente attribuisce l'efficacia esecutiva e naturalmente questi
sono tutti atti che concernono l'esecuzione per espropriazionee poi ancora gli atti ricevuti da notaio,
sempre però limitatamente alle obbligazioni relative a somme di denaro
in esse contenute, perché i titoli di formazione stragiudiziale servono a
promuovere esecuzione per espropriazione e non le altre forme esecutive.
Molto si discute dell'idoneità
a fungere del titolo esecutivo,del VERBALE DI CONCILIAZIONE che ha un contenuto
in parte giudiziale e in parte stragiudiziale.
Le ragioni che favoriscono
l'attribuzione dell'efficacia esecutiva al verbale di conciliazione e anche ai
fini dell'esecuzione in forma specifica, sono ragioni che tendono a
sottolineare come questo tipo di strumento deflativo debba essere protetto e
favorito in modo tale da consentire alle parti di arrivare ad una risoluzione
del conflitto che non sia inutile per la parte che intenda poi avvalersi della
procedura esecutiva e quindi ancorché il dato normativo non sia inequivocamente
in questosenso, certamente si propende
per lo più ad ammettere questa efficacia per questo particolare titolo,
se non altro in considerazione del fatto che la conciliazione giudiziale
avviene per sempre sotto il controllo di tipo formale del giudice.
Tra ititoliesecutivi di formazione
giudiziale il principale è costituito dalla sentenza di condanna fatti
salvi quei casi i cui possiamo parlare di sentenza di condanna senza
però che questa costituisca titolo esecutivo e non mi riferisco alle
condanne di fare e di non fare, bensì alla ipotesi come la condanna
generica che costituisce titolo per l'iscrizione dell'ipoteca giudiziale, ma
non titolo esecutivo,non contenendo la liquidazione delle somme dovute dal
debitore.
Come funziona l'iscrizione
dell'ipoteca giudiziale?
Può produrre gli altri effetti
della sentenza penale di condanna.Oltre a costituire titolo esecutivo, gli
altri effetti secondari sono:
1)costituisce titolo per
l'iscrizione dell'ipoteca giudiziale
2)trasforma l'eventuale prescrizione
breve del titolo in prescrizione ordinaria
3)converte il sequestro in
pignoramento
Sull'iscrizione di ipoteca giudiziale
qualche domanda legittima da porsi potrebbe essere:
io questo
La risposta è la somma indicata
del creditore sotto la sua responsabilità è a suo rischio che
dell'eventuale responsabilità dove il suo comportamento è stato
imprudente ai sensi dell'art 96co2,
rispetto alle iniziative procedimentali che sono aggressive nei confronti del
patrimonio del debitore, come l'esecuzione del pignoramento,l'iscrizione
dell'ipoteca giudiziale, l'attuazione di provvedimenti cautelari e così
via.
Oltre a queste ci sono tutti quei
titoli esecutivi in forma diversa da quella della sentenza, i così detti
provvedimenti anticipatori di condanna costituiscono probabilmente l'esempio
più significativo in quanto qui si tratta di provvedimenti speso e
volentieri inidonei alla formazione della cosa giudicata sostanziale e tuttavia
provvisti dell' efficacia di titolo esecutivo.
(sulle forme della tutela sommaria ci
torneremo quando parleremo del rito societario perché è una delle
particolarità principali del rito societario, è la previsione di
un numero abbastanza ampio di forme di tutela sommaria ispirate in generale
all'idea di favorire la formazione del titolo esecutivo ma senza che ciò
implichi formazione della cosa giudicata, addirittura sono individuabili almeno
cinque forme diverse di tutela sommaria nella disciplina del rito societario).
Non costituiscono propriamente
titoli esecutivi i provvedimenti cautelari i quali sono in realtà
soggetti ad attuazione, salve le difficoltà di inquadramento che possono
presentarsi rispetto al particolare caso del provvedimento cautelare diverso
dal sequestro e tuttavia avente ad oggetto somme di denaro per il quale l'art
669 duodecies prescrive di utilizzare il procedimento di esecuzione per
espropriazione omettendo le attività preliminari.
Quali sono queste attività
preliminari?
- La NOTIFICAZIONE del titolo
esecutivo del precetto.
Il precetto è intimazione ad
adempiere entro 10 giorni con la minaccia che altrimenti si procederà al
pignoramento.La notificazione del titolo esecutivo del precetto deve essere
effettuata al debitore e quindi ricordiamoci che la notificazione della
sentenza si effettua al procuratore allo scopo di far decorrere il termine
breve per la sua impugnazione, si effettua invece alla parte allo scopo di
promuovere il procedimento di esecuzione forzata; in mancanza di adempimento
nel termine previsto del precetto è possibile procedere al pignoramento.
L'atto di pignoramento è un
atto che costituisce un vincolo di indisponibilità relativa ai beni
colpiti del patrimonio del debitore.
Su quali beni? Su quelli specificamente indicati.
Il nostro ordinamento è uno dei
più estremi, tra gli ordinamenti del mondo, ad essere ispirato al principio
del favor reidel debitore , esso protegge
il debitore in misura forse eccessiva.
Da questo punto di vista nella ricerca
dei beni da pignorare avremmo due aspetti.
®Il primo è quello per cui
l'esecuzione civile può comprendere solo beni specificamente indicati e
non la generalità del patrimonio del debitore.La generalità del
patrimonio del debitore può essere colpita solo da una procedura
fallimentare, la procedura concorsuale di tipo fallimentare, quindi può
coinvolgere solo quei soggetti che rivestano la qualifica dei creditori che
esercitano l'attività imprenditoriale.
Non è così dappertutto,
in Germania e in altri paesi si ritiene invece normale procedere al fallimento
civile nell'ipotesi dell'insolvenza del debitore civile, promuovere esecuzione
nei confronti dell'intero patrimonio del debitore senza assoggettarlo a
sanzioni penali pesanti come quelle che possono seguire alla insolvenza
dell'imprenditore commerciale.
®Altro aspetto è quello della
cooperazione del debitore nella ricerca dei beni da pignorare.
Il nostro ordinamento segue la regola
secondo cui il debitore non deve cooperare. È il creditore che deve
cercare i beni da pignorare; è lui che deve sapere dove stanno.
Il VINCOLO DI INDISPONIBILITA',effetto
del pignoramento, è VINCOLO di IN DISPONIBILITA' RELATIVA con la
conseguenza (classica domanda d'esame: il bene può esserevenduto?)
che il bene può essere venduto, non è opponibile al creditore
precedente, sicchè il bene, che è stato oggetto di pignoramento
per essere sottoposto a vendita forzata, continua a poter essere sottoposto a
vendita forzata anche in pregiudizio del terzo acquirente.
Si può anche sottolineare che
questo vincolo di indisponibilità relativa ha una natura processuale e
non sostanziale, sicchè la vicenda traslativa è in opponibile al
pregiudizio del creditore precedente ai fini della sottoposizione del bene a
vendita forzata; tuttavia è comunque valida, sul piano sostanziale ,
anche nei confronti del creditore precedente, sicchè se la procedura
esecutiva per esempio si estingue prima che il bene venga venduto, a questo
punto la vicenda traslativa è opponibile al creditore precedente
ancorché avvenuta a seguito del pignoramento in pendenza del procedimento esecutivo,
sicchè un nuovo pignoramento non potrà più colpire quello
stesso bene come se fosse appartenente al debitore originale.
Del pignoramento abbiamo tre forme:
·PIGNORAMENTO IMMOBILIARE
·PIGNORAMENTO MOBILIARE
·PIGNORAMENTO DI CREDITO
Il PIGNORAMENTO MOBILIARE avviene
mediante la ricerca delle cose da pignorare da parte dell'ufficiale
giudiziario nei luoghi di appartenenza del debitore senza alcun onere di
cooperazione del debitore all'individuazione dei luoghi dove i beni possono
essere,(qua può essere il caso volendo di memorizzare i beni pignorati).
Il PIGNORAMENTO IMMOBILIARE si
esegue attraverso la combinazione di una notificazione allo stesso e
trascrizione dell'atto che è iscritto nella conservatoria dei registri
immobiliari, soprattutto la trascrizione è rilevante ai fini
della disciplina dei conflitti con eventuali acquirenti di terzi del bene
stesso, poiché è chiari che ai fini dell'inopponibilità alla
procedura delle vicende traslative occorre pur sempre che il pignoramento sia
stato trascritto prima della trascrizione della stessa vicenda traslativa.
Il PIGNORAMENTO DI CREDITI
è il più importante di tutti perché è l'unico che frutta.
Nel pignoramento di crediti
generalmente si incassa tutto, perché tendenzialmenteil problema è che al debitore
interessa poco are il proprio creditore originario o a un terzo
creditore che abbia pignorato il credito, quindi in questo caso il debitore
è cooperativo perché la cooperazione non è del debitore, ma del
debitore del debitore, o in altri termini si può dire che l'esecuzionefunziona benissimo fondamentalmente nei confronti del lavoratore dipendente
perché chi a lo stipendio al lavoratore dipendente non ha nessun problema a
arlo ad un terzo e quindi questo è abbastanza efficace nei confronti
degli altri tanto in quanto si riesca ad individuare il conto corrente, va
detto che in linea di massima le banche sono abbastanza cooperative, a meno che
si tratti di enti particolari.
Questa procedura prevede che si
notifichi al debitore, ma anche al terzo un atto complesso contenente
l'indicazione, non solo del credito per cui si produce, ma anche un'indicazione
del credito vantato, oggetto del pignoramento, oltre che l'avvertimento al
terzo che per l'effetto dell'attività svolta ne assume l'obbligo il
custode sulle cose pignorate che non sarà liberato ando
originariamente al proprio debitore originario.Il pignoramento presso terzi
comprende anche le ipotesi in cui (ipotesi di maggior importanza pratica) il
debitore sia creditore di una somma di denaro, sia l'ipotesi in cui presso il
terzo si trovi un bene mobile appartenente al debitore, ma questa fattispecie
è di minor rilevanza applicativa, quindi ci interessa meno.
Ci interessa molto invece il
pignoramento dei crediti perché ha un atto complesso (?), deve inoltre
contenere l'accettazione del terzo a ire all'udienza davanti al giudice
dell'esecuzione. In questa fattispecie il giudice competente per l'esecuzione
è il giudice del luogo di residenza del terzo.Quindi il terzo deve
ire all'udienza per rendere una dichiarazione sulla sussistenza del
credito, cioè a dichiarare se egli è effettivamente debitore.
Normalmente posto che il terzo non ha
particolare interesse a are uno o l'altro dei propri debitori, il
procedimento va a buon fine nel senso che il terzo dichiari se effettivamente
esiste un credito vantatonei suoi
confronti dal debitore esecutato.
In mancanza di tale dichiarazione il
creditore può accontentarsi e lasciar perdere con quel terzo, oppure
insistere per chiedere un accertamento a cognizione piena della sussistenza del
diritto o menonei confronti del terzo
del debitore esecutato, allo scopo di proseguire e conseguire l'adempimento
alla sua obbligazione attraverso il amento del terzo.
(il procedimento viene spesso chiesto
all'esame perché consente di fare una domanda di ragionamento.Perché?Ma
dobbiamo premettereche lalegge prescrive esplicitamente che
l'esecuzione forzata comincia con il pignoramento .La soglia di inizio
dell'esecuzione forzata è rilevante a molti fini,tra l'altro ai fini
della competenza per l'opposizione all'esecuzione, di conseguenza in tutti i
casi in cui può esserci ambiguità è destinata ad esserci
discussione, è chiaro che rispetto al procedimento di esecuzione forzata
per obblighi di fare qui non c'è un pignoramento, si può
considerare equivalente al pignoramento il ricorso al giudice dell' esecuzione
ai fini della determinazione delle modalità dell''adempimento
dell'obbligazione, ma qui il problema è , e qui con riferimento
all'espropriazione dei crediti, il problema è : il pignoramento si
perfeziona al momento della notificazione dell'atto complesso al terzo si
perfeziona al momento in cui il terzo rende la dichiarazione in udienza che
è un momento successivo?
La cosa è rilevante anche ai
fini della risoluzione delle controversie, intorno alle priorità,
nell'ipotesi di cessione del credito che si affermi essere precedente al
pignoramento.
La strada per arrivare alla soluzione
prevalentemente accettata è quella di sottolineare come è vero
così che sin dal momento della notificazione dell' atto il terzo
debitore non può più liberarsi ando al debitore originario,
cioè se lo fa non è liberato dalla sua obbligazione ed è
anche vero che assume gli obblighi del custode rispetto al credito, al bene
mobile colpito dal pignoramento, però in realtà gli effetti del
pignoramento del credito rispetto al terzo sono ulteriori e più
ampicome si evince dalla lettura dell'
art 2917 cc, perché quest' articolo ci dice che una volta perfezionato il
pignoramento del credito il debitore non può più opporre al
creditore precedente alcuna vicenda estintiva della obbligazione, quindi
andiamo al di là degli obblighi del custode, perché il custode potrebbe
pur sempre liberarsi provando che non vi era modo per impedire il perimento
della cosa, che non vi era modo di impedire la impossibilità
sopravvenuta.
Nell'ipotesi in cui il pignoramento
sia perfezionato, qualsiasi tipo di eccezione non può più essere
sollevata dal creditore procedente, quindi per esempio non si potrebbe eccepire
la confusione prodotta per effetto, per esempio, del decesso del
debitore originario, della confusione del suo patrimonio con il patrimonio del
terzo .Tale estinzione dell'obbligazione non pregiudicherebbe il creditore
procedente che anche in questo caso avrebbe il diritto a perseguire dal terzo
il amento di quanto gli spetta.
VENDITA FORZATA : ci interessa per i beni mobili ed immobili, soprattutto per gli
immobili.
La vendita forzata ha una sua
autosufficienza, cioè soffre solo le nullità del suo stesso
procedimento, ma non viene travolta dall'eventuale declaratoria di
nullità(?) del titolo esecutivo sulla cui base è stato
promosso il procedimento esecutivo, inoltre questa protezione del terzo opera
anche nell'ipotesi in cui il procedimento esecutivo si concluda prima della
distribuzione della somma ricavata per effetto di un'eventuale vicenda
estintiva derivante da rinuncia o da inattività.
Infine l'acquirente a vendita forzata
compra un po' rischiando, perché è una vendita che è un po' meno
garantita della vendita originaria, nel senso che non è ad essa
applicabile la garanzia per i vizi. Tale garanzia per i vizi è esclusa
esplicitamentedalla legge salvo doversi
ricordare che la giurisprudenza ammette che il terzo acquirente possa impugnare
la vendita nell'ipotesi del cosiddetto ALIUD PRO ALIO, ipotesi in cui si ha
venduto ad esempio il quadro falso, ma si tratta di ipotesi estrema di vizi
mentre nel caso di televisore comprato rotto, ci si tiene il televisore rotto.
La verità segue il passaggio
dalla fase espropriativa alla fase distributiva della somma, questo passaggio
di fase è rilevante soprattutto ai fini della disciplina del concorso
dei creditori nell'espropriazione (tema complesso), potremmo seguire varie
strade nella disciplina del concorso del creditore nell'espropriazione, per
esempio potremmo prevedere che possano partecipare all'espropiazione soltanto
quei creditori che siano essi stessi munitidi titolo esecutivo,
però non è questa la soluzione scelta dal legislatore perché non
si vuole incentivare una corsa al titolo esecutivo nei confronti dei soggetti
di cui eventualmente si chiama l'insolvenza.
Si ritiene che conferire la
possibilità di intervenire, di partecipare all'espropriazione anche
senza essere muniti di titolo abbia un effetto deflativo sul volume del
contenzioso perché altrimenti cercherebbero di procurarselo tutti aumentando il
carico di lavoro dell'attività giurisdizionale degli organi
giurisdizionali, quindi questa soluzione può essere scartata.
Un'altra possibilità sarebbe
quella di prevedere comunque un privilegio per colui che si muova per primo, in
modo che il creditore precedente sia in qualche modo protetto rispetto ad altri
creditori che invece partecipano all' espropriazione,però anche questa
è un'ipotesi scartata,in
correlazione alla scelta di escludere il fallimento civile, cioè di
escludere che in linea generale l'esecuzione possa coprire tutti i beni del
debitore (così dice la relazione al codice di procedura civile, ma al
prof il nesso non sembra così forte e ineluttabile).
La scelta compiuta dal legislatore ex
art 2741 del cc per cui tutti i creditori hanno pari diritto di essere
soddisfatti sui beni del debitore, principio della par condicio creditorum, salvo
le cause legittime di prelazione : privilegi , pegni, ipoteche.
Questo vuol dire che la partecipazione
dei creditori, debitori nel procedimento esecutivo è in realtà
realmente possibile, tra l'altro fino alla fase della vendita è
necessario che almeno un creditore munito di titolo esecutivo promuova e
coltivi il procedimento esecutivo, successivamente alla vendita invece la
distribuzione della somma ricavata può essere coltivata anche senza il
bisogno di alcun creditore munito di titolo, coerentemente la disciplina
dell'estinzione del procedimento esecutivo richiede il consenso di tutti i
creditori muniti di titolo esecutivo prima della vendita, successivamente alla
vendita invece il creditore anche non munito di titolo ha in un certo senso, a
quel punto, acquisito una posizione protetta tale per cui è richiesto
anche il suo consenso ai fini dell'estinzione del procedimento
esecutivo.
La possibilità di partecipare
all'esecuzione senza essere muniti di titolo pone il problema
dell'individuazione dell' eventuale grado di stabilità del
risultato attributivo di beni della vita derivante dal procedimento esecutivo;
perché?
Alcuni hanno immaginato anche che si
possa parlare di una cosa espropriata materiale, ma al di la di questi, che
sono degli estremismi, in vario modo si possono giustificare ampi gradi di
stabilità del risultato del procedimento esecutivo, in particolare dei
amenti avvenuti attraverso il procedimento esecutivo perché si può
sostenere che il debitore non è in grado di ripetere le somme ate ai
creditori intervenuti nel corso del procedimento esecutivo perché egli ha
l'onere di contestare nel ... e tale contestazione non può essere in
realtà effettuata nel contesto della fase espropriativa, ma senz'altro
invece è concessa al debitore nel contesto della fase distributiva
poiché l'art 512 prescrive esplicitamente che nel corso della fase di
distribuzione della somma ricavata sia possibile promuovere ogni sorta di
contestazione con riferimento alla sussistenza dei diritti vantati dai
creditori concorrenti accorti(?) di priorità tra i vari creditori
e le contestazioni possono essere mosse tanto da creditori concorrenti quanto
dallo stesso debitore, sicchè l'argomento che spesso si formula è
nel senso che il debitore che abbia omesso di promuovere una contestazione ex
art 512, che tra l'altro idonea a produrre effetti sospensivi della
distribuzione della somma ricavata, non potrebbe più ripetere le somme
ate al creditore intervenuto nel corso del procedimento.
Gli effetti dell'estinzione del
procedimento esecutivo cambiano a seconda se sia o meno avvenuta la vendita,
opposto che la caducazione degli atti compiuti ha senso se non si è
ancora perfezionata la vendita, ma una volta perfezionatasi il terzo non
può essere colpito e quindi la soluzione scelta è quella di
versare la somma ricavata al debitore.
Altra possibile vicenda anomala del
procedimento esecutivo è la sospensione, perché invece tendenzialmente
si ritiene che non sia passibile di interruzione il procedimento esecutivo
essendo un procedimento non diretto all'accertamento e quindi non occorre
tutelarela garanzia del contraddittorio.
Il ragionamento è forse un po'
forzato perché parte della dottrina sostiene che invece si dovrebbero rendere
applicabili queste norme anche nel contesto al procedimento esecutivo almeno in
parte, ma certamente l'orientamento dominante è nel senso che queste non
si applicano.
Può aversi invece sospensione
del procedimento esecutivo e la sospensione può essere
disposta dal giudice dell'esecuzione o dal giudice dell'impugnazione del
titolo.
Il giudice dell'esecuzione può
sospender in tutto o in parte la distribuzione della somma entrata quando sia
insorta una controversia ex art 512, inoltre può per gravi motivi
sospendere il procedimento esecutivo quando si è proposta opposizione
all'esecuzione e si ritiene prevalentemente che possa altresì disporre
la sospensione in pendenza di opposizione agli atti esecutivi, sul presupposto
che tale potere rientri nel più ampio potere di concedere provvedimenti
temporanei e indispensabili in presenza del procedimento.
Questo cenno ci consente di avviare
l'analisi dei rapporti tra condizione ed esecuzione alla luce dei procedimenti
di cognizione che possono innescarsi nel contesto del provvedimento esecutivo e
aprire una parentesi di accertamento (parentesi cognitoria).
La descrizione fondamentale è
tra l'opposizione all'esecuzione e l'opposizione agli atti esecutivi.
L'opposizione all'esecuzione è
un procedimento che ha per oggetto la contestazione del diritto del creditore
di procedere a esecuzione forzata.Pertanto che cosa è rilevante
soprattutto per individuare quali motivi possono essere posti a fondamento di
una opposizione all'esecuzione?
È soprattutto rilevante la
formazione deltitolo perché se il titolo è di formazione
stragiudiziale, tramite opposizione all'esecuzione si può contestare il
diritto di procedere ad esecuzione forzata sotto ogni possibile profilo,
cioè sia sotto il profilo della mancanza del titolo esecutivo, sia sotto
il profilo della insussistenza del diritto rappresentato da quel titolo
esecutivo, in altri termini si può contestare di non avere firmato la
cambiale, ma si può anche contestare di non essere debitore della somma
per cui si è sottoscritta una cambiale.
Se il titolo esecutivo è di formazione
giudiziale, le possibilità di promuovere l'opposizione
all'esecuzione è molto ridotta perché il potere di cognizione del
giudice investito dell'opposizione all'esecuzione devono essere condizionati
con i poteri del giudice della convinzione originaria e in particolare con
quanto discende dal principio di cui all'art 161 co2 , cioè della regola
per cui le nullità della sentenza soggetta ad appello, ricorso per
cassazione possono essere fatte valere soltanto con questi mezzi e non
quindi ,.giudice,con l'opposizione all'esecuzione , il che non esclude che
possa proporsi opposizione all'esecuzione anche quando l'esecuzione stessa sia
stata intrapresa sulla base di un titolo di formazione giudiziale, però
ciò può condurre all'accoglimento dell'opposizione soltanto
nell'ipotesi in cui si facciano valere fattispecie non deducibili in quel
processo di cognizione di cui si è formato il titolo; sicchè , ad
esempio, l'avvenuto amento di un' obbligazione successivamente alla
formazione del titolo esecutivo ben può essere dedotto con via di
opposizione all'esecuzione contro una interruzione intrapresa sulla base di una
sentenza di condanna, perché si tratta di una fattispecie estintiva
sopravvenuta, non coperta né dal giudicato, né dall'onere di far valere la
vicenda estintiva con l'impugnazione della sentenza, così come si
possono far valere le inesistenze della sentenza, talchè se rientrano
nella fattispecie di sentenza priva di sottoscrizione del giudice, tale
nullità sfugge alla regola dell'art 161co 1 e quindi può essere
posta a fondamento di opposizione dell'esecuzione.
Possono farsi valere i difetti di
coincidenza dei soggetti, cioè può contestarsi che il titolo
esecutivo fosse pronunciato proprio nei confronti del debitore del soggetto nei
cui confronti è promossa l'esecuzione.Naturalmente può darsi che
il creditore affermi di eseguire contro questo soggetto in qualità di
erede, si ponga a quel punto il problema della contestazione della sua
qualità di erede, dell'accertamento della qualità di erede
acquisita necessariamente alla formazione del titolo.
Però non si può far
valere tutto ciò che può essere posto a fondamento
dell'impugnazione della sentenza o che avrebbe potuto essere posto a fondamento
dell'impugnazione della sentenza nell'ipotesi in cui per la proposizione dell'impugnazione
siano ormai decorsi i termini.
La competenza per l'opposizione
all'esecuzione cambia a seconda se sia o meno iniziata l'esecuzione.cosa si
intende dire?Una volta avvenuto il pignoramento viene formato un fascicolo che
porta alla designazione di un magistrato che assume la qualità di
giudice dell'esecuzione preposto alla fissazione dell'udienza di vendita, alla
risoluzione delle contestazioni incidentali, etc.
Ne consegue che la competenza per
l'opposizione all'esecuzione spetta a questo giudice dell'esecuzione,
l'opposizione si promuove con ricorso innanzi a lui però la legge
consente anche al depositare di promuovere l'opposizione all'esecuzione
già successivamente al precetto e ancora prima che venga effettuato il
pignoramento, in realtà allo scopo di prevenire il pignoramento.
In queste ipotesi il giudice
dell'esecuzione non è ancora stato individuato perché possiamo immaginare
che il debitore possieda beni in tutta Italia e il creditore abbia
facoltà di scelta e iniziare la procedura esecutiva presso l'uno o
l'altro ufficio giudiziario.
In questo caso la competenza per
l'opposizione all'esecuzione è attribuita al giudice che sarebbe
competente secondo le regole ordinarie per materia o per valore, talchè
se si tratta di crediti derivanti da rapporti di lavoro subordinato avremo la
competenza del giudice del lavoro per l'opposizione all'esecuzione in materia.
Questo giudice dell'opposizione
all'esecuzione promossa prima dell'inizio dell'esecuzione non è un
giudice dell'esecuzione, ma non è neanche un giudice dell'impugnazione
del titolo ai sensi dell'art 623, poiché tale deve intendersi, secondo
l'interpretazione dominante, il giudice dell'impugnazione del titolo di
formazione giudiziale, cioè dell'impugnazione della sentenza.
Nell'ipotesi in cui si promuove
opposizione all'esecuzione prima del pignoramento, nei confronti di una
esecuzione promossa per esempio sulla base di cambiali di titolo esecutivo di
formazione stragiudiziale, il giudice adito dell'opposizione all'esecuzione non
è il giudice dell'impugnazione del titolo e quindi non può
sospendere l'efficacia esecutiva del titolo stesso, perché la legge non gli ha
attribuito questo potere, non può disporre la sospensione
dell'esecuzione che anzi non è ancora iniziata, e non può
prevenire il pignoramento.
Come si risolve questo problema?
C'è stata un'apertura di una
giurisprudenza recente che ha ritenuto ammissibile chiedere al giudice
dell'opposizione all'esecuzione, in questo caso, la sospensione dell'efficacia
esecutiva del titolo richiedendo appositamente un provvedimento d'urgenza ex
art 700.
Si trattava di una fattispecie in cui
il creditore utilizzava il suo titolo esecutivo per promuovere la
pluralità di procedimenti esecutivi n varie sedi, ciò li
utilizzava con finalità vessatorie e con modalità abusive.
Il rimedio prescritto dalla legge in
questi casi è in realtà una istanza di riduzione del pignoramento
che consente di rimediare, ma allo scopo di prevenire l'ulteriore abuso la
giurisprudenza ha ritenuto che in questo caso possano, in presenza dei
presupposti di irreparabilità e imminenza del pregiudizio, concedersi la
tutela attraverso lo strumento cautelare atipico costituito dal rimedio di cui
all'art 700 c.p.c. Si tratta di una soluzione non ad ampio raggio perché
ovviamente poi si scontra con il problema di difficile conurabilità
dell'irreparabilità di un pregiudizio in materia di somme di denaro.
Qui l'irreparabilità di un
giudizio atterrebbe in realtà probabilmente alla reputazione commerciale
del contenuto che verrebbe sottoposto a procedimenti esecutivi sovrabbondanti
allo scopo di sminuirne la credibilità e il prestigio.
Si tratta di una soluzione limite per
un caso estremo che però alla fine ci riafferma l'esistenza in
realtà di una lacuna di carattere fondamentale nella disciplina positiva
nella parte in cui risulta secondo la giurisprudenza formulata in guisa tale da
non concedere in via generalizzata il potere di sospensione dell'efficacia
esecutiva del titolo a giudice dell'opposizione alla esecuzione.
L'opposizione agli atti esecutivi,
invece è istituto in cui ci siamo già imbattuti perché è
più una stranezza, perché tramite opposizione si contesta la
irregolarità dell'atto esecutivo.
La legge consente sostanzialmente di far valere qualsiasi deviazione
dell'atto rispetto allo schema legale ancorché non determinativa di
nullità e quindi anche le ipotesi in cui tale forma non sia qui
espressamente prescritta a pena di nullità della legge e anche nella
ipotesi in cui il requisito richiesto non sia indispensabile per il
raggiungimento dello scopo, anzi la giurisprudenza si spinge oltre
perchè ammette persino la proposizione dell'opposizione agli atti esecutivi
per far valere la eventuale inopportunità dell'atto
dell'esecuzione, ad esempio per contestare l'opportunità della
fissazione di una certa data anziché un'altra della udienza di vendita,
affermando ad esempio che i prezzi degli immobili sono in salita e quindi
è opportuno rinviare, aspettare un po' per poter liquidare meglio il
bene pignorato.
La legittimazione qui è
attribuita a qualunque soggetto coinvolto nel procedimento esecutivo e non
più soltanto al debitore come accadeva per l'opposizione all'esecuzione,
per tanto l'opposizione agli atti esecutivi può essere promossa anche
dallo stesso creditore, in ipotesi; ad esempio della data della fissazione
della udienza di vendita, può essere benissimo nell'interesse del
creditore a insistere per una data diversa.
Qui si tutelano, in realtà,
situazioni di vantaggio che non sono propriamente e direttamente attributive di
beni della vita, ma hanno un contenuto esclusivamente processuale.
Pertanto, in realtà, era
congrua la scelta del legislatore del 1942 consistente nel prevedere che la
sentenza che pronuncia sulla opposizione agli atti esecutivi non sia
impugnabile, naturalmente a seguito dell'entrata in vigore della Costituzione
del 1948 si pone il problema della ricorribilità per cassazione, un provvedimento
che in ogni caso ha quanto meno la forma della sentenza.
L'orientamento prevalente è nel
senso di ammettere la ricorribilità per cassazione di questa sentenza
anche se si potrebbe obbiettare che qui il provvedimento ha si la forma della
sentenza ma sembrerebbe essere privo del contenuto sostanziale della stessa, in
quanto pur essendo il provvedimento definitivo non altrimenti impugnabile,
sembra tuttavia mancare il suo contenuto decisorio in quanto incide su una
situazione di vantaggio che non è direttamente attributiva del bene
della vita, ma ha un contenuto esclusivamente processuale.
Per quel che riguarda la competenza,
l'opposizione agli atti esecutivi è di competenza del giudice della
esecuzione quando questo sia già stato individuato, cioè quando
questo sia già stato individuato, cioè quando si è
già compiuto il pignoramento, la legge però ammette, anche per
l'opposizione agli atti esecutivi.La proposizione ancora prima dell'inizio
dell'esecuzione e poiché è consentita anche la deduzione della irregolarità
della notificazione del titolo esecutivo del precetto, in questi casi la regola
attributava della competenza è più complicata perché non si
può fare riferimento a quello che sarebbe competente secondo le regole
ordinarie, perché in realtà non c'è qui una causa ordinaria a
formare oggettodel processo sulla competenza
per la quale si possa riflettere e quindi la legge prescrive un criterio di
competenza nell'art 480 che fa riferimento alla residenza dichiarata dal
creditore dell'atto di notificazione del precetto o ad altre regole in mancanza
di dichiarazione della stessa.
Il panorama della opposizioni
esperibili nel contesto del procedimento esecutivo si completa con la ura
della OPPOSIZIONE DI TERZO ALLA ESECUZIONE.
La legge attribuisce questo rimedio al
terzo affermi essere titolare di un diritto di proprietà o di altro
diritto reale sui beni pignorati. Pertanto potremmo avere opposizione di
terzo all'esecuzione prima del pignoramento? No, quindi non abbiamo il
problema della competenza, la competenza e del giudice della esecuzione, posto
che solo dopo il pignoramento è possibile far valere questo rimedio.
Si tratterebbe delle ipotesi i cui per
errore dell'ufficiale giudiziario, l'attività di apprensione(?)
dei beni vada a cadere in beni appartenenti a soggetti diversi dal debitore.
Naturalmente questo può porre
dei problemi di prova, in particolare il terzo potrebbe essere un complice del
debitore che cerca di aiutarlo a sottrarre il bene all'esecuzione. Pertanto in
linea generale non è ammessa la prova testimoniale (tipicamente è
chiaro che saranno i beni mobili ad essere oggetto di questo tipo di
contestazione) salva ipotesiin cui i
beni del debitore possano trovarsi n luoghi di appartenenza del terzo, nel
senso che se il terzo svolge di mestiere il depositario, e quindi è
normale alla luce della sua attività che presso di se detenga cose
appartenenti ai terzi, allora è consentito al terzo dare prova
testimoniale che il bene in realtà era suo.
Molto si è discusso in
giurisprudenza e in dottrina sulla possibilità di estendere l'ambito di
applicazione di questo istituto al di là della espressa previsione
legislativa, in particolare sotto due profili: il primo è il profilo
della qualità delle situazioni soggettive tutelate.
La legge fa esplicitamente riferimento
alla proprietà o altro diritto reale, molti sostengono che sia congruo
includere tra le situazioni tutelabili anche i diritti personali di godimento
riferiti ai beni colpiti dal procedimento.
Diversi hanno sostenuto
l'opportunità di ammettere l'utilizzazione dello strumento anche nel
contesto dei procedimenti di esecuzione in forma specifica ancorché in questi
non sia presente il pignoramento, in particolare nelle ipotesi di conflitti di
diritti personali di godimento rispetto rilascio o alla consegna dei beni
oggetto dell'esecuzione in forma specifica.
-Approfondimento dei rapporti tra
cognizione e esecuzione con riferimento a questi titoli esecutivi per i quali
la legge esclude l'idoneità alla formazione della cosa giudicata;
per esempio: ordinanze di amento di
somme non contestate, il provvedimento è inidoneo al giudicato
successivamente il processo si estingue e viene promossa esecuzione. A questo
punto il debitore promuove opposizione all'esecuzione, sostenendo di non dovere
alcunché.
Qui non sembra invocabile il disposto
dell'art 161, nella parte in cui consente di far valere i vizi del
provvedimento giurisdizionale solo in sede di impugnazione ordinaria dello
stesso,( posto che si tratta di provvedimento inidoneo al giudicato e per
natura non impugnabile e appositamente concepito come tale) ma per converso,
se noi consentiamo al debitore che
non ha contestato nel processo di cognizione, di promuovere poi la
contestazione di un procedimento esecutivo, allora il creditore lo prendiamo in
giro.
Senz'altro c'è una lacuna nella
legge perché l'applicazione letterale automatica del diritto positivo
porterebbe a questo che è assolutamente inaccettabile.
Il problema ha dimensioni soprattutto
teoriche con riferimento all'ordinanza di amento di somme non contestate
perché molto infrequente per le ragioni che abbiamo detto una volta che la
parte sia costituita contesta tutto e quindi sono rarissime;in realtà
non esistono questi provvedimenti però il problema in realtà si
ripresenta tale e quale con riferimento a qualsiasi altra sorta di
provvedimento sommario di questo tipo, conurato dal legislatore.
Dobbiamo allora immaginare una
clausola .. Cioè che il debitore potrà ripetere la somma data se non vi è formazione del giudicato, ma non
potrà promuovere opposizione all'esecuzione, questa è l'ipotesi
che alcuni hanno prospettato e plausibilmente è forse la soluzione
più appropriata per il caso di ordinanza di amento di somme non
contestate.
E' un po' una forzatura del dettato
normativo imposta da esigenze pratiche quella di non consentire di proporre
l'opposizione all'esecuzione, per arrivarci dobbiamo però consentirgli
l'azione di ripetizione del debito senza potere addebitare per impedire tale
ripetizione al debitore di non avere esperito a suo tempo le relative
contestazioni perché riteniamo che non aveva la possibilità di esperirle
nel contesto del procedimento esecutivo e quindi appunto in forza di queste
contestazioni può esperire l'azione di ripetizione così come
può esperirla la parte che subisca una sentenza di primo grado
sfavorevole, questa parte non può contestare la sussistenza del credito
se non impugnando la sentenza e quindi se nelle more del procedimento di
impugnazione nel cui contesto egli non poteva contestare il credito attraverso
opposizione all'esecuzione, gli viene portato a esecuzione il credito è
incassata la somma, ma successivamente la sentenza viene riformata, ecco che il
debitore può esperire l'azione di ripetizioneconseguire la restituzione di quanto ato
in questo caso. Più delicato è il problema che si pone rispetto
ad altri tipi di provvedimentianticipatori come quello conurato dall'art 19 della riforma del rito
societario.
Qui si prevede una specie di modello
cui il legislatore voleva ispirarsi... cioè si prevede una formazione
anticipata del titolo esecutivo per l'ipotesi in cui il giudice ritenga non
seria la contestazione del convenuto questo provvedimento è uno strano
provvedimento che non ha forma di sentenza però è appellabile, se
viene appellato la pronuncia in grado di appello ha contenuto e forma di
sentenza e inidoneità al giudicato, se invece la parte che lo subisce
non propone appello, il provvedimento ha titolo esecutivo ma non acquista
efficacia di giudicato.
Allora qui per le ragioni dette prima,
non possiamo ammettere opposizione all'esecuzione perché quel provvedimento
è contestabile solo con appello, e vero che non è idoneo al
giudicato, ma anche contestabile solo con appello e quindi non con opposizione
all'esecuzione, da questo punto di vista l'argomentazione è anche
più forte di quella che si ha rispetto alle somme non contestate. Ma qui
possiamo porci un altro problema, cioè in questo caso ammettiamo la
ripetizione dell'indebito, plausibilmente in questo caso dovremmo negarla
cioè dovremmo a spingerci a ritenere che non sia possibile neppure la
restituzione dell'indebito posto che la parte che voglia avvalersi di questa
possibilità dovrebbe anche coltivare le contestazioni all'interno del
procedimento il cui provvedimento si è formato, cioè proporre
appello contro lo stesso.
La irripetibilità delle somme
conseguite in forza del procedimento sommario, può ritenersi compatibile
con la sua inidoneità al giudicato sottolineando che l'idoneità
al giudicato comporta effetti preclusivi vincolanti più intensi,
ovviamente molto più intensi se si adottano le teorie estensive dei
limiti oggettivi del giudicato, ma in realtà anche se non si seguono
queste tesi estreme ..quindi si tende a ritenere che il giudicato si formi
sulla pretesa decisa e sulle questioni decise e non su quelle implicitamente
decise, tuttavia resterebbe per effetto dell'irripetibilità della somma
un vincolo limitato esclusivamente alla debenza della somma stessa anche quando
abbia esplicitamente formato oggetto del processo lo stesso rapporto
fondamentale; sicchè nell'ipotesi in cui si tratti di credito in
più rate e nel contesto di quel procedimento sia stata contestata la
sussistenza dell'obbligazione principale del rapporto fondamentale, con
accoglimento in via sommaria della domanda per il amento della rata, a
questo punto sul amento della rata si formerebbe un picco irreversibile tale
per cui si potrebbe promuovere esecuzione senza facoltà di dedurre
l'insussistenza della obbligazione in sede di opposizione all'esecuzione, non
potrebbe promuoversi azione di ripetizione della somma, tuttavia potrebbe
ancora contestarsi il rapporto fondamentale sotto il profilo della sussistenza
delle altre rate ancorché già dedotto a suo tempo ai fini
dell'ottenimento del provvedimento sommario.
Teniamo presente che ci sono tre
diversi gradini possibili di efficacia vincolante:
1)Giudicato pieno
2)Irripetibilità
3)Inopponibilità cioè
improponibilità intorno al giudicato dell' opposizione all'esecuzione.
Infine quel gradino nullo (che
però dobbiamo immaginare che non esista), che immaginano solo alcuni, ma
che non si può accettare e secondo alcuni si potrebbe addirittura
dedurre con opposizione alla esecuzione quella contestazione che non si
è accolta neppure in sede di processo di cognizione, però questa
è una ipotesi del titolo esecutivo che è così fragile da
poter essere irreversibilmente caducato dall'iniziativa del debitore.
Manca un esplicito disposto
legislativo che autorizzi questa interpretazione.
E' un problema che si sente poco
perché a monte si è costruita una disciplina della ordinanza di
amento di somme non contestate che fa si che queste ordinanze di fatto non
compaiono nella parte processuale.
Se issero allora si dovrebbe
porre quel problema e si dovrebbe arrivare anche a questa soluzione; anche se
in giurisprudenza non c'è.