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Diritto costituzionale - Il procedimento legislativo; la fase dell'iniziativa - I profili procedurali

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Diritto costituzionale



L'ordinamento giuridico


Oggetto specifico del diritto costituzionale e del suo insegnamento è la Costituzione dello Stato. Ragionare del diritto costituzionale italiano presuppone che sia chiaro il concetto di costituzione dal quale si intende procedere. Ora può ben dirsi che, entro la dottrina giuridica italiana formatasi nel secolo attuale, dell'ordinamento giuridico si intende a trattare come equipollente o come sinonimo del diritto nel senso oggettivo.


La pluralità degli ordinamenti giuridici




Nei primi decenni del secolo attuale, le tesi statualistiche erano ancora diffuse, tanto che nello Stato si tendeva volgarmente a ravvisare il "Dio diritto"; mentre, più correttamente, Kelsen postulava "l'identità fra Stato ed ordinamento giuridico", rilevando come lo Stato stesso monopolizzasse "l'uso della forza". Certo anche nella cerchia degli statalisti ci si rendeva ben conto dell'indiscutibile esistenza di sistemi normativi diversi dagli ordinamenti statali: quali, soprattutto, il diritto internazionale e il diritto canonico. Nell'un caso, però, si tendeva a superare l'ostacolo, argomentando che le norme disciplinanti la comunità internazionale fossero emanazione degli Stati e costruendo pertanto il diritto internazionale come una sorta di diritto pubblico esterno; e d'altra parte si dubitava, come ancora si dubita, che in mancanza del necessario momento organizzativo sia dato di concepire il diritto internazionale generale alla stregua di un vero e proprio ordinamento. Ma simili tesi sono ormai superate. Lo Stato è soltanto una "specie del genere diritto". Rappresenta infatti un'evidente petizione di principio voler sostenere che i tre fattori indefettibili degli ordinamenti giuridici, la pluralità dei soggetti, la normazione e l'organizzazione, coincidano necessariamente con gli ordinamenti statali. Con tutto ciò gli ordinamenti giuridici nel senso più proprio del termine sono solo quelli originari, suscettibili di ritrovare in se stessi le ragioni della propria vigenza. Gli ordinamenti derivati non sono altro che parti dello Stato in quanto "istituzione" complessiva; non si devono confondere con gli ordinamenti giuridici in esame quegli ordinamenti interni che disciplinano particolari componenti della pubblica amministrazione.


La relatività dei valori giuridici, cioè la circostanza che una stessa condotta umana può essere diversamente valutata dai diversi ordinamenti che vengano ad interferire l'uno con l'altro.




Lo stato come ordinamento


Occorre adesso stabilire quali siano i caratteri differenziali dello Stato. Fra tutte la caratteristica prima e più comunemente sottolineata risiede senza dubbio nel nesso che collega gli ordinamenti statali moderni ed il territorio sopra il quale insistono gli ordinamenti medesimi. I giuspubblicisti italiani danno per pacifico l'assunto che il territorio rappresenti addirittura un elemento costitutivo dello Stato complessivamente inteso, al pari del popolo e dell'apparato governante. In altri e più correnti termini, quelli statali vanno cioè qualificati come ordinamenti a base territoriale, contraddistinti per definizione dalla loro territorialità, pur senza che il territorio dello Stato debba essere concepito alla medesima stregua del corpo delle persone fisiche. In secondo luogo lo Stato è giuridicamente in grado di darsi carico di qualunque necessità del gruppo umano stanziato nel territorio stesso. Sotto questo aspetto, si suol dire che l'ordinamento statale è caratterizzato dall'universalità dei fini. In terzo luogo, è ricorrente in sede dottrinale l'assunto che gli ordinamenti statali si distinguano per la loro completezza: così differenziandosi dagli ordinamenti specializzati, in antitesi all'indeterminatezza degli scopi che é propria degli Stati moderni. Beninteso ciò non esclude che in concreto ciascun ordinamento giuridico statale possa presentare lacune, nel senso di non dettare alcuna norma specifica per la valutazione di determinati comportamenti o rapporti. Infine tutte queste caratteristiche si riassumono in quelle pertinenti alla sovranità degli Stati. Ma nel più moderno linguaggio giuridico sovrani sono stati definiti, sotto un duplice profilo, gli stessi ordinamenti statali. Effettivamente la sovranità rappresenta una caratteristica complessa, che da una parte consiste nella supremazia dell'ordinamento e dell'apparato statali, rispetto a qualunque altro ordinamento ed apparato coesistenti nel territorio su cui lo Stato è sovrano; e dall'altra parte corrisponde all'indipendenza dello Stato stesso rispetto agli altri stati, vale a dire alla situazione di formale parità che sussiste fra tutti gli ordinamenti statali, entro l'ordinamento della comunità internazionale. Ma tanto la sovranità interna quanto la sovranità esterna costituiscono, appunto, qualità essenziali e del tutto peculiari degli Stati moderni, complessivamente concepiti.


Lo stato come soggetto dell'ordinamento giuridico statale


A partire dalla fase più matura di sviluppo degli stati moderni, entro gli ordinamenti giuridici statali si formano altrettanti enti esponenziali, che assumono anch'essi il nome di Stati: enti variamente individuati mediante le denominazioni di Stato-apparato o Stato-governo o di Stato-soggetto o di Stato-persona.


Nella vecchia dottrina pubblicistica italiana, la contrapposizione fra Stato-ordinamento e Stato-soggetto restava in sostanza ignorata o non veniva intesa nella sua esatta portata. Quella dottrina ravvisava nello Stato un ente collettivo coincidente con la nazione o con il popolo e attribuiva perciò la qualifica di Stato-persona alla stessa "istituzione" o "corporazione" statale. L'odierna concezione duale dello Stato sostiene, viceversa, l'esistenza di due significati irriducibili del termine in questione. Da un lato, cioè, lo Stato in senso largo si presenta come un corpo sociale giuridicamente organizzato; dall'altro lato, lo Stato in senso stretto ha generalmente la veste di una "concreta e limitata persona giuridica". Tuttavia, l'organizzazione dello Stato-ordinamento non si esaurisce nello Stato-soggetto, ma si fonda sopra una serie di altre e ben distinte persone giuridiche pubbliche; ed è a questo insieme, in contrapposizione allo Stato nel senso stretto del termine, che la vigente Costituzione italiana riserva il nome di Repubblica, delineando a tal fine una distinta "ura giuridica soggettiva". La concezione duale dello Stato rappresenta, in effetti, la chiave per intendere tutta una serie di norme o di situazioni giuridiche, le quali rimarrebbero altrimenti prive di senso. Si pensi in primo luogo a quelle disposizioni del Codice civile che regolano il demanio ed il patrimonio dello Stato, evidentemente riguardato come persona giuridica e non come comunità o come "istituzione"complessiva. Si considerino, in secondo luogo, quelle norme costituzionali che estendono od imputano direttamente allo Stato la responsabilità per gli illeciti compiuti o per gli atti illegittimamente adottati dai suoi funzionari, avendo ovviamente di mira l'apparato e non l'ordinamento n base al quale viene definita e sanzionata la responsabilità medesima.


Ciò non toglie che anche lo Stato in quanto persona giuridica spetti normalmente la qualifica di ente sovrano. Lo Stato-soggetto è il più delle volte quello cui competono le decisioni politiche di più alto rilievo:sebbene di fatto, le decisioni stesse siano pesantemente condizionate dalle richieste e dalle proposte dovute ad altre forze sociali organizzate, quali i partiti, i sindacati e via dicendo. Resta il problema del come la sovranità dello Stato-soggetto sia compatibile con i regimi democratici, nei quali la primizia dovrebbe spettare per definizione al popolo, secondo la formula della sovranità popolare. E' stato affermato che in ordinamenti del genere la potestà sovrana competerebbe "in massima parte allo Stato e solo eccezionalmente e limitatamente al popolo, essendo suddivisa fra l'uno e l'altro; ma questa soluzione non ha convinto la prevalente dottrina, dal momento che la sovranità popolare e la democrazia stanno a significare che al popolo spetta, se non altro sul piano concettuale, la sovranità tutta intera. Di qui l'assunto che le due sovranità, qualora si voglia contrapporle, stanno se mai su due piani diversi, nel senso che al popolo resta riservato nei regimi democratici l'esercizio dei poteri "che condizionano la direzione e lo svolgimento degli altri". E di qui, ancora, la più radicale ma coerente opinione per cui lo Stato-apparato di stampo democratico non è che lo strumento della volontà popolare, operante "in nome e per conto del popolo", vale a dire in rappresentanza di esso.


Gli organi dello Stato-soggetto


Di fronte ad uno Stato-soggetto ovvero di uno Stato-persona si ripropone subito il problema, comune a tutte le persone giuridiche, del come essi possano disporre della capacità di agire, cioè di compiere gli atti di esercizio delle loro attribuzioni. Secondo l'impostazione tradizionale del problema, le persone giuridiche difetterebbero di tale attitudine, se questa non fosse loro fornita da persone fisiche o più generalmente da esseri umani, collegati ad esse da particolari rapporti: i quali, a loro volta, sono stati e sono alternativamente costituiti dal rapporto di rappresentanza e dal rapporto organico. Basti qui ricordare che quello di rappresentanza è un rapporto "trilatero", che vede agire un soggetto rappresentato, un soggetto rappresentante ed un soggetto terzo, con la conseguenza che sul rappresentato ricadono solo gli effetti dell'atto compiuto dal rappresentante, stipulando ad esempio un contratto con un terzo; al che si aggiunge che, nel nostro ordinamento, il rappresentato non è vincolato dall'atto del rappresentante altra che "nei limiti delle facoltà conferitegli". Di più: il rapporto organico può bene restare fermo pur quando l'atto in questione sia invalido, giacché lo Stato continua a rispondere di esso nei confronti di terzi.


Negli ultimi decenni viene introdotta l'idea che l'azione degli apparati statali sia resa possibile da apposite entità, aventi il nome di organi. Evidentemente gli organi non possono risolversi negli individui in questione, ma presuppongono apposite strutture delle quali gli individui stessi facciano parte integrante, agli effetti dei rapporti organici. In questo senso riesce indispensabile ricorrere alla nozione di ufficio, inteso non tanto alla stregua di una o più funzioni pubbliche, quanto come articolazione dell'apparato statale cui spetti l'esercizio di un determinato complessi di funzioni. Ed ogni organo implica appunto un ufficio munito del suo titolare, senza di che gli mancherebbe la capacità di porre in essere gli atti da imputare allo Stato. Viceversa non tutti gli uffici statali corrispondono ad altrettanti organi: infatti "sono organi solo quegli uffici che le norme indicano come idonei ad operare l'imputazione giuridica dell'ente". Nello stesso ambito di attività delle strutture comunemente definite quali organi, occorre anzi distinguere fra gli atti da imputare all'intero apparato statale e quelli che i funzionari compiono ai fini dei loro uffici, ma senza che si determini l'imputazione predetta: come si verifica per le interrogazioni e per le interpellanze in seno alle assemblee parlamentari.


Anche in questi termini la tipologia degli organi rimane alquanto varia. Occorre distinguere fra gli organi individuali (come è il Presidente della Repubblica) e gli organi collegiali, nei quali la volontà dell'organo è formata da una serie di individui componenti il collegio (come si verifica per le Camere del Parlamento); ancora, occorre distinguere fra gli organi semplici e gli organi complessi, a formare i quali concorrono organi minori, tanto individuali quanto collegiali (come nel caso del Governo della Repubblica). Giova inoltre notare che certi organi possono essere codipendenti da più persone giuridiche pubbliche: come può dirsi del Sindaco, che per verso è l'organo di vertice dell'amministrazione comunale, per l'altro ha la veste di "ufficiale del Governo".


E' necessario evitare la contraddizione in termini coesistenti dell'identificazione fra organo e Stato-soggetto, in quanto entrambi muniti di una propria personalità. In realtà non è dato parlare di "soggettività" dell'organo, in vista del rapporto organico; piuttosto, si può ragionare di "soggettività" o di legittimazione di determinati uffici, qualora l'ordinamento li consideri come parti di giudizi intesi a definire le rispettive sfere di competenza: nel qual caso però i ricorsi proposti dagli uffici stessi non vanno qualificati come atti direttamente imputabili allo Stato-soggetto.


La costituzione dello Stato


Gli storici di istituzioni politiche insegnano che della Costituzione si è spesso ragionato in una accezione ideale: poiché a questa stregua, si è cercato di mettere in rilievo determinati presupposti o determinati principi ispiratori degli ordinamenti giuridici statali, in difetto dei quali la stessa costituzione sarebbe venuta meno. L'odierna scienza costituzionalistica risulta pressoché concorde, in effetti, nel ritenere che della costituzione si debba trattare in una prospettiva realistica, cioè procedendo da un'accezione giuridico-positiva. Va rilevato inoltre che nello stesso linguaggio giuridico contemporaneo coesistono due ben distinte nozioni di costituzione dello Stato: ossia quella formale, mirante alle Costituzioni scritte o alle sectiune costituzionali; e quella materiale, dalla quale prendono le mosse quanti non si limitano a considerare l'atto normativo od il testo che di Costituzione assume solo il nome, bensì riflettono sui contenuti necessari e tipici delle costituzioni di qualunque Stato.


Un'altra cosa certa è che la materia sulla quale vertono gli studi costituzionalistici non coincide con quella regolata dalla Costituzione, giacché malgrado la molteplicità dei suoi soggetti e dei suoi contenuti normativi, non considera direttamente una serie di tematiche aventi un fondamentale rilievo costituzionalistico.


Inoltre le Costituzioni si dividono in brevi e lunghe. Le Costituzioni brevi, assai più attente alla problematica dell'organizzazione costituzionale dello Stato che al complessivo modo di essere dell'ordinamento giuridico statale: rispetto al quale esse non detenevano neppure una posizione di formale superiorità, dal momento che il più delle volte si trattava di Costituzioni flessibili, parificate alle altre leggi dello Stato, cioè validamente modificabili e derogabili dal legislatore ordinario. Poi ci sono le Costituzioni lunghe, peculiari di quella tendenza più recente che si è sviluppata a partire dalla conclusione della prima guerra mondiale. Si parla anche di Costituzioni rigide, che sono quelle condizionanti la legislazione ordinaria nel quadro delle fonti di produzione del diritto.


Le diverse concezioni della costituzione materiale


Il diritto costituzionale non si rivolge allo studio di un singolo ramo dell'ordinamento stesso, ma concerna il tronco dal quale i vari rami si dipartono: ossia riguardi l'intero diritto positivo, considerato al più alto livello e pertanto formato, in sostanza, dal sistema dei principi generali dell'ordinamento statale del quale si tratti. Ma quali sono gli oggetti specifici del diritto costituzionale? Le definizioni estensive e descrittive lasciano senza risposta interrogativi di pur così grande importanza. Sotto l'apparenza di nobilitare gli insegnamenti costituzionalistici, esse finiscono quindi per svuotarli, risolvendoli in una generica premessa allo studio della scienza giuridica, considerata nelle sue varie partizioni. E' anche per questi motivi che il costituzionalismo contemporaneo propende verso le concezioni prescrittive o normative della costituzione materiale: tutte fondate su quell'accezione ulteriore del termine in esame che per costituzione intende la ragione costitutiva degli ordinamenti giuridici statali, cioè la norma base o la normativa di fondo, alla stregua della quale si debbono formare tutte le altre norme degli ordinamenti stessi. Per Kelsen l'ordinamento giuridico è un sistema di norme gerarchicamente formato, sicché ciascun grado o livello della normazione statale ne risulta subordinato e condizionato rispetto alla normazione di grado superiore; e via discorrendo, sino a quando si perviene alla normativa od alla norma fondamentale che regge l'intero sistema, cioè per l'appunto alla costituzione in senso materiale. Questa consiste "in quelle norme che regolano la creazione delle norme giuridiche generali ed in particolare la creazione delle leggi formali". Questo modo di vedere è assai discusso: perché i contenuti così attribuiti alla norma medesima sono troppo circoscritti, in quanto l'attività dello Stato non è tutta e soltanto normativa, né il potere si risolve sempre ed esclusivamente nella legislazione. Secondo esperienza al contrario la legislazione stessa non è altro che un momento rispetto alla titolarità ed all'esercizio della cosiddetta funzione di indirizzo politico. Con tutto questo, va sottolineato che le due concezioni si integrano vicendevolmente: infatti entrambe le concezioni hanno il merito di individuare i temi peculiari del diritto costituzionale e del suo insegnamento. L'una evidenza la disciplina della forma di stato e della forma di governo, la seconda la disciplina della produzione normativa.


Tipologia delle forme di stato e delle forme di governo


Per meglio inquadrare il sistema di produzione normativa, risulta opportuno stabilire come si sia pervenuti all'attuale ordinamento. Giova anzitutto chiarire cosa si intenda per forme di stato e forme di governo dello Stato. La distinzione fra queste due ure può essere istintivamente colta, già sulla base di quel tradizionale concetto di stato, che lo considera unitariamente come una "corporazione" sovrana, risultante dalla sintesi di tre elementi costitutivi: un popolo, un territorio, un governo. Le forme di stato sono cioè riferibili allo Stato come tutto, avendo riguardo alle formule politiche sulle quali si fondano i nessi fra i diversi fattori dell'ordinamento giuridico. Le forme di governo si limitano invece a considerare lo Stato come parte o come apparato. Tuttavia allo stesso modo che lo Stato-ordinamento e lo Stato-apparato si sorreggono e si presuppongono a vicenda, forme di Stato e forme di governo dello Stato interferiscono strettissimamente le une con le altre.


Di per sé ad esempio la monarchia assoluta rappresenta quella forma di governo nella quale al monarca compete, la totalità dei poteri dello Stato. Ma questo sistema non può non riflettersi sulla condizione dei soggetti governati, che in tal senso si risolvono in sudditi del Re; per converso si può ben ritenere che quando si parla di Stato federale si abbia di mira una forma o un modo di essere dello Stato complessivo. Ma nel medesimo tempo non è dubbio che lo Stato federale comporta, altresì, un certo modo di distribuzione del potere fra i diversi apparati dello Stato centrale e degli Stati membri; e la stessa forma dello Stato centrale ne è condizionata, come risulta dalla circostanza che in quelle organizzazioni statali sussistono un Parlamento bicamerale, l'una delle camere essendo rappresentativa dei singoli Stati ed una Corte costituzionale, competente a risolvere le controversie fra i poteri nazionali e quelli locali. D'altronde è molto frequente ricordare che il linguaggio dottrinale si serve ambiguamente delle stesse espressioni per designare ora una forma di Stato ora una forma di governo di Stato. Tale, tipicamente, è il caso di termini quali monarchia e repubblica, che in sé e per sé alludono a due contrapposti criteri di investitura del Capo dello Stato e dunque due diversi modi di essere forme di governo; mentre la loro portata diviene assai più ampia quando i termini stessi vengono integrati da certi aggettivi, come nell'Art.1 della Carta costituzionale "l'Italia è una Repubblica democratica". Si deve inoltre aggiungere che il discorso sulle forme di governo e sulle forme di Stato può trascorrere su piani diversi: ci sono infatti le forme ideali, dove i modelli che si desumono sono presi astraendo dalle specifiche esperienze dei singoli ordinamenti statali, ed altro sono le forme reali, che per definizione esistono solo hic et nunc, nell'ambito di una determinata fase di sviluppo di un determinato Stato. Inoltre bisogna dire che storicamente non sono mai esistite né le dittature né le monarchie assolute allo stato puro, in quanto non è materialmente possibile che la totalità del potere statale si concentri in effetti nella mani di un unico uomo.


Le origini e i presupposti essenziali dello Stato moderno


Tanto le organizzazioni politiche territoriali del mondo medioevale quanto quelle risalenti al mondo antico mancavano di quegli indispensabili contrassegni ulteriori degli Stati moderni, cui si accenna in sintesi allorché si parla di sovranità degli Stati medesimi. Nell'evo antico, pur dandosi il caso di ordinamenti giuridici, difetta per definizione la sovranità esterna, giacché gli occasionali rapporti fra i centri di potere di quell'epoca non pervengono mai a fondare una vera e propria comunità di Stati; anzi non si conurano come relazioni fra soggetti che riconoscono una reciproca formale parità. Certo è che fin dal 1100 incomincia a svilupparsi un'organizzazione burocratica posta alle dipendenze della Corona, che è il lontano prodromo del moderno apparato statale. Così nel regno di Francia come in quello di Pastiglia e prima ancora nel Regno normanno di Sicilia, emerge poco a poco quel minimo di uffici differenziati e funzionalizzati, mediante i quali il re acquisisce in effetti l'attitudine a governare direttamente sulla generalità dei suoi sudditi. In particolare si delineano complessi di organi finanziari e giudiziari; anche se più propriamente si dovrebbe limitarsi a parlare di funzionari addetti all'amministrazione delle finanze o della giustizia, dal momento che la ura giuridica dell'organo è naturalmente coeva allo Stato-persona. Storicamente per essere più precisi, i funzionari delle finanze si identificano dapprima con gli amministratori del patrimonio regio, ma progressivamente divengono anche gli esattori delle tasse. D'altro lato anche la funzione giudiziaria si viene accentrando nelle mani del re: così in Francia contro le decisioni adottate in prima istanza dai feudatari locali è dato ricorso in appello ad un collegio, denominato alta corte, che ha sede nella capitale; mentre in Inghilterra giudici itineranti di nomina regia decidono già le controversie in primo grado. Nel medesimo tempo il re comincia a porsi come la fonte indiretta dell'ordinamento giuridico; pur non legiferando alla maniera dei contemporanei organi legislativi la Corona si sforza in effetti di fissare gli usi e le consuetudini che la giurisprudenza dei giudici regi accerta. Parallelamente si rafforza il potere esecutivo, giacché nella sua corte il re si circonda di ministri o cancellieri. Con tutto questo, però. Non è ancora possibile qualificare come Stati nemmeno i più evoluti fra gli ordinamenti territoriali del basso medioevo.


In definitiva soltanto a cavallo fra il XVI e il XVII secolo può dirsi formato, nell'europa occidentale e in parte dell'europa centrale, quello Stato c.d. patrimoniale che rappresenta l'embrione dello Stato moderno: in Italia per opera del Macchiavelli, che fra i primi si riferisce allo Stato non già come status bensì nell'ulteriore odierno significato di ordinamento giuridico territoriale e sovrano. Così pure in questo periodo che per la prima volta si teorizza lo stesso concetto di sovranità, intesa come somma indivisibile di poteri supremi.


Le principali forme di Stato: dallo Stato patrimoniale allo Stato di polizia


Analizzeremo ora il periodo che va dal XVI al XVIII secolo, sino alla rivoluzione francese. Nel primo intervallo di tempo si manifesta il modello della monarchia assoluta. Per quanto si cerchi di distinguere i primitivi Stati patrimoniali dai più perfezionati Stati di polizia, il divario intercorrente fra essi sarebbe solamente di ordine quantitativo: lo Stato di polizia non rappresentando altro che la fase illuministica (o razionalizzata) dello sviluppo della monarchia assoluta, mentre lo Stato patrimoniale ne rappresenterebbe la fase empirica. Nello Stato patrimoniale traspaiono ancora concezioni e s'impongono ancora normative di stampo privatistico, giacché non sussiste la differenziazione, fondamentale nelle forme più evolute dello Stato moderno, fra diritto privato e diritto pubblico. In particolare non esiste un diritto amministrativo e lo stesso stato è considerato patrimonio del re. In questa luce, il territorio appartiene al monarca. Anche le relazioni che passano fra il re ed i sudditi stessi riflettono la mentalità medievale: re e sudditi si ritengono infatti legati da un vincolo contrattuale, ora formalizzato, come nel caso del patto costituito dalla Magna Charta, ed ora tacito o implicito. Ed analogamente i soggetti che esercitano le funzioni esecutive e giudiziarie non sono funzionari dello Stato ma del re. Nel corso dello stesso XVII secolo e con maggiore evidenza nel 1700, almeno quattro grandi Stati europei (Francia, Sna, Austria e Prussica) ed altri stati minori (come in Italia il Regno di Sardegna e quello di Napoli) si trasformano per altro in Stati di polizia. Ma l'espressione polizia non deve trarre in inganno, poiché in questo contesto essa non riguarda la pura e semplice tutela dell'ordine pubblico, bensì coincide assai più largamente con il termine politica; ed in ultima analisi significa attività di governo, libera nella scelta dei fini oltre che dei mezzi. Ben prima e comunque indipendentemente dalla codificazione, in tutti gli Stati di polizia si registra però una grandiosa espansione dell'intervento statale. Non a caso, gli studiosi di quel tempo ritenevano che la polizia si estendesse sui seguenti oggetti: la religione, la disciplina dei costumi, la sanità, l'alimentazione, la sicurezza e la tranquillità pubblica, la viabilità e gli altri lavori di interesse pubblico, le scienze e le arti, il commercio, le manifatture e le industri in genere . oltre all'ordinamento di tutte le forme di lavoro dipendente. Negli Stati più piccoli tali concezioni fanno sì che il sovrano si spinga fino al punto d'intromettersi personalmente negli aspetti più privati della vita dei suoi sottoposti, quali i rapporti famigliari e la moralità dei comportamenti; tanto che gli stati di polizia possono ben considerarsi come prototipi degli Stati totalitari, in quanto rivolti ad organizzare l'intera vita di coloro che vivono nel loro territorio. Mentre gli Stati patrimoniali si limitavano a curare l'esercizio di compiti essenziali, quali l'amministrazione della giustizia e la difesa dalle aggressioni esterne, questi nuovi ordinamenti danno luogo ad un articolatissimo diritto pubblico dell'economia: sia nel senso di regolare gli scambi interni ed internazionali, sia nel senso di costituire in via diretta vere e proprie manifatture pubbliche. A questa dilatazione dei compiti statali fa necessario riscontro un accrescimento senza precedenti della burocrazia. Ed all'interno dell'apparato burocratico centrale comincia a prospettarsi una precisa suddivisione secondo competenze, che rappresenta già il primo abbozzo dei ministeri del XIX e XX secolo. Di qui si desume che lo Stato di polizia si presenta con proprie caratteristiche concettuali, rispetto alla ura dello Stato patrimoniale: distinguendosi dal suo precedente immediato sia per la completezza dell'ordinamento, sia per le finalità generali, comprovate dall'ampiezza dei settori e dalla varietà delle forme di intervento pubblico, sia per la conseguente articolazione dell'apparato burocratico. Il più netto motivo di differenziazione consiste nella personalizzazione di questo apparato, che si concretizza nello Stato-soggetto. Nella sua prima fase di sviluppo lo Stato come persona giuridica a sé stante si risolve nel fisco, vale a dire nel patrimonio statale, tramite il quale lo Stato medesimo può far fronte alle proprie obbligazioni. Diretta conseguenza di questo tipo di fenomeni è l'istituzione dei primi tribunali camerali, per mezzo dei quali ai sudditi si apre la via dei ricorsi giurisdizionali per ottenere il risarcimento del danno subito allorché l'amministrazione statale li abbia lesi in un loro diritto. Si manifesta in tal modo il fondamentale principio della legalità dell'amministrazione stessa, che non è più completamente libera bensì vincolata al rispetto di determinate forme ed al perseguimento di determinati scopi, prestabiliti attraverso le leggi. Non bisogna tuttavia esagerare l'importanza delle garanzie fornite ai sudditi, mediante i ricorsi contro gli atti amministrativi illegittimi. Non bisogna esagerare l'importanza delle garanzie fornite ai sudditi, mediante i ricorsi contro gli atti amministrativi illegittimi: infatti i provvedimenti contro i quali vien dato ricorso consistono unicamente negli "atti di gestione" e non negli "atti d'imperio": il che sta a significare che soltanto l'amministrazione di diritto comune è sindacabile dal giudice amministrativo, in antitesi a quella ispirata dalla ragion di Stato. In secondo luogo, la garanzia della legalità dell'azione giurisdizionale finisce per essere eminentemente relativa: dato che pienamente soggetti alle leggi sono solo i livelli gerarchicamente inferiori della pubblica amministrazione. In terzo luogo l'istituzione di tribunali amministrativi non si verifica in tutti gli Stati dell'epoca. Negli Stati di polizia del XVIII secolo non mancavano, in effetti, zone di libertà delle più varie specie, rappresentate da privilegi di questo o di quel ceto, da immunità e da franchigie personali e territoriali. Ma in linea di massima tutte queste situazioni dipendevano dal beneplacito regio; ed in linea di fatto esse smentivano che di fronte al re tutti i sudditi fossero egualmente indifesi.



L'avvento dello Stato di diritto


Kelsen ha sostenuto che Stati di diritto sarebbero gli Stati comunque sottoposti al proprio ordinamento giuridico. Sotto un primo profilo, in contrasto con la preesistente confusione di tutti i poteri nella persona del re, la forma in esame comporta una netta divisione dei poteri: il che non si risolve nella distinzione delle competenze o nella ripartizione delle mansioni fra i diversi organi, ma postula che alle tre fondamentali funzioni di stato - legislazione, amministrazione e giurisdizione - corrisponda una parallela suddivisione dell'apparato statale, sicché al Parlamento compete il potere legislativo, al Capo dello Stato o al Governo il potere esecutivo, alla magistratura quello giudiziario. Sotto il secondo profilo, anche il principio di legalità dell'amministrazione acquista pertanto una base più sicura ed assume significati ulteriori. Di pari passo, una volta distaccata la fonte soggettiva della legislazione degli organi che emanano i conseguenti atti amministrativi, diviene effettivo lo spazio nel quale la giustizia amministrativa può imporre il rispetto delle leggi da parte dell'esecutivo. E si consolidano allora le stesse libertà individuali che la Costituzione o le leggi proclamano.


Tutti i caratteri sopra elencati confluiscono nel principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Nello Stato di diritto le leggi stesse non producono più privilegi: in questo senso l'eguaglianza viene a costituire il perno dell'intera forma in considerazione. Nello Stato di diritto in altre parole lo Stato in questione si limita a fungere da "gendarme", prestabilendo una cornice giuridica entro la quale i singoli operatori siano liberi di agire, nel perseguimento dei loro personali interessi. In particolar modo dopo la soppressione degli apparati corporativi risalenti al medioevo viene impedita o ostacolata la costituzione di leghe sindacali, che avrebbe anch'essa l'effetto di alterare il libero incontro della domanda e dell'offerta sul mercato del lavoro nei confronti dei lavoratori e, più generalmente, i possidenti rispetto agli indigenti. Lo Stato ottocentesco di diritto dunque rappresenta l'esempio perfetto di un ordinamento liberale ma non democratico: che sulla carta assicura a tutti i cittadini eguali diritti civili, ma circoscrive invece la titolarità dei diritti politici.


Dagli Stati liberali agli Stati democratici; lo Stato sociale di diritto


Il superamento delle contraddizioni insite nei primitivi stati di diritto comincia ad attuarsi tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo, con l'estensione del diritto di voto a tutti i cittadini che raggiungono la maggiore età. Il suffragio universale viene stabilmente introdotto dapprima a vantaggio dei soli abitanti delle città, quindi per le stesse popolazioni delle camne. Dal punto di vista dei suoi contenuti lo Stato di diritto diviene pertanto uno Stato sociale, che mira a realizzare un'effettiva eguaglianza di tutti i cittadini, operando se non altro nelle tre direzioni seguenti: primo nel senso di distinguere dal comune diritto dei privati il diritto del lavoro. Secondo, nel senso d'istituire forme generalizzate di previdenza e di assistenza destinate a favore di intere categorie assistibili, senza riguardo alle loro condizioni soggettive: terzo nel senso di individuare il diritto dell'economia pubblica avente per oggetto gli interventi diretti delle pubbliche amministrazioni nel campo economico. In antitesi alla dottrine liberistiche, si prende in effetti coscienza che lo Stato non può fungere da semplice spettatore dei rapporti economici, dovendo invece attivarsi per assicurare una maggiore giustizia sociale; così si giustifica non solo una vasta attività statale rivolta a controllare e indirizzare le attività degli operatori privati, ma la stessa nazionalizzazione delle imprese e dei servizi considerati di preminente interesse pubblico. Tuttavia questo moltiplicarsi degli interventi statali non può non implicare contraccolpi assai notevoli, sia nelle forme di governo sia nelle complessive forme di Stato. Tanto gli Stati di tipo nazional-fascista quanto gli Stati socialisti o comunisti si contraddistinguono anzitutto per la soppressione o la deformazione delle libertà individuali: che in alcuni casi (come nel III Reich germanico) non hanno più nessuna garanzia di ordine costituzionale, in altri (come nella Russia sovietica) sono trasformante in situazioni soggettive c.d. funzionali, cioè suscettibili di venir fatte valere nel solo interesse collettivo, interpretato autoritariamente dagli organo di governo del Paese. Ma parallelamente la divisione dei poteri cede necessariamente il passo alla confusione o alla concentrazione di tutte le funzioni statali. Tutti questi Stati si pongono come ordinamenti ed organizzazione di tipo totalitario, miranti a guidare tutte le azioni e le opinioni dei loro cittadini secondo comuni indirizzi.Meno semplice è invece il problema se negli ordinamenti ridivenuti o rimasti di stampo liberal-democratico la forma dello Stato di diritto sia sopravvissuta od abbia finito qui pure per estinguersi, danno luogo alla forma degli Stati sociali. Chi i presupposti politici dell'azione degli Stati stessi non siano più quelli del secolo scorso, può considerarsi del tutto pacifico. Ma molti studiosi ritengono che assieme ai presupposti, anche le più caratteristiche fra le garanzie insiste nel Rechtsstaat siano state messe irrimediabilmente fuori gioco, perché incompatibili con i nuovi compiti statali. In uno Stato che interviene di continuo nel tessuto dei rapporti economico-sociali, è infatti inevitabile che gli atti legislativi si amministravizzino, risolvendosi in leggi-provvedimento del caso concreto anziché in leggi norma generali ed astratte; mentre l'amministrazione si trasferisce a sua volta dal campo del diritto pubblico tradizionalmente inteso nel campo delle attività imprenditoriali, naturalmente soggette al diritto privato. Non è facile stabilire fino a che punto simili siano accettabili: anche perché su questo punto si riscontra un nettissimo divario fra quanto appare dalla lettura della sectiune costituzionali e quanto si desume da un più realistico esame degli ordinamenti rispettivi. Stando alle sectiune costituzionali più recenti, si potrebbe trarne addirittura l'impressione che le strutture dello Stato di diritto abbiano subito un rafforzamento od un perfezionamento. Sicché, se l'indagine potesse arrestarsi a questo punto, se ne dovrebbe desumere che la forma dello Stato italiano non è affatto mutata, salva la parentesi del ventennio fascista: semplicemente, dallo Stato liberale ottocentesco si sarebbe passati ad uno Stato sociale di diritto. Se tuttavia, si confrontano i modelli delineati dalle sectiune costituzionali con le realtà sottostanti, si dimostra che non sono completamente infondate le tesi di quanti considerano concluso il ciclo dello Stato di diritto. In primo, cioè, non è dubbio che i Parlamenti non operino più secondo gli schemi del Rechstssaat, in quanto essi approvano ben poche "grandi leggi", deliberando piuttosto una massa di misure legislative o di "leggine". In secondo luogo, questa stessa azione può comportare che i settori realmente riservati agli operatori economici privati si restringano progressivamente e per converso si allarghino le responsabilità imprenditoriali delle pubbliche amministrazioni. In terzo luogo, l'alterazione dei ruoli tradizionali dei pubblici poteri sta ripercotendosi finanche sulla magistratura, che per un verso tende a sostituirsi ad altri organi statali, per l'altro è privata degli indispensabili punti di riferimento.


Stati unitari e Stati federali


In antitesi agli Stati unitari, che si risolverebbero interamente nella sintesi dei tre noti elementi costitutivi (dal momento che sul popolo e sul territorio si organizzerebbe un unico governo sovrano), si sono infatti conurati gli Stati composti, concepiti come risultanti di quattro elementi (dal momento che al governo centrale si contrapporrebbero vari governi locali, ciascuno dei quali avrebbe titolo per considerarsi statale).


Più precisamente, fino a qualche tempo fa si riteneva che la categoria degli Stati composti dovesse venire bipartita fra quelli a fondamento paritario e quelli "diseguali"; e mentre fra i primi s'inserivano gli Stati federali, nei quali tutti gli Stati membri vengono dotati delle stesse competenze, fra i secondi s'inquadravano quegli ordinamenti in cui un singolo Stato apparisse provvisto di una qualche supremazia nei confronti delle altre componenti dello Stato complessivo. [Di quest'ultimo tipo si credeva che fossero certi rapporti istituzionali riscontrabili fra uno Stato dominante ed altri Stati vassalli, tenuti a versargli tributi ed a concorrere nella difesa comune (come nel caso dell'impero ottomano, dove la Turchia deteneva una posizione preminente rispetto all'Egitto o alla Libia)].


Gli Stati federali hanno avuto grande diffusione nell'età contemporanea: la circostanza che le stesse Costituzioni di questi Paesi considerino federali i rispettivi ordinamenti, definendo i governi locali come Stati membri, non basta per altro a risolvere il problema. Permane infatti la necessità di fondo, consistente nel concepire un complesso di Stati, associati non già da una mera alleanza o da una confederazione (che per definizione non dà vita ad una autorità statale superiore), bensì da un comune ordinamento caratterizzato dall'emergere di uno Stato centrale, titolare a sua volta di poteri sovrani. La tesi più accreditata definisce lo Stato federali come uno Stato di Stati.


Più pertinente è l'argomentazione di quanti contrappongono i poteri sovrani rispettivamente riservati ai governi centrali ed a quelli locali: sostenendo che i primi sarebbero dotati della sovranità c.d. esterna, dal momento che il potere di stipulare trattati è comunemente riservato allo Stato centrale; mentre i secondi manterrebbero la sovranità c.d. interna, vale a dire la supremazia nel proprio ambito spaziale e personale. Sicuramente fondata sotto il primo aspetto, la contrapposizione non è tuttavia sostenibile dall'altro dei due punti di vista, poiché non si può dubitare che anche all'interno lo Stato centrale eserciti funzioni legislative, amministrative e giurisdizionali del più grande rilievo: così da stabilire un diretto rapporto con i sottoposti e da far prevalere le sue scelte sulle concorrenti decisioni degli Stati membri. Nell'impossibilità di affermare la sovranità degli Stati membri, in concomitanza con quella dello Stato centrale, che sovrano sarebbe unicamente l'ordinamento federale complessivo, da cui deriverebbero tanto gli ordinamenti e gli apparati locali quanto il cosiddetto Stato centrale. In breve, perciò, risulta assai difficile tracciare un taglio netto fra i molti Stati che si autodefiniscono federali e gli ordinamenti statali che invece si considerano unitari. Ma ciò comporta la necessità di concepire lo Stato federale come un sottotipo dello Stato unitario, riconoscendo che la sovranità spetta per definizione allo Stato centrale. E' questa, in effetti, la tesi condivisa dalla maggior parte degli attuali costituzionalisti italiani. Lo Stato federale non rappresenta dunque una distinta forma di Stato, ma si risolve piuttosto in una formula atta a designare gli ordinamenti statali che attuano al loro interno il più alto grado di decentramento compatibile con la loro unità.


Le forme di governo: forme monarchiche e forme repubblicane; forme pure e forme miste


L'analisi delle forme di governo concerne specificamente lo Stato-soggetto, in quanto considera l'esercizio della funzione di indirizzo politico da parte degli organi dell'apparato statale. In altre parole, si tratta di un'indagine avente per oggetto il sistema dei rapporti intercorrenti fra i cosiddetti organi costituzionali. Le forme di governo sono individuabili e definibili o come modelli, o come sistemi conurati dalle sectiune costituzionali e dagli altri testi legislativi di determinati ordinamenti, oppure riguardati sulla base dei rapporti effettivi fra coloro che hanno potere negli Stati, in vista del reale funzionamento di regimi talvolta assai diversi da quelli costituzionalmente previsti. Nella modellistica delle forme di governo, la più ovvia distinzione fra di esse è quella che le suddivide in forme monarchiche e forme repubblicane. Sebbene monarchia e repubblica non costituiscano forme per sé stanti, esse rappresentano in effetti due modi di atteggiarsi che qualunque regime politico deve alternativamente assumere. Così si danno ancora oggi monarchie elettive, sul tipo di quella che regge la Santa Sede; cui corrispondono repubbliche autoritarie, nelle quali il Capo di Stato s'è impadronito del suo ufficio con la forza, senza vincere alcuna elezione. Nella teoria generale del diritto pubblico non si può dire dunque che monarchia e repubblica risultino concettualmente identificate e separate con nettezza. Piuttosto, è all'interno dei singoli ordinamenti che si considerano monarchici o repubblicani, che va ricercata l'esatta consistenza dell'uno o dell'altro di questi due attributi. Ben più precisa si presenta invece la contrapposizione fra le forme pure e le forme miste di governo. Qualche autore, dopo aver premesso che nelle forme pure il potere è concentrato tutto in un unico soggetto o complesso omogeneo di soggetti, conclude che i tipi in questione si ridurrebbero a due solamente: la monarchia assoluta e la democrazia popolare diretta. Ora se si riflette che l'apparato statale svolge quanto meno tre funzioni essenziali - la legislativa,l'esecutiva e la giurisdizionale - ne segue che sono ipotizzabili almeno tre diverse forme pure: quella del legislativo, che suole venire denominata governo di assemblea, quella dell'esecutivo, che si sdoppia nei sottotipi della monarchia assoluta e della dittatura, e quella del giudiziario, che si risolve se non altro sulla carta del cosiddetto governo dei giudici. In ultima analisi dunque le sole forme pure che abbiano avuto o abbiano notevole importanza sono la monarchia assoluta e la corrispondente forma repubblicana della dittatura. Ma si è già notato che la "purezza" dei tipi in questione è molto più apparente che reale. D'altra parte le monarchie assolute hanno costituito forme di governo molto stabili, ma si sono oramai quasi estinte (salvo qualche ordinamento extra europeo come l'Arabia saudita); mentre le dittature sono più che mai attuali, ma per forza di cose portate a convertirsi in forme miste, sia pure a carattere oligarchico anziché democratico.


Le singole forme di Stato miste: le monarchie costituzionali; le repubbliche presidenziali e semipresidenziali; i governi dittatoriali


Le forme di cui conviene occuparsi, secondo un ordine crescente di complessità, sono fondamentalmente di quattro tipi: la monarchia costituzionale cui corrisponde la repubblica presidenziale; la cosiddetta repubblica semipresidenziale; il governo direttoriale, che ricade per la sua stessa natura fra le forme repubblicane; la monarchia e la repubblica.


a)    Fra tutte, la forma più antica e meno attuale è rappresentata dalla monarchia costituzionale, cioè da quel regime in cui si contrappongono due organi essenziali, il Re e il Parlamento.


b) Nella repubblica presidenziale, tipica del nostro tempo ma già modellata dalla Costituzione nordamericana del 1787, si ritrovano similmente due soli organi costituzionali indefettibili: vale a dire l'assemblea o l'insieme delle assemblee elettive cui spetta la legislazione, ed il Presidente della Repubblica, che funge allo stesso tempo da Capo dello Stato e da vertice dell'esecutivo.


c) Le difficoltà della forma repubblicana presidenziale, particolarmente accentuate nell'America Latina, hanno fatto si che in molti ordinamenti siano stati conurati sistemi diversi e più complessi, a cavallo fra il presidenzialismo ed il parlamentarismo: donde le cosiddette Repubbliche semipresidenziali, il cui modello è rappresentato dalla quinta Repubblica Francese, instauratasi nel 1958.


d)    Di gran lunga meno diffuso è il governo direttoriale, così denominato in considerazione di quel "direttorio" che resse la Francia per alcuni anni, sulla base della Costituzione del 1795.


Le monarchie e le repubbliche parlamentari


Il connotato indefettibile dei governi parlamentari, tale che basta a distinguerli da tutte le altre forme sin qui considerate, è costituito dal rapporto di fiducia che deve sussistere permanentemente tra il Parlamento e il Governo: al raccordo dei quali è riservata la formulazione e l'attuazione della politica generale del Paese. Se il rapporto si spezza durante la legislatura occorre che il governo in carica dia le dimissioni. Ed è qui che si rende necessaria la presenza di un terzo organo chiave del sistema vale a dire del Capo dello Stato. Ma l'azione del Capo dello Stato rimane indispensabile, stando almeno al modello di cui si discute, per superare le crisi dei sistemi stessi: sia nominando un governo che prenda le veci di quello dimissionario, sia ricorrendo al rimedio ultimi dello scioglimento del ramo o dei rami elettivi del Parlamento. In verità è sostenuto che i governi parlamentari potrebbero fare a meno del Capo dello Stato, conurandosi anch'essi quali forme a due piuttosto che a tre organi essenziali; essendo sufficiente che il governo rappresenti l'emanazione permanente del Parlamento. Ed è solo il Capo dello Stato, mediante i suoi tipici poteri di nomina del governo e di scioglimento delle Camere che assicura al sistema la peculiare capacità di rimettersi in funzione con le proprie forze, quand' anche insorgano le più gravi crisi interne. Si aggiunga che il carattere ternario e non binario dei governi parlamentari è per prima cosa confermato dalla circostanza che tutti e tre gli organi essenziali tecipano alla funzione legislativa: il Governo quale promotore dei più importanti disegni di legge, il Parlamento quale organo deliberante, il Capo dello Stato in sede di promulgazione delle leggi. Inoltre i tre organi in questione concorrano tutti nel formarsi e nel sostituirsi a vicenda, alla scadenza dei rispettivi mandati ed ogniqualvolta la permanenza in carica dei loro titolari renda impossibile il buon funzionamento dell'intero congegno. Sotto quest'ultimo aspetto la repubblica parlamentare si presenta come una forma più perfetta e razionalizzata della corrispondente monarchia: poiché nelle forme monarchiche il titolare dell'organo Capo dello Stato non può essere rimosso dalla carica, a meno di una suo volontaria abdicazione.


Una prima fondamentale suddivisione dev'essere appunto operata sul piano cronologico, poiché le monarchie parlamentari ottocentesche si atteggiano in modi abbastanza diversi da quelli che caratterizzano il parlamentarismo attuale, sia esso monarchico o repubblicano. Nel secolo scorso in effetti il Re continuava ad avere anche in sede politica una notevole influenza personale, sia pure indiretta, che gli derivava dal recente passato delle monarchie assolute. D'altro canto, nel secolo scorso il regime parlamentare può considerarsi tale nel senso più letterale dell'espressione: giacché il Parlamento costituisce per eccellenza la sede delle decisioni politiche, mentre il Governo assume la veste dell'interprete e dell'esecutore dell'indirizzo di maggioranza elaborato dalle Camere. Nel '900, al contrario, i residui dualistici sono nettamente superati. Nella generalità delle monarchie parlamentari, infatti, la Corona non ha più che un prestigio esteriore. In pari tempo, sia nelle repubbliche che nelle monarchie di questa specie, si è manifestata la tendenza a fare del Governo il vero titolare della funzione di indirizzo politico: dal momento che non si tratta più di un comitato esecutivo, bensì di un comitato direttivo dell'attività delle camere. Occorre subito aggiungere che il nuovo e più importante ruolo del Governo dipende a sua volta dal peso decisivo che hanno assunto i partiti. E la posizione dominante delle forze politiche si è resa tanto evidente da indurre i vari autori a concludere che la forma parlamentare di governo avrebbe in effetti cessato di esistere, dando luogo ad un governo di partiti. Applicazioni esemplari del bipartitismo rigido si hanno da vari decennio in Inghilterra, per cui due soli partiti si dividono quasi tutto il consenso degli elettori (anche se i conservatori hanno oggi per antagonisti principali i laburisti anziché i liberali). Con queste premesse è quasi inevitabile che uno dei due partiti più importanti ottenga la maggioranza in Parlamento; ed è al suo "leader" che il Capo dello Stato conferisce la nomina a Primo Ministro, dando così vita ad un Governo tanto più stabile in quanto in Inghilterra è tradizionalmente molto forte la disciplina interna sia dei partiti sia dei relativi gruppi parlamentari.


Anche nei sistemi contraddistinti da n multipartitismo temperato si danno per definizione congegni che sono atti ad evitare un'eccessiva frammentazione politica del corpo elettorale, restringendo e rendendo per quanto possibile omogeneo il novero delle forze rappresentate in Parlamento.


Il problema della forma statuaria di governo


Lo Stato albertino presentava due caratteristiche essenziali. Si trattava di una Carta costituzionale ottriata, i quanto concessa per sovrana volontà del Re, malgrado in quelle circostanze il gesto di Carlo Alberto sia stato pressoché necessitato. Nel preambolo stesso, lo Statuto veniva espressamente definito come "Legge fondamentale, perpetua ed irrevocabile della Monarchia"; e questa dizione fece in un primo tempo dubitare che le disposizioni statuarie fossero legittimamente rivedibili oppure derogabili. Comunque si era di fronte ad una costituzione flessibile, ossia modificabile in ogni sua parte per mezzo di leggi ordinarie.


L'Art. 3 prevedeva che il potere legislativo fosse esercitato collettivamente dal Re e da un Parlamento composto di due camere, fra le quali il senato era di nomina regia; sebbene alla camere spettasse predisporre il contenuto delle leggi che il re si limitava a sanzionare, senza potervi apportare modifiche ma disponendo della sola facoltà di rifiutarne in blocco la promulgazione. "Al re solo appartiene il potere esecutivo. Egli è il Capo supremo dello Stato; comanda tutte le forze di terra e di mare; dichiara guerra, fa trattati di pace, d'alleanza, di commercio ed altri, dandone notizia alle Camere tosto che l'interesse e la sicurezza dello Stato lo permettano, ed unendovi le comunicazioni opportune . .". In questo quadro assumevano una particolare importanza gli articolo 65 e 67 dai quali si potrebbe evincere che gli autori della Carta costituzionale avessero di mira una forma di governo a due, incentrata sul Re e sul Parlamento, senza un governo come organo costituzionale intermedio. Da un lato cioè, riusciva naturale pensare che i ministri rispondessero del loro operato verso il Re. D'altro lato tale responsabilità si prestava a venir conurata anche nei confronti della Nazione e dei suoi rappresentanti. Vero è che l'istituto della controfirma ministeriale può avere una sua ragion d'essere anche in un regime di monarchia costituzionale: nell'ambito del quale esso serve ad attestare che l'atto controfirmato proviene legittimamente dal Re e che il ministro si impegna a farlo eseguire dall'apparato statale sottostante; sicché il controfirmante copre solo formalmente la responsabilità politica del re nei confronti delle Camere e della Nazione. Ma l'art. 67 non escludeva a priori una diretta responsabilità dei ministri verso il Parlamento, tale che fra gli stessi dovesse intercorrere una relazione fiduciaria; e questo per l'appunto fu l'appiglio formale per giustificare l'instaurazione di una monarchia tendenzialmente parlamentari. Tuttavia non si deve immaginare la trasformazione della progettata monarchia costituzionale in un regime parlamentare sia stata immediata e repentina. Contestualmente per altro si compiono vari atti e si verificano vari fenomeni caratteristici di un regime monarchico costituzionale. In sostanza le interferenze regie nel rapporto fra il Governo e la maggioranza della Camere cessarono soltanto con la proclamazione di Roma a capitale d'Italia; sicché il regime parlamentare poteva dirsi del tutto affermato negli ultimi anni del regno di Vittorio Emanuele II, per poi consolidarsi sotto il regno di Umberto I. Ma già nel decennio 1860-70 s'era venuto conurando come un organo a sé stante il Presidente del Consiglio dei ministri, dotato di specifiche funzioni nell'ambito dell'esecutivo.


Le vicende e la crisi parlamentare in Italia


Il regno d'Italia non rappresenta, giuridicamente, uno Stato nuovo rispetto al precedente; ma va considerato come una continuazione del Regno di Sardegna, estesosi per via di successive annessioni. Contro questa tesi, dominante nella letteratura giuridica, si è cercato a suo tempo di affermare che il Regno d'Italia sarebbe in realtà derivato da una serie di fusioni operatesi fra il Regno di Sardegna e gli altri staterelli in cui si divideva il nostro Paese; alle quali questi ordinamenti avrebbero concorso mediante i plebisciti.


Nel sistema però i plebisciti non costituivano altro che un'apparente ed effimera nota di democraticità: poiché la forma di Stato continuò per alcuni decenni a risolversi, in effetti, entro quel ricordato modello dello Stato liberale di diritto, che da una parte assicurava a tutti i cittadini la titolarità della fondamentali libertà civili, ma dalla parte opposta limitava la spettanza dei diritti politici.


E' proprio dell'età giolittiana lo sforzo di attribuire allo stato responsabilità dirette nel campo dei rapporti economici e sociali: da una disciplina apposita in tema di diritto del lavoro e della previdenza sociale, all'assunzione di compiti imprenditoriali da parte della mano pubblica, fino alla costituzione dei primi enti pubblici strumentali, sul tipo di quello dell'Istituto nazionale delle assicurazioni. Ma la riforma certamente più notevole fu quella che investì l'ordinamento delle elezioni politiche, allargando l'elettorato attivo a tutti i cittadini di maggiore età e di sesso maschile. Le elezioni del '13 sembrano dunque completare il processo di perfezionamento interno dello Stato di diritto; ma nel tempo stesso costituiscono il principio della fine dell'ordinamento statuario, le cui strutture non si dimostrano idonee ad assorbire le spinte antitetiche e difficilmente componibili dei partiti di massa che si affacciano sulla scena politica, profittando del suffragio universale.


Il problema della continuità dello Stato nella transizione dal regime statuario al regime fascista


Resta da vedere se nel trapasso dell'ordinamento della forma fascista lo Stato italiano abbia mantenuto o meno la sua primitiva identità. Per la dottrina normativistica non si può parlare di frattura o di estinzione dell'ordinamento statuario, poiché tutte le leggi che consentirono il consolidamento del regime fascista vennero approvate a larga maggioranza da entrambe le camere del parlamento; e le stesse Camere accordarono fin dall'inizio la loro fiducia al Governo Mussolini, dopo la marcia su Roma del 1922, sebbene il re non avesse seguito la prassi delle consultazioni. Inversamente, secondo le concezioni istituzionistiche che fanno leva sulla decisione politica fondamentale, è manifesto che negli anni in questione la continuità dell'ordinamento statale s'interruppe, in quanto mutarono le forme di Stato e di governo e si modificarono radicalmente le forze politiche di maggioranza con l'avvento di quel nuovo ceto borghese che s'era identificato nel partito fascista.


Uno Stato cessa unicamente per il congiunto venir meno di tre elementi: il popolo, il territorio ed il governo; questo accade nei casi di suddivisione d'uno o più stati o dalla fusione di stati dapprima indipendenti.


Si pensi alle recenti vicende della Cambogia: a quanto sembra in quell'ambito territoriale la caduta del governo filoamericano non ha comportato soltanto l'instaurarsi di nuove forme di governo e di Stato o ad una revisione delle leggi già vigenti: al contrario tutta l'istituzione precedente è stata spazzata via, senza lasciare più tracce di sé; ed in sua vece si è dunque inserito uno Stato non solo politicamente ma giuridicamente nuovo. Tale non è stato invece il caso della sovrapposizione dell'ordinamento fascista all'ordinamento statuario: poiché le leggi prima, e principalmente lo statuto, hanno continuato a vigere dopo la marcia su Roma, venendo soltanto gradualmente sostituite in questa o in quella parte; l'apparato amministrativo ha continuato a funzionare; lo stesso Stato-persona ha mantenuto al suo vertice il Re.


Le trasformazioni costituzionali del regime fascista


Nella prima fase, che perdura dal 28 ottobre del 1922 sin quasi alla fine del 1925, chi si limita a prendere in esame le norme vigenti sul piano dell'organizzazione costituzionale non riscontra alcuna alterazione decisiva; cosicché la forma di governo può considerarsi ancora parlamentare o pseudoparlamentare. Sotto il profilo politico, una seconda fase si apre di già con il fondamentale discorso pronunciato da Mussolini il 3 gennaio 1925; ma se dal punto di vista costituzionalistico nulla di determinante si verifica fino all'approvazione delle leggi 24 dicembre 1925 e 31 gennaio 1926: in virtù delle quali la forma di governo comincia a dimostrarsi caratterizzata da una nettissima supremazia del potere esecutivo.


Un ulteriore depotenziamento del legislativo è determinato dalla legge n. 100 del 1926, che non soltanto conferma l'ammissibilità delle deleghe legislative dal Parlamento al Governo ma consente al governo di assumere direttamente la potestà legislativa nella forma dei decreti legge che per il passato rimangono in vigore quand'anche non siano convertiti in leggi nel termine di due anni dalla loro pubblicazione.


Una volta estromesso il Parlamento dalla scena politica, il sistema vigente in Italia poteva essere visto come una diarchia: nella quale il potere di indirizzo veniva esercitato dal Capo del Governo, mentre il re rimaneva formalmente al vertice dell'apparato statale, non solo in qualità di capo dello stato, ma in quanto abilitato a revocare e sostituire il capo del governo in carica. In una fase di poco successiva la forma diarchia viene per altro complicata dall'inserimento di un terzo organo costituzionale, consistente nel Gran consiglio del fascismo. Questo collegio funzionava si dal '22 come organo del partito nazionale fascista; ma una serie di leggi lo trasforma a vari effetti in un organo statale di governo.


La fase corporativa inizia appena nel 1930, con l'istituzione di un governo di vertice, formato per opera del Capo di governo, che assume la denominazione di consiglio nazionale delle corporazioni. Quanto invece alle singole corporazioni, destinate a rappresentare l'organizzazione unitaria delle forze della produzione in ciascun settore dell'attività produttiva, esse vengono create solamente nel 1934; e nascono praticamente morte, giacché il pletorico apparato corporativo finisce per produrre un numero estremamente esiguo di "ordinanze" e di "accordi economici collettivi", del tutto sproporzionato rispetto agli iniziali propositi del regime. Non a caso, la fase in questione si conclude con la formazione di un ulteriore organo di vertice, nominato dall'alto anziché venire eletto dagli interessati, che prende il nome di Camera dei fasci e delle corporazioni subentrando alla camera dei deputati. A questo punto si può dire che anche sul piano giuridico il regime fascista presenta caratteristiche quanto mai autoritarie. Assommando ormai ufficialmente le qualifiche di Capo del Governo e di "Duce del fascismo", Mussolini dispone non solo della camera dei fasci e delle corporazioni, ma anche del senato, nonché delle più alte cariche del partito nazionale fascista. E nella fase bellica le necessità della guerra concorrono al rafforzamento del potere personale del Duce. Diversamente però dal nazismo, il fascismo non si risolve mai in una dittatura, nel senso più stretto e preciso del termine. A fianco del Capo di Governo continuano a sussistere gli altri due organi costituzionali del sistema.


L'ordinamento costituzionale transitorio dopo il 25 luglio del '43: la repubblica sociale italiana ed il regno del sud (ina 91)


Una serie di azioni intervennero per decretare l'interruzione della continuità complessiva dello stato italiano:


a)    Una frattura ben più grave si produsse invece in conseguenza dell'armistizio dell'8 settembre del '43, allorché in Italia si costituirono due governi contrapposti e congenti: quello monarchico, retto da Vittorio Emanuele III e da Badoglio, denominato Regno del Sud e quello organizzato nel nord del Paese con a capo Mussolini che assunse ufficialmente il nome di Repubblica sociale italiana. Al pari del Regno del Sud anche la Repubblica Sociale si considerava come la legittima continuatrice del previo ordinamento statuario-fascista. Alcuni costituzionalisti affermano che la R.S.I non avrebbe costituito nulla più di uno stato fantoccio, creato ed utilizzato in funzione dell'occupazione tedesca sul centro-nord Italia; altri sostengono invece che si sarebbe trattato di un governo dotato d'una qualche effettività, pur non essendo riuscito a dar vita ad uno Stato; altri ancora lo equiparano senz'altro ad uno Stato nuovo, sebbene dotato di un'effimera esistenza. Non per questo però si deve concludere che tale Repubblica sia riuscita a porsi come un nuovo Stato. Da un lato essa mancava della stabilità che contraddistingue gli ordinamenti statali, dall'altro essa non pervenne mai a far coincidere il proprio ambito spaziale d'efficacia con l'intero territorio italiano.


b)    Nel corso del suo progressivo ristendersi su tutto il Paese, anche il regno del sud subisce per altro una serie di vicende, che ne alterano ulteriormente la costituzione materiale. Sicché il periodo dev'essere a sua volta suddiviso in varie fasi: quella del governo Badoglio, che si protrae fino al momento della liberazione di Roma; quella luogotenenziale, che perdura dal 5 giugno 1944 al 9 maggio 1946; quella brevissima del "Regno di maggio", nel corso della quale il Luogotenente assume il titolo di Umberto II; e quella conclusiva dell'assemblea costituente, che abbraccia il periodo 2 giugno 1946- 18 aprile 1948.


Subito dopo la caduta del fascismo, la Corona ed il Governo Badoglio perseguono l'intento di un "ritorno allo Statuto", ma con riferimento al regime monarchico parlamentare che s'era affermato in Italia sino alla "marcia su Roma". Ed è appunto con lo scopo di una restaurazione della normalità interrotta dal fascismo, cui non si accomna la previsione di alcuna riforma costituzionale, che il governo Badoglio si adopera negli ultimi mesi del '43. Ma il tentativo si scontra ben presto con l'opposizione dei partiti antifascisti che non intendevano collaborare con Vittorio Emanuele III ma anzi ne chiedevano l'abdicazione. A quel punto non soltanto la persona del Re ma anche del Regno stesso venivano messi in discussione, giacché il primo articolo del decreto n. 151 statuiva che, dopo la liberazione di tutto il territorio nazionale, la forma istituzionale, monarchica o repubblicana, sarebbe stata scelta dal popolo italiano mediante l'elezione a suffragio universale di un'apposita assemblea Costituente. Oltre a tutto questo fu modificata anche la forma degli atti legislativi del Governo. Fino a quel momento infatti, l'esecutivo aveva legiferato per mezzo di decreti-legge; dopo il 25 giugno del '44 invece, "i provvedimenti aventi forza di legge" per mezzo di decreti legislativi luogotenenziali: le quali ravvisavano nei decreti stessi una forma di legislazione extra ordinem, diversa nel nome ma non nella sostanza dai decreti legge del Governo Badoglio.


Dalla costituzione provvisoria del 1944 alla nuova carta costituzionale del 1947 (ina 97)


Formalmente dunque, quello vigente in Italia continua ad essere un regime dell'esecutivo, imperniato sul Capo dello Stato e sul Capo del Governo; ma in linea di fatto, il regime è alterato dalla presenza determinante dei partiti politici che implica nel tempo stesso, una riduzione dei poteri reali del Luogotenente, una restituzione del Primo Ministro al suo vecchio ruolo di Presidente del Consiglio dei ministri ed un più stretto legame fra il governo stesso e l'opinione pubblica. Il 9 maggio del '46 la tregua istituzionale viene però interrotta dall'abdicazione di Vittorio Emanuele III: per effetto della quale il luogotenente assume il titolo di Umberto II, Re d'Italia, aprendo con ciò la brevissima fase del "regno di maggio". In quell'occasione la parte repubblicana denuncia la violazione del "patto di Salerno", sostenendo che Vittorio Emanuele III non poteva abdicare, avendo già rinunciato nel '44 alla totalità dei suoi poteri. Fra monarchici e repubblicani si aprì un'ulteriore polemica, avente per tema i criteri di valutazione dell'esito del referendum: in quanto tra i primi si affermava che il voto popolare sarebbe stato decisivo nella sola ipotesi che il numero dei sostenitori della Repubblica o della Monarchia fosse risultato superiore a quello di tutti gli altri votanti, facendo pesare accanto ai fautori della tesi contraria anche coloro che avessero votato scheda bianca; mentre i secondi asserivano che tanto i voti nulli quanto le schede bianche dovessero venire esclusi dal computo, per porre invece a diretto confronto i soli voti validamente espressi a favore dell'una o dell'altra forma istituzionale. Tuttavia fra i costituzionalisti è divenuto da tempo pacifico che fosse fondata la tesi formulata dalla parte repubblicana: non solo perché le schede bianche sono escluse dalla valutazione degli esiti di tutti i referendum disciplinati dall'attuale ordinamento; ma anche perché diversamente il referendum istituzionale avrebbe corso il rischio di dover essere infinitamente ripetuto, mentre l'ipotesi di una reiterazione di esso non era stata minimamente prevista dal legislatore italiano del '46. Con la prima seduta dell'assemblea costituente la forma di governo subisce un'ulteriore modificazione. I costituenti non si limitarono alla progettazione ed all'approvazione della nuova Carta costituzionale, sulla base del referendum, ma esercitarono inoltre sia certe specifiche funzioni legislative ordinarie sia l'attività di controllo politico sull'intero operato del Governo. Rispetto al modello parlamentare un fondamentale motivo di diversità fu dato dalla circostanza che il Governo rimase il titolare della legislazione, fatta eccezione per singole leggi ordinarie di particolare importanza. Ma in quel momento si riteneva che non sarebbe stato conveniente ritornare senz'altro alla tradizionale divisione dei poteri fra il legislativo e l'esecutivo, perché la Costituente doveva rimanere libera di concentrarsi sul suo compito essenziale, varando una nuova costituzione nei brevissimi termini fissati dal decreto n. 98 del '46.


I cosiddetti elementi costitutivi dello Stato; il popolo e la nazione (ina 105)


Il concetto di stato presupponeva l'esistenza di tre elementi costitutivi: il popolo, il territorio e il governo. In realtà ciò che residua è soltanto l'evidente verità che ogni ordinamento statale presuppone un territorio, indipendentemente dal quale non si potrebbe più distinguerlo dalla generalità degli ordinamenti giuridici non statali; non possono prescindere da una pluralità di soggetti, che nel caso dello Stato assume appunto il nome di popolo. Quanto all'odierna Italia alcuni disposti della vigente carta costituzionale ragionano senz'altro di popolo: per popolo si intende la "generazione attuale di cittadini". Il termine nazione allude generalmente ad una "sintesi delle generazioni passate, presenti e future" dei cittadini italiani.


Più arduo e discusso è il problema riguardante la qualificazione del popolo sul piano della dogmatica giuridica. Si è infatti dubitato se il carattere democratico del vigente ordinamento imponga di considerare il popolo stesso alla stregua di un organo di stato; oppure si tratti di una "ura soggettiva" per sé stante, che non può essere confusa con lo Stato-soggetto. Giustamente prevale la seconda opinione. Per altro è corrente l'avviso che il popolo stesso non sia conurabile come persona giuridica a sé stante. E la circostanza che la Carta costituzionale gli conferisca senz'altro la sovranità viene appunto spiegata ricorrendo all'idea di una ura giuridica soggettiva di rango minore; salvo a ritenere che si tratti di un'espressione sintetica.


Lo "status" di cittadinanza (ina 107)


La nozione di popolo non va confusa con quella di popolazione. Per popolazione si intende, infatti, la somma degli individui che in un dato momento storico vivono nel territorio dello Stato; sicché da una parte essa non comprende i cittadini viventi all'estero, e dall'altra parte essa abbraccia anche gli stranieri, vale a dire i cittadini di altri stati, come pure gli apolidi, cioè gli individui mancanti di cittadinanza. Per contro non si può dare nessuna definizione del popolo italiana, che non si confondi con il concetto di cittadinanza: i cittadini sono dotati di una vasta serie di diritti e di doveri, suscettibili di farsi valere anche nei confronti dello Stato-soggetto. Per altro la cittadinanza non si risolve nelle singole situazioni giuridiche, ma rappresenta una complessa posizione giuridica, cui fa capo ciascuna delle situazioni stesse; ed è appunto in tal senso che si suole parlare di status civitatis.


Tutti gli Stati odierni sono retti da tre principi fondamentali sui quali si regge la disciplina della materia: primo, il principio per cui la cittadinanza si acquista in virtù dei rapporti fra i cittadini ed i loro discendenti (jus sanguinis); secondo, l'opposto principio che fa leva sul luogo di origine degli individui in questione, attribuendo senz'altro la cittadinanza a che nasca nel territorio dello Stato (jus soli); terzo, il diverso principio che pone invece l'accento sulla volontà di chi chieda di far parte del popolo di un certo ordinamento statale.


Ciò basta a spiegare il perché le diverse discipline della status civitatis diano luogo a conflitti "positivi" e "negativi": dai primi dei quali discendono le numerose ipotesi di doppia cittadinanza, mentre ai secondi si deve l'apolidia.


Altro fondamentale modo d'acquisto è quello del matrimonio: il coniuge di cittadino italiano si vede conferire automaticamente la cittadinanza, "quando risiede legalmente da almeno sei mesi nel territorio della Repubblica, ovvero dopo tre anni dalla data del matrimonio . ". Rimane fermo, per altro, l'acquisto per beneficio di legge, quando agli stranieri od agli apolidi i cui genitori od ascendenti in linea retta di secondo grado siano stati cittadini per nascita. Inoltre la cittadinanza può essere in vari casi concessa per naturalizzazione, con decreto del Presidente della Repubblica.


Dalla cittadinanza europea derivano particolari diritti, non solo civili ma anche politici: come quello di entrare e risiede in ogni stato membro, o come l'esercizio dell'elettorato attivo e passivo nelle elezioni comunali europee.


Il territorio ed il mare territoriale (ina 111)


Lo Stato stesso in quanto ordinamento mancherebbe di effettività se non sussistesse un "territorio nazionale". Ma ciò non significa che il rapporto fra Stato e territorio sia abile a quello intercorrente fra la persona fisica ed il corpo di essa, sicché il territorio formerebbe per lo Stato l'oggetto di un diritto sulla propria persona. Chi ragiona in questi termini non considera, infatti, che personificato non è già lo stato-ordinamento bensì lo stato-soggetto. D'altro canto non è neppure accettabile l'idea che sul proprio territorio lo Stato sia titolare di un diritto reale. Quanto ai diritti reali spettanti allo stato-soggetto, è agevole notare che il demanio ed il patrimonio dello Stato stesso non comprendono altro che una minor parte del complessivo territorio nazionale. Ne segue che "il territorio è un dato esteriore rispetto allo Stato", soprattutto per che lo intenda come istituzione o come ordinamento giuridico.


Per territorio si intende il luogo della sovranità statale, entro il quale lo Stato dispone dello jus escludendi alios.


Nella dottrina internazionalistica domina ormai l'opinione che il mare territoriale faccia parte integrante del territorio dello Stato; ma resta aperto il problema dei limiti esterni di esso. Il limite delle tre miglia marine, che pareva costituire la regola da rispettare in tal campo, risulta superato anch'esso; oggi sembra imporsi la regola delle dodici miglia, cui s'è adeguata l'Italia. Tuttavia il limite del mare territoriale può essere oltrepassato di molto ai fini della tutela e dell'esplicazione di particolari diritti spettanti allo Stato medesimo. È questo il caso dei diritti di pesca. Varie dichiarazioni di stati sudamericani ed africani affermano il principio che i diritti sulla pesca sono esclusivamente esercitabili da parte statale fino a duecento miglia dalla costa: entro quest'ambito gli Stati costieri dispongono, cioè, di un diritto esclusivo di sfruttamento del fondo marino. Più arretrato è lo stadio della disciplina internazionalistica concernente i limiti della sovranità statale sullo spazio sovrastante il territorio; non si tiene conto ad esempio dello spazio eccedente l'atmosfera, con particolare riguardo ai satelliti artificiali, i quali attendono ancora un'apposita normativa.


Fonti di produzione e fonti di cognizione (ina 117)


Lo Stato concepito nel senso largo del termine si compone di un sistema ordinato di norme giuridiche: mediante le quali vengono disciplinati tanto i rapporti fra le persone comunque sottoposte all'ordinamento medesimo, quanto l'organizzazione dell'apparato governante.


Il diritto costituzionale ha di mira le "norme delle norme", concernenti la creazione e la continua modificazione di tutto il sistema sottostante; in altre parole, le norme sulle fonti normative. Giuridicamente la parola fonte viene usata ora con riferimento alle fonti di produzione, ora con riferimento alle fonti di cognizione del diritto. Per fonti di produzione si intendono gli atti ed i fatti normativi. All'opposto fonti di cognizione sono gli atti rivolti a fornire notizia legale od a facilitare comunque la conoscibilità delle norme vigenti: quali la Gazzetta ufficiale, la Raccolta ufficiale degli atti normativi della repubblica. Giova tuttavia accennare che le fonti di cognizione vanno inquadrate a loro volta in due sottospecie ben distinte: la prima della quali attiene alle forme di pubblicazione necessaria, mentre la seconda comprende sia le forme di pubblicazione meramente notiziole sia le raccolte degli usi formate da parte di pubbliche autorità competenti in materia.


Relatività delle fonti di produzione: concetto di fonte da assumere nell'ordinamento italiano (ina 119)


Quando si afferma che il Parlamento è la fonte delle leggi, questo generico assunto può essere condiviso, purché non si dimentichi che le fonti propriamente dette sono in tal caso le leggi stesse. Più in generale le fonti si risolvono nei fatti giuridici largamente intesi cui sia conferita dall'ordinamento giuridico l'attitudine a porre diritto. Oggetti essenziali o principali dello studio riguardante le fonti di produzione sono dunque le norme dell'ordinamento italiano che valgono ad identificare quei tipi di atti o di fatti, che ne disciplinano il rispettivo regime, la competenza e la forza, l'acquisto e la perdita di efficacia. Ed a tali temi si possono aggiungere le norme che fissano i criteri per l'interpretazione dei testi normativi, come poste in essere dagli atti e dai fatti competenti. La relatività del concetto di fronte sta a significare che il discorso da svolgere sul punto non è quello spettante alla filosofia, ma deve riferirsi al solo diritto positivo: nel nostro caso al diritto positivo dello Stato italiano.


La prospettiva logico-teoretica deve cedere il passo, in questa sede, alla prospettiva dommatica, interna a ciascun ordinamento. Ed in quest'ultimo senso che appunto si evidenzia la relatività del concetto di fonte. Ma con quali criteri, nel vigente ordinamento italiano, le fonti di produzione sono individuabili e separabili dalla massa degli altri fatti giuridici largamente intesi?


a)    Da un lato, premesso che le fonti di produzione generano norme giuridiche, si è detto in sostanza che definire le fonti comporta stabilire quali siano i caratteri distintivi delle rispettive norme, al confronto con i precetti contenuti in altri atti non normativi, come le sentenze o i provvedimenti della autorità amministrative; e si è ritenuto che data la loro attitudine a formare ordinamento le fonti stesse vengano a coincidere con i "soli fatti che esprimano norme generali", cioè suscettibili di una serie indefinita di applicazioni. Ma l'idea che le norme giuridiche siano perciò contraddistinte dalla loro generalità-astrattezza vale a differenziare gli atti normativi in via soltanto normale e non necessaria. Al contrario, le norme singolari ovvero le norme del caso concreto sono ben concepibili e trovano spesso riscontro, salvo il diverso ed articolatissimo problema della loro legittimità costituzionale. La stessa costituzione contiene una serie di disposizioni transitorie e finali, che non cessano di formare diritto malgrado riguardino situazioni ben determinate. Ben più imponente è il fenomeno delle leggi-provvedimento, recanti norme del caso singolo, il regime delle quali non è diverso da quello spettante alle norme legislative generali ed astratte. Il che avvalora l'assunto che le norme generali e quelle speciali, eccezionali od anche individuali siano la specie di un unico genere: senza che sia dato distinguere fra di esse, al fine di caratterizzare complessivamente le fonti normative.


b)    D'altro lato si è invece insistito sulla politicità delle fonti del diritto, considerandole tutte "come espressione dei processi di unificazione politica nella sfera dell'ordinamento giuridico". Coerentemente si è sostenuto che i titolari del potere normativo dispongano tutti d'una valutazione discrezionale o libera dei rapporti giuridici da disciplinare: con la conseguenza che gli atti non conformi a questo schema, quali sarebbero ad esempio i regolamenti di mera esecuzione delle leggi, non avrebbero titolo per essere classificati tra le fonti. Di più: qualsiasi fonte eccedente lo schema stesso dovrebbe dirsi extra ordinem. Nel diritto italiano la qualità di fronte può prescindere dalla sua valenza politica. Ogni regolamento va positivamente riguardato come fonte, purché non tratti di un regolamento "interno", costitutivo di un ordinamento minore e diverso da quello generale. Né corrisponde al linguaggio corrente la classificazione delle consuetudini tra le fonti extra-ordinem: sia perché degli "usi" ragionano esplicitamente le norme sulle fonti normative, sia perché extra ordinem sono i fatti eversivi di un certo ordinamento, non quelli che lo costituiscono conformemente alle regole dell'ordinamento stesso.


c)    Conclusivamente occorre riaffermare che la selezione delle proprie fonti spetta a ciascun ordinamento, sulla base di criteri autonomamente prescelti. A questa stregua, compete ad ogni sistema normativo fissare il livello al di sopra del quali si collocano gli atti ed i fatti produttivi di diritto. Non si vuole alludere alla cosiddetta gerarchia delle fonti, che rappresenta tuttora un criterio interno di sistemazione degli atti e dei fatti normativi: si vuole invece intendere che le fonti di produzione d'un certo ordinamento si sovrappongono alla totalità degli altri fatti generativi di effetti giuridici, determinandone l'antigiuridicità qualora essi contrastino con le norme giuridiche così prodotte.


Problemi e criteri di individuazione delle fonti normative (ina 124)


Talvolta è incerto se alcuni tipi di atti rientrino o meno nelle fonti. In molti altri casi può essere arduo stabilire se un singolo atto presenti o meno le caratteristiche proprie di un determinato tipo di fonte. Di regola però può dirsi che l'individuazione delle singole fonti-atto si effettua mediante il ricorso ai criteri formali, che hanno di mira l'autorità competente, il nomen juris. Le leggi di ogni genere, costituzionali ed ordinarie, statali e regionali, rappresentano senza alcun dubbio altrettanti atti normativi; e l'appartenenza ai tipi in questione può considerarsi pacifica ogni qualvolta un certo atto assume il nome di legge e rappresenta il frutto dei procedimenti prescritti in tal senso dalla Costituzione. Analogamente, il ricorso ai criteri formali risulta necessario e sufficiente allo scopo per quanto concerne i decreti-legge previsti dall'art. 77 della costituzione. Nelle Gazzette ufficiali tali atti sono identificabili con immediatezza in virtù del loro tipico nome. Ed a ciò si aggiungono sia l'iniziale riferimento ai presupposti giustificativi della necessità e dell'urgenza, sia la finale clausola di stile per cui ciascuno degli atti medesimi va "presentato alle Camere di legge". Ma il nomen juris vale attualmente a contraddistinguere altre fonti, quali le leggi delegate. Ancora di recente le leggi delegate restavano confuse nella massa di decreti del Presidente della Repubblica, dei quali potevano rappresentare i contenuti; oggi al contrario le leggi stesse sono formalmente ed appositamente qualificate come decreti legislativi. Ed è quella legge ad imporre che gli atti regolamentari del Governo e dei ministri rechino appunto la denominazione di regolamento.


I criteri formali tuttavia non soccorrono o non bastano sempre ad operare l'individuazione di cui si discute. In primo luogo può ben darsi che i criteri medesimi non siano tutti presenti e rispettati nel caso specifico. In secondo luogo, vi sono alcuni tipi di atti-fonte riconosciuti come tali dall'ordinamento italiano vigente, in ordine ai quali non si può ragionare di criteri distintivi ravvisabili sul piano formale. Si pensi specialmente ai regolamenti adottabili dalle competenti autorità del potere esecutivo: tali atti venivano esplicitamente inseriti tra le "fonti del diritto". Per essi il nome di regolamento poteva e talvolta può ancora far difetto, senza risultare comunque decisivo allo scopo della loro specifica individuazione. In terzo luogo accade che per interi complessi di atti o di fatti in senso stretto si dubiti se essi vadano o meno inquadrati tra le fonti di produzione normativa. In alcuni casi è stato posto in dubbio se la qualifica di fonte spetti ai regolamenti parlamentari ovvero ai referendum abrogativi: ma interrogativi in parte affini riguardano il nome di regolamento: che a volte si applica ai regolamenti esterni, costitutivi dell'ordinamento generale dello Stato italiano e dunque classificabili per definizione tra le fonti; altre volte si tratta di regolamenti interni, costitutivi di ordinamenti minori. Ed altre questioni non meno difficili investono le fonti-fatto per eccellenza, cioè le consuetudini. Ad esse le "disposizioni sulla legge in generale" attribuiscono l'impropria e problematica denominazione di "usi": senza per altro chiarire in che si differenzino gli usi normativi, cui vogliono far riferimento le disposizioni stesse, dagli innumerevoli usi non normativi (quali ad esempio, nel campo del diritto costituzionale, quelle regole di correttezza cui gli organi supremi dello Stato si conformano nei reciproci rapporti, non producendo in tal senso consuetudini costituzionali propriamente dette).


I criteri formali cedono talora il passo ai cosiddetti criteri sostanziali di individuazione delle fonti. Senonché gli stessi criteri sostanziali si dimostrano profondamente diversi secondo che vengano in considerazione fonti normative dell'uno o dell'altro tipo. Così per quanto attiene alle consuetudini o agli usi normativi, l'essenziale fattore caratterizzante è rappresentato dalla opinio juris.


La generalità è riferita ad una serie indeterminata ed interminabile di soggetti; sicché la norma stessa riguarda una categoria di potenziali destinatari e non persone preventivamente individuate. A sua volta l'astrattezza è propria della norma stessa sia atta a ricevere una serie di applicazioni indefinite ed indefinibili a priori, anziché limitarsi a risolvere un puntuale ed attuale problema della vita. In altre parole l'astrattezza è intesa come sinonimo di ripetibilità e dunque di generalità nell'ordine temporale, così distinguendosi dalla generalità nel senso stretto, che invece attiene all'ordine spaziale. Sta comunque di fatto che la generalità-astrattezza può concepirsi quale condizione indispensabile per aversi una disciplina regolamentare, nel senso che l'autorità amministrativa non dispone della "capacità di formare atti legislativi singolari", derogatori nei confronti di altri regolamenti. Si pensi anche alle ordinanze e agli altri provvedimenti di necessità e urgenza; atti necessitati del genere, pur derogando ad altre norme e pur presentando sovente le caratteristiche della generalità e dell'astrattezza, vanno classificati fra quelli non normativi, in nome di ulteriori e peculiari criteri.


Ciò basta a mettere in luce che non esiste un taglio netto fra gli atti normativi e gli atti amministrativi, fra le consuetudini e gli usi non produttivi di diritto, fra le fonti di produzione in genere e gli atti non costitutivi dell'ordinamento generale dello Stato. Al contrario i confini fra le une e le altre sono contrassegnati da varie zone grigie, nelle quali si collocano atti e fatti giuridici di classificazione incerta o controversa; sicché per qualificarli occorre che gli operatori e gli interpreti, con particolare riguardo ai giudici competenti, tronchino i problemi servendosi ad un tempo dei criteri più diversi, formali e sostanziali: nessuno dei quali si presta però a risolvere da solo ed in via complessiva le questioni in esame, includendo le fonti normative dell'ordinamento italiano ed escludendo tutti gli atti amministrativi o giurisdizionali o comunque mancanti dell'attitudine di creare diritto.


Rilevanza dell'individuazione delle fonti (ina 130)


È stato ricordato che nell'insieme degli atti e dei fatti giuridici, quelli normativi detengono una posizione di primizia, nel senso che qualunque fatto incompatibile con le norme da essi prodotte va considerato antigiuridico; questo con particolare riguardo ai regolamenti, che nel rapporto con i provvedimenti sono contraddistinti normalmente dalla loro inderogabilità, cioè dalla loro prevalenza nei confronti degli atti sostanzialmente amministrativi.


Così quei provvedimenti amministrativi che assumono il nome di ordinanze vengono spesso dotati della capacità di contraddire le leggi stesse, salvi soltanto i principi generali dell'ordinamento. Del pari, in diritto civile sono ben note le norme dispositive o suppletive, che rispettivamente cedono di fronte a patti contrari, derivanti da un legittimo esercizio dell'autonomia privata, ovvero si limitano a colmare le eventuali lacune dei patti medesimi.


In secondo luogo è stato giustamente osservato che l'interpretazione delle norme giuridiche obbedisce a regole particolari, in vario senso diverse da quelle che volta per volta si applicano nell'interpretare l'una o l'altra specie di atti non normativi. Peculiare delle norme giuridiche è l'essere costitutive dell'ordinamento stesso: con la conseguenza necessaria che ognuna di esse concorre a formare un sistema normativo dal quale discende la sua giuridicità. Di qui la decisiva importanza dell'interpretazione sistematica; sicché l'interpretazione letterale e quella imperniata sulla "intenzione del legislatore" non hanno in tal campo una piena preminenza, ma devono fare i conti con il senso che ogni norma acquisisce nei suoi collegamenti con il circostante diritto oggettivo.


In linea di massima le norme giuridiche da applicare al caso s'impongono ai giudici in qualsiasi tipo di giudizio, siano o non siano state dedotte dalle parti. Il principio jura novit curia, in base al quale il giudice stesso è tenuto anzitutto ad individuare d'ufficio la norma o le norme applicabili, in virtù di un'assoluta presunzione di conoscenza.


Ancora, le norme giuridiche e le relative fonti rilevano ai fini del compito precipuo e caratterizzante della Corte di Cassazione, che consiste nell'assicurare "l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge". In altri termini spetta a tale corte accertare eventuali errori di diritto.


I problemi di sistemazione delle fonti nella prospettiva storica: dagli stati di polizia ai "governi rappresentativi" (ina 133).


Le leggi e gli atti equiparati, i regolamenti e le consuetudini, nel loro continuo succedersi ed interferire, determinano infatti una serie incessante di antinomie, cioè di contrasti del più vario genere. Per superare le antinomie occorre perciò costruire un sistema delle fonti normative, individuando i criteri da osservare nel dare la prevalenza a questa o a quella norma astrattamente applicabile al caso.


Si può dire anzitutto che ogni sistema normativo conosce almeno due tipi di fonti: le consuetudini, cioè le fonti-fatto per eccellenza, e le leggi, intese come sinonimo di atti normativi. I rapporti fra queste due specie essenziali di fonti hanno determinato e possono determinare "tre situazioni tipiche": primo, che le consuetudini prevalgano sulle leggi; secondo, che la prevalenza spetti invece alle fonti di diritto scritto; terzo che i due tipi di fonti siano parificati per ciò che riguarda la loro forza o la loro efficacia, essendo dunque in grado di contraddirsi e di abrogarsi a vicenda. Quest'ultima situazione è tuttora peculiare dell'ordinamento canonico, in cui la consuetudine, purché rationabilis e fatta valere per un adeguato periodo di tempo, può bene abrogare le leggi; mentre le leggi successive nel tempo, a loro volta, abrogano le consuetudini con esse incompatibili.


A partire dalla fase degli Stati di polizia, il diritto scritto comincia però ad affermarsi in maniera sistematica, riducendo corrispondentemente lo spazio spettante alle consuetudini. Ma non ne deriva senz'altro un vero e proprio sistema delle fonti normative,sia perché i rapporti fra gli atti ed i fatti normativi non sono ben definiti, sia perché gli atti stessi non sono ben differenziati fra di loro, dal momento che nelle monarchie assolute tanto la potestas legislativa quanto quelle esecutiva e iudiciaria fanno pur sempre capo al Re, indipendentemente da una effettiva separazione dei poteri. È invece nell'ambito degli stati di diritto che si realizza una netta distinzione fra leggi formali e le fonti-atto dell'esecutivo, a partire dai regolamenti. Il trasferimento della sovranità dal Re alla Nazione, rappresentata dal corpo legislativo, determina necessariamente la preminenza delle leggi formali, approvate dalle assemblee legislative.


La primizia del potere legislativo, quanto alla creazione del diritto, riceve in tal modo costanti e solenni riconoscimenti, in tutti gli ordinamenti retti da "governi rappresentativi". E nell'esperienza statuaria il carattere subordinato della potestà regolamentare, sia governativa sia ministeriale sia spettante ad altre autorità, costituisce pur sempre un punto fermo.


La gerarchia delle fonti; l'abrogazione come strumento essenziale per la risoluzione delle antinomie (ina 137).


I sostenitori della cosiddetta struttura gerarchica degli ordinamenti statali teorizzano appunto la necessaria esistenza di fonti sopraordinate alle altre. Le fonti di rango superiore, collocate sul gradino più alto della scala gerarchica, sono cioè condizionanti nei riguardi delle fonti inferiori, per le quali determinano sia l'autorità competente ad emanarle, sia le procedure da seguire; laddove le fonti di rango inferiore, per contro, ne risultano condizionate, in quanto tenute a rispettarne le prescrizioni, di carattere procedurale e sostanziale. Al vertice del sistema dovrebbe porsi sempre la costituzione, concepita come fonte primaria delle norme sulla normazione. Ma un simile assunto non trova riscontro negli ordinamenti statali in cui vigano costituzioni di tipo flessibile; e tale era il caso dello statuto albertino, al pari della maggioranza delle costituzioni del secolo scorso.


Fonti primarie dell'ordinamento statuario erano dunque le leggi, senza alcuna distinzione interna alla categoria; mentre i regolamenti si ponevano come fonti secondarie, quand'anche le norme da questi dettate stabilissero una disciplina di carattere indipendente, non condizionata da una specifica legislazione formale. La chiave per esprimere e sintetizzare questa supremazia consisteva nella cosiddetta forza di legge. Per forza di legge si intende cioè la tipica "capacità di innovare nell'ordine legislativo" che spetta alle norme dettate dalle leggi formali. Nei sistemi di tipo statutario si diceva che la legge formale fosse dotata di un'incondizionata forza attiva. D'altro lato, la legge medesima era contraddistinta da una forza passiva peculiare, consistente nella sua capacità di resistere all'abrogazione da parte delle fonti subordinate. Strumento fondamentale di eliminazione delle antinomie è appunto l'abrogazione. Quanto ai regolamenti che contrastino con le leggi precedenti, spetta ai giudici amministrativi disporre l'annullamento, al pari che per ogni altro atto illegittimo delle pubbliche amministrazioni. Quanto alle consuetudini contra legem, occorre invece effettuarne la disapplicazione. Senonché lo strumento abrogativo rimane quello utilizzabile con maggiore frequenza. Tre sono i fattori dell'effetto abrogativo, così previsti dalle preleggi. All'abrogazione espressa, prodotta da uno specifico disposto, vanno cioè contrapposte due specie di abrogazione tacita. Ma il linguaggio in questione non è condiviso da tutti, giacché l'abrogazione tacita viene talvolta riferita alle sole ipotesi d'incompatibilità fra le norme legislative sopravvenute e quelle antecedenti; mentre nelle varie ipotesi di ridisciplina dell'intera materia, vi è chi ragiona di un'abrogazione implicita.


Nel primo caso l'abrogazione costituisce il frutto di una clausola abrogativa, che identifica le norme abrogate facendo puntuale riferimento alle corrispettive disposizioni. Per contro, nel secondo e nel terzo caso, il verificarsi dell'abrogazione e l'estensione di essa formano l'oggetto di questioni interpretative, che vanno risolte da parte dei giudici competenti in materia. Inversamente in tutte le ipotesi in cui tali opzioni competano agli interpreti si deve ragionare di abrogazione tacita (od implicita). A prima vista potrebbe sembrare che l'abrogazione debba essere distintamente definita come un atto o come un fatto giuridico. Ma in ogni caso ciò che ne risulta è un comune effetto abrogativo: "l'abrogazione non tanto estingue le norme, quanto piuttosto ne delimita la sfera materiale di efficacia". Quanto al fondamento dell'abrogazione esso non andava e non va ricercato nella maggior forza degli atti sopravvenienti gli uni agli altri; sicché, per spiegare gli effetti abrogativi che continuamente si danno in tal senso, non si deve ricorrere al criterio gerarchico, bensì al cosiddetto criterio cronologico. L'abrogazione delle leggi precedenti è imposta appunto dall'inesauribilità della legislazione, vale a dire dall'ovvia ed incontestata esigenza che lo spazio spettante alle scelte legislative non si riduca progressivamente a causa delle scelte già effettuate. In realtà le leggi formali non possono autoattribuirsi un'efficacia diversa da quanto è peculiare del tipo al quale appartengono.


Dallo statuto albertino alle "disposizioni sulla legge in generale" (ina 143).


Seguendo un naturale ordine d'importanza, va ricordata anzitutto la graduale sa di varie specie di atti aventi forza di legge, promananti dal potere esecutivo e tale da assumere un rango equiparabile a quello spettante alle leggi formali. Con questo fondamento implicito, si ritenne che l'ordinamento statuario ammettesse il ricorso ad altrettanti decreti legislativi di prerogativa regia. Ben più notevoli furono comunque i frutti del ricorso alla delegazione legislativa del Parlamento al Governo. Che il potere legislativo potesse venire così delegato non era in verità previsto dallo Statuto albertino. Nondimeno nella prassi si affermò l'idea che la flessibilità dello Statuto albertino lasciasse spazio alle leggi formali di delegazione: con cui si consentiva al governo, in deroga allo Statuto, l'esercizio di questa o quella funzione legislativa delegata, fino all'estremo rappresentato dalla deleghe dei pieni poteri in periodo di guerra. Infine, in contrasto con la lettera dello Statuto, l'esecutivo non esitò a porre in essere decreti-legge, fuori dagli ambiti della prerogativa regia e prescindendo da previe delegazioni legislative. A stretto rigore, atti normativi del genere avrebbero dovuto considerarsi extra ordinem, con la conseguenza che le autorità giudiziarie non avrebbero dovuto dar loro applicazione. Ma l'opinione di gran lunga più prevalente fu invece nel senso che i decreti-legge costituissero atti normativi con forza di legge. Stando all'art. 6 dello Statuto albertino, poteva in realtà sembrare che fossero ammissibili i soli regolamenti governativi emanati dal Re. In realtà nessuno di quei disposti, in quanto dettati da leggi ordinarie, valse ad impedire che altre leggi attribuissero la potestà regolamentare ad altre autorità del potere esecutivo, quali i singoli ministri: donde i regolamenti ministeriali, quelli prefettizi ed altri ancora, emanati senza una previa delibera del Consiglio dei ministri e senza che fosse sentito il parere del consiglio di Stato. Del pari, al di là dei regolamenti di esecuzione previsti dallo Statuto, si ebbero i più vari regolamenti indipendenti, per la disciplina della facoltà spettanti al potere esecutivo nelle materie non considerate organicamente dalle leggi. In varie ipotesi, anzi, la dottrina amministrativistica ragionava addirittura di regolamenti delegati, intesi come atti normativi carenti della forza di legge ma "autorizzati" dalle leggi a superare i limiti comunemente propri della potestà regolamentare. Ma la cosiddetta delegazione della potestà regolamentare non dava luogo ad un tipo di regolamento a sé stante, bensì era "sempre accessoria di una potestà regolamentare ordinaria". I regolamenti di organizzazione potevano altresì considerarsi "delegati" giacché l'esecutivo veniva autorizzato a servirsene quand'anche si trattasse "di materie sino ad oggi regolate per legge". Per completare il quadro, ragionando dalle fonti introdotte nella fase fascista dell'ordinamento statuario, bisogna in primo luogo aggiungere un riferimento ai contratti collettivi di lavoro. Lungo questa linea si inserirono le norme corporative. In terzo luogo assunsero specifico rilievo le leggi costituzionali, che in determinate materie dovevano essere approvate dopo aver "sentito il parere del Gran consiglio".


Un primo livello veniva attribuito alle leggi in genere, senza che la distinzione fra leggi ordinarie e leggi costituzionali rilevasse agli effetti giudici, nonché agli "atti del governo aventi forza di legge". Sul secondo piano si collocavano gli atti regolamentari, nell'ambito dei quali i "regolamenti emanati dal governo" prevalevano su quelli emessi da "altre autorità", statali e non statali. Seguivano, su di un terzo piano, le "norme corporative", cui restava impedito di "derogare alle disposizioni imperative delle leggi e dei regolamenti".


Il superamento delle "disposizioni sulla legge in generale" nel periodo repubblicano (ina 148).


La Costituzione del '47 non è più equiparata alle leggi dello Stato, ma sovrapposta ad esse in virtù della sua rigidità. Quale necessaria conseguenza di ciò, sta la previsione di apposite leggi costituzionali e di revisione costituzionale,che rappresentano gli unici atti normativi abilitati a modificare la Costituzione. Con tutto ciò, l'ordinaria legislazione dello Stato, dotata pur sempre di una competenza generale, rimane la colonna portante del complessivo ordinamento giuridico. Tale è il caso delle cosiddette leggi rinforzate, ciascuna delle quali è il frutto di un procedimento legislativo aggravato rispetto a quello normale, che tuttavia non si confonde con l'iter formativo delle leggi costituzionali. Ciò che più conta, nella Costituzione repubblicana consiste la base di un'eterogenea serie di fonti-atto, mediante le quali si concretano altrettante autonomie normative costituzionalmente garantite a favore di organi supremi dello Stato ovvero di minori enti pubblici. Nel primo senso, l'esempio principale sembra essere fornito dai regolamenti parlamentari. Nel secondo senso, spiccano le varie specie delle leggi regionali; ma sostanzialmente sono il frutto dell'autonomia normativa regionale anche altre fonti-atto, comunque inquadrate, quali gli statuti ordinari delle Regioni di diritto comune o i regolamenti interni dei Consigli regionali.


Ma l'attuale costituzione ha inciso sulle stesse fonti-atto, con particolare riguardo alle consuetudini: sia dotando le consuetudini costituzionali di un rango ben più elevato di quello spettante agli usi previsti dalle preleggi, sia prevedendo le consuetudini internazionali e garantendo il rispetto di esse, mediante il richiamo delle norme "generalmente riconosciute". Quanto ai fatti normativi, basti qui ricordare le fonti costitutive di altri ordinamenti, esterni rispetto a quello italiano, che a vari effetti rilevano nel nostro stesso diritto: come si verifica nel notevolissimo caso dei regolamenti delle Comunità europee.


Gerarchia e competenza quali criteri concorrenti di sistemazione della attuali fonti normative (ina 151)


Dal 1948 in poi, i primi tentativi dottrinali di sistemazione tendono pur sempre a mettere in luce i tradizionali "rapporti di parità e gerarchia". Ed effettivamente alcune tra le nuove fonti sono ancora sistemabili per mezzo del criterio gerarchico. In sintesi si avverte che la Costituzione repubblicana conura un vasto ed eterogeneo complesso di fonti rette dal criterio della competenza piuttosto che dal criterio gerarchico: giacché specialmente, varie norme costituzionali sottraggono materie od oggetti o rapporti del più vario genere alla competenza della legge statale ordinaria, conurando in tal modo altrettante fonti normative che non sono né inferiori né parificate né superiori al confronto con la legge medesima, bensì differenziate per l'ambito di attività normativa spettante ad ognuna di esse.


Più in generale, sul criterio della competenza si fondano le fondi atipiche: ravvisabili ogniqualvolta si registri una "scissione" tra la forza attiva e la forza passiva. Si pensi alle leggi dei Patti Lateranensi, che appunto in vista delle intervenute intese fra l'Italia e la Santa Sede "non richiedono procedimento di revisione Costituzionale"


La Carta Costituzionale continua comunque a servirsi di espressioni che comportano il permanere d'un qualche rapporto gerarchico: quali sono la "forza di legge" e il "valore di legge", che nel linguaggio costituzionale formano una vera e propria endiadi. In secondo luogo, una gerarchia delle fonti suole tuttora venire presupposta non solamente allorché sono poste a confronto la Costituzione e tutte le fonti "costituite" da essa, ma anche quando si ragiona dei rapporti fra le leggi ed i regolamenti.


La costituzione (ina 154).


La Costituzione rappresenta la fonte suprema, condizionante ogni altro atto e fatto normativo, senza mai essere condizionata. Lo dimostra in effetti il carattere rigido della Carta del '47, modificabile attraverso le sole procedure previste dall'art. 138 Cost.


Vero è che la presente Carta costituzionale italiana non appartiene al genere delle costituzioni brevi, peculiari del secolo scorso, che si limitavano a considerare gli aspetti essenziali dell'organizzazione dei pubblici poteri. Si tratta, al contrario, di un documento classificabile senz'altro fra le Costituzioni lunghe; e ciò non tanto in vista dei suoi 139 articoli, quanto in conseguenza degli oggetti che essi riguardano. Anziché considerare il solo assetto dello Stato-apparato e degli altri enti pubblici costituzionalmente rilevanti, la Costituzione italiana dedica la quasi totalità dei suoi principi fondamentali e l'intera prima parte al riconoscimento ed alla disciplina dei diritti spettanti ai cittadini, statuendo una serie di proclamazioni e di garanzie del tutto nuove rispetto a quelle desumibili dallo Statuto albertino.


A questi effetti si è prospettato il dubbio se le  disposizioni costituzionali valgano tutte a dettare altrettante norme giuridiche ovvero si riducano, almeno in certi casi, a manifesti politici del preconizzato Stato sociale, che in sé non contribuirebbero a comporre l'ordinamento. Ma occorre aggiungere che varie norme costituzionali di carattere organizzativo, contenute nella parte seconda della Costituzione, esigono di essere integrate dal legislatore per divenire compiutamente applicabili. Anche in quest'ultimo senso pareva pertanto che la Costituzione, per alcune sue parti, avesse quale unico destinatario il Parlamento, non ponendo norme che fossero senz'altro imperative a tutti i loro possibili effetti.


Le norme programmatiche sono norme dirette dal legislatore che ne deve curare l'attuazione. Nell'ambito delle norme precettive si pensava invece che alcune fossero ad applicazione diretta ed immediata, altre ad applicazione differita; ed anzi avvertirono che, accanto alle norme comunque precettive, stavano le disposizioni puramente direttive, volte "a indicare un indirizzo al legislatore futuro", tanto da non formare "vere e proprie norme giudiche".


Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali (ina 158).


È corrente l'assunto che la Carta costituzionale rappresenti l'irripetibile frutto di un potere costituente esauritisi il 22 dicembre 1947. La Costituzione repubblicana è certo modificabile; ma non lo è del tutto, in quanto ogni altro potere normativo deve dirsi costituito e dunque destinato a svolgersi nei limiti costituzionalmente previsti. In altre parole, la Costituzione è l'unica fonte abilitata a condizionare l'abrogazione delle proprie norme. Ne offre puntuale conferma l'art. 139 Cost., per cui "la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale.


Per sé considerata, la "forma repubblicana" parrebbe riguardare unicamente l'investitura e la permanenza in carica del Capo dello Stato: il quale dev'essere eletto e rinnovato periodicamente, anziché ereditare permanentemente il trono come si verificava nel Regno d'Italia. Ma il fatto che "l'Italia sia una Repubblica democratica" induce a ritenere che sottratta a revisione sia la stessa democrazia, considerata nei suoi cardini essenziali ed indefettibili, dal suffragio universale fino alle libertà di associazione e di pensiero.


Mediante le leggi di revisione costituzionale si possono, cioè, abrogare o sostituire od emendare gli articoli della Costituzione, immettendo nuovi disposti nel testo della Carta stessa. Le altre leggi costituzionali non alterano la Carta costituzionale in quanto atto normativo, ma variamente incidono sull'originaria logica di quel documento: sia derogando alle norme costituzionali strettamente intese, sia costituzionalizzando la disciplina di altri oggetti, non considerati dalla Costituzione del 1947, ma successivamente ritenuti meritevoli di una regolamentazione sopraordinata rispetto a quella legislativa ordinaria.


Non si deve credere che la competenza spettante alle leggi costituzionali sia perciò specializzata, potendo esercitarsi nelle sole ipotesi testualmente previste dalla Costituzione. Né sembra dato supporre che si tratti di una competenza comunque circoscritta alla "materia costituzionale". Sia pure nel risolvere un altro genere di controversie, la Corte costituzionale ha infatti affermato che la "materia costituzionale" coincide con quella regolata dalla Costituzione o dalle opposite fonti menzionate. Cioè con "quelle norme, alle quali il Parlamento, per finalità di carattere politico, intende attribuire efficacia di legge costituzionale". Il che comporta che alle leggi medesime spetti una competenza generale, liberamente esercitatile fin dove la Costituzione non frapponga specifici limiti. Entro un tale ambito, assumono per altro un particolare rilievo determinati sottotipi di leggi costituzionali. Nel primo senso, è dato parlare di leggi costituzionali rinforzate, specie per quanto concerne "la fusione di Regioni esistenti o la creazione di nuove Regioni con un minimo di un milione di abitanti". Per contro, si danno altre leggi costituzionali che sotto certi aspetti si prestano a venir modificate, senza seguire le procedure aggravate dall'art. 138: con la conseguenza che esse potrebbero dirsi depotenziate rispetto alle altre. In questo quadro rientrano, principalmente, le disposizioni di vari statuti speciali in tema di finanze regionali.


Le leggi ordinarie dello Stato (ina 164).


Statuendo che "la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due camere", l'art. 70 Cost. con definisce ma presuppone il concetto di legislazione. I soli punti fermi consistono in ciò: che le leggi ordinarie dello Stato sono gerarchicamente subordinate alla Costituzione ed alle leggi costituzionali; e che tuttavia, anch'esse dispongono di una competenza generale, sebbene più circoscritta di quella propria delle leggi costituzionali.


Dubbio e controverso rimane il rapporto fra legislazione statale ordinaria e Costituzionale. Ma l'opinione prevalente è invece nel senso che la legislazione ordinaria abbia un carattere libero. Quelli risultanti dalla Costituzione sono, in altri termini, divieti o limiti negativi, nell'ambito e nell'osservanza dei quali le opzioni legislative ordinarie rappresentano il frutto di valutazioni politiche, insindacabili da parte della stessa Corte costituzionale.


Altro è il problema se la Costituzione presupponga un determinato concetto di "funzione legislativa", da intendere come funzione normativa esplicata dal Parlamento; questa tesi sostiene l'implicito divieto di adottare leggi-provvedimento, che avrebbero carattere amministrativo anziché costitutivo dell'ordinamento giuridico, fuori dalle ipotesi in cui leggi del genere sono espressamente ammesse dalla Costituzione. Significativo è l'indirizzo seguito sul punto dalla Corte costituzionale, che non definisce la funzione legislativa "nel senso che essa consista esclusivamente nella produzione di norme giuridiche generali ed astratte"; e viceversa consente l'adozione di leggi-provvedimento, ogniqualvolta ricorrano "particolari situazioni di interesse generale", soggette alla "valutazione politica" del potere legislativo. Giuridicamente le leggi-provvedimento non possono nemmeno contrapporsi alle cosiddette leggi-norma, dal momento che anch'esse costituiscono fonti del diritto.


In verità con tutto questo rimane inconcepibile un "ordinamento che non abbia un certo grado di stabilità e permanenza nel tempo": il che vale ad escludere che la formazione di un ordinamento giuridico propriamente detto possa essere interamente affidata ad "una somma seriale di precetti individuali, esaurentisi ciascuno una tantum". Ma ne consegue soltanto che le cosiddette leggi-norma debbono pur sempre comporre l'ossatura del diritto oggettivo.


Il principio generale di eguaglianza come limite della funzione legislativa (ina 166).


Se si guarda al diritto positivo italiano, chi vuole rinvenire un limite costituzionale dell'intera funzione legislativa ordinaria non deve mirare all'art. 70, bensì al primo comma dell'art. 3 Cost., là dove si proclama che "tutti i cittadini . sono uguali davanti alla legge". Nel vigente diritto costituzionale è pacifico che anche la legislazione ordinaria debba conformarsi al principio generale stabilito dall'art. 3 primo comma, che perciò si risolve in un imperativo di eguaglianza dalle leggi stesse. L'imparzialità della pubblica amministrazione e la soggezione dei giudici alla legge, da applicare in modi eguali per tutti, si fondano anzi su particolari e diversi precetti costituzionali: l'uguaglianza va ormai concepita come un vincolo comune a tutte le leggi ordinarie, quali che ne siano i destinatari ed i contenuti normativi.


Si intende che il vincolo in questione non mira a realizzare una parità di natura assoluta. Se così fosse, ne verrebbero precluse a priori quelle distinzioni e quelle classificazioni legislative, dalle quali dipende l'esistenza stessa dell'ordinamento giuridico. Quella voluta dal codice è invece un'eguaglianza relativa: cioè preclusiva delle arbitrarie discriminazioni fra soggetti che si trovino in situazioni identiche o affini. Ed è in questi termini che l'intera legislazione ordinaria si dimostra assoggettata al principio generale di eguaglianza. Più precisamente, i conseguenti giudizi di legittimità costituzionale sul rispetto del principio di eguaglianza hanno per tema la ragionevolezza delle classificazioni legislative: ragionevolezza che riguarda piuttosto la coerenza delle differenziazioni in esame, valutata nel rapporto con il trattamento che le leggi riservino ad altre categorie o ad altre fattispecie.


Il ricorso alla legge-provvedimento, ovvero alle misure legislative del caso concreto, rimane costituzionalmente consentito, purché non si tratti di misure lesive del principio di eguaglianza. Non a caso l'art. 3 Cost. vieta espressamente l'adozione di leggi che distinguano secondo "condizioni personali" e dunque prevedano privilegi, favorevoli od anche odiosi, nei riguardi di determinati soggetti per i quali non soccorrano puntuali giustificazioni. Specialmente negli ultimi tempi in effetti la giurisprudenza costituzionale si è appellata più volte ad un principio di ragionevolezza, concepito in termini ben più ampi del principio costituzionale di eguaglianza.


Le riserve di legge ed il principio di legalità (ina 170).


Per preferenza di legge si intende nell'ambito della competenza legislativa ordinaria il caso in cui la legge prevale sulle fonti di rango inferiore. Tuttavia i rapporti fra le fonti predette si alterano, allorché la costituzione stabilisce, per la disciplina di determinati oggetti, altrettante riserve di legge. Tali riserve comportano una limitazione della potestà legislativa, eliminando o riducendo quella libera scelta fra una disciplina disposta per legge ed una disciplina demandata dalla legge ad altre fonti, della quale il parlamento è comunemente dotato. In regime di costituzione rigida invece, le riserve di legge vincolano precisamente il potere legislativo; giacché il legislatore che non facesse direttamente fronte al compito in tal modo conferitogli violerebbe le prescrizioni costituzionali. Qualora la legge istituisse una potestà regolamentare in materia costituzionalmente riservata alla legislazione ordinaria, illegittime sarebbero non solo le norme regolamentari adottate con quel fondamento dal potere esecutivo, bensì le norme legislative concernenti l'attribuzione della potestà medesima.


La Corte Costituzionale ritiene infatti che "il principio della riserva legislativa" sia rispettato quand'anche la materia venga regolata a mezzo di leggi delegate o di decreti-legge. Per asserire il contrario, non basta una generica riserva, ma occorre che si tratti di una riserva di legge formale; tale ura non ricorre se non allorché ci si trovi in presenza di espressi e tassativi riferimenti costituzionali alle Camere del Parlamento o quando, comunque, lo esiga la natura delle delibere legislative in questione. Più grave è il problema se le riserve di legge riguardino la sola legislazione statale oppure includano anche la legislazione regionale, quanto ai settori di competenza propria delle regioni ordinarie e speciali. In un primo tempo, la Corte Costituzionale aveva senz'altro ritenuto che "la Costituzione si riferisca soltanto alla legge dello Stato". In un secondo tempo tuttavia, il rigore dell'originario assunto è stato assai temperato: giacché la corte ha riconosciuto che le regioni possono legiferare negli stessi ambiti costituzionalmente riservati alla legge. Ancor più fondamentale è poi la distinzione fra riserve assolute e riserve relative. Le prime comprendono tutti gli oggetti la cui disciplina debba essere integralmente dettata dalle leggi. Relative sono invece le riserve in vista della quali il legislatore è tenuto a dettare soltanto la disciplina di principio, ovvero a fornire la base legislativa delle conseguenti attività amministrative.


Qualunque sia la natura delle riserve, è da ritenere che il limite stesso presenti un carattere specifico: cioè non sussista al di fuori delle ipotesi in cui sia puntualmente riscontrabile. Anche in questo senso può ben dirsi che vigano riserve implicite, pur dove la Carta costituzionale non rimandi alla legge. Vero è che in dottrina si suole ragionare di un generale principio di legalità dell'amministrazione; ma il principio medesimo non deve essere confuso con le riserve di legge. Innanzitutto si dimostra dubbia e controversa la stessa portata della legalità di cui si tratta: taluni la intendono in senso puramente formale; altri affermano che ogni potere amministrativo dovrebbe trovare puntuale fondamento in una norma attributiva: altri ancora ritengono indispensabile l'interpositio legislatoris, cui dunque spetterebbe di fondare ed individuare tutti i potere in questione; e finalmente vi è chi si spinge fino al punto di considerare costituzionalmente indispensabile che il legislatore prestabilisca lo schema di ogni attività amministrativa, intendendo pertanto la legalità in un senso sostanziale e traducendola in un limite delle leggi stesse.


Stando al diritto "vivente", la legalità può dunque definirsi come un limite della funzione amministrativa e non come un limite della funzione legislativa dello Stato.


Le leggi rinforzate e le altre leggi atipiche (ina 175).


Alcune leggi statali si distinguono dalla generalità degli altri atti legislativi ordinari approvati dalla Camere, pur non confondendosi con le leggi costituzionali e di revisione costituzionale. A queste fonti viene abitualmente attribuito il nome di leggi rinforzate, sebbene la posizione che ad esse è riservata nel sistema degli atti normativi obbedisca al criterio della competenza anziché al criterio della gerarchia. Il primo esempio fattibile è quello offerto dal nuovo testo dell'art. 79 Cost. per cui "l'amnistia e l'indulto sono concessi con legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale": in questo caso le fasi del procedimento legislativo non sono alterate, ma viene aggravata la sola maggioranza necessaria. Affinché sia dato ragionare di leggi rinforzate, è però necessario che l'aggravamento delle loro procedure formative venga puntualmente imposto da apposite norme di rango costituzionale: non sono inquadrabili fra le leggi rinforzate quelle che le Camere approvino dopo aver sentito i pareri del Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro.


Costituzionalizzato è il cosiddetto procedimento concordatario, mediante il quale vanno poste le premesse perché in materia si adottino nuove leggi ordinarie. Ma considerazioni analoghe s'impongono, a più forte ragione, per le leggi fondate sulle intese fra il governo italiano e le confessioni acattoliche. In tutti questi casi le leggi dispongono di una forza passiva peculiare. Esse non sono suscettibili, abrogabili o derogabili da altre leggi ordinarie dello Stato, se non intervengono ulteriori intese, alle quali il Parlamento si deve conformare; ed è precisamente in questo dato che consiste la loro atipicità rispetto alla restante legislazione statale ordinaria. Così concepita la ura delle leggi atipiche eccede, però, le ipotesi regolare dagli articolo 7 e 8 Cost. Da un lato, essa è comprensiva delle stesse leggi "rinforzate". Dall'altro essa può abbracciare ipotesi diverse ed alquanto eterogenee, a cominciare dalle leggi sottratte al referendum abrogativo. Alcune leggi, come quelle tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, non sono abrogabili in via referendaria; ed in questo senso è dato ipotizzare una loro atipicità.


Le leggi meramente formali sono considerate non-costitutive dell'ordinamento giuridico, perché incompetenti a produrre norme di qualunque genere.


Gli atti governativi con forza di legge: le leggi delegate (ina 180).


Il principio di separazione dei poteri postula l'esclusiva spettanza del potere legislativo al parlamento. Ed è in quella prospettiva che "la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due camere". Ma il principio stesso subisce una serie di eccezioni, costituzionalmente previste: la prima delle quali riguarda la delega della funzione legislativa a favore del potere esecutivo.


Nella realtà costituzionale si dimostrano dunque l'estensione e l'importanza dei processi di devoluzione di consistenti poteri normativi delle assemblee parlamentari all'esecutivo. Questo stato di cose ha influito sensibilmente sui lavori dell'assemblea costituente, specie per quanto concerne il problema della delegabilità della legislazione al governo, che è stato risolto nel senso affermativo tanto in commissione quanto in aula. S'è infatti riconosciuta l'inevitabilità del fenomeno; e di conseguenza si è preferito regolamentarlo e circoscriverlo, per non depotenziare troppo il ruolo delle Camere, anziché opporre uno sterile rifiuto.


L'esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti. Il potere legislativo delegabile al governo non corrisponde,cioè, a quello del quale le camere sono titolari, ma si rivela diverso per natura e minore per portata, in quanto assai più gravemente condizionato nel proprio esercizio. Già in questo senso bisogna dunque concludere che la delega legislativa non comporta un trasferimento né della titolarità né dell'esercizio dell'ordinaria potestà legislativa; ma si risolve piuttosto nella creazione di un potere legislativo nuovo, che il Parlamento affida al Governo senza per questo vedersi privato della correlativa competenza. Ma si tratta anche d'una legislazione di rango minore, in quanto essa subisce almeno cinque tipi di limitazioni peculiari. Anzitutto, una fondamentale ragione distintiva consiste in ciò che la legislazione delle camere è giuridicamente libera, mentre la legislazione delegata è sottoposta agli ulteriori vincoli dettati dalla legge di delegazione: sotto questo aspetto, si è rilevato in dottrina che la funzione legislativa delegata non è dunque libera ma discrezionale, appunto perché non dispone dei suoi fini ultimi, che debbono invece venire prefissati dalle camere. Secondariamente la potestà legislativa delle camere è permanente, quella del governo deve dirsi invece temporanea; quella delegata al governo è una competenza specializzata, ossia circoscritta ai solo settori espressamente indicati da ciascuna legge di delegazione.


Per passare ad un'analisi più dettagliata di tali limitazioni, bisogna chiarire quali siano ed in che consistano i possibili oggetti della delega. Nell'attuale ordinamento, infatti, vi sono materie o tipi di discipline che la Costituzione riserva in modo assoluto alle leggi formali; sicché il ricorso alla delega sarebbe in queste ipotesi illegittimo. La delega legislativa è invece ammissibile ovunque il delegante disponga della competenza a legiferare. Il limite degli oggetti definiti non impedisce, anzi, che il Parlamento deleghi al governo la disciplina di intere vastissime materie, purché non si arrivi all'estremo di una delega dei "pieni poteri". Non a caso, nella prassi è frequente il ricorso alle delegazioni plurime, contestualmente relative ad una pluralità di oggetti, ciascuno dei quali può essere disciplinato dal governo per mezzo di un distinto decreto delegato.


Per non confondere la delega legislativa con un incondizionato trasferimento di competenza, la costituzione ha stabilito che l'emanazione del decreto o dei decreti legislativi del governo debba avvenire entro un tempo limitato dalla stessa legge delegante. Accade, per meglio dire, che il Parlamento imponga al governo di attuare una delega entro un dato periodo di tempo, la decorrenza del quale non è tuttavia prestabilita fin dal momento delle delibere parlamentari, in quanto il periodo stesso è destinato ad iniziare nel giorno dell'entrata in vigore della legge delegante. A volte però il governo ha abusato di questo tipo di previsioni, ritardando indebitamente la pubblicazione, allo scopo di poter utilizzare un periodo più lungo di quello che la legge assegnava. Ma il tentativo è stato censurato da parte della corte costituzionale, che in simili casi non ha esitato ad ipotizzare l'illegittimità degli stessi decreti delegati.


Fra i limiti prescritti dall'art. 76 Cost., quello sostanzialmente nuovo è rappresentato dai principi e criteri direttivi che la legge delegante deve pregere. Limitazioni inerenti al tempo ed all'oggetto della delega uravano comunemente, infatti, già nelle delegazioni legislative del periodo statutario e fascista; ma ciò non implicava ancora una serie di vincoli di tipo finalistico e contenutistico. Anzitutto non ha avuto seguito la tesi che cercava di distinguere fra principi e criteri, sostenendo che nel primo senso il parlamento dovrebbe fissare le norme fondamentali della disciplina degli oggetti delegati, lasciando al governo la sola normativa di dettaglio; mentre nel secondo senso si tratterebbe di definire gli scopi da raggiungere, i mezzi da utilizzare in conseguenza, gli standards da osservare nel completamento del quadro.


Quelli che la Costituzione esige, a pena di invalidità della stessa legge delegante, non sono infatti i limiti massimi ma i limiti minimi della delegazione; sicché nulla esclude che il Parlamento introduca limitazioni ulteriori, consistenti in direttive particolarmente dettagliate o in norme materiali.


L'art. 76 non precisa quante volte possa legittimamente esercitarsi il potere legislativo delegato, prima che scada il termine della delegazione. Ciò spiega che in proposito si siano formate due contrapposte correnti dottrinali: l'una che afferma la necessaria istantaneità del potere medesimo, l'altra che invece contesta questo tipo di ricostruzione, assumendo che nel dubbio la delega legislativa dovrebbe essere intesa come un'attribuzione temporanea ma continuativa di poteri, suscettibile dunque di un'utilizzazione ripetuta.


Fermo rimane comunque, che nella maggioranza dei casi nessuno ha mai dubitato dell'istantaneità dei poteri delegati al governo. Questa circostanza induce a concludere che l'istantaneità rappresenti un requisito normale, anche se non completamente indispensabile. Di più: nella legislazione degli ultimi tempi il requisito in questione non ha subito altro che limitate eccezioni, consistenti nel conferire al governo il potere di correggere gli originari decreti legislativi, mentre non si è più prevista l'integrale riscrittura dei decreti stessi, sia pure effettuata entro il termine ultimo della delegazione.


Ancor più problematico è il discorso sulla doverosità dell'esercizio dei poteri delegati dal Parlamento al Governo. La dottrina costituzionalistica è tuttora incline a ritenere che le delegazioni siano di norma imperative e non semplicemente autorizzative della conseguente attività del delegato: poiché, diversamente, non avrebbe un senso compiuto il fatto di provvedere alla delega e di prefissare anche un termine per l'attuazione di essa.


Le deleghe legislative anomale (ina 188).


Rispetto al modello conurato nell'art. 76 Cost., si danno conferimenti di potero legislativi a favore del governo, che in vario modo divergono dal tipico rapporto di delegazione. Il primo caso da mettere in rilievo è quello dei testi unici, cioè degli atti miranti a raccogliere e riformulare una pluralità di disposizioni legislative. Nondimeno, era ed è pacifico che si tratti di decreti aventi forza di legge, se non altro per ciò che riguarda i cosiddetti testi unici di coordinamento, mediante i quali l'esecutivo è chiamato ad armonizzare le leggi vigenti in un determinato capo: se così non fosse, tali atti non potrebbero perseguire il loro fine, cioè non sarebbero in grado di modificare il alcun modo la legislazione preesistente. Per contro, quanto mai dibattuto è il caso dei testi unici di mera compilazione, che si risolvono nella riproduzione delle disposizioni vigenti, senza che il governo sia dotato di alcun potere di emendamento. In dottrina si afferma che anche questi atti avrebbero natura di leggi delegate. In giurisprudenza si suole invece negare che i decreti stessi abbiano forza di legge. Ma un'antica opinione dottrinale, tuttora ripresa da qualche costituzionalista, è nel senso che tali testi prescrivano una sorta di "interpretazione amministrativa", vincolante per le pubbliche amministrazioni in quanto proveniente dal governo.


In base all'art. 78 Cost., "le camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al governo i poteri necessari". Ed è diffusa in dottrina la tesi che tale conferimento si risolva in una delega, sia pure differenziata dalla fattispecie dell'art.76.


È certo pensabile che la legge di conferimento dei "poteri necessari" prestabilisca un termine, coincidente con la fine delle operazioni militari, se non addirittura con la ratifica del trattato di pace; ma un tanto non può dirsi indispensabile, giacché la cessazione dello Stato di guerra, agli effetti dell'esercizio dei detti poteri, dipenderebbe altrimenti da una formale delibera parlamentare di ritorno allo stato di pace. Di più: nell'attuale dottrina predomina la tesi che l'art. 78 consenta la parlamento ed allo stesso governo di derogare alla costituzione senza ricorrere a revisioni costituzionali, soprattutto nel senso di sospendere talune libertà fondamentali come quella personale o come quella di pensiero e di stampa. È certo che lo stato di guerra si discosta fortemente dal normale regime che la costituzione conura per il tempo di pace. Sia perché in tal caso è ammessa la pena di morte; sia perché può essere eccezionalmente prorogata la durata di ciascuna Camera; sia perché si estende la giurisdizione spettante ai tribunali di guerra.


Nettamente diversificato dai rapporti instaurabili fra il parlamento ed il governo era anche il caso dell'amnistia e dell'indulto, che sono concessi dal Presidente della repubblica su legge di delegazione delle camere. In primo luogo, era peculiare che l'oggetto o gli oggetti della delega venissero qui definiti dalla costituzione stessa. In secondo luogo, risultava ancor più caratteristica la natura necessaria della delega in questione. Ma i problemi ricostruttivi, generati da quella singolare previsione costituzionale, sono stati superati dal nuovo testo dell'art. 79 che ha riservato alle leggi formali l'intero potere in questione.


Alle leggi delegate sono altresì avvicinati i decreti legislativi di attuazione degli statuti speciali. Ma la corte costituzionale ha giustamente escluso che in tal caso si abbia una delega legislativa. Del resto è solo nello statuto per il trentino-alto adige che si è stabilito un termine entro il quale il governo avrebbe dovuto completare l'emanazione dei relativi decreti; ma il termine è stato ritenuto ordinatorio, e non perentorio, da parte della corte costituzionale, con la conseguenza che le norme di attuazione continuano ad essere validamente prodotte, specie per quanto riguarda la provincia di bolzano.


Quella disposta dagli statuti speciali è dunque un'attribuzione istituzionale di competenza, avente ad oggetto il passaggio degli uffici e del personale statale alla regione. Non a caso, tutti gli statuti in questione esigono che le delibere governative siano precedute dalle proposte o dai pareri di altrettante commissioni paritetiche, composte da rappresentanti dello stato o della regione interessata: il che spiega come tali atti siano stati collocati anche nel quadro delle fonti normative rinforzate.


La decretazione legislativa d'urgenza (ina 193).


Dei decreti legge, intesi come atti con forza di legge che il governo poteva adottare al di fuori di una qualsiasi delega legislativa, si cominciò a fare uso dagli ultimi decenni del secolo scorso. È questo il motivo per cui la commissione dei 75, nel formulare il progetto della costituzione, mantenne inizialmente un atteggiamento negativo di fronte al quesito se i decreti legge dovessero venire ancora ammessi. In seno alla commissione ci si limitò a riconoscere che provvedimenti del genere avrebbero potuto risultare utili per soddisfare specifiche esigenze non fronteggiabili dalle camere in maniera tempestiva (soprattutto in materia di tributi). Durante la discussione in assemblea plenaria prevalsero invece opinioni diverse: miranti a consentire che il governo continuasse a servirsi in ogni campo della decretazione legislativa d'urgenza, ma sottoponendo i decreti-legge a vincoli assai più rigorosi che in passato. Dal dibattito finì anzi per emergere l'idea che i decreti-legge non convertiti in leggi ordinarie nel perentorio termine di sessanta giorni dovessero considerarsi decaduti ex nunc.


I decreti perdono efficacia sin dall'inizio, se non sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione. Con tutto questo però alla carta costituzionale sottostanno numerosi problemi ancora controversi in dottrina. Innanzitutto, un'interpretazione letterale dell'art. 77 potrebbe far ritenere che i decreti-legge abbiano forza ma non valore di legge, dato che il primo comma del medesimo articolo subordina l'emanazione dei decreti aventi "valore di legge ordinaria". Ma la tesi non convince, poiché la costituente fa un uso promiscuo dei termini forza e valore di legge, considerandoli come sinonimi. Vero è che i decreti legge, diversamente dalle leggi formali e dalle stesse leggi delegate, sono caratterizzati non solo e non tanto dalla temporaneità ma dalla precarietà dei loro disposti. Nel nostro ordinamento essi non rappresentano l'unico caso di fonti normative destinate ad operare per un periodo massimo di sessanta giorni: poiché la loro conversione in legge comporta una novazione dei loro contenuti, tale che la legge stessa si sostituisce retroattivamente al relativo decreto, mentre la mancata conversione determina la loro totale decadenza. Dalla rigorosissima regolamentazione costituzionale deriva anzi, in tal senso, un paradosso ulteriore: i decreti-legge sono infatti gli unici atti normativi suscettibili di trasformarsi da fonti del diritto a fonti di illecito, lasciando del tutto privi di fondamento i rapporti instauratisi ai sensi delle loro prescrizioni. Di fronte alle difficoltà che attengono all'attuale disciplina dei decreti-legge, si è cercato in dottrina di troncarle contestando che i decreti stessi costituiscano, in origine atti normativi del governo equiparabili alle leggi formali. Si è sostenuto che tali provvedimenti sarebbero in partenza invalidi e non si trasformerebbero in fonti di diritto che per effetto della loro conversione in legge, sicché la "forza di legge" dovrebbe essere intesa alla maniera di una provvisoria efficacia, che li renderebbe esecutori nei confronti degli organi delle pubbliche amministrazioni, ma non obbligatori nei confronti dei giudici.


Simili tentativi dottrinali non fanno però che aggravare il paradosso dei decreti-legge. L'espressa disciplina costituzionale sta a dimostrare, al contrario, che i decreti-legge sono stati intesi come finti del diritto, sebbene legati da una parte all'esistenza dei presupposti giusitificativi della necessità e dell'irgenza dei provvedimenti, dall'altra al tempestivo consenso delle camere, manifestato nella forma della legge di conversione.


Nei fatti però, di gran lunga più frequente è stato l'abuso della decretazione. È prevalsa nella prassi dell'ultimo ventennio, un'interpretazione assai lassista dei presupposti giustificativi dei decreti-legge, onde il governo ha fatto un crescente ricorso alla potestà, dando spesso ai suoi provvedimenti contenuti diversi da quelli che dovrebbero esser tipici della decretazione legislativa d'urgenza. I decreti leggi all'inizio di distinguevano in due categorie: quella dei decreti catenaccio, utilizzati per cogliere i contribuenti di sorpresa, elevando all'improvviso tributi oppure prezzi controllati; e quella dei decreti di emergenza, recanti provvidenze in occasione delle pubbliche calamità. Successivamente si sono aggiunte altre categorie: quella dei decreti di proroga, usati per dilazionare la scadenza delle discipline; e quella ancor più rilevante dei decreti di riforma, usati per modificare certe strutture portanti del nostro ordinamento. Ciò che più conta, in caso d'una inutile scadenza del termine di conversione, i Governi degli ultimi decenni hanno fatto ricorso all'integrale o quasi integrale riproduzione dei decreti decaduti. Se poi le camere non erano sollecite nel convertire il secondo decreto, poteva bene accadere che il Governo ne adottasse un terzo od anche un quarto o un quinto . , così da formare vere e proprie catene, talvolta comprendenti più di una decina di provvedimenti consecutivi. Ed anzi accadeva persino che il governo riproducesse e rinnovasse, con marginali modifiche, decreti formalmente bocciati dall'una o dall'altra camera.


Un primo, parziale rimedio è derivato dalla legge che nel 1988 ha regolato l'attività di Governo: la quale ha esplicitamente escluso tanto la reiterazione dei decreti per i quali il Parlamento avesse negato la conversione, quanto la sanatoria governativa degli effetti imputabili ai decreti comunque decaduti. La Corte Costituzionale ha escluso poi che "il Governo, in caso di mancata conversione, possa riprodurre, con un nuovo decreto, il contenuto normativo dell'intero testo o di singoli disposizioni". Il che permette che lo stesso Presidente della Repubblica possa attivarsi in via preventiva, negando l'emanazione dei decreti-legge non corrispondenti a siffatti requisiti.


I regolamenti degli organi costituzionali (ina 199).


Il complesso degli atti normativi immediatamente subordinati alla sola Costituzione non si risolve, nelle leggi statali ordinarie e nei decreti presidenziali; bensì ricomprende la normazione cosiddetta regolamentare di alcuni organi costituzionali. Ed in questo campo spiccano i regolamenti delle Camere. Nel periodo statuario, era diffusa l'idea che si trattasse di norme regolamentari interne, ricadenti fra gli interna corporis. Ma la tesi non è più sostenibile nella sua integralità. I richiami costituzionali dei regolamenti alle camere non hanno costituzionalizzato tali atti, né li hanno comunque elevati a parametri nei giudizi sulla legittimità costituzionale delle leggi, come invece assumevano ed assumono alcuni costituzionalisti.


La Costituzione ha conurato una riserva di regolamento, che vuole per la formazione di queste norme la maggioranza assoluta. Leggi ordinarie che contraddicessero i regolamenti, nel campo attribuito alla loro esclusiva competenza, sarebbero perciò costituzionalmente illegittime; e la conseguente limitazione della generale competenza attribuita al potere legislativo non si spiega se non riconoscendo che i regolamenti parlamentari concorrono oggi a formare il complessivo ordinamento giuridico.


Resta il grave problema se i regolamenti parlamentari possano pertanto venire inseriti fra gli "atti aventi forza di legge dello Stato", ai fini della loro sindacabilità. La prevalentissima dottrina era ed è nel senso affermativo, notando che altrimenti si sovrapporrebbero gli atti in questione alle stesse norme costituzionali. La corte costituzionale, per contro, ha recentemente dichiarato inammissibile un'impugnativa sollevata nei riguardi di norme regolamentari attribuenti alla Camere ed al Senato la cosiddetta autodichia. Ma tutto questo non vieta che i regolamenti parlamentari siano invece impugnabili per la via del conflitto di attribuzione fra i poteri dello Stato, costituzionalmente indicata dallo stesso art. 134.


Meno dibattuto, ma anche assai meno lineare è il caso dei regolamenti della Corte costituzionale. La Costituzione stabilisce una duplice riserva di legge, per cui spetta alla legge costituzionale regolare "le condizioni, le forme, i termini di proponibilità dei giudizi di legittimità costituzionale e le garanzie di indipendenza dei giudizi della corte; mentre con legge ordinaria vanno dettate "le altre norme necessarie per la costituzione e il funzionamento della corte". Senonché la legge ha precisato che "la Corte può disciplinare l'esercizio delle sue funzioni con regolamento approvato a maggioranza dei suoi componenti", da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale; ed ha aggiunto che spetta alla Corte dettare "norme integrative" per regolare lo svolgimento dei giudizi sulla sua competenza.


Al di là della legge n. 87, si è allora affermato che la menzione legislativa dei regolamenti della corte sarebbe solo ricognitiva e non costitutiva della potestà regolamentare in questione: la quale troverebbe comunque il suo primo fondamento nella "piena indipendenza dei membri della corte", costituzionalmente garantita. Quanto invece alla disciplina dei giudizi davanti alla Corte, occorre ritenere che le norme regolamentari in questione abbiano un carattere meramente interpretativo ed integrativo, non già potenzialmente derogatorio rispetto alla legge n.87.


Questioni analoghe parrebbero ora investire quei regolamenti del governo, medianti i quali il potere esecutivo può disciplinare il funzionamento del consiglio dei ministri. Senonché la stessa legge sull'ordinamento della Presidenza del consiglio dei ministri ha espressamente disposto che un apposito regolamento, definito interno ma soggetto a pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, disciplini "gli adempimenti necessari per l'iscrizione delle proposte d'iniziativa legislativa e di quelle relative all'attività normativa del governo all'ordine del giorno del consiglio dei ministri".


Riservati potrebbero forse definirsi i cosiddetti regolamenti presidenziali, approvati dal Capo dello Stato su proposta del rispettivo segretario generale della presidenza della repubblica, per disciplinare gli uffici e i servizi della Presidenza stessa. Ma in questo caso osta la considerazione che la potestà regolamentare imputata al presidente va esercitata in necessaria collaborazione con un soggetto. E la circostanza che neppure tali fonti siano menzionate dalla sectiune costituzionale fa pensare che la sola esigenza da tenere ferma è che sia fatta comunque salva l'indipendenza del Capo dello Stato nell'esercizio delle sue funzioni.


Il referendum abrogativo delle leggi dello Stato (ina 204).


L'assemblea costituente si è limitata a conurare tre forme di referendum interessanti leggi dello Stato: quello abrogativo disciplinato dall'art. 75 Cost., per mezzo del quale gli elettori possono "deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge"; quello che in dottrina suole venire definito consultivo, con riferimento al primo ed al secondo comma dell'art. 132m quanto alle modifiche delle circoscrizioni regionali; e quello approvativo delle leggi di revisioni della Costituzione e delle altre leggi costituzionali.


Ora, sia nel secondo che nel terzo caso, si tratta di referendum che s'inseriscono nei procedimenti formativi di leggi statali ordinarie ovvero di leggi costituzionali, concretizzando autonome fasi dei procedimenti stessi; sicché le vere fonti sono pur sempre formate, in entrambe le ipotesi, dalle leggi e non dai referendum che esse presuppongono. Nel primo caso il corpo elettorale non dispone se non dell'abrogazione o della permanenza in vigore della disciplina legislativa sottoposta al voto popolare: il popolo in tal modo esercita una funzione di controllo politico sulle scelte legislative delle camere. Nondimeno prevale in dottrina l'idea che il referendum si risolva pur sempre, qualora gli elettori si esprimano a favore dell'abrogazione, in una fonte atto. In primo luogo però, il fatto stesso che dall'esito del referendum dipenda la permanenza in vigore di una legge induce a collocare i voti popolari abrogativi sul medesimo piano. In secondo luogo, l'abrogazione referendaria determina comunque "conseguenze modificative" dell'ordinamento. Anche in quest'ultimo caso, cioè, abrogare significa "disporre diversamente" facendo si che i rapporti già disciplinati dalle norme legislative abrogate ricevano differente disciplina. Posto dunque che la deliberazione popolare abrogativa sia per definizione produttiva di diritto, la dottrina costituzionalistica è orientata a ritenere che, in tale evenienza, il referendum dia luogo ad un atto avente forza di legge ordinaria dello Stato. D'altra parte, nel qualificare l'abrogazione referendaria si dimostra determinante il fatto che "la delibera del corpo elettorale è destinata ad assumere la forma di decreto del capo dello Stato". Ma ciò non forma ostacolo all'inclusione del referendum abrogativo fra gli atti aventi forza di legge dello Stato stesso, appunto perché spetta al presidente della Repubblica dichiarare "l'avvenuta abrogazione"; la quale "ha effetto a decorrere dal giorno successivo a quello della pubblicazione del decreto nella Gazzetta Ufficiale". Rispetto alle leggi statali ordinarie ed agli altri atti governativi equiparati il referendum abrogativo subisce però una serie di limitazioni peculiari. Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali. Da un lato cioè, la Corte ha ritenuto che certe leggi o certe materie, eccedenti le previsioni costituzionali siano implicitamente escluse dall'ambito delle consultazioni referendarie. Tali sono anzitutto gli atti legislativi dello Stato "dotati di una forza passiva peculiare" e sotto questo aspetto "assimilabili alle leggi costituzionali", come nel caso delle leggi di esecuzione dei Patti lateranensi; tali sono ancora le "disposizioni legislative ordinarie a contenuto costituzionalmente vincolato", l'abrogazione delle quali ripercuoterebbe sulle corrispondenti norme costituzionali; e tali infine, vanno considerate le leggi così strettamente connesse a quelle testualmente indicate dall'art. 75 secondo comma, che la loro sottrazione al referendum "debba ritenersi sottintesa",come nel caso delle norme legislative di esecuzione dei trattati internazionali, considerate nel loro stringente rapporto con le leggi autorizzanti la ratifica dei trattati stessi.


Ma resta comunque indispensabile che ciascun quesito referendario risulti omogeneo, anziché contenere "una tale pluralità di domande eterogenee, carenti di una matrice razionalmente unitaria, da non poter venire ricondotto alla logica dell'art. 75 Cost.": la quale esige che gli elettori siano messi in grado di votare per il sì o per il no, in vista di interrogativi chiari e precisi, non già per rispondere a diversi referendum "conglobati a forza entro un solo contesto". Accanto al requisito dell'omogeneità, la corte ha reiteratamente imposto la coerenza e l'intelligibilità del quesito, valutate mettendo in rapporto le disposizioni legislative coinvolte dal referendum con quelle esentate dalla corrispondente richiesta. La corte ha poi dichiarato inammissibili tutti i referendum concernenti leggi elettorali che producessero vuoti incolmabili, nell'attesa di una disciplina integrativa. Una volta presentata una richiesta referendaria, essa può essere bloccata mediante l'approvazione di una legge abrogativa di quella sottoposta al voto popolare, che ne determini l'entrata in vigore prima dello svolgimento della consultazione. Ma l'effetto preclusivo non si realizza se la legge abrogativa comporta innovazioni di pura forma o di mero dettaglio.


Le leggi regionali: la tipologia (ina 210).


La conurazione di varie specie di potestà legislative regionali, variamente attribuite alle Regioni ordinarie e differenziate. L'attribuzione di potestà legislative a favore di tutte le amministrazioni regionali è stata in effetti concepita come il momento fondamentale e caratterizzante della loro autonomia. Quanto alle regioni ordinarie, la Commissione dei 75 aveva progettato un assetto tripartito, per cui certe materie di competenza regionale avrebbero dovuto venire disciplinate mediante una legislazione locale di carattere primario o pieno od esclusivo, altre materie avrebbero invece formato l'oggetto di una legislazione locale concorrente con quella dello Stato, altre ancora sarebbero infine ricadute nell'ambito d'una competenza legislativa di tipo integrativo od attuativo delle leggi statali. Ma le successive delibere dell'Assemblea costituente hanno fatto cadere la prima e la terza di tali ure. Al contrario la tripartizione testè ricordata continua a contraddistinguere l'ordinamento di varie Regioni differenziate, quali la Sardegna, il Trentino-Alto Adige, il Friuli-Venezia Giulia. Le regioni stesse dispongono di una potestà legislativa più importante e più ampia "in armonia con la Costituzione, con i principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato". E per ulteriori settori dell'ordinamento, esse hanno la "facoltà di adeguare" alle proprie esigenze "le disposizioni delle leggi della Repubblica, emanando norme d'integrazione e di attuazione". Le materie rispettivamente assegnate dalle varie norme statutarie alle varie specie della potestà legislativa regionale sono diverse. In secondo luogo, è ancor più rilevante il fatto che in Sicilia e nella Valle d'Aosta la tipologia della potestà legislative regionali si dimostra semplificata ed anche alterata.


I limiti comuni a tutte le specie della potestà legislativa regionale (ina 213)


Malgrado la loro varietà, tutte le potestà legislative regionali sottostanno ad una vasta serie di limiti comuni. Ciò rende possibile conglobare diverse specie in un unico genere: con tanto maggiore evidenza in quanto la giurisprudenza costituzionale ha determinato una progressiva riduzione del distacco intercorrente fra i diversi tipi di legislazione locale.


In effetti qualsiasi legge regionale, a qualsiasi specie appartenga, rappresenta in primo luogo il frutto di una competenza legislativa specializzata, gli oggetti della quale sono tassativamente attribuiti dalla Costituzione o dagli statuti speciali. In ciò consiste il cosiddetto limite delle materie, che la corte costituzionale ha rigorosamente inteso alla stregua di un criterio normativo di definizione: cioè sostenendo che le formule in questione "si debbono interpretare secondo il significato che hanno nel comune linguaggio legislativo e nel vigente ordinamento giuridico". Per altro la Corte ha variamente ritagliato particolari settori, sottraendoli alla potestà legislativa regionale. Valga per tutti l'esempio dei rapporti di diritto privato, che in nome della necessaria unità dell'ordinamento giuridico sono stati riservati alla legislazione statale.


In secondo luogo, ogni potestà legislativa regionale è naturalmente soggetta ad un limite territoriale. È infatti evidente che le leggi locali non possono disciplinare oggetti non localizzati nei territori delle corrispondenti Regioni. Ed ove gli oggetti in questione trascendano anche in parte il territorio regionale, come ad esempio si verifica per le linee di trasporto o per i bacini fluviali collocati in più Regioni, la competenza regionale è di regola esclusa, a meno che norme legislative statali non prevedano intese fra le varie amministrazioni cointeressate. Senonché il tema dei riflessi che le scelte legislative regionali possono determinare al di là dei rispettivi territori investe in realtà, oltre al limite territoriale, altri limiti della legislazione locale, da quello degli interessi nazionali fino allo stesso limite della materie.


In terzo luogo, per tutte le leggi regionali si può ragionare di un limite costituzionale, da non confondere con i restanti limiti costituzionalmente o statutariamente previsti. Allorché gli statuti speciali ragionano della necessaria armonia con la costituzione, essi intendono anzitutto evidenziare che varie prescrizioni costituzionali, vincolano le regioni stesse: con particolare rigore nel caso delle sanzioni penali, su cui le regioni non possono comunque incidere, ostando il principio di legalità dei reati e delle pene.


In quarto luogo vanno sempre rispettati gli obblighi internazionali dello Stato. Ciò implica che sono di regola riservati alle autorità centrali "gli apprezzamenti di politica estera e la formulazione di accordi con soggetti propri di altri ordinamenti", fatto soltanto eccezione per le "attività promozionali" e per gli "atti di mero rilievo internazionale". Non a caso per derogare al rigore di questo principio, quanto all'adempimento degli obblighi comunitari interessanti le materie medesime, sono occorse apposite leggi statali attributive di specifici poteri alle regioni.


Ancora tutte le leggi regionali debbono attenersi, in quinto luogo, alle grandi riforme economico-sociali della Repubblica. Con questo fondamento è accaduto più volte che tali riforme abbiano prodotto rilevanti compressioni delle potestà legislative già spettanti alle regioni, tanto ordinarie quanto differenziate.


In sesto luogo, nessuna disciplina legislativa locale può legittimamente derogare ai principi generali dell'ordinamento. Sul piano concettuale si tratta di un limite dotato d'una notevole importanza, giacché ne risulta definitivamente confermata la fondamentale unità del sistema normativo vigente sull'intero territorio nazionale: con la conseguenza che gli ordinamenti delle singole regioni non sono tali nel senso pieno del termine, ma rappresentano altrettante parti dell'ordinamento giuridico statale.


Del tutto a sé stante parrebbe il settimi ed ultimo limite costituzionale, formato dagli interessi nazionali. Secondo il testo costituzionale dovrebbe infatti trattarsi d'uno straordinario limite politico, non riguardante la legittimità delle leggi regionali. Malgrado le critiche subite la giurisprudenza costituzionale è tuttora così ferma, da generare sul punto una sorta di diritto vivente. Sicché l'interesse nazionale si è trasformato da "limite negativo . in presupposto positivo di competenza statale", dando corpo all'idea che nei rapporti fra stato e regioni spetti al potere centrale una posizione di "supremazia".


In difesa di tale giurisprudenza va tuttavia rilevato che la cosiddetta conversione del limite di merito in limite di legittimità fa si che gli interessi nazionali non vengano quasi mai utilizzati da soli; bensì concorrano ora con il limite territoriale, ora con il limite delle materie. In altre parole, i vari limiti della potestà legislativa regionale non sono concepiti isolatamente bensì interpretati ed applicati in maniera combinata e sistematica.


Le leggi-cornice nella materie di competenza delle regioni ordinarie; leggi statali e leggi regionali nel sistema delle fonti (ina 218).


Nelle materie assegnate alla potestà legislativa concorrente, le regioni subiscono il limite dei principi assai più gravemente di quanto non avvenga per la legislazione primaria od esclusiva. Le leggi locali in questione sono infatti assoggettate ai "principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato". Ne segue che in tali materie la competenza legislativa è costituzionalmente bipartita, spettando appunto allo stato la normazione di principio, mentre alle regioni è generalmente riservata la normazione di dettaglio.


L'espressione stabiliti ha fatto anzi pensare che occorressero allo scopo apposite leggi-cornice: in mancanza delle quali le regioni astrattamente competenti non avrebbero affatto potuto esercitare la loro potestà legislativa.


Dal 1970 ad oggi, tuttavia, un'apposita legislazione statale di principio è stata adottata in parecchie materie rientranti nella competenza regionale concorrente. Ciò ha reso concreto l'ulteriore problema della sorte spettante alle leggi regionali già entrate in vigore nelle materie medesime, ma contrastanti con le sopravvenute leggi-cornice. Si era però espressa la legge n. 62 del 1953, disponendo come segue: "le leggi della Repubblica che modificano i principi fondamentali . abrogano le norme regionali in contrasto con esse".


La corte costituzionale ha ritenuto che quest'ultima impostazione sia pienamente legittima. Ciò spiega, allora, che varie leggi statali del genere accomnino le norme di principio con una transitoria normativa di attuazione. L'abrogazione di tutta la previdente legislazione regionale diviene in tal modo inevitabile.


Tali circostanze valgono ad illuminare i rapporti fra le leggi statali ordinarie e le leggi regionali, nelle materie in cui si svolge la potestà legislativa concorrente. Malgrado la competenza costituzionalmente attribuita alle regioni, non si può certo affermare che le leggi statali siano comunque escluse dagli ambiti in questione. Lo conferma la prassi consistente nell'inserire nelle leggi-cornice le occorrenti norme statali di attuazione o di integrazione dei nuovi principi: prassi in vista della quale si è ragionato di preferenza e non di riserva della legislazione regionale di dettaglio negli ambiti della competenza bipartita.


Quanto alla stessa legislazione regionale primaria o "esclusiva", le leggi statali s'impongono al più vario titolo, sia quando dettano i principi dell'ordinamento, sia quando realizzano "grandi riforme", sia quando eseguono accordi internazionali, sia quando perseguono interessi nazionali od ultraregionali. In tutte queste ipotesi, la legislazione della Repubblica può ben abrogare le leggi regionali incompatibili, pretendendo immediata applicazione anche nei territori delle Regioni ad autonomia differenziata. Ciò basta per contestare la pur diffusa opinione che le leggi regionali siano parificate alle leggi dello Stato, nel senso che a ciascuno dei due tipi di fonti spetterebbero ambiti "rigorosamente distinti". Ma la separazione delle rispettive competenze non è poi così netta, come per esempio nei rapporti fra leggi statali ordinarie e regolamenti parlamentari. Sicché i relativi conflitti si risolvono presupponendo che, almeno a questi effetti, il criterio gerarchico interferisca con il criterio della competenza e la legge statale ordinaria sia dunque dotata di una forza prevalente.


Gli statuti delle regioni ordinarie; gli atti regionali aventi forza di legge (ina 222)


Ogni regione ordinaria "ha uno statuto",che "stabilisce le norme relative all'organizzazione interna" dell'ente in questione. Esiste pertanto una sfera di autonomia statuaria, distinta dalla sfera dell'autonomia legislativa; tanto è vero che le rispettive competenze sono almeno in parte separate e che, soprattutto, ben diversi risultano i rispettivi procedimenti di formazione e di controllo. È dunque pacifico che si tratti di fonti per sé stanti, alla base delle quali si danno autonome scelte delle singole regioni interessate, che il parlamento non potrebbe validamente emendare: le leggi statali approvative degli statuti hanno infatti un carattere meramente formale, sicché alle due camere spetta solamente valutare se l'intero testo debba essere o meno rinviato al Consiglio deliberante. Molto meno pacifica è invece la natura del complesso formato dallo statuto e dalla rispettiva legge d'approvazione. Parte della dottrina afferma infatti che lo statuto sarebbe pur sempre imputabile alla regione quale atto normativo, mentre la legge statale approvativa assolverebbe una pura funzione di controllo. Altri autori, per contro, ritengono che si tratti di un'atipica legge dello stato, i cui contenuti verrebbero necessariamente determinati dal consiglio regionale. Certo è che gli statuti ordinari occupano un posto ben distinto dalle posizioni che spettano tanto alle comuni leggi dello stato quanto alle vere e proprie leggi delle regioni ordinarie. Con le "leggi della Repubblica" gli statuti debbono trovarsi "in  armonia". D'altra parte gli statuti, nei loro rapporti con le regioni, sono sopraordinati, almeno a certi effetti. In vari settori può determinarsi una sovrapposizione della competenza statuaria e della competenza legislativa locale; sicché gli statuti e le leggi in questione concorrono nel disciplinare i settori medesimi. Ora, in tutte queste ipotesi, non si impone affatto il criterio cronologico della lex posterior; occorre al contrario, far valere la disciplina statutaria, fino al punto di annullare le norme legislative locali con essa incompatibili.


Disponendo che "la corte costituzionale giudica sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge . delle regioni". Nell'ambito di essa potrebbero esser fatti ricadere gli statuti delle regioni ordinarie, se fosse accoglibile la te che li qualifica come atti normativi imputabili alle rispettive amministrazioni regionali; senonchè la tesi stessa incontra gli ostacoli testé rilevati, cioè non si armonizza con la prassi che incorpora gli statuti nelle statali approvative. Verrebbe allora fatto di pensare che l'art. 134 Cost. intenda riferirsi alle leggi regionali delegate ovvero ai decreti legge adottabili dalle giunte delle regioni. Ma l'una e l'altra ipotesi sono state escluse dalla giurisprudenza costituzionale. In effetti né la costituzione né gli statuti speciali ammettono la delegabilità delle funzioni legislative dai consigli alle giunte e nemmeno prevedono la decretazione legislativa d'urgenza ad opera degli esecutivi regionali; e questo silenzio viene comunemente interpretato alla stregua di un divieto.


La ricerca degli atti regionali con forza di legge dev'essere pertanto rivolta altrove, prendendo anzitutto in considerazione i referendum abrogativi di leggi regionali, che ciascuna regione ordinaria è tenuta a regolare attraverso il proprio statuto. Ma un altro esempio di atti regionali con forza di legge può trarsi, verosimilmente, là dove si prevede che nel caso di scioglimento del consiglio regionale subentri una "commissione di tre cittadini", con il compito di provvedere "agli atti improrogabili" spettanti non solo alla giunta bensì al consiglio stesso.


I regolamento del potere esecutivo (ina 226)


La carta costituzionale non ha inteso riservare al capo dello stato l'emanazione di tutti i regolamenti dell'esecutivo; bensì ha ribadito che compete al presidente della repubblica conferire la forma del decreto presidenziale a quei regolamenti governativi, deliberati dal consiglio dei ministri, i quali venivano emanati dal re nel periodo statutario ed in quello fascista. Fermo rimane che quella del regolamento è una denominazione comune ai più vari atti normativi del potere esecutivo non aventi forza di legge: atti adottabili ed emanabili non solo dal governo e dal capo dello stato, ma da tutte le altre autorità che si vedano attribuita dalle leggi una qualche potestà regolamentare. Restano fermi in particolar modo i regolamenti ministeriali, adottabili ed emenabili da un singolo ministro, senza una previa delibera del consiglio dei ministri. C'è oggi da chiedersi se spetti ancora al governo quella generale competenza a deliberare norme regolamentari. Vari costituzionalisti ammettono cioè che il governo eserciti la potestà regolamentare a prescindere dalle puntuali attribuzioni legislative del potere stesso. Per contro un'opposta corrente di dottrinale ammette che il governo deliberi autonomamente i regolamenti di mera esecuzione delle leggi; mentre i cosiddetti regolamenti indipendenti non sarebbero effettivamente tali, perché il principio di legalità precluderebbe la loro adozione al di fuori delle ipotesi espressamente preurate. Da ultimo la legge disciplinante l'attività di governo ha fatto propria la prima tesi, statuendo che i regolamenti governativi sono senz'altro competenti, oltre che a considerare l'esecuzione e l'attuazione delle leggi, anche a riordinare "le materie in cui manchi la disciplina da parte di leggi o di atti aventi forza di legge. È stato già ricordato che la legge n. 100 prevedeva tre specie di regolamenti: quelli di esecuzione delle leggi; quelli indipendenti; quelli di organizzazione; ai quali si aggiungevano o cosiddetti regolamenti delegati.


Circa i regolamenti "delegati" è stato già notato che non si trattava di fonti equiparate alla legge, e questo assunto è più che mai fondato nell'attuale sistema, giacché la costituzione non consente alla legge ordinaria di istituire fonti "concorrenziali". Tuttora però tali normative vengono eccezionalmente abilitate a derogare ai limiti della potestà regolamentare. In particolar modo non è più dato alle normative stesse di intervenire liberamente in materie riservate alla legge. Rimane allora aperta la sola eventualità che i regolamenti delegati siano autorizzati a derogare alle leggi previdenti od anche a sostituirsi ad esse, nella disciplina di materie non riservate, effettuando la cosiddetta delegificazione. Nel conurare queste ipotesi, la legge n. 400 ha previsto due ordini di garanzie: primo che le leggi da sostituire o da derogare vengano puntualmente indicate dalla legge di autorizzazione; secondo che resti comunque indispensabile la predeterminazione in via legislativa delle "norme generali regolatrici della materia".


Del tutto a sé stante era infine il caso dei decreti presidenziali di recezione delle norme risultanti dagli accordi sindacali per il pubblico impiego; deve ritenersi incontestabile che si trattasse di particolarissimi regolamenti governativi e non di atti con forza di legge.


I regolamenti degli enti autonomi territoriali (ina 231)


Nel trattare dei regolamenti come fonti secondarie occorre parlare di regolamenti provinciali, regionali e comunali.


Quanto alle regioni, il parallelismo con l'assetto dello Stato-persona avrebbe consigliato di riservare la potestà regolamentare a quello che l'art. 121 terzo comma della stessa costituzione definisce come "l'organo esecutivo": vale a dire la giunta regionale. Nelle altre regioni l'esercizio della potestà regolamentare è di competenza del consiglio, mediante procedure in gran parte coincidenti con l'iter di formazione delle leggi locali. Ciò spiega che negli ordinamenti regionali la funzione regolamentare sia stata svolta assai raramente. Nelle materie di competenza regionale, soltanto le leggi locali possono validamente contraddire le vigenti leggi dello stato. E d'altra parte, in quei campi si impone una riserva di legge regionale.


I regolamenti comunali e provinciali concorrevano a formare l'ordinamento generale ben prima dell'entrata in vigore della Costituzione repubblicana. Nell'ordinamento vigente, viceversa, vale anche a questi effetti il principio fondamentale stabilito dall'art. 5 Cost., per cui "la Repubblica . riconosce e promuove le autonomie locali". Pur fermo restando che l'autonomia normativa degli enti territoriali minori va definita per mezzo di "leggi generali della Repubblica" non si può dunque aderire alla tesi dottrinale per cui si tratterebbe unicamente di un'autonomia "rimessa alla legge ordinaria", "né garantita né vietata dalla Costituzione". Per un altro verso, l'autonomia comunale e provinciale concorre a limitare la stessa potestà legislativa regionale. Nelle materie di comune competenza delle regioni e degli enti territoriali minori, la superiorità gerarchica delle leggi regionali viene cioè temperata da una riserva di competenza a favore degli enti medesimi.


Le consuetudini: elementi costitutivi (ina 233).


Le consuetudini rientrano per eccellenza tra i fatti normativi; le consuetudini stesse tendono a coprire l'intero campo del diritto non scritto, essendo pressoché incontroverso che alle norme consuetudinarie non corrispondono disposizioni del medesimo genere. Ma di tali fonti non ricorre neanche il nome, nelle varie disposizioni costituzionali e legislative. La costituzione non ne tratta in modo esplicito; le stesse preleggi ragionano solo degli "usi", servendosi di una espressione riduttiva. In nomen "usi" lascia unicamente intendere perché le consuetudini rientrino appunto tra i fatti anziché tra gli atti normativi. Alla base del formarsi e del permanere di queste fonti non possono mancare le condotte ed i veri e propri atti, posti in essere da coloro che osservano una certa norma consuetudinaria. Per definizione, tuttavia, il singolo atto conforme ad una consuetudine non realizza mai lo scopo di far si che viga la consuetudine stessa. Occorre in primo luogo che sia riscontrabile l'usus, cioè la costante ed uniforme ripetizione di un comportamento, più o meno protratta nel tempo a seconda dei contenuti. Ed è in questo senso che si suole parlare d'involontarietà.


Vero è, specialmente nel campo delle consuetudini costituzionali, che per generarle può bastare un precedente, ribadito in pochissimi casi dai soggetti politici a ciò interessati; ma in queste stesse ipotesi ciò che ne risulta è sempre un fatto. Se mai si riduce di molto la cosiddetta diuturnitas, ossia la durata necessaria perché le norme in esame si consolidino ed entrino in vigore. Per un altro verso, può talvolta alterarsi la stessa costanza dell'usus, dal momento che si danno vari casi di ripetizione "discontinua". Il dato della ripetizione è però insufficiente ad individuare gli usi normativi, separandoli dall'eterogeneo complesso di regole sociali non produttive di diritto. Dal momento che l'usus è riscontrabile alla radice di tutti questi fenomeni, per distinguerli occorre fare ricorso ad un secondo elemento costitutivo delle norme consuetudinarie, che viene per lo più risolto nell'opinio juris et necessitatis; cioè nella convinzione che il loro comportamento sia giuridicamente dovuto. Si è sostenuto che l'opinio sarebbe il frutto di un circolo vizioso oppure di un errore, dal momento che essa non avrebbe sensi in vista di norme che non fossero già in atto. Si può tuttavia replicare che resta il problema del come differenziare gli usi normativi da quelli non normativi; ed il giurista non può fare a meno di tentare una risposta, trattandosi di stabilire fin dove giunga l'ordinamento giuridico e dunque lo stesso diritto. In secondo luogo al pari dell'usus, anche l'opinio va fatta consistere in una convinzione collettiva e non individuale. Determinante è invece la circostanza che il corpo sociale interessato da una consuetudine avverta la giuridica rilevanza dell'uso in questione, ossia l'attitudine di esso a far parte integrante dell'ordinamento giuridico. Il che ha fatto dire che "l'opinio va ricercata anzitutto e soprattutto negli altri".


Per converso, le consuetudini cessano di vigere allorché vengono meno l'usus oppure l'opinio, od entrambi ad un tempo. La desuetudine ovvero il formarsi d'una consuetudine contraria valgono dunque ad abrogare le norme consuetudinarie.


Tipologia e posizione delle norme consuetudinarie nel sistema delle fonti (ina 216).


Anche per quanto concerne il rango spettante alle consuetudini le soluzioni offerte dalle "preleggi" si dimostrano troppo riduttive. Con quel fondamento, si potrebbe addirittura sostenere l'ammissibilità delle sole consuetudini secundum legem. In effetti l'art. 8 primo comma delle disposizioni preliminari al Codice civile afferma unicamente che "nelle materie regolate dalle leggi e dai regolamenti gli usi hanno efficacia solo in quanto sono da essi richiamati"; e se per "materie" si intendessero i vari settori dell'ordinamento giuridico, bisognerebbe escludere che sussista spazio per una normazione consuetudinaria indipendente. Vero è che delle consuetudini integrative sarebbe dato ragionare in vista dello stesso art. 8 delle "preleggi", sostenendo che esso presupponga l'esistenza di "materie" non disciplinate né in via legislativa né in via regolamentare. Se mai, proprio le norme consuetudinarie secundum legem sarebbero dotate di maggiore forza nei confronti di quelle integrative, giacché assumerebbero "l'efficacia stessa della norma rinviante", legislativa o regolamentare secondo le diverse ipotesi.


Ad arricchire la tipologia delle consuetudini concorre l'art. 10 primo comma Cost., per cui "l'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute". Un'autorevole dottrina ritiene che si tratti di un principio implicante l'adattamento automatico del diritto italiano all'intero diritto internazionale. Ma la ricostruzione di gran lunga prevalente è invece nel senso che la conformità prescritta dalla Costituzione non riguardi i trattati, bensì le sole consuetudini internazionali. Continua per altro ad imporsi il congegno dell'adattamento automatico: con la conseguenza che, ogniqualvolta si possa riscontrare la vigenza di una consuetudine internazionale, ad essa si conforma immediatamente il diritto interno. La corte costituzionale ha in sostanza fatto propria questa tesi, sostenendo che nei rapporti fra la costituzione e le consuetudini preesistenti andrebbe applicato il "principio di specialità", con la conseguenza di risolvere gli eventuali contrasti a favore delle norme consuetudinarie. Rispetto alle leggi ordinarie le norme di adattamento al diritto internazionale generale dispongono di una competenza costituzionalmente riservata. Pertanto le posteriori norme legislative contrastanti con le consuetudini in esame debbono ritenersi illegittime.


In secondo luogo anche le consuetudini costituzionali detengono un rango ben diverso da quello proprio degli usi. Occorre premettere che tutte le costituzioni scritte presentano lacune più o meno ampie, con particolare evidenza per ciò che riguarda l'organizzazione costituzionale dello Stato. Ma anche nel caso delle costituzioni "lunghe" come quella vigente in Italia, le lacune costituzionali non mancano e non sempre si prestano a venire colmate dalle leggi, perché la soluzione dei rispettivi problemi dev'essere a volte rintracciata sul piano costituzionale e non sul piano legislativo ordinario. Si danno anzi ipotesi in cui la Carta costituzionale sembra disporre in termini organici e compiuti, ma viene viceversa intesa dagli operatori come se si trattasse di un testo lacunoso. Non tutte le lacune costituzionali comportano, però, l'insorgere di altrettanti consuetudini. In un primo tempo, quando ancora difetta il dato della costante ripetizione, in quegli ambiti sogliono formarsi puntuali convenzioni, vale a dire accordi fra i titolari degli organi costituzionali. Più di una di tali convenzioni di rivela in suscettibile di tradursi in consuetudine: sia perché non si presta a venire ripetuta, sia perché il termine convenzione può mantenere un valore puramente politico, senza integrare in alcun modo la Costituzione. Ma laddove l'usus e l'opinio si combinano, le convenzioni si trasformano in fonti normative; ed è questo, di regola, il processo formativo delle consuetudini costituzionali. Non vi è dubbio che il procedimento di formazione del governo sia solo parzialmente regolato dall'art. 92 Cost.; ed è sostenibile che la Costituzione sia stata dunque integrata mediante consuetudini ormai stabilizzate da vari decenni. Ora consuetudini siffatte non sono certo subordinate alle leggi ordinarie, bensì sopraordinate ad esse. Nell'integrare la Costituzione, tali fonti non pongono regole indifferenti dal punto di vista costituzionale, modificabili o derogabili ad arbitrio da parte dei medesimi soggetti o ad opera dei medesimi organi che le hanno poste in essere. Non a caso, la prevalente dottrina ha sostenuto che i "conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato", vadano affrontati facendo ricorso alle consuetudini che si fossero formate sul punto; e questa tesi ha trovato un preciso riscontro sua nella sentenza del 10 luglio con cui la corte costituzionale ha fatto applicazione dei "principi non scritti, manifestati o consolidatisi attraverso la ripetizione costante di comportamenti uniformi".


Diverso, ma non del tutto dissimile nelle conclusioni ultime, è il discorso da svolgere per le cosiddette "consuetudini interpretative". Tale locuzione è stata più volte utilizzata nella nostra dottrina, per evidenziare il fatto che tutte le norme giuridiche rivestono un senso preciso nel momento in cui sono interpretate ed applicate in un determinato modo piuttosto che in termini diversi. Ma anche in Italia non vi è dubbio che il momento applicativo delle varie fonti normative assuma una determinante importanza, sebbene il precedente giurisprudenziale non rappresenti a sua volta un'autonoma fonte. Nel nostro ordinamento, quanto alle stesse leggi ed agli altri atti normativi, resta fermo cioè che il Parlamento e le diverse autorità emananti gli atti in questione determinano solo le disposizioni. Ma in vario senso può dirsi che le disposizioni non coincidono con le rispettive norme; ciò che più conta è che da ogni disposizione si possano ricavare alternativamente norme fra loro diverse. È un dato di esperienza che la norma vive, nella sua concretezza, "solo nel momento in cui viene applicata". Ed è un punto fermo che il Parlamento non può predeterminare integralmente il momento applicativo, sebbene le stesse disposizioni preliminari al codice civile impongano di intendere la legge nel senso "fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore". L'interpretazione letterale e quella fondata sui lavori preparatori si rivelano spesso insufficienti e devono cedere il passo all'interpretazione logico-sistematica. Ed è per questa via che si realizza il distacco fra la disposizione e la norma, fra il diritto scritto e il diritto vivente, in ogni singolo momento storico. Ciò non significa ancora che le "consuetudini interpretative" prodotte dalla giurisprudenza dominante vadano confuse con le vere e proprie fonti del diritto. Si tratta piuttosto dei concreti modi di essere delle norme giuridiche, contrapposte alle corrispondenti disposizioni normative, fermo restando che le fonti propriamente dette sono pur sempre le leggi, i regolamenti e via dicendo. Il che spiega come le "consuetudini" in esame non abbiano rango comune ma facciano corpo con le varie norme così ricavate.


Il diritto internazionale privato (ina 243)


Oltre alle consuetudini, tra le fonti-atto possono farsi rientrare anche le leggi ed altri atti costitutivi di ordinamenti esterni a quello italiano: purché si riscontri che determinate fonti del nostro diritto rimandano alle fonti degli ordinamenti medesimi. Più precisamente i rapporti fra l'ordinamento statale italiano ed altri ordinamenti sovrani o comunque originari si concretano a volte per mezzo di rinvii ricettivi o "materiali" o "fissi" attraverso i quali disposizioni normative interne si appropriano delle norme dettate da fonti straniere già in vigore. Altre volte però il collegamento fra gli ordinamenti stessi viene effettuato mediante rinvii formali o "mobili" con cui si rendono applicabili da parte dei giudici italiani tutte le norme prodotte da fonti dei detti ordinamenti esterni. In quest'ultimo caso gli atti normativi stranieri ed i loro disposti non vengono affatto "nazionalizzati"; ma piuttosto si trasformano in fatti automaticamente e continuativamente produttivi di diritto, attraverso la mediazione del richiamo operato dalle nostre leggi. Tale è la sistemazione spettante al cosiddetto diritto internazionale provato ed alle leggi straniere chiamate da esso a regolare i rapporti in questione: così risolvendo i conflitti o le "collisioni" che altrimenti si verificherebbero fra le norme interne e le norme di altri stati. Qui pure si è ragionato talvolta di "nazionalizzazione" sostenendo che le disposizioni di rinvio ponessero altrettante "norme in bianco", destinate ad assumere i contenuti mano a mano risultanti dalle fonti richiamate. Ma una ricostruzione del genere è stata per lo più considerata artificiosa; e si è preferito ritenere che le fonti stesse rappresentino appunto una serie di fatti, utilizzati ai fini del diritto applicabile in Italia. Beninteso però rimane fermo che le norme del diritto internazionale privato fungano pur sempre da indispensabile tramite:il che basta a soddisfare la fondamentale regola in virtù della quale il parlamento italiano detiene, di massima, il monopolio della legislazione statale. Per un altro verso le leggi straniere così richiamate non vanno applicate se i loro effetti "sono contrari all'ordine pubblico". Vero è che il limite dell'ordine pubblico viene variamente inteso.


Le fonti comunitarie (ina 245)


Gli atti normativi posti in essere dai competenti organi delle comunità europee concorrono a formare non soltanto il diritto comunitario, ma anche il diritto applicabile dalla generalità dei soggetti dell'ordinamento italiano, con particolare riguardo alle autorità giurisdizionali. Per meglio dire gli atti denominati direttive dovrebbero vincolare i solo stati membri "per quanto riguarda il risultato da raggiungere. Al contrario i regolamenti previsti dallo stesso articolo sono obbligatori in tutti i loro elementi e direttamente applicabili in ciascuno degli stati membri: con la conseguenza che essi entrano a comporre il sistema delle fonti interne, o interferiscono nel modo più stretto con il sistema medesimo. Nel dire questo non si vuole intendere che tali fonti comunitarie siano state nazionalizzate, mediante un rinvio ricettizio. Anche in questo caso, piuttosto, quelli che per l'ordinamento comunitario costituiscono altrettanti atti normativi, nella prospettiva dell'ordinamento italiano assumono la veste dei fatti produttivi di diritto. Ma nella specie, sarebbe superfluo e fuorviante immaginare che operi un meccanismo analogo a quello già considerato peculiare del diritto internazionale provato, per cui si produrrebbero nel nostro ordinamento "norme interne di adeguamento" identiche a quelle prodotte dalla Comunità. Molto più semplicemente, i regolamenti comunitari s'impongono come tali, per effetto dell'ordine di esecuzione del trattato istitutivo della CEE. Rimane fermo che gli atti normativi comunitari vanno interpretati e sindacati dalla corte di giustizia delle comunità europee e non dai vari giudici nazionali. Diritto interno e diritto comunitario sono fra loro integrati, tanto più che non esiste fra l'uno e l'altro una netta distinzione di competenze.


Per quanto siano stati discussi i loro rapporti con le leggi statali ordinarie, si è sempre considerato pacifico che i regolamenti i questione, ben oltre il loro nomen juris, avessero comunque un valore primario, essendo immediatamente subordinati alla costituzione; e ciò ha posto subito il problema del loro fondamento costituzionale. Ma in che consistono le limitazioni di sovranità, derivanti dall'immediata applicabilità dei regolamenti comunitari? E quali sono, in particolar modo, i criteri di risoluzione dei possibili contrasti fra quelle previsioni "regolamentari" e le disposizioni legislative ordinarie dello stato? La corte costituzionale si è adeguata alla corte di giustizia delle comunità europee sostenendo che le norme dei regolamenti comunitari vanno immediatamente applicate nel territorio italiano per forza propria; e che, di conseguenza, qualunque giudice deve soltanto accertare che la "normativa scaturente da tale fonte regola il caso sottoposto al suo esame", secondo i canoni interpretativi offerti dalla corte di giustizia. In questa luce poco importa che nel medesimo campo vigano leggi statali ordinarie, anteriori o successive nel tempo: la necessaria applicazione del regolamento esige, infatti, la disapplicazione della legge interferente, senza che da ciò derivi una questione di legittimità, riservata alla cognizione dell'organo della giustizia costituzionale italiana. Resta il problema delle indispensabili garanzie costituzionali. La corte stessa ha precisato, proposito, "come la legge di esecuzione del trattato possa andar soggetta al suo sindacato, in riferimento ai principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e ai diritti inviolabili della persona umana".


Le fonti extra ordinem (ina 251)


Nella realtà giuridica, anche all'interno di un dato ordinamento storicamente riguardato, può ben accadere che fonti diverse da quelle legali o atti comunque scaturenti da procedure anomale riescano a modificare stabilmente il sistema normativo, senza che vengano fatti valere efficaci rimedi da parte delle autorità competenti e senza che siano applicate sanzioni di sorta. Di qui, precisamente, le fonti extra ordinem, che si aggiungono alle fonti originariamente previste. La gravità e l'incidenza di simili fenomeni possono risultare profondamente dissimili secondo le diverse ipotesi; tanto che in vari casi non è dato ragionare di fonti extra ordinem nel senso più stretto e preciso del termine, giacché si tratta di produzioni normative implicanti specifiche, singole o addirittura episodiche rotture del sistema. In altri casi per contro, la sistematica utilizzazione di fonti extra-ordinem coincide con l'instaurarsi di nuove forme di governo e di Stato, sebbene permanga la complessiva continuità dell'ordinamento giuridico. S'intende, però, che fonti siffatte non si sono imposte alla stessa maniera delle leggi, dei regolamenti e degli altri atti normativi già previsti dall'ordinamento statale italiano, ma si sono rese obbligatorie per forza propria. È per questo motivo che la produzione del diritto effettuata extra ordinem può considerarsi alla stregua di un fatto normativo, pur quando essa assuma la veste di un atto o di una serie di atti, promananti da soggetti dotati di autorità dallo Stato. In certe ipotesi, a fondamento di ciò, vari autori fanno anzi ricorso alla necessità riguardata come fonte autonoma ed "invocata al fine di sovvertire la struttura dell'ordinamento". Ma non appena si formano quelle che un'altra corrente dottrinale definisce "consuetudini normative" delle fonti extra-ordinem, accade che il generale sistema delle fonti ne risulta modificato; sicché non è più dato ragionare di fatti normativi, ma ne scaturiscono senz'altro nuove specie di atti produttivi di diritto.


La forma repubblicana (ina 259)


La Costituzione denomina "l'ordinamento della repubblica", con particolare riguardo alla disciplina dei singoli "poteri" dello Stato e dei loro reciproci rapporti. A questa stregua due sono i perni di tali premesse: da un lato essi consistono nelle proposizioni centrali, per cui "l'Italia è una Repubblica democratica", sicchè "la sovranità spetta al popolo"; d'altro lato essi poggiano sul testo "tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale". L'affermazione che "l'Italia è una Repubblica", da cui prende le mosse la carta costituzionale, rappresenta il portato necessario del referendum istituzionale svoltosi il 2 giugno 1946, che vincolò la stessa assemblea costituente: "in questa parte la costituzione non aggiunge o toglie nulla all'esito del referendum". In altre parole, è qui che può farsi consistere la vigente costituzione materiale dello stato italiano, se si vuole assegnare a questo termine un significato preciso, giuridicamente apprezzabile. Ma qual è il senso che si deve attribuire in questa chiave alla parola repubblica? Alla nozione costituzionale della "forma repubblicana" appare coessenziale l'attributo della democraticità. Non è casuale che la costituente abbia respinto un emendamento inteso a preannunciare testualmente il carattere parlamentare dell'ordinamento italiano. Che la repubblica democratica abbia una forma di governo parlamentare o presidenziale oppure mista non attiene al valore sottratto alla stessa revisione costituzionale. Essenziale è soltanto che le eventuali riforme della Costituzione non giungano a negare la democrazia.


La democraticità della repubblica; democrazia diretta e democrazia rappresentativa (ina 261)


In che cosa consiste la democrazia? Etimologicamente, la democrazia suole venire definita quale potere del popolo o quale governo del popolo. Ma in presenza di una collettività come quella popolare, in cui la volontà dei cittadini non è altro che una somma di volontà individuali fra loro distinte, la definizione dev'essere spinta più a fondo. Una prima risposta consiste nel riconoscere che ogni regime effettivamente democratico si regge sul principio maggioritario. Senonché una regola siffatta può essere intesa tanto in termini assoluti, ossia nel senso che in regimi del genere "valgono solo i più", quanto in maniera temperata, vale a dire nel senso che i "più prevalgono sui meno, ma contano anche i meno". Nella prima specie di sistemi il principio maggioritario finisce per fondare una democrazia totalitaria. Viceversa, nelle democrazie di stampo liberale e pluralistico, la costituzione o le leggi fondamentali del regime garantiscono l'avvicendamento delle contrapposte forze politiche al governo del paese, secondo il principio "dell'alternarsi del comando e dell'obbedienza, per cui i governanti di oggi sono in potenza sudditi di domani".


È in quest'ultimo gruppo che giuridicamente rientra la nostra repubblica democratica. Connaturate al regime vigente in Italia sono in tal senso le libertà fondamentali, proclamate e tutelate nella prima parte della costituzione: a cominciare dalle libertà di associazione e di manifestazione del pensiero. Ma nel medesimo quadro ricadono anche garanzie formali, come quelle consistenti nella rigidità della costituzione e nel sindacato della corte costituzionale sulla legittimità delle leggi. Insorge però a questo punto un ulteriore dilemma, riguardante le forme di esercizio del potere democratico. Anche sotto questo aspetto si contrappongono due modelli: l'uno costituito dalla democrazia diretta o partecipativa; l'altro consistente nella democrazia indiretta i o rappresentativa. Nel primo caso, ciascun cittadino dotato della capacità di agire prende parte all'adozione di determinate scelte politiche. Nel secondo caso, il corpo elettorale si limita ad eleggere uno o più collegi politicamente rappresentativi del popolo, cui resta affidata la deliberazione delle leggi e, più in generale, la determinazione dell'indirizzo politico.


Astrattamente, il diretto coinvolgimento di ogni cittadino "attivo" nella definizione della politica generale del Paese parrebbe concretare la forma più perfetta, autentica e compiuta della democrazia. In altri termini, quella diretta o partecipativa costituirebbe una democrazia "governante", in antitesi alla democrazia "governata", che invece vedrebbe gli elettori spogliati del potere effettivo da parte degli eletti. Ma il pieno autogoverno del popolo non può concentrarsi, in verità, se non quando concorrano certe premesse, che storicamente si sono realizzate solo in rari momenti ed in rare occasioni. Quella che si suole definire "democrazia degli antichi" forma, pertanto, nella prospettiva moderna o contemporanea, un modello fittizio ed "affatto irreale". Del resto, quando si consideri che il principale istituto di democrazia diretta è oggi il referendum,ci si può rendere subito conto dell'impossibilità di farne un uso sistematico; la macchinosità delle consultazioni referendarie basterebbe ad escludere che si possa attivarle tutti i giorni (o più volte al giorno), come sarebbe indispensabile per fondare su di esse la politica generale del parlamento. Ciò spiega che in Italia la democrazia diretta abbia bensì ricevuto un qualche spazio; ma sia rimasta ferma, nell'intero periodo repubblicano, la predominanza degli istituti di democrazia rappresentativa, imperniata soprattutto sul Parlamento eletto a suffragio universale in entrambi i suoi rami. Proprio perché dotato del più alto grado di legittimazione democratica, il Parlamento è il primo fra gli organi costituzionali rappresentativi del popolo.


Rappresentanza e responsabilità politica (ina 265)


Resta da verificare che cosa debba intendersi per rappresentanza politica.


Si è ragionato moltissime volte sull'idea che il governo rappresentativo sarebbe il portato di una "finzione politica", volta a "nascondere la situazione reale". La circostanza che i parlamentari (e gli altri eletti dal popolo, quali i consiglieri regionali, provinciali e comunali) non siano vincolati o vincolabili da nessun mandato imperativo, non toglie che un qualche mandato vi sia: come dimostra il significato che comunemente si annette alle elezioni politiche ed agli esiti di esse. A questa stregua si può concepire la rappresentanza come rappresentazione del popolo, quanto alle sue componenti politiche dotate di un minimo grado di organizzazione. Ciò che più conta, acquista in tal modo un senso il diffusissimo assunto per cui la rappresentanza in questione è resa effettiva dalla responsabilità politica degli eletti e dei governanti in genere. Vero è che nel caso della responsabilità politica non si danno sanzioni preordinate dall'ordinamento statale. Da un lato, nel corso dell'intero mandato essi sono censurabili e resi perciò responsabili, da parte dell'opinione pubblica: il che dovrebbe garantire la loro responsiveness, cioè la "rispondenza". D'altro lato, non può essere sottovalutata quella sorta di revoca intermittente che i rappresentanti si prestano a subire allorquando si candidano a venire rieletti. Rapporti e processi del genere, indubbiamente, non sottostanno a precisi inquadramenti normativi; ed è in questo motivo che la responsabilità politica viene contrapposta alla responsabilità giuridica. Ma i congegni in esame rimangono abbastanza efficaci per assicurare la coerenza fra l'azione politica degli organi rappresentativi e gli ordinamenti maggioritari degli elettori.


La sovranità popolare (ina 269)


Alla proclamazione del carattere democratico della Repubblica si aggiungeva l'affermazione che "la sovranità emana dal popolo ed è esercitata nelle forme e nei limiti della costituzione e delle leggi. "la sovranità appartiene al popolo" il quale "la esercita nelle forme e nei limiti della costituzione"; sicché risulta chiaro che il popolo stesso non è solo la fonte ideale o l'astratto titolare del potere sovrano, ma dispone dell'esercizio di esso, sia pure nei modi consentiti dalle forme di Stato. Ma come conciliare la sovranità del popolo e sovranità dello Stato? È manifesto che il problema non si pone, se la sovranità è riferita allo stato-ordinamento, quale supremazia che gli spetta rispetto ad ogni altro ordinamento giuridico vigente nel territorio italiano e quale indipendenza nei confronti degli altri stati. Ma l'interrogativo si presenta allorché ci si chiede quale sia il soggetto sovrano nell'ambito dell'ordinamento statale. La conciliazione può essere cercata ipotizzando che il popolo si risolva in un organo dello stato. Fra lo stato-persona e l'intero complesso dei cittadini non sussiste alcun rapporto organico; se mai si potrebbe a prima vista sostenere che organo dello stato sia il corpo elettorale, composto dai cittadini capaci ed "attivi" cui spetta di costituire i collegi politicamente rappresentativi. Ma la circostanza che gli elettori svolgano in tal senso una pubblica funzione non basta a risolvere nell'apparato statale gli elettori stessi, cioè la parte essenziale del popolo italiano. I cittadini ai quali la costituzione conferisce il "diritto di voto" non sono equiparabili ai funzionari statali propriamente detti, giacché non si compenetrano nell'organizzazione dello stato apparato. E l'interesse cui mira il corpo elettorale "non è un interesse dello stato-soggetto, ma un interesse proprio della collettività, del popolo, e ad un tempo un interesse proprio di ciascun elettore. Per rendere l'idea della rivoluzione copernicana che la democrazia comporta quanto alla stessa concezione della sovranità, è stato sostenuto che non il popolo, né il corpo elettorale, sarebbe qualificabile come organo dello stato; ma piuttosto lo stato-apparato dovrebbe oggi intendersi come "organo del popolo". Nel ragionare della sovranità popolare occorre tenere presente che ci si trova in presenza di due espressioni sintetiche. Da un lato, è questo il caso del popolo, che globalmente preso si risolve nell'universalità dei cittadini viventi; fermo restando che si tratta di una complessa ura giuridica soggettiva. D'altro lato, le stesse considerazioni valgono quanto alla sovranità popolare: che va concepita, a questa stregua, come la risultante dell'esercizio di tutti i diritti propri dei cittadini.


I partiti politici (ina 272)


La libertà dei cittadini di associarsi in partiti non è che un momento della generale libertà di associazione. Ma che confinasse i partiti nel campo delle libertà civili e politiche, sul medesimo piano di altre formazioni sociali costituzionalmente garantite, ne avrebbe una visione estremamente riduttiva. Al di là delle forme di governo previste dalle sectiune costituzionali, si deve ormai ragionare di altrettanti stati di partiti, secondo una formula corrente nella stessa dottrina italiana. La presenza dei partiti e la loro capacità di condizionare le scelte degli organi politicamente rappresentativi sono cioè determinanti nella ricostruzione dei meccanismi della rappresentanza e della responsabilità politica. Collocazioni testuali a parte, l'attuale rilievo costituzionale dei partiti politici forma un fattore decisivo di consolidamento della democrazia. Secondo la costituzione italiana i partiti non vengono infatti concepiti come fini a sé stessi, ma come tramiti attraverso i quali i cittadini possono concorrere alla determinazione della "politica nazionale". Sicché si è potuto parlare di "esercizio quotidiano di sovranità popolare che si celebra attraverso la vita dei partiti". È in questa luce che si spiegano e si giustificano le numerose norme giuridiche, scritte e non scritte che in vario modo riguardano i partiti: sia nel senso di conferire a tali associazioni specifici poteri, sia nel senso di soddisfare i loro bisogni. Di per sé stessi, i partiti politici non sono altro che associazioni non riconosciute o di fatto, prive di personalità giuridica e dunque soggette al regime comune dettato; più precisamente si tratta di "associazioni di associazioni". Fondamentale è il ruolo spettante ai partiti nei procedimenti elettorali. La legge elettorale per la camera dei deputati prevede, cioè, che spetti a ciascun partito o gruppo politico organizzato il deposito dei contrassegni delle rispettive candidature individuali e di lista; ed analoghe norme si impongono quanto alle candidature per elezione del Senato. Su questa base si regge d'altronde la legislazione concernente il finanziamento statale dei partiti stessi. Ma tali finanziamenti sono versati ai gruppi parlamentari anziché ai partiti come tali: quasi per sottolineare che le associazioni politiche in questione non vengono affatto in rilievo come soggetti meramente provati, bensì quali fattori della politica generale. Oltre che sulla legislazione statale, la presenza dei partiti incide poi sui regolamenti delle due assemblee parlamentari. Salvi i "gruppi misti", ognuno degli altri gruppi parlamentari, tanto alla camera quanto al senato, corrisponde ad un "partito organizzato del Paese". Tali gruppi sono l'espressione parlamentare dei partiti". Ma l'influenza dei partiti sugli organi statali di governo trova molto spesso fondamento in regole non scritte, originariamente di carattere convenzionale e quindi trasformatesi in vere e proprie consuetudini costituzionali. Così a partire dagli anni sessanta, i segretari dei partiti politici sono stati gradualmente inseriti nella fase preparatoria del procedimento formativo del governo, in occasione delle consultazioni effettuate dal capo dello stato. Tutto questo non vale a giustificare, però, la partitocrazia concepita nel senso degenerativo del termine: cioè l'occupazione, effettuata specialmente dai partiti detentori del governo centrale o dei vari governi locali, di aree eccedenti la determinazione della "politica nazionale", bensì riservate all'amministrazione ovvero spettanti alla autonome scelte della società civile. C'è inoltre da chiedersi fino a che punto sia adeguata la stessa disciplina costituzionale dei partiti. L'art. 49 Cost. contiene, in verità, una serie di fondamentali indicazioni: tale è specialmente il "principio del concorso", dal quale discende il necessario pluralismo dei partiti, per cui sempre nuove formazioni politiche possono venire liberamente create dai cittadini, senza autorizzazioni di sorta. Senonché l'art. 49 non impone letteralmente che ogni partito debba avere un ordinamento interno democratico. D'altro lato le lacune dell'ordinamento generale si manifestano anche per ciò che riguarda il "metodo democratico". In particolar modo né la Carta costituzionale né la legislazione ordinaria dello Stato prescrivono alcunché di preciso a carico dei partiti "antisistema" che non aderiscano alla tavola dei valori costituzionali, ma cerchino di sabotarne o di combatterne apertamente la realizzazione. Sotto quest'ultimo aspetto vi è solamente lo specifico divieto di riorganizzazione del partito fascista; ma l'estremismo politico non è stato altrimenti sanzionato, salva la preclusione delle associazioni che perseguono "scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare".


Cenni introduttivi sulla forma di governo (ina 281)


Tutto lo schieramento dei partiti presenti in Assemblea, da quello liberale a quello comunista si dichiarò propenso all'adozione di un regime tendenzialmente parlamentare. In primo luogo, alla generica sfiducia verso la forma presidenziale, che l'esperienza atistica dimostrava incline a degenerare nella dittatura, si sommava la diffidenza vigorosamente alimentata dal ricordo recente del ventennio fascista. In secondo luogo, pesavano precedenti storici antichi recenti, che in forza della tradizione consigliavano di riallacciarsi all'esperienza parlamentare statutaria anteriore al fascismo. Inoltre la costituente non fu insensibile alla suggestione delle forme parlamentari di governo allora vigenti non solo in Inghilterra ma anche in Francia, che da tempo si ponevano come esempi da imitare in Italia.


A confronto del bipartitismo che caratterizzava e caratterizza tuttora la scena politica nordamericana, si contavano allora in Italia all'incirca una diecina di formazioni politiche miranti a contendersi il consenso dell'elettorato, essendosi aggiunti all'esarchia i partiti repubblicano e socialdemocratico, nonché il movimento qualunquista, per citare solo i gruppi più consistenti. In un tal quadro di minima omogeneità politica e sociale, che nel 1946-47 risultava alquanto più accentuata di oggi, la forma parlamentare consentiva che il Parlamento funzionasse come elemento di intermediazione fra il popolo e l'esecutivo, determinando inoltre la possibilità che si formassero governi rappresentativi di varie forze politiche coalizzate. Si spiega perciò che già nella ripartizioni della carta costituzionale si rispecchi l'opzione parlamentare della costituente. I primi tre titoli della parte seconda della costituente sono rispettivamente dedicati al Parlamento, al Presidente della Repubblica e al Governo, vale a dire ai tre organo essenziali della forma prescelta. Così la funzione legislativa è riservata alle camere, mentre quella esecutiva è attribuita al governo; e fra i due organi deve intercorrere un formale rapporto di fiducia sulla base del quale entrambi definiscono la politica generale del Paese. Inoltre si ricava che il Presidente della Repubblica non partecipa alla determinazione dell'indirizzo politico, in quanto organo politicamente e giuridicamente irresponsabile, tranne che per alto tradimento o per attentato alla costituzione. Nella sfera delle attribuzioni sostanzialmente presidenziali continuano invece a ricadere la nomina del presidente del consiglio ed entro certi limiti lo scioglimento delle camere. La nostra costituzione contiene, nondimeno, una serie di altre disposizioni recanti correttivi che hanno l'effetto di alterare il modello parlamentare "puro": sia nel senso di riequilibrarlo con l'inserimento, accanto ai tre essenziali, di almeno un quarto organo fondamentale, quale è la corte costituzionale; sia nel senso di riequilibrarlo con l'inserimento, accanto ai tre essenziali, di almeno un quarto organo fondamentale, qual è la corte costituzionale; sia nel senso d'introdurre l'istituto del referendum, che consente al corpo elettorale di opporsi alle decisioni del parlamento in quanto organo legislativo; sia nel senso di istituire le regioni e di garantire anche agli enti territoriali minori una qualche autonomia politica. Ma non basta esaminare la carta costituzionale e ricostruire in tal modo un modello legale della forma di governo. Al contrario ciò che si richiede anche al giurista è soprattutto un'attenta considerazione della realtà. Altro è il diritto costituzionale scritto ed altro è il diritto costituzionale vivente, nel quale si impongono anche regole non scritte.


I principi informatori dell'organizzazione del parlamento: il principio bicamerale (ina 284).


La struttura del parlamento può essere indagata analizzando i tre principi fondamentali che la informano: il principio bicamerale, il principio di continuità ed il principio di autonomia. Quanto al fondamento giustificativo del bicameralismo, si deve anzitutto osservare che talora la sua adozione risulta imposta dalla logica interna di determinati ordinamenti, talaltra può soltanto essere opportuna. Ricorre la prima ipotesi nel caso degli stati federali nei quali l'istanza centralistica si contrappone all'istanza federalistica; sicché devono esistere una rappresentanza di ciascuno stato membro accanto ad una rappresentanza del popolo complessivo dello stato centrale. Più in generale il bicameralismo si impone allorché all'interno dello stesso ordinamento coesistano istanza divergenti, ciascuna della quali richieda di essere singolarmente rappresentata in parlamento. In altri paese la scelta del principio bicamerale è dettata soltanto da considerazioni di opportunità per lo più di ordine politico. Tale è stato sicuramente il caso dell'Italia.


Si devono comunque distinguere i regimi a bicameralismo perfetto, proprio di quegli stati nel quali le camere sono assolutamente parificate per funzioni e per prerogative, dai sistemi a bicameralismo imperfetto, nei quali la volontà dell'uno dei due rami del parlamento finisce col prevalere in caso di dissenso. S'intende perciò quali siano i motivi che hanno indotto una gran parte delle costituzioni del mondo occidentale ad optare per la prima anziché la seconda soluzione. Entrambi i rami del parlamento sono stati concepiti come assemblee politiche rappresentative del corpo elettorale; ma i costituenti ne hanno diversificato la composizione, la durata e il sistema di elezione. Circa la composizione basti ricordare che l'età minima per essere eleggibili a deputati o senatori consiste rispettivamente nell'aver compiuto il venticinquesimo anno di età ed il quarantesimo anno di età; d'altro lato, che il numero dei deputati è pari al doppio di quello dei senatori elettivi (630 contro 315), anche se a questi ultimi si aggiungono alcuni senatori a vita. Circa la durata del senato, essa avrebbe dovuto essere di sei anni, contro i cinque spettanti alla camera dei deputati, ma il condizionale è qui indispensabile, perché un tale criterio distintivo non è mai divenuto operante in Italia. Circa le modalità delle elezioni, la costituzione si limita a diversificare la composizione dei due corpi elettorali, disponendo che gli elettori del senato devono aver superato il venticinquesimo anno di età e che il senato dev'essere eletto a base regionale. Di tutti questi caratteri differenziatori, i più significativi avrebbero comunque dovuto consistere nella diversa durata e nel diverso congegno di elezione. Ed effettivamente, se l'iniziale programma della costituente fosse stato attuato sotto entrambi questi aspetti, si sarebbe senz'altro evitato di ridurre la seconda camera a un doppione della prima. Viceversa la norma costituzionale sulla diversa durata del senato fu dapprima elusa, quando nel 1953 e nel 1958, avvicinandosi la cessazione della camera dei deputati, il presidente della repubblica sciolse anticipatamente il senato stesso, su sollecitazione di alcune parti politiche; e quindi fu anche formalmente abrogata dalla legge costituzionale del 9 febbraio 1963, che ha fissato in cinque anni il periodi di vita di ambedue i rami del parlamento.


I procedimenti e i sistemi di elezione delle camere (ina 290)


Ovviamente comuni sono i principi che governano l'elettorato, tanto attivo quanto passivo. Da un lato, la stessa costituzione proclama che deputati e senatori sono eletti a suffragio universale e diretto. D'altro lato, comune è il regime delle cause d'ineleggibilità e d'incompatibilità. Assolutamente in eleggibili ad entrambi i rami del parlamento sotto pena d'invalidità, salvo che l'esercizio delle relative funzioni sia cessato almeno 180 giorni prima della scadenza del quinquennio delle camere, sono i presidenti delle province, i sindaci dei comuni con popolazione superiore a 20.000 abitanti, gli alti gradi e i funzionari della pubblica sicurezza, i capi di gabinetto dei ministri, i prefetti e i viceprefetti, gli alti gradi delle forze armate, i magistrati e i diplomatici. L'esclusione "risponde a imprescindibili esigenze di interesse generale" le quali richiedono, per un verso, "che l'espressione del voto rappresenti la libera e genuina manifestazione di volontà dell'elettore, donde l'ineleggibilità delle persone e dei funzionari che possono esercitare pressione sugli elettori stessi. Al di fuori di questi tipi d'ipotesi, si pongono invece numerose cause d'incompatibilità, che non rendono annullabile l'elezione, ma sono sanabili qualora gli interessati optino entro un breve termine fra le cariche da essi ricoperte ed il mandato parlamentare.


Le sole differenze già segnalate, attengono invece a quella che si suole definire la capacità elettorale: vale a dire all'età minima richiesta per votare e per essere votati. Fondamentalmente comuni si dimostrano, altresì, i rispettivi procedimenti elettorali. In entrambi i casi l'iter si suddivide in quattro o cinque momenti fra loro distinti: cioè nella fase dell'iniziativa, nella fase preparatoria, nella fase della votazione e nella fase dello scrutinio. A mettere in moto la macchina elettorale è il decreto con il quale il presidente della repubblica effettua la convocazione dei comizi elettorali. Si apre a questo punto la complessa fase preparatoria, con la costituzione dei vari uffici elettorali. Ed è agli uffici stessi che i partiti od i gruppi politici organizzati presentano le candidature nei collegi uninominali e le rispettive liste di candidati. Quanto alla fase della votazione, s'impone in ogni caso il rispetto delle proclamazioni sulla personalità, libertà e segretezza del voto. In ogni seggio, dopo che gli elettori hanno votato nel corso dell'unica giornata elettorale si svolgono le prime operazioni di scrutinio. Ed è su quella base che gli uffici medesimi provvedono alla proclamazione degli eletti.


Le sole varianti significative discendono dalla diversità dei sistemi di elezione delle due assemblee. I sistemi elettorali sono complessi "meccanismi per la trasformazione dei voti in seggi": nella definizione dei quali rileva anzitutto la varia tipologia dei collegi elettorali e delle corrispondenti circoscrizioni. Di norma, il territorio dello stato viene a questi fini suddiviso in più circoscrizioni e dunque in più collegi. Tali collegi si dicono uninominali, quando ognuno di essi dispone di un solo seggio; plurinominali, quando i seggi rispettivamente assegnati sono più d'uno e concretamente possono assommare anche a varie decine di unità. Al di là della nota contrapposizione fra i sistemi elettorali maggioritari e i sistemi elettorali proporzionali, i meccanismi in questione si presentano a venire quanto meno quadripartiti: in primo luogo si danno i sistemi maggioritari estremi o puri, per cui la forza politica che consegue nel collegio la maggioranza relativa si vede con ciò stesso attribuiti il seggio o i seggi disponibili; in secondo luogo, seguono i sistemi proporzionali corretti, per mezzo dei quali la ripartizione dei seggi si effettua in proporzione ai suffragi ottenuti dai vari partiti concorrenti; in quarto luogo, il quadro è completato dai sistemi proporzionali estremi o puri, in cui non vigono correttivi di sorta, sicché il parlamento tende ad essere lo specchio fedele del paese politicamente considerato. Ora in presenza dei collegi uninominali, occorre per definizione avvalersi dei sistemi maggioritari; ma i sistemi stessi possono essere ad unico turno, come nel caso della Gran Bretagna, ovvero a doppio turno, come si verifica tuttora in Francia. Per contro, i collegi plurinominali richiedono generalmente l'applicazione dei sistemi proporzionali; ma non mancano alcune eccezioni, rappresentate da quei sistemi maggioritari "di schiacciamento", per mezzo dei quali le forze politiche prevalenti s'impadroniscono di tutti i seggi spettanti al collegio.


Quanto alla elezione del Senato, la riforma è stata resa indispensabile dal referendum abrogativo del 18 aprile 1993. Il referendum fu ammesso in quanto manipolativo, anziché produttivo di un paralizzante vuoto: "conseguenza dell'abrogazione" sarebbe stata "la sostituzione del sistema attuale con un sistema misto prevalentemente maggioritario e precisamente maggioritario con unico turno per 238 seggi da assegnare nei collegi. Ogni territorio regionale è stato perciò "ripartito in collegi uninominali, pari a tre quarti dei seggi assegnati alla regione, con arrotondamento per difetto"; mentre, "per l'assegnazione degli ulteriori seggi spettanti", in primo luogo del sistema maggioritario uninominale, "ciascuna regione è costituita in un'unica circoscrizione elettorale". Ciò comporta "candidature individuali". Per altro i gruppi meno forti sono avvantaggiati dalla scorporo, consistente nel fatto che dalla cifra elettorale regionale di ciascun gruppo vanno "sottratti i voti dei candidati già proclamati eletti".


Le nuove norme per l'elezione della camera dei deputati, sono fondamentalmente in linea con quelle introdotte per il Senato. Anche dalla camera, infatti, si prevede che, "in ogni circoscrizione, il settantacinque per cento del totale dei seggi" venga "attribuito nell'ambito di altrettanti collegi uninominali"; mentre il residuo venticinque per cento deve essere "attribuito in ragione proporzionale mediante riparto tra liste concorrenti". Le tecniche utilizzate non coincidono però: in primo luogo agli elettori spetta un doppio voto. In secondo luogo, lo scorporo dalla cifra elettorale di ciascuna lista non tiene conto di tutti i voti ottenuti dai relativi candidati eletti nei collegi uninominali; in terzo luogo, al riparto della quota proporzionale non partecipano tutte le liste presentate nelle singole circoscrizioni. Ciò che più conta, le riforme in questione non sono riuscite a rendere possibile la formazione di forti maggioranze entro il parlamento e la conseguente investitura di governi destinati a durare per l'intera legislatura.


Il parlamento in seduta comune (ina 300)


Il parlamento in seduta comune trova la sua prima origine nel progetto elaborato dalla commissione dei 75, che prevedeva l'istituzione di un'assemblea nazionale, con importanti funzioni politiche in tema di fiducia e sfiducia al governo. La proposta fu respinta dalla costituente: ma di essa è rimasta traccia nel disposto costituente già citato. In definitiva le camere riunite sono oggi chiamate ad esplicare unicamente compiti elettorali e compiti accusatori. E le funzioni in esame sono tali che il loro esercizio non avrebbe potuto essere efficacemente svolto dalle due camere separate, ostandovi ragioni sia di ordine tecnico che di ordine politico. A parte ciò, il Parlamento in seduta comune è stato variamente conurato in dottrina, sostenendosi da alcuni che esso verrebbe a formare un terzo organo, distinto dalla camera e dal senato. In considerazione di ciò, si deve sostenere che l'adunanza comune rappresenta piuttosto un modo di riunione di tutti i parlamentari; il che forma un valido argomento per considerare la camere riunite come un organo collegiale per sé stante. Ulteriori problemi riguardano la classificazione del parlamento in seduta comune fra collegi perfetti e quelli imperfetti.


Il principio di continuità (ina 303)


L'art. 60 secondo comma Cost., statuendo che "la durata di che la durata di ciascuna camera non può essere prorogata se non per legge e soltanto in caso di guerra", sottopone la proroga a due condizioni: l'una di carattere formale, consistente nella riserva delle relative decisioni alle leggi ordinarie; l'altra sostanziale, rappresentata dalla previa o contemporanea delibera dello stato di guerra. Nel nostro ordinamento, cioè, le camere sono organi permanenti tanto in relazione ai loro lavori, quanto in relazione alla loro esistenza. Riferito all'attività parlamentare, il principio di continuità si concreta nella previsione costituzionale di riunioni di diritto ed in via straordinaria: le une potrebbero effettuarsi anche indipendentemente dalla convocazione ad opera del presidente di ciascuna camera; mentre le altre presuppongono che l'iniziativa della convocazione sia presa dallo stesso presidente o da un terzo dei componenti dell'assemblea oppure dal capo dello stato. Dal momento che ciascuna camera organizza normalmente i propri lavori programmandoli in base ad un certo calendario, quando termina un periodo di attività si può addivenire al c.d. aggiornamento, che consiste in una breve sospensione dei lavori con l'indicazione della prossima data di riunione dell'assemblea. Il potere di riunione in via straordinaria compete comunque al Presidente di ciascuna Camera. Quanto al principio di continuità dell'esistenza, esso trova il suo presupposto nella previsione che le nuove Camere vengano elette entro settanta giorni dalla fine delle Camere uscenti. La portata dei poteri prorogati viene fatta coincidere con la pienezza di tutti i poteri già spettanti alle camere nel corso del quinquennio. Secondo un'altra tesi, le camere che agiscono in regime di prorogatio sono invece scadute; e pertanto è ridotta l'ampiezza dei compiti da esse esplicabili. Prevalentemente è preferibile , tuttavia, un'opinione intermedia, per cui l'ordinaria amministrazione della quale si ragiona in questa sede non va intesa alla lettera, ma anzi si risolve nel suo contrario. Nel periodo della loro prorogatio, le camere non deliberano altro che in circostanze straordinarie, allorché si renda necessario provvedere d'urgenza. Ma la circostanza che le attribuzioni della camere cessate non si prestino ad essere definite se non sulla base di "parametri largamente discrezionali", induce a ritenere che i limiti in discussione non siano suscettibili di essere fatti valere da organi estranei alle camere. Del resto se si considera che nel corso della prorogatio i parlamentari sono comunemente impegnati nella camna elettorale, si comprende ancor meglio il perché le camere si riuniscano nei soli casi in cui si tratti di esercitare funzioni di straordinaria amministrazione. Riferito all'esistenza delle camere il principio di continuità non si presta, per altro, ad essere applicato incondizionatamente. In particolare, esso non significa che le nuove camere debbano continuare i lavori già iniziati dalle camere precedenti. La circostanza che la funzione legislativa debba essere esercitata "collettivamente" e che la riunione di una camere in via straordinaria comporti la convocazione di diritto dell'altra, rafforza infatti l'idea che i due rami del parlamento siano tenuti a lavorare in tandem. Essendo necessaria la riapprovazione da parte della nuova camera, non è dunque sufficiente che il senato neoeletto approvi a sua volta il progetto di legge già approvato dalla camera scaduta. Analoghi criteri valgono anche per ciò che riguarda le sorti del governo in carica nel periodo elettorale, che secondo una prassi ormai costante rassegna le proprie dimissioni all'atto stesso della costituzione del nuovo parlamento: ed effettivamente non sarebbe in armonia con il sistema, poiché le nuove camere devono essere completamente libere, e non impacciate dalla presenza di un gabinetto ancora in carica.


Il principio di autonomia: gli organi delle camere (ina 310)


L'autonomia costituisce tuttora il terzo fondamentale principio, sul quale si regge l'organizzazione delle Camere; ma la sua ratio ed i suoi contenuti sono oggi assai mutati rispetto al passato. Nel vigente ordinamento italiano, l'autonomia di ciascun ramo del parlamento non viene garantita dalle inframmettenze del solo esecutivo, ma ha una portata ben più vasta. Rispetto all'esecutivo, l'autonomia del parlamento è implicitamente tutelata dalla norma che riserva alle Camere il compito di eleggere fra i loro componenti il Presidente e l'Ufficio di presidenza. Ma nel medesimo senso concorrono le cosiddette immunità parlamentari, implicanti la necessità di autorizzazione della camera di appartenenza di ciascun membro del parlamento, affinché questi possa esser sottoposto ad arresto o ad altre privazioni della libertà personale o domiciliare o di comunicazione. Le immunità garantiscono i parlamentari anche e soprattutto nei confronti del potere giudiziario. Altre norme costituzionali assicurano poi l'indipendenza reciproca dei due rami del parlamento.


Vale comunque la pena di analizzare gli aspetti più significativi del principio di autonomia, a cominciare dai poteri di autoorganizzazione dei quali le camere dispongono: non solo eleggendo il presidente e l'ufficio di presidenza, ma anche formando i gruppi parlamentari, le giunte, le commissioni.


Tra i primi adempimenti ai quali è chiamato ciascun ramo del parlamento, si colloca l'elezione del presidente, per cui nella camere è richiesta la maggioranza dei due terzi nei primi tre scrutini e la maggioranza assoluta a partire dalla quarta votazione. La ragione di simili quorum consiste nell'esigenza che il presidente operi in modo imparziale.


La delicatezza dei compiti presidenziali conforta ulteriormente la tesi dell'imparzialità dell'organo: difatti "il presidente rappresenta la camera" e, oltre a sovrintendere all'amministrazione interna, assicura il buon andamento dei lavori, facendo osservare il regolamento.


Con il presidente collabora l'Ufficio di presidenza, composto in entrambi i casi da quattro vicepresidenti, tre questori ed otto segretari. In particolari i questori assicurano l'autonomia parlamentare finanziaria; mentre i segretari sono preposti alla redazione del processo verbale ed alle operazioni di voto.


Fin dall'inizio della legislatura si formano inoltre i gruppi parlamentari, che rappresentano la proiezione dei partiti nell'assemblea. Successivamente e conseguentemente alla formazione dei gruppi parlamentari si organizzano le commissioni parlamentari. Tali commissioni si riferiscono comunque all'assemblea sui progetti di legge e talora deliberano immediatamente; e la politicità dei loro compiti richiede che esse rispecchino i rapporti esistenti tra le forze politiche presenti nel plenum.


Al Presidente della Camera spetta invece la nomina dei componenti delle tre giunte. Per quanto il rispetto della proporzione di forze tra i diversi gruppi sia richiesto espressamente in relazione alla solo giunta per il regolamento, è intuitivo che il presidente deve tener conto della consistenza e delle indicazioni dei gruppi medesimi; infatti la giunta per il regolamento propone all'assemblea le modificazioni e le integrazioni del regolamento stesso. A sua volta la giunta delle elezioni procede ad una semplice ricognizione della realtà storica. Più accentuatamente politico è invece il compito della giunta per le autorizzazioni.


I regolamenti parlamentari; la verifica dei poteri; il divieto del mandato imperativo; le immunità parlamentari (ina 315).


Le Camere del parlamento non sono dotate soltanto dell'autonomia organizzativa, bensì dispongono di un'ampia autonomia normativa ed organizzatoria, che consente loro di disciplinare l'assetto ed il funzionamento rispettivo. Tale autonomia ritrova oggi il suo fondamento nella stessa carta costituzionale; poiché da una parte l'art. 64 primo comma Cost. dichiara che "ciascuna camere adotta il proprio regolamento"; dall'altra l'art. 72 precisa che al regolamento spetta di determinare le procedure di approvazione dei disegni di legge in seno alle camere stesse. Il che determina una competenza esclusiva, rafforzata dalla previsione che le Camere approvino le rispettive norme regolamentari "a maggioranza assoluta". All'autonomia normativa ed organizzatoria si ricollega l'autonomia contabile, con la conseguente esenzione delle camere dai giudizi spettanti in materia alla corte dei conti. Del pari è su questa base che si regge l'autodichia delle camere medesime, onde i regolamenti parlamentari riservano agli uffici di presidenza le decisioni sui ricorsi che attengano allo stato ed alla carriera giuridica.


Analoghe conseguenze discendono dall'art. 66 Cost., che affida invia esclusiva ad ogni camera il compito di giudicare "dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte d'ineleggibilità e d'incompatibilità"; poiché, se non vi fosse la norma costituzionale sulla verifica dei poteri, il compito in questione spetterebbe ai giudici amministrativi. È indubbio che la previsione dell'art. 66 rappresenta un anacronismo e ha dato luogo a gravi ingiustizie (sebbene perpetrate nell'ambito di ciascun singolo gruppo parlamentare, senza ledere un partito a vantaggio di un altro): gruppo parlamentare senza ledere un partito a vantaggio di un altro): talora infatti, i giudizi delle camere sono stati a tal punto arbitrari, da far registrare alcuni casi di candidati che, pur avendo ottenuto un maggior numero di voti rispetto a chi già sedeva in parlamento, non sono stati dichiarati eletti.


Il giudizio sulla regolarità delle operazioni elettorali spetta alla giunta delle elezioni, che agisce per lo più su ricorso di un interessato ma può anche attivarsi d'ufficio. Qualora la giunta concluda che non vi è stato nulla d'irregolare emette dichiarazione di convalida. Se invece la contestazione è per essa fondata, la giunta si limita ad istruire la questione, sulla quale l'assemblea delibera successivamente.


Tutt'altro che inattuale, viceversa, è la garanzia derivante da quell'art. 67 Cost., per cui "ogni membro del parlamento rappresenta la nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato; sicché ne deriva il generale divieto del mandato imperativo. Tuttavia l'art. 67 Cost. non rappresenta affatto un relitto storico, ma resta ancora applicabile a diversi notevoli effetti, sia nei rapporti fra gli elettori e i parlamentari sia nei confronti dei partiti politici cui questi appartengono all'atto della loro elezione. Quanto agli elettori, la norma in esame vale ad escludere la legittimità di una legge elettorale che prevedesse l'anticipata cessazione dall'ufficio di un deputato o di un senatore, in virtù di un voto di revoca del corpo elettorale interessato, secondo il modello del recall, istituito in alcuni stati degli USA. Ma la disposizione costituzionale ha lo scopo e l'effetto di impedire che i legami stessi assumano un giuridico rilievo; tanto è vero che rimangono privi di qualunque efficacia gli impegni eventualmente sottoscritti dai candidati, che li obbligherebbero a dimettersi nell'ipotesi che il loro partito lo richieda.


In realtà la ratio dell'art. 67 non consiste nel consentire ai parlamentari di frodare i loro elettori, mutando arbitrariamente di avviso o di bandiera nel corso della legislatura; ma il più delle volte, alla loro base si ritrovano scissioni registratesi nell'ambito della stessa formazione politica interessata.


Bisogna avvertire che la funzione e la portata delle immunità parlamentari devono essere distinte, a seconda che si abbia di mira il primo comma oppure i due commi successivi dell'art. 68 Cost. Nell'un caso si tratta di quella che viene abitualmente definita la prerogativa dell'irresponsabilità. In vista della quale non sono sindacabili e sanzionabili le opinioni espresse e i voti dati dai membri delle camere nell'esercizio delle loro funzioni. Nell'altro dei due casi invece, viene in questione la prerogativa dell'inviolabilità, che non si limita affatto a concernere gli atti compiuti nell'esercizio delle funzioni in esame, ma è al tempo stesso più ristretta della prima immunità. Per ciò che riguarda l'irresponsabilità. Essa è chiaramente stabilita in vista di un più libero esercizio dei compiti spettanti ai deputati o ai senatori. Ben altro è invece il discorso da fare sulle autorizzazioni previste dal secondo e dal terzo comma dell'articolo in esame. Prima della recente riforma, l'art. 68 riservava a ciascuna camera la potestà di autorizzare o meno i procedimenti penali a carico dei rispettivi appartenenti, per qualsiasi tipo di reato. Nella prassi ne era derivata la tendenza a negare l'autorizzazione. Di più: accadeva spesso che le camere non si pronunciassero affatto, lasciando trascorrere inutilmente l'intera legislatura. Sicché si poteva ben dire che il vecchio testo dell'art. 68 fosse l'espressione di un privilegio, utilizzato a favore degli interessi personali dei parlamentari, piuttosto che di una prerogativa propriamente detta. La cosiddetta questione morale ha pertanto indotto le Camere stesse ad effettuare un drastico ridimensionamento dell'inviolabilità parlamentare.


Il procedimento legislativo; la fase dell'iniziativa (ina 321).


Fondamentalmente, tutte le funzioni spettanti alle Camere nel nostro ordinamento sono raggruppabili in due tipi; quelle legislative e quelle ispettive o di controllo politico. Fra di esse, le funzioni legislative hanno di gran lunga il maggior rilievo e vanno comunque esaminate in prima linea. Sia perché il parlamento ne rappresenta il titolare naturale, sia perché la costituzione le considera in termini abbastanza dettagliati; tuttavia resta fermo che le une e le altre non sono nettamente staccate e contrapposte, ma si sovrappongono a vicenda. Inoltre può dirsi ormai dominante l'avviso che anche le funzioni legislative, e non soltanto le funzioni ispettive, concorrano nella loro totalità alla determinazione dell'indirizzo politico: sia perché la legislazione è normalmente libera e dunque politica per definizione; sia perché il nostro ordinamento ha strutture portanti che sono in gran parte legislative.


Conviene ricordare che la nozione di procedimento, riferita all'attività legislativa, è stata mutuata dal diritto amministrativo: nell'ambito del quale si parla di procedimenti per designare fenomeni analoghi a quelli che il diritto processuale denomina processi. In tutti e tre questi campi il procedimento non è altro che una serie giuridicamente preordinata di atti e di attività dovuti a soggetti diversi, al termine della quale si produce in determinato atto perfetto ed efficace. Qualora però, tutti gli atti compresi nella serie fossero egualmente costitutivi dell'effetto finale, non ricorrerebbe ancora la ura del procedimento, ma si dovrebbe piuttosto parlare di un atto complesso, nascente dal concorso delle volontà di più soggetti. Affinché il procedimento sia precisamente tale, occorre invece che l'iter risulti suddiviso in più fasi. L'iter formativo delle leggi si presenta maggiormente articolato, perché nel suo seno si devono distinguere almeno tre fasi: quella dell'iniziativa, quella propriamente costitutiva che si sostanzia dell'approvazione e quella formalmente percettiva ed integrativa dell'efficacia dell'atto, che ricomprende al promulgazione e la pubblicazione. Vero è che tutte le forme di iniziativa attualmente esistenti, fatta eccezione per quella parlamentare, sono a loro volta il frutto di un complesso procedimento, distinto da quello legislativo. Così per esempio i disegni di legge governativi nascono da un iter che vede concorrere i singoli ministri interessati. Ma il fatto che sia lecito parlare di appositi procedimenti per l'iniziativa delle leggi non toglie che il procedimento legislativo propriamente detto non possa iniziarsi se non sulla base di un disegno, presentato ad una delle camere; ed è in quest'ultimo senso, con riguardo al momento finale della serie di atti e di attività nella quale si concreta l'iniziativa stessa, che si può trattarne come della prima fase dell'iter formativo delle leggi.


Che l'iniziativa faccia parte del procedimento legislativo è stato però messo in dubbio; cioè ricostruendo il procedimento come quella serie in cui le varie fasi sarebbero concatenate necessariamente, in quanto la conclusione di ciascuna di esse renderebbe indispensabile avviare e concludere la fase successiva, anziché rappresentarne un puro e semplice precedente temporale. Simili concatenazioni sono indubbiamente peculiari di vari procedimenti non legislativi; ma non sembrano caratterizzare la formazione delle leggi. Per questo motivo taluno a pensato di dover estromettere la presentazione dei disegni di legge dall'iter formativo delle leggi. Sicuramente fondata è invece la premessa del discorso, ossia che la presentazione di un disegno di legge consente alle Camere di passare alla fase approvativi ma non le obbliga a farlo. Vero è che le stesse norme regolamentari si limitano a vincolare le commissioni, prevedendo che alla scadenza dei termini loro assegnati il progetto di legge possa essere senz'altro "iscritto all'ordine del giorno dell'assemblea" o "preso in considerazione, in sede di programmazione dei lavori" del plenum; ed anche in questo senso accade che tali precetti non siano concretamente sanzionati, sicché la maggioranza dei disegni non viene affatto portata all'esame delle camere.


La prassi dell'insabbiamento trova la sua giustificazione ultima nel principio di autonomia. In altri termini, ciascuna camera, essendo titolare di funzioni politiche da esercitare con il massimo grado possibile di libertà, deve poter disporre del proprio ordine del giorno. E ne dispone non soltanto in via di prassi, ma sulla base di norme ben precise. Coerentemente, decisiva ai fini dell'esame o dell'insabbiamento di un progetto è la circostanza che il programma ne disponga o meno l'inserimento nel calendario dei lavori. Del resto non potrebbe essere altrimenti, se si considera che le assemblee parlamentari non sono concretamente in grado di esaminare tutti i disegni di legge; sicché l'esame in questione è necessariamente il frutto di un'insindacabile scelta politica, mentre l'iniziativa svolge solo una indispensabile "funzione di stimolo". In primo luogo la presentazione di un progetto di legge obbliga il presidente di ciascuna camera ad assegnarlo alla commissione competente per materia. In secondo luogo, i progetti stessi identificano nelle grandi linee gli oggetti sui quali le camere dovranno pronunciarsi, sempre che pervengano al voto finale. In terzo luogo, gli atti in discussione non sono scollegabili da quelli che attengono alla medesima materia: giacché la commissione è tenuta ad effettuarne un esame congiunto o abbinato.


Le singole forme d'iniziativa delle leggi (ina 326).


Nell'attuale ordinamento l'iniziativa legislativa non è più accentrata come nel periodo statuario, ma presenta un carattere diffuso: in quanto spetta, oltre che al governo ed a ciascun membro delle camere, "agli organi ed enti ai quali sia conferita da legge costituzionale". Ma in verità la dizione è imprecisa, poiché il potere di farsi presentatori di progetti di legge non è disciplinato da distinte leggi costituzionali, bensì dalla costituzione stessa; che lo attribuisce al popolo, al consiglio nazionale dell'economia e del lavoro, ai singoli consigli regionali e, forse, ai comuni. La carta costituzionale conura quindi cinque o sei tipi di iniziativa legislativa. Ma nella realtà delle cose le forme nuove non hanno che una minima importanza, poiché non è avvenuto se non in rarissimi casi che proposte di legge siano state presentate dagli elettori. Di fatto perciò l'iniziativa continua a risultare accentrata nella mani dei parlamentari e soprattutto nella mani del governo, che si fa presentatore di progetti relativamente meno numerosi.


Le ragioni sulle quali si fonda la supremazia dell'iniziativa governativa sono di ordine politico, tecnico e giuridico-costituzionale. Dato il rapporto fiduciario che lega il governo al parlamento, quest'ultimo non può bocciare sistematicamente le proposte governative, poiché un tale atteggiamento comporterebbe sfiducia e condurrebbe ad una crisi.


Giuridicamente tale iniziativa è l'unica che abbia una portata universale, cioè comprensiva di qualunque oggetto ricadente nella competenze del legislatore statale. Bisogna ancora aggiungere che sussisterebbe a favore del governo una vera e propria riserva costituzionale d'iniziativa legislativa in tema di presentazione dei disegni di conversione dei decreti-legge.


Il "principio di equiparazione formale di ogni tipo di iniziativa delle leggi" subisce già in tal senso una serie di eccezioni: in alcuni casi accade fin d'ora che l'iniziativa governativa sia privilegiata, anche sul piano procedurale, disponendo di "corsie preferenziali". Così i regolamenti di entrambe le camere prevedono oggi una "apposita sessione parlamentare di bilancio", riservata all'esame del disegno di legge di approvazione dei bilanci e del correlativo disegno di legge finanziaria. Del pari i regolamenti stessi disciplinano in modo specifico le procedure di approvazione dei disegni governativi per la conversione dei decreti-legge, disponendo la loro immediata assegnazione alle commissioni competenti, che debbono pronunciarsi entro un brevissimo tempo. D'altra parte la primazia dell'iniziativa governativa è confermata dalla presenza di un rappresentante del governo nella "conferenza dei presidenti del gruppo", all'atto della predisposizione del programma dei lavori dell'assemblea. La presentazione dei disegni governativi è tuttavia preceduta da un particolare e distinto iter formativo dei progetti medesimi. La parte essenziale di questo procedimento si svolge all'interno dell'esecutivo. In una fase immediatamente successiva, la sottoposizione del disegno all'una o all'altra camera del parlamento dev'essere autorizzata dal presidente della repubblica che provvede mediante un apposito decreto; e, sulla carta, il presidente potrebbe rifiutarsi di apporre la sua firma al decreto medesimo, qualora riscontrasse l'illegittimità costituzionale dell'intero disegno o di parte di esso.


Sebbene l'art. 71 primo comma Cost. affidi la presentazione dei disegni di legge " a ciascun membro delle camere" anziché alle camere stesse, l'iniziativa parlamentare ha continuato per un lungo periodo ad essere sottoposta alla ricordata "presa in considerazione". Presentemente perciò l'iniziativa parlamentare non incontra limiti diversi da quelli comuni a tutti i disegni di qualunque provenienza. Allo stato perciò il solo rimedio consiste nelle previsioni regolamentari che prescrivono di sentire il parere della commissione bilancio e programmazione, "sulle conseguenze di carattere finanziario". Ma il vero limite dell'iniziativa parlamentare sta nella sua scarsa incisività. Nella gran parte dei casi i disegni in questione sono destinati a decadere inutilmente al termine della legislatura.


Sul piano giuridico, problemi più notevoli derivano dall'iniziativa popolare. Ma la legge n. 352 ha risolto il problema disponendo che la proposta, accomnata "da una relazione che ne illustri le finalità e le norme", deve essere corredata dalle firme occorrenti, autenticate da un notaio o da un cancelliere della pretura o del tribunale, nella cui circoscrizione è compreso il comune dove è iscritto l'elettore interessato. Un altro quesito concerne la definizione degli oggetti sui quali può vertere l'iniziativa popolare. Nella materie per cui la costituzione non consente il ricorso al referendum abrogativo sarebbe esclusa la stessa iniziativa spettante agli elettori. Ma la tesi non ha avuto quasi nessun seguito. In ordine decrescente d'importanza, conviene ora passare all'iniziativa regionale, prevista dall'art. 121, che consente ai consigli regionali di fare proposte di legge alle camere. Gli statuti speciali precisano invece che la rispettiva regione ha il potere di fare quelle proposte di legge che per essa presentino un "particolare interesse". All'atto pratico, però, non è facilmente immaginabile che le stesse camere del parlamento sindachino l'effettiva sussistenza di un requisito sfuggente, come quello dell'interesse regionale. Sembra che ci si trovi di fronte ad una sorte di autolimite, egualmente operante per tutte le regioni.


Ragioni di completezza impongono che si consideri anche l'iniziativa del CNEL (consiglio nazionale dell'economia e del lavoro), ma questo potere è da molti anni in uno stato di semi-quiescienza. Nel presentare disegni di legge, il CNEL incontra una serie di pesanti limitazioni, materiali e procedurali. La costituzione stessa chiarisce in maniera inequivocabile che l'organo in questione può solo avanzare proposte specializzate. D'altro lato, perché il consiglio esplichi la propria iniziativa, occorre che esso abbia in precedenza deciso "la presa in considerazione" del disegno.


Secondo una minoritaria opinione dottrinale, accanto ai cinque tipi finora esaminati, esisterebbe una sesta forma d'iniziativa legislativa, che affida alle leggi della Repubblica, "su iniziativa dei comuni", il mutamento delle circoscrizioni provinciali e l'istituzione di nuove province nell'ambito di una stessa regione. Ma varie ragioni concorrono ad escludere che l'iniziativa comunale debba essere intesa in senso tecnico. Sistematicamente, infatti, sarebbe incongruo pensare che i comuni dispongano d'una iniziativa riservata, ad esclusione della stessa iniziativa universale del governo.


I sistemi d'approvazione delle leggi; la procedura normale (ina 335).


Si è visto che, di fatto e di diritto predomina il governo, il quale funziona da vero e proprio comitato direttivo delle camere. Ma questa preminenza si attenua di molto nel corso della fase approvativi. Occorre per altro distinguere fra i vari sub-procedimenti: che accanto ad una procedura normale, comunemente detta per commissione referente, prevede una procedura speciale per l'approvazione d'urgenza di certi disegni di legge ed un terzo sistema alquanto anomalo, per commissione deliberante. Una quarta forma, per commissione redigente, è stata quindi introdotta dai vecchi regolamenti parlamentari ed è tuttora ammessa dai regolamenti nuovi, sebbene con qualche modifica.


Quando si parla di commissioni in sede referente, deliberante o redigente, si hanno per lo più di mira le medesime commissioni parlamentari permanenti, che agiscono però sulla base di norme costituzionali e regolamentari diverse. Alle tre sedi or ora indicate si aggiunge, anzi, la sede consultiva, in cui tali organi sono chiamati a fornire pareri alle altre commissioni.


Le commissioni in sede referente hanno il peculiare compito di riferire all'assemblea sui disegni di legge loro assegnati. In molti casi però, la commissione non si limita a stendere relazioni, ma redige a sua volta un nuovo progetto o controprogetto. Giuridicamente, il titolo che legittima la presentazione del controprogetto va individuato nei poteri di iniziativa e di emendamento, che spettano a ciascun parlamentare; mentre sul piano politico le ragioni sono dovute talvolta all'insoddisfazione della maggioranza, talaltra all'esigenza di trovare una base di accordo con le opposizioni. Ed è soprattutto quest'ultima evenienza che risponde ad una logica assembleare. Quanto alla procedura seguita dalle commissioni referenti, essa è analoga a quella che poi sarà seguita in assemblea, articolandosi anch'essa in più "letture" del disegno.


Per meglio intendere il perché di queste tre letture conviene dunque analizzare subito le modalità dell'approvazione del disegno in assemblea. Ma i regolamenti parlamentari precisano che l'esame dell'aula comprende in prima linea la "discussione sulle linee generali del progetto": nel corso del quale intervengono i relatori, sia di maggioranza che di minoranza.


Durante la discussione generale possono essere svolti ordini del giorno diretti ad impedire il passaggio all'esame degli articoli. Essi riguardano, normalmente nell'ordine, le questioni pregiudiziali di legittimità e di merito; e soltanto se queste vengono respinte dall'assemblea, si dà luogo all'esame del disegno articolo per articolo. La caratteristica saliente della "seconda lettura", riguardante l'approvazione articolo per articolo, consiste negli emendamenti che in questo momento ciascun parlamentare può proporre. Tali emendamenti sono del più vario genere; ma vengono suddivisi in soppressivi, aggiuntivi e modificativi. Quanto all'ordine delle relative votazioni impone che si dia precedenza a quelli che precluderebbero ogni ulteriore votazione concernente il medesimo disposto. S'intende che la facoltà di proporre emendamenti costituisce un'arma nelle mani delle opposizioni. In questo caso il governo non ha che un rimedio consistente nel porre la questione di fiducia sull'approvazione dell'articolo originariamente formulato: con l'ulteriore vantaggio che la questione stessa va votata per appello nominale sicché può essere meglio assicurata la disciplina di gruppo. Ma la necessità di un'approvazione finale del testo legislativo risulta evidente, se si riflette sulle maggioranze talora occasionale che si coagulano intorno ai vari singoli disposti. Non a caso, prima della votazione finale, può essere avanzata una proposta di rinvio, mirante a consentire "le correzioni di forma e le modificazioni di coordinamento". In vista dell'importanza di questa deliberazione riassuntiva, il regolamento della camera stabiliva che essa avvenisse "per scrutinio segreto". Nella camera è stato disposto che possono effettuarsi a scrutinio segreto le sole "votazioni riguardanti le persone, nonché quelle che incidono sui principi e sui diritti di libertà" e "sui diritti della famiglia".


Una volta approvato da uno dei due rami del parlamento, il progetto deve poi passare all'esame dell'altra assemblea. Astrattamente potrebbero dunque ipotizzarsi interminabili andirivieni di uno stesso progetto fra l'uno e l'altro ramo del parlamento; ma simili ipotesi rimangono irreali, poiché le divergenze normalmente si risolvono con qualche compromesso.


Le forme anomale di approvazione (ina 340).


La procedura d'urgenza è quella che meno sensibilmente si discosta dalla procedura normale. L'urgenza di un dato disegno di legge è dichiarata dall'intera camera, per mezzo di una votazione preliminare che può esser provocata dal governo. Ciò comporta appunto l'abbreviazione del tempo concesso per la presentazione delle relazioni.


Veramente straordinaria si rileva invece la procedura per commissione deliberante; e ciò, sia nel nostro attuale ordinamento, come è dimostrato dalle cautele con cui la carta costituzionale ha considerato questa forma di approvazione delle leggi, sia da un punto di vista atistico.


"Quando un progetto di legge riguardi questioni che non hanno speciale rilevanza di ordine generale" o che "rivestano particolare urgenza" il presidente può proporne l'assegnazione ad una commissione, per l'esame e l'approvazione di esso: la proposta, iscritta all'ordine del giorno della seduta successiva, si ha per accettata se non vi è opposizione; diversamente la camera vota per alzata di mano. Se invece il progetto di legge rimane assegnato alla commissione deliberante, il testo subisce le stesse vicende che si avrebbero in sede referente, salvo che l'approvazione data in commissione equivale senz'altro a quella che altrimenti spetterebbe al plenum. Ed è appunto in tal senso che nel regolamento della camera si parla in proposito di sede legislativa.


Va ricordato che la delega legislativa si fonda su un'espressa delibera del delegante. Parallelamente anche la revoca di questa pretesa delegazione, cioè la rimessione del testo dalla commissione al "plenum", può essere provocata non solo da un decimo dei componenti l'assemblea, ma da un quinto dei membri della stessa commissione deliberante e perfino dal governo. In realtà dunque, il ricorso alla ura della delegazione è improprio, ma serve a sottolineare il carattere eccezionale dell'approvazione delle leggi in commissione: ossia per ribadire che i regolamenti parlamentari non sarebbero abilitati a disciplinare e prevedere un simile procedimento, qualora mancasse un'esplicita norma costituzionale facoltizzante. La straordinarietà della sede deliberante è d'altra parte accentuata dal comma finale dell'art. 72 Cost, che introduce una "riserva di legge d'assemblea". Particolarmente problematica appare, però, la ura della "materia costituzionale": che alcuni ritengono comprensiva delle sole leggi formalmente costituzionali, mentre altri la concepiscono in termini più larghi, includendovi anche le leggi ordinarie integrative od attuative delle previsioni costituzionali. La prassi ha partire dal 1958 è stata verso la commissione deliberante. In quest'ordine di idee risulta pertanto attenuato il carattere straordinario della procedura in esame. Del resto si può dire che il ricorso all'approvazione delle leggi in commissione deliberante ha finito per essere assai più massiccio di quanto non fosse immaginato ed auspicato dall'assemblea costituente. Giuridicamente straordinaria, questa procedura è infatti divenuta pressoché abituale. Il fenomeno ha contribuito ad introdurre fattori assembleari nel nostro sistema di governo: poiché le commissioni deliberanti obbediscono per definizione alla logica dei favori reciproci e dei compromessi fra la maggioranza e le opposizioni, senza i quali lo stesso utilizzo di questa forma di approvazione potrebbe venire impedito a priori.


Nel mezzo tra la sede referente e la sede deliberante si collocano le commissioni in sede redigente: che non sono però disciplinate né previste dalla carta costituzionale, ma trovano oggi il loro fondamento nei regolamenti delle camere. La qualifica di redigente non va presa alla lettera: poiché la loro caratteristica funzione non consiste di certo nella stesura del disegno di legge, bensì nel fissarne definitivamente il testo, discutendo e votando sulle eventuali proposte di emendamento. Tuttavia era stata sostenuta l'incostituzionalità di una simile procedura: in effetti l'approvazione cui si riferisce l'art. 72 Cost. non si può risolvere in un voto della camere avente per oggetto il disegno complessivo, ma implica un'approvazione del contenuto dell'atto. Ma la straordinarietà della sede redigente non significa ancora che essa contraddica le previsioni costituzionali. È invece preferibile concludere che essa rappresenti una sottospecie della procedura in sede deliberante. Non a caso, il regolamento del senato precisa che le norme in questione non si applicano ai disegni di legge in materia costituzionale ed elettorale. Ed entrambe le disposizioni dovrebbero valere per l'altro ramo del parlamento; poiché solo a questo patto la sede redigente potrebbe superare le dette obiezioni di legittimità costituzionale.


La promulgazione e la pubblicazione delle leggi (ina 345).


È controverso fino a che punto, nell'ultima fase del processo formativo delle leggi, la promulgazione e la pubblicazione debbano essere funzionalmente distinte. Queste due serie di adempimenti sono infatti accomunate da chi le considera necessarie per integrare l'efficacia della legge, che tuttavia sarebbe già perfetta in virtù della sola approvazione di entrambe le camere. Altri viceversa ritiene indispensabile differenziarle in sede concettuale.


Per meglio intendere i termini attuali della controversia, va ricordato anzitutto che nell'ordinamento statutario e fascista si ponevano in antitesi, fondamentalmente, due concezioni dottrinali della promulgazione.


In realtà la promulgazione rappresenta soltanto l'occasione perché il controllo presidenziale si effettui, ma non si confonde con esso; e ne dà conferma il capoverso dell'art. 74, in cui si dispone che, "se le camere approvano nuovamente la legge, questa deve essere promulgata" malgrado il presidente non abbia ulteriore controlli da effettuare. Inoltre, si sa che il capo dello stato è tenuto a promulgare anche quelle leggi in ordine alle quali molti dubitano che egli disponga del potere di rinvio: quali le leggi di revisione costituzionale e le altre leggi costituzionali. Resta aperto il solo dilemma se la promulgazione attenga unicamente all'integrazione dell'efficacia della legge, sul medesimo piano della pubblicazione; o invece consista nella documentazione della volontà espressa dalle due camere. Preferibile è invece la seconda ipotesi: in base alla quale la promulgazione è indispensabile perché le due concordi deliberazioni delle camere si fondano in un unico atto legislativo imputabile allo stato-persona.


Ciò malgrado, non vi è dubbio che la parte più importante e problematica della disciplina costituzionale concernente la promulgazione consista nelle norme sul rinvio presidenziale delle leggi. Dato il silenzio dell'art. 74 primo comma, ci si chiede anzitutto se l'atto presidenziale si possa fondare, oltre che sugli eventuali vizi di legittimità costituzionale, anche su ragioni di merito o di opportunità politica; la soluzione dev'essere affermativa.


Ma bisogna subito chiarire che le ragioni di merito adducibili dal presidente della repubblica non consistono certo in contingenti argomentazioni di convenienza, formulate dal punto di vista della maggioranza del governo; bensì riguardano il cosiddetto merito costituzionale. Il che peraltro, non toglie che la maggior parte dei rinvii presidenziali concernano la sola legittimità. Altro problema è poi quello concernente le leggi riapprovate in seguito al rinvio presidenziale, che il capo dello stato consideri ancora contrastanti con la costituzione. Di massima bisogna che il presidente interpreti ed applichi alla lettera la disposizione costituzionale che gli fa obbligo di promulgare. Ma ciò non esclude che in certe situazioni estreme la promulgazione debba venire del tutto rifiutata. Nell'ordinamento italiano, il procedimento legislativo si conclude necessariamente con la pubblicazione della legge. Al di là della costituzione, la legislazione ordinaria risalente al periodo fascista prevede tuttora un sistema di doppia pubblicazione, sotto forma di stampa della legge nella gazzetta ufficiale e d'inserzione nella raccolta ufficiale degli atti normativi.


Nell'ordinamento vigente si dà comunque preminenza alla pubblicazione nella gazzetta.


In ogni caso la pubblicazione determina l'entrata in vigore della legge, conferendole l'attributo dell'obbligatorietà. Nel nostro ordinamento la legge vige indipendentemente dalla conoscenza che ne abbiano o ne possano avere i destinatari; normalmente le leggi entrano in vigore il quindicesimo giorno successivo alla loro pubblicazione. Ma la vacatio legis può essere soppressa o quanto meno ridotta, tanto che si danno numerosi esempi di leggi entrate in vigore il giorno stesso della stampa di esse in gazzetta. Ed è manifesto che una legge esplicante i suoi effetti con immediatezza diviene obbligatoria senza esser conoscibile in modo ufficiale.


La formazione delle leggi costituzionali (ina 352).


Accanto al procedimento legislativo ordinario finora descritto, se ne pongono altri aggravati o rinforzati: il più rilevante è quello formativo delle leggi di revisione della carta costituzionale e delle altre "leggi costituzionali". In altri stati, tra i quali la Svizzera, nel compito in esame viene invece coinvolto il corpo elettorale, che legifera in luogo del parlamento mediante referendum di nuove leggi costituzionali. Ed altri ordinamenti ancora contemo un procedimento legislativo parlamentare variamente complicato: sia prevedendo l'approvazione delle leggi costituzionali da parte della camere uscenti, dopo di che le leggi stesse vanno riapprovate dal parlamento subentrato alle nuove elezioni.


La nostra costituzione ha adottato un sistema misto, che presenta caratteristiche proprie sia del secondo che del terzo tipo or ora descritti. Infatti per l'approvazione delle leggi costituzionali sono necessarie due successive deliberazioni di ciascuna camera, intervallate almeno da tre mesi, e nella seconda votazione dev'essere raggiunta come minimo la maggioranza assoluta. A questo punto le leggi stesse sono sottoposte ad un referendum popolare approvativo. Diversamente dal procedimento legislativo ordinario, quello costituzionale si articola dunque in quattro fasi: tre delle quali sono comuni e necessarie; mentre una fase eventuale, imperniata sul referendum, può venire ad inserirsi precedentemente alla promulgazione.


L'art. 138 Cost. non considera per altro l'iniziativa delle leggi costituzionali: sicché in questa parte si deve ritenere che al procedimento legislativo costituzionale vadano applicate le norme dettate per la formazione delle leggi ordinarie. Gravi problemi investivano invece la fase approvativi prima delle riforme regolamentari del '71. Ci si chiedeva quale dovesse essere l'ordine delle "due successive deliberazioni" che ciascuna camera è tenuta ad adottare "ad intervallo non minore di tre mesi". E mentre alcuni propendevano per la necessaria consecutività di tali approvazioni; altri sostenevano la tesi dell'alternatività, desumendone che il progetto di legge costituzionale adottato una prima volta dalla camera dovesse venir subito trasmesso al senato o viceversa , con la conseguenza che il periodo di tre mesi veniva a decorrere dopo la prima approvazione.


A favore della prima soluzione, si osservava che essa avrebbe comportato un duplice intervallo di tre mesi, corrispondendo alla ratio dell'art. 138 Cost. All'opposto, i fautori dell'alternatività rilevavano che la carta costituzionale impone un unico "intervallo" di tre mesi; ed aggiungeva che solo a questo modo si poteva sfuggire all'inconveniente di porre la seconda camera di fronte ad una sorta di fatto compiuto. Ma giustamente è stato notato che, non risultando nulla di preciso dall'art. 138, il problema ritrova la sua soluzione ultima nell'art. 72 primo comma Cost., che rimanda appunto ai regolamenti la disciplina dei procedimenti di approvazione delle leggi e dunque la scelta fra la consecutività e l'alternatività delle delibere approvative delle leggi costituzionali.


Un ulteriore problema concerne gli emendamenti apportabili ai disegni di legge costituzionale. Non è dubbio che la seconda assemblea lo può modificare a sua volta con piena libertà: poiché altrimenti verrebbe contraddetto il principio bicamerale. È invece incerta e discussa la questione dell'emandabilità del testo medesimo nel corso della seconda deliberazione.


Su quest'ultimo punto sono state formulate tre distinte ipotesi:


che gli emendamenti siano ancora possibili;


che in sede di seconda deliberazione le proposte di emendamento siano a priori inammissibili;


che le modifiche siano comunque consentite, ma debbano anch'esse venire sottoposte a quattro votazioni approvative.


Ma la stessa camera si è poi resa conto che l'interpretazione più corretta è la seconda, per cui gli emendamenti vanno affatto esclusi e la seconda deliberazione si risolve nell'approvazione finale dell'intero testo. Se infatti "la legge è . approvata nella seconda votazione da ciascuna delle camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti", il terzo comma dell'art. 1389 dispone che non si faccia luogo ad alcun referendum approvativo, ma si proceda direttamente alla promulgazione. Se invece si raggiunge la sola "maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna camera", l'art. 138 consente ce venga richiesto un referendum popolare. Bisogna notare però che sebbene spetti agli elettori il compito di approvare tali atti, esercitando una funzione deliberativa abile a quella già svolta dalle camere, lo scopo realmente perseguito dai promotori del referendum consiste nel bloccare il procedimento di legislazione o di revisione costituzionale. E in vista di questa implicita ratio di garanzia dell'ordinamento costituzionale positivo, si spiega il divario che passa tra la disciplina del referendum abrogativo delle leggi ordinarie e quella dettata per l'approvazione delle leggi costituzionali. Sulla legittimità decide con ordinanza un apposito ufficio centrale costituito presso la corte di cassazione; mentre non vi è spazio per quel successivo giudizio sull'ammissibilità della richiesta stessa che spetta alla corte costituzionale in tema di referendum abrogativi, non sussistendo in tal campo alcun limite di materia né alcun tipo di legge sottratta alla consultazione popolare. Intervenuta l'ordinanza che accerta la regolarità della richiesta, il referendum è indetto con decreto del presidente della repubblica, su deliberazione del consiglio dei ministri.


Un'ulteriore singolarità del procedimento in esame consiste nel fatto che la legge costituzionale approvata in seconda votazione a maggioranza assoluta, ma inferiore ai due terzi dei membri di ciascuna camera, è soggetta ad una pubblicazione anticipata nella gazzetta ufficiale; la quale però assume anch'essa un valore necessario, nona vendo il solo scopo di far conoscere il testo della legge a chi voglia proporre il referendum disapprovativi, ma essendo indispensabile perché incominci a decorrere il trimestre entro il quale può farsi la richiesta. Viceversa la seconda pubblicazione ne determina l'entrata in vigore. A conclusione del discorso va ricordato che qualche autore considera caratteristica anche la disciplina della promulagazione delle leggi costituzionali.


Le funzioni di controllo esercitate in forma legislativa: l'autorizzazione alla ratifica dei trattati; l'approvazione dei bilanci e delle leggi finanziarie (ina 359)


Una buona parte dei procedimenti legislativi implica che il parlamento svolga un'attività di controllo verificando l'opportunità delle relative scelte di politica legislativa ed eventualmente correggendole. Ma il nesso fra l'attività legislativa e l'attività di controllo appare particolarmente stretto nei casi in cui l'iniziativa delle leggi riservata all'esecutivo: come si verifica per le leggi di autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali e per quelle di approvazione dei bilanci e dei consuntivi.


Nel nostro ordinamento attuale occorre che il parlamento conceda per la legge la sua preventiva autorizzazione, affinché si ratifichino i "trattati internazionali che sono di natura politica, o prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari".


Volendo stabilire quali tipi di trattati internazionali rimangano fuori dall'ampia previsione in esame, gli unici esempi di un certo rilievo sono rappresentati dagli accordi commerciali o culturali. Nella prassi a questi si aggiungono i cosiddetti accordi in forma semplificata, che per definizione sfuggono all'osservanza del descritto procedimento di ratifica: ma non senza suscitare notevoli obiezioni sul piano costituzionali. Il parlamento non possa introdurre emendamenti nel testo concordato; dal momento che qualsiasi modifica richiederebbe il consenso dell'altro o degli altri contraenti, equivalendo in sostanza ad un diniego d'immediata approvazione.


Il principio dell'integrità dei trattati ha subito un sensibilmente ridimensionamento; e sempre più largamente s'è ammesso che i singoli stati contraenti esprimano riserve, sia formulandole in sede si sottoscrizione, sia manifestandole in vista della ratifica degli accordi medesimi. Il legislatore può pertanto incidere sul testo che gli è sottoposto: da un lato, nel senso di non autorizzare le riserve proposte dal governo; dall'altro nel senso di condizionare la ratifica dell'introduzione di riserve non progettare dal governo stesso. Il più delle volte nelle leggi formali di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali si inseriscono disposizioni sostanzialmente legislative, contenenti la clausola che rende senz'altro possibile l'esecuzione dei trattati stessi.


Anche la legge di approvazione dei bilanci viene tradizionalmente classificata tra quelle meramente formali: poiché si suppone che essa non sia propriamente creativa di diritto, ma contenga provvedimenti di natura amministrativa predisposti dal governo. Ma simili conurazioni sono meno ancora applicabili alle leggi di bilancio: le quali rientrano fra le leggi in senso sostanziale, pur essendo depotenziate o soggette a limitazioni. Meramente formali vanno considerate le leggi approvative dei rendiconto consuntivi, giacché con tali atti il parlamento non innova l'ordinamento giuridico, ma prende solamente conoscenza delle entrate e delle spese realizzate nel corso di un dato esercizio finanziario. Viceversa l'approvazione dei bilanci preventivi conserva tuttora una notevole importanza, sia dal punto di vista politico che da quello giuridico. Sul piano politico la mancata approvazione implica il rigetto dell'indirizzo politico governativo; e pur non obbligando il governo a dimettersi, lascia presagire la caduta dell'intero gabinetto o almeno del ministro interessato. Sul piano giuridico, il rifiuto di approvazione comporta una vera e propria paralisi dell'azione statale. Quanto alle altre spese, l'unico rimedio consiste nell'esercizio provvisorio del bilancio; ma anche in questo caso bisogna che le camere provvedano "per legge e per periodi non superiori complessivamente a quattro mesi". Nel nostro ordinamento si danno moltissime norme che genericamente addossano oneri finanziari allo stato, senza però determinarne l'entità. Almeno in tal senso, perciò, spetta alla legge di bilancio precisare la portata annuale degli oneri stessi, concorrendo così ad integrare e a rendere applicabili le relative norme. Del resto si trova conferma nel potere parlamentare di modifica del quadro delle entrate e delle spese predisposto dal governo. Oltre che in una lunga ed univoca prassi, la facoltà che hanno le camere di emendare i bilanci preventivi è saldamente fondata sulle seguenti disposizioni regolamentari. Concettualmente si può ben dire che le camere, approvandolo, si appropriano del bilancio ed appunto per questo lo possono emendare. Si aggiunga inoltre che il bilancio dello stato italiano non riguarda la cassa bensì la competenza: ossia non definisce le somme, ma si limita ad autorizzare un massimo di spesa per ciascun modulo. Di conseguenza si producono costantemente sfasature evidentissime fra le previsioni di partenza e i consuntivi finali. D'altra parte, differenziata dagli altri atti legislativi è anche la struttura della legge del bilancio. Il testo di essa si bipartisce negli stati di previsione dell'entrata delle spese. La parte concernente le entrate si suddivide in "titoli", in "categorie", in "rubriche" e in "moduli"; mentre quelle concernenti le spese di ogni ministero si compongono a loro volta di "titoli", di "sezioni", di "rubriche", di "categorie" e di "moduli". Le unità giuridiche elementari dalle quali il bilancio è costituito sono i moduli di entrata e di spesa: ognuno dei quali dev'essere distintamente approvato dalle camere.


Malgrado le loro potenziali attitudini, il bilancio annuale dello stato e la relativa legge di approvazione si erano progressivamente irrigiditi; in tali circostanze si è dunque ritenuto necessario allargare lo spazio spettante all'annuale manovra. Cioè si è operato con la presentazione di un progetto governativo di "legge finanziaria con la quale possono operarsi modifiche ed integrazioni a disposizioni legislative aventi riflesso sul bilancio.


L'eccessivo carico imposto alle leggi finanziarie e le inevitabili difficoltà che ne sono derivate, ai fini della loro tempestiva approvazione, hanno però determinato una sorta di controriforma. Per reagire alla dilatazione dei detti contenuti eventuali e per garantire la snellezza di tali atti legislativi, si è infatti vietato che la legge finanziaria introduca "nuove imposte, tasse e contributi", come pure "nuove o maggiori spese". Con ciò stesso, però, si è reso necessario ricorrere a separati "disegni di legge collegati alla manovra di finanza pubblica", ciascuno dei quali assume contenuti dapprima conglobati nella legge finanziaria; sicché la loro sorte rappresenta un distinto fattore di complicazione e d'incertezza.


Le forme non legislative di esercizio delle funzioni ispettive e d'indirizzo: le interrogazioni e le interpellanze; le inchieste; le indagini conoscitive; le commissioni bicamerali permanenti. (ina 368).


La camere sindacano l'operato del governo non solo mediante l'approvazione degli atti legislativi predisposti dall'esecutivo, ma anche esplicando la loro funzione ispettiva per mezzo di interrogazioni. La presentazione delle interrogazioni e delle interpellanze spetta ad ogni singolo parlamentare. Precisamente, l'interrogazione consiste "nella semplice domanda, rivolta per iscritto, se un fatto sia vero, se alcuna informazione sia giunta al governo, o sia esatta, se il governo intenda comunicare alla camera documenti o notizie o abbia preso o stia per prendere alcun provvedimento su un oggetto determinato". Per converso l'interpellanza "consiste nella domanda, rivolta per iscritto, circa i motivi o gli intendimenti della condotta del governo in questioni che riguardino determinati aspetti della sua politica.


Sebbene giuridicamente distinte, interrogazioni ed interpellanze tendono però a confondersi le une con le altre; ed anche la loro disciplina normativa risulta fondamentalmente comune. Ma ciò non toglie che l'incisività di entrambi gli strumenti ispettivi rimanga molto scarsa: dal momento che il governo è sempre in grado di bloccare la discussione dichiarando di non poter rispondere oppure differendo la risposta. Il regolamento della camera aggiunge che l'interpellante può "promuovere una discussione sulle spiegazioni date dal governo", facendosi promotore di un'apposita mozione. Analoghe previsioni non si ritrovano invece nell'attuale regolamento del senato.


Più incisivo si dimostra lo strumento dell'inchiesta. Oggi, al contrario, l'art. 82 primo comma Cost., precisando che "ciascuna camera può disporre inchieste su materie di pubblico interesse". L'art. 82 non predetermina i settori nei quali si possono svolgere le inchieste parlamentari; sicché resta inteso che il parlamento è legittimato a servirsene dovunque ravvisi problemi. In particolar modo ciò ha consentito, da una parte, l'effettuazione di inchieste legislative; e d'altra parte, lo svolgimento di inchieste politiche nel senso più stretto del termine. Ma la soluzione preferibile è ormai nel senso che le stesse commissioni possano stabilire un "segreto funzionale", nei limiti consentiti dagli atti istitutivi e nella misura ritenuta necessaria al conseguimento dei loro scopi istituzionali. Più ardua è la questione dei segreti opponibili alle commissioni, per la salvaguardia di altri interessi giuridicamente rilevanti e limitativi dei poteri giurisdizionali. Si è posto l'interrogativo se questi limiti siano assolutamente inderogabili o se, al contrario, esista un mezzo costituzionalmente atto a far superare i limiti stessi. Un'autorevole corrente ha risposto che soltanto le commissioni istituite dalle singole camere sarebbero tenute ad operare sul medesimo piano delle autorità giudiziarie; mentre le inchieste fondate su apposite leggi potrebbero svolgersi anche al di là dei limiti in questione. Ma la tesi rimane criticabile. Senonché anche e soprattutto a questo punto, la prassi risulta quanto mai alterna. In un primo tempo, essa ha contraddetto l'ipotesi di chi voleva allargare i poteri spettanti alle singole commissioni. In un secondo tempo essa ha invece offerto vari esempi di specifiche disposizioni legislative deroganti al regime generale dei segreti.


Nel valutare la legittimità di siffatte previsioni, occorre per altro distinguere. Quanto al segreto d'ufficio, la generalità dei giudici dispone attualmente del potere di accertarne l'effettiva sussistenza. Quanto poi al segreto di stato, il conseguente "dovere di astenersi dal testimoniare" può essere rimosso dal presidente del consiglio dei ministri, su richiesta dell'autorità procedente che non ritenga fondata la pretesa segretezza. Al di là di queste aperture rintracciabili nell'ordinamento vigente, il parallelismo fra commissioni d'inchiesta ed autorità giudiziarie non è legittimamente derogabile. Se mai ciò che riduce le inchieste parlamentari ad un mezzo ispettivo spuntato e scarsamente efficace consiste nella circostanza che si tratta pur sempre d'uno "strumento di governo della maggioranza".


Indipendentemente dalle vere e proprie inchieste, i regolamenti parlamentari hanno comunque previsto che le commissioni permanenti, possano "disporre, previa intesa con il Presidente della camere", indagini conoscitive dirette ad acquistare notizie, informazioni e documenti utili"; con riferimento a tutte le funzioni, non solo legislative e di controllo ma anche di indirizzo spettanti in Italia al parlamento. Nell'ambito delle indagini conoscitive, tuttavia, le commissioni permanenti non sono affatto dotate dei poteri coattivi spettanti alle commissioni d'inchiesta ma possono solo "invitare qualsiasi persona in grado di fornire elementi utili". In altre parole, i soggetti convocati non sono tenuti a presentarsi, né hanno il dovere giuridico di testimoniare il vero.


Per completare il quadro, occorre accennare conclusivamente ad una eterogenea serie di commissioni bicamerali, formate in egual numero da deputati e senatori. Costituzionalmente prevista è la sola Commissione parlamentare per le questioni regionali, composta da venti deputati e da venti senatori. Ma la commissione stessa è stata inoltre inserita nel procedimento formativo di varie leggi delegate concernenti il passaggio delle funzioni amministrative statali alle regioni, giacché il governo si è visto obbligato ad acquisirne il previo parere.


Al di là della costituzione varie altre commissioni bicamerali sono state istituite per legge, determinando in tal modo una duplice serie di obiezioni: primo, se ciò fosse in linea con la suddivisione del parlamento in due camere; secondo, se non si dovesse ritenere invasa la riserva di regolamento. I problemi accennati si pongono quanto alla commissione per l'indirizzo e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi; come pure nei riguardi della commissione per il controllo degli interventi del Mezzogiorno.


Contenuti e lacune delle norme vigenti in materia (ina 379).


Quanto alle strutture del governo, l'art. 92 primo comma Cost. si limita a ricordarne le componenti necessarie (consiglio dei ministri, Presidente del consiglio e singoli ministri), tacendo invece dei vice-presidenti del consiglio, dei ministri senza portafoglio, degli alti commissari, dei sottosegretari. Nello sforzo di integrare il testo costituzionale, la dottrina s'è allora rifatta ad una serie di fonti legislative preesistenti. Ma il ricorso a queste fonti non è risultato conclusivo. L'unica via per colmare le lacune riscontrabili tanto al livello costituzionale quanto al livello legislativo ordinario consiste tuttora nel ricorso alle regole non scritte sulle quali si è fondato il funzionamento del governo dal 1948 in poi. Ma in questo senso il problema non è completamente risolto: giacché tali regole sono solo in parte costituite da norme giuridiche, vale a dire da consuetudini costituzionali; mentre in altra parte si tratta di canoni convenzionali.


Come le convenzioni possono dare vita a consuetudini, così le consuetudini stesse sono soggette a degradarsi e svanire, per il prevalere di tendenze desuetudinarie. E in entrambi i sensi, dunque, il quadro delle fonti che regolano le strutture e le funzioni del governo non è fisso ma continuamente mobile.


La formazione del governo: le consuetudini; l'incarico (ina 381).


La carta costituzionale disciplina la formazione del governo: "il presidente della repubblica nomina il presidente del consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri".


Come già si accennava, la fase preparatoria consiste essenzialmente nelle consultazione del presidente della repubblica. L'ordine delle consultazioni attiene certamente al mero "galateo" costituzionale. Tuttavia, non sarebbe esatto desumerne che tutta la fase in questione si fondi su regole di correttezza: se non i dettagli, per lo meno il nucleo delle consultazioni presenta un notevole rilievo e deve ormai ritenersi giuridicamente indispensabile in vista dello stesso testo costituzionale. Su questa base, è molto agevole concludere che le sole consultazioni realmente necessarie sono quelle riguardanti i capigruppo.


Neanche nella fase dell'incarico, che pure rappresenta il momento centrale e determinante nella formazione del governo, viene come tale considerata dalla costituzionale. Si può sostenere fin d'ora che l'incarico abbia un fondamento consuetudinario e risponda a precise esigenze di ordine costituzionale; che la scelta dell'incaricato e gli atti che egli compie in collaborazione con il capo dello stato siano costitutivi ad ogni effetto; e che l'incaricato non si ponga alle dipendenze del presidente della repubblica, ma sia titolare di un organo costituzionale per sé stante.


Ed effettivamente che quella dell'incarico rappresenti una strada giuridicamente obbligata, risulta dal fatto che in tale direzione concorrono i tre fondamentali principi di ordine costituzionale, concernenti la formazione e l'organizzazione del governo: quello di unità, quello di continuità e quello che esige la permanente fiducia delle camere. Tuttavia, non si può nemmeno ritenere che la fase dell'incarico sia preparatoria al pari di quella delle consultazioni. Al contrario, proprio perché il governo deve nascere nella sua interezza e non per segmenti, sulla base di contemporanei atti di nomina del presidente del consiglio e dei singoli ministri, occorre che il presidente incaricato predisponga tutto ciò che è necessario a questo scopo, precostituendo il programma governativo e la comine ministeriale; dopo di che le nomine non fanno che formalizzare e perfezionare decisioni che nella sostanza sono già state prese.


Da queste premesse deriva necessariamente che la predisposizione della lista dei ministri da parte del presidente del consiglio incaricato costituisce una proposta vincolante per il capo dello stato, il quale non potrebbe rifiutare alcuna nomina, se non nel caso estremo di un soggetto palesemente privo dei requisiti giuridicamente richiesti.


Il conferimento e la revoca dell'incarico; l'accettazione dell'incarico (ina 387).


È invece dominante fra gli interpreti l'idea che il conferimento dell'incarico presenti un carattere discrezionale: cioè sia vincolato quanto al fine da raggiungere. Resta inteso però che al presidente della repubblica rimane la scelta fra i mezzi più atti a conseguire questo scopo. Si potrebbe comunque pensare che l'operato del presidente della repubblica sia totalmente svincolato da criteri di ordine giuridico. Ma anche in questa ipotesi estrema, è invece preferibile la tesi di quanti ritengono che il presidente debba incaricare colui che disponga comunque dei maggiori consensi in sede parlamentare. Qui pure trova applicazione il principio stabilito dall'art. 94, onde il governo deve essere formato in vista di un possibile voto di fiducia, evitando la costituzione di comini governative che rispondano soltanto alle visioni politiche presidenziali. In tali criteri consiste il fondamento consuetudinario dell'istituto dell'incarico. Al di là di questo l'incarico stesso si presta a subire una serie di varianti di natura convenzionale. Ciò vale per la prassi degli incarichi condizionati. In secondo luogo mutevole è stata altresì la forma di conferimento dell'incarico. Fino al 1958, l'incarico era dapprima conferito oralmente, ma veniva poi perfezionato mediante un apposito decreto presidenziale. Subito dopo la costituzione del secondo governo Fanfani tutte queste finzioni complicanti ed inutili vennero per altro abbandonate, con la conseguenza che l'incarico è stato da allora conferito in una forma esclusivamente orale.


Rimane in ogni caso fermo che il presidente della repubblica non può interferire nelle decisioni dell'incaricato, né può revocargli il mandato per motivi dipendenti dalle divergenze delle rispettive visioni politiche. Ma ciò non esclude che la revoca dell'incarico sia possibile e perfino necessaria, quando le trattative dell'incaricato si prolunghino in maniera abnorme. Di norma però, sia che il tentativo dell'incaricato abbia successo sia che si concluda con un fallimento, l'interessato si reca dal capo dello stato per sciogliere la riserva che nella prassi viene sempre espressa all'atto del conferimento.


Alcuni ritingono che l'incaricato si riservi di accettare, ponendo una sorte di condizione sospensiva. Altri preferiscono invece parlare di una "riserva di rifiuto", operante come una condizione risolutiva. Infatti l'incaricato non esercita una funzione unitaria, ma svolge compiti alquanto eterogenei, cui corrispondono all'interno della fase dell'incarico almeno due sottofasi: quella delle trattative e quella propriamente costitutiva del nuovo governo.


I decreti di nomina; l'entrata in funzione del governo; il governo tra giuramento e fiducia (ina 392).


Alla firma ed alla controfirma dei decreti di nomina si perviene senza alcuna soluzione di continuità, subito dopo lo scioglimento della riserva da parte dell'incaricato; ed è a questo punto che egli si presenta come il titolare di un organo costituzionale transitorio. Più precisamente, il procedimento formativo si conclude con l'emanazione di tre tipi di decreti presidenziali: quello di nomina del presidente del consiglio subentrante; quelli di nomina dei singoli ministri; quello di accettazione delle dimissioni del governo uscente.


Nel momento della firma dei decreti di nomina, il procedimento di formazione dell'esecutivo può considerarsi concluso. Ma le nomine stesse non determinano ancora il passaggio dei poteri dal vecchio al nuovo governo, in quanto ne verrebbe leso il principio di continuità. Effettivamente, è solo con il giuramento che si ha l'accettazione della nomina da parte dei singoli ministri.


Dopo il giuramento il nuovo governo entra in carica, ma la sua posizione non è ancora consolidata. Infatti l'art. 94 dispone che il Gabinetto entrante "entro diece giorni dalla sua formazione . si presenta alle camere per ottenerne la fiducia". Nasce qui la questione circa il fondamento ed i limiti dei poteri spettanti al governo, nel lasso di tempo intercorrente fra la prestazione del giuramento ed il voto parlamentare di fiducia. Si aggiunga che il nuovo governo, nel breve tempo intermedio fra il giuramento e la fiducia, deve comunque procedere a vari adempimenti assai notevoli. Non a caso, ognuno riconosce che il gabinetto appena costituito ha il potere-dovere di approvare il programma predisposto dal presidente del consiglio nonché di deliberare le nomine dei sottosegretari: senza di che le camere non disporrebbero di tutti i dati occorrenti per valutare se il loro appoggio debba essere o meno concesso. Inoltre già in questa fase il governo può compiere vari atti: primo, facendosi subito presentatore dei disegni di legge destinati alla realizzazione del programma governativo; secondo, adottando i decreti legislativi conseguenti alle deleghe destinate a scadere prima che le camere possano pronunciarsi sulla sorte del governo stesso; terzo, deliberando "provvedimenti provvisori con forza di legge".


Al governo subentrante non spetta pertanto l'esercizio dei soli poteri di ordinaria amministrazione, ma anche l'adozione degli atti collegati al dibattito sulla fiducia, nonché degli altri atti assolutamente indilazionabili. Per ciò stesso risulta difficile sostenere che l'esecutivo appena costituito sia sminuito nei suoi compiti. Ne segue, allora, che la fiducia non rappresenta una condizione sospensiva. Piuttosto, è l'eventuale sfiducia a conurarsi come una condizione risolutiva dell'esistenza del governo. Il che tuttavia non tocca né la validità né l'efficacia degli atti governativi posto in essere subito dopo il giuramento.


Le vicende del rapporto fiduciario; le crisi parlamentari ed extra parlamentari (ina 397).


La "razionalizzazione" del rapporto fiduciario voluta dalla costituzione repubblicana fa si che la fiducia non sia più presunta e che il governo debba invece presentarsi alle camere per il dibattito sulla fiducia, entro dieci giorni dall'entrata in carica.


Il voto di fiducia è disciplinato nei medesimi termini dai due regolamenti parlamentari: dal momento che entrambi richiedono concordemente che esso abbia ad oggetto una mozione motivata e si svolga per appello nominale, al fine di garantire il controllo dell'opinione pubblica.


Stando alla lettera del primo capoverso dell'art. 94, dovrebbe sussistere un parallelismo pressoché perfetto tra fiducia e sfiducia. Senonché mentre la normativa costituzionale e regolamentare sull'iniziale voto di fiducia delle camere è state fedelmente applicata nella prassi, quella concernente il voto di sfiducia ha solo raramente dato luogo a conseguenze di rilievo. Ma non si sono mai verificate crisi parlamentari provocate da un formale voto di sfiducia nei confronti di un governo già consolidatosi nella sua posizione. In effetti, i rapporti governo-parlamento sono stati e sono tuttora diversi e più vari di quelli espressamente conurati dalla carta costituzionale. Al di fuori di ciò che la costituzione stabilisce, si è largamente affermata nella prassi l'eventualità che sia lo stesso governo a porre un'ulteriore questione di fiducia sull'approvazione o sulla reiezione di emendamenti o articoli o interi progetti di legge. Inoltre è ancora più notevole la circostanza che quelle fino ad ora interessanti i governi italiani siano quasi tutte classificabili come crisi extra-parlamentari. In primo luogo, vi sono le crisi ce inevitabilmente si producono all'inizio di ciascuna legislatura. In secondo luogo, si danno le crisi originate da quei voti delle camere che implicitamente comportano una manifestazione di sfiducia nei confronti del governo. In terzo luogo, le crisi ministeriali vengono a volte causate da fattori interni alla comine governativa, quali sono certi gravi dissensi tra i ministri, che non riescano a venire ricomposti e dunque compromettano la solidarietà dei componenti l'esecutivo. In quarto luogo, possono anche esistere governi costituiti a termine, che assumono l'impegno politico di uscire di scena non appena si verifichi una data scadenza. In quinto luogo, stanno le crisi extra-parlamentari nel senso più stretto, provocate da un qualunque alternarsi della coalizione di governo formata dai partiti politici di maggioranza. In altre parole, il governo entra di regola in crisi per il semplice fatto del ritiro dell'appoggio già espresso da una qualsiasi componente della coalizione stessa.


Di fronte alla realtà di tali crisi, si sono registrate vivaci reazioni dottrinali. Sul piano giuridico, del resto, non esistono valide ragioni che consentano di affermare l'incostituzionalità della crisi in questione. Senza dubbio, fra gli scopi che si proponeva l'assemblea costituente vi era quello di difendere la posizione del governo, per evitare le troppo frequenti interruzioni del rapporto fiduciario.


Anzitutto la morte o l'impedimento permanente del presidente del consiglio costituiscono una ragione automatica di crisi, poiché il presidente rappresenta il perno insostituibile del suo governo. Inoltre, altrettanto automatica è la causa di crisi consistente nell'elezione di nuove camere.


Ora, se è vero che il governo deve entrare in crisi anche in casi diversi dall'unica ipotesi prevista dall'art. 94, nulla sembra vietare che esso si dimetta in conseguenza di una sua libera valutazione del più vario genere, senza essere assurdamente costretto a rimanere in carica pur quando ormai lo ritenga politicamente inopportuno. La facoltà di dimettersi è propria di tutti i funzionari statali. Il governo deve in particolar modo aver fiducia di sé stesso.


Le crisi di governo e il presidente della repubblica; la linea distintiva tra crisi e rimpasti (ina 402).


Qualora le dimissioni governative siano formalmente volontarie, il capo dello stato può invitare il governo a ritirarle, rimanendo in carica fino a quando le camere non decidano di revocare la fiducia. Ma giuridicamente il governo non ha l'obbligo di aderire né all'una né all'altra di queste eventuali sollecitazioni; e l'unico dovere è quello di assicurare il disbrigo degli affari correnti. Anche nei casi più recenti, il capo dello stato si è sempre limitato a rivolgere un invito di presentazione alle camere; e nella prassi il suo sfavore non ha nemmeno atteso il voto di sfiducia, bensì ha troncato la discussione, rinnovando le proprie dimissioni nelle mani del presidente della repubblica.


Il fatto che nel nostro ordinamento il capo dello stato non possa rifiutare incondizionatamente l'accettazione delle dimissioni spiega il perché non si determini una vera e propria crisi quando si ha l'elezione di un nuovo presidente della repubblica. In situazioni del genere il governo presenta in verità le dimissioni; ma queste vengono puntualmente respinte e non rappresentano altro che un gesto puramente formale d'ossequio, ispirato al ricordo dell'ordinamento statutario e ad esigenze di galateo istituzionale. La sola situazione ipotizzabile si avrebbe nel caso che l'elezione del nuovo presidente della repubblica costituisse l'occasione del dissolversi della coalizione di governo: allora le dimissioni governative potrebbero anche venire accettate.


Si parla poi dei cosiddetti rimpasti ministeriali. Per rimpasto s'intende la sostituzione di uno o più ministri, operata senza aprire una crisi di tutto il governo. Ma la ura in questione è fortemente problematica. In linea di massima, la demarcazione dovrebbe essere tracciata ponendo l'accento sulle ragioni della nomina dei nuovi ministri: se queste fossero squisitamente politiche, la crisi diverrebbe allora inevitabile; se invece si trattasse di motivi personali, l'ostacolo sarebbe superabile mediante il rimpasto.


Le componenti necessarie del governo; i rapporti intercorrenti tra il presidente del consiglio, i ministri, il consiglio dei ministri (ina 405).


Il governo suole venire definito come un organo complesso ineguale, poiché le sue componenti non si trovano su un piano di parità, né quanto alla loro struttura, né quanto ai rapporti reciproci, né quanto ai compiti da esse esercitati. Gli elementi costitutivi previsti sono infatti rappresentati da due tipi di organi individuali (il presidente del consiglio ed i singoli ministri) e da un organo collegiale (il consiglio dei ministri). Ma sia le posizioni sia le funzioni non sono in nessun modo assimilabili le une alle altre.


Tra le varie contrastanti tesi dottrinali, vanno ricordate tre tipi di ricostruzioni. La prima di esse è stata ed è sostenuta da quanti esaltano l'importanza dei poteri esercitabili dal presidente del consiglio, affermando che si dovrebbe parlare di un primo ministro o di un capo del governo. La seconda corrente fa invece perno sulla posizione centrale del consiglio dei ministri, teorizzando la necessaria collegialità della politica governativa. La terza linea svaluta del tutto le indicazioni costituzionali, ritenendo che ciascun centro di potere interno al governo sia giuridicamente scollegato dagli altri e che l'unità dell'indirizzo sia realizzabile soltanto in chiave politica.


Fin dal quando è stato stipulato in "patto di Salerno" non si sono avuti in Italia se non governi di coalizione: tale essendo stati gli stessi gabinetti monocolori, nei quali l'accordo fra le varie correnti democristiane ha tenuto il posto dell'intesa fra i vari partiti politici di maggioranza. E questa situazione ha portato inevitabilmente ad un indebolimento del presidente del consiglio dei ministri: il quale non ha mai potuto assumere quella posizione di leader della maggioranza che caratterizza i sistemi parlamentari bipartitici.


In un quadro del genere, non è realistico enfatizzare il rapporto di direzione fra il presidente del consiglio ed i singoli ministri, poiché questi non rispondono tanto nei confronti del presidente stesso, quanto verso i partiti dai quali provengono.


Un'ulteriore e decisiva conferma sta in ciò che da parte di singoli ministri si sono avute più volte manifestazioni di pubblico dissenso dall'indirizzo politico governativo; senza che mai ne sia derivata la revoca dei dissenzienti non dimissionari. Giuridicamente poi è significativo che la costituzione non menzioni affatto le revoche ministeriali; anche perché il potere di revoca non è certamente implicito nel potere di nomina.


Allo stesso modo, non sono normalmente ipotizzabili quelle sfiducie individuali mediante le quali una certa dottrina suggerisce di risolvere il problema.


Spunti per una definizione dei poteri del presidente del consiglio dei ministri (ina 410).


La posizione del presidente è giuridicamente definibile per lo meno sotto tre profili: primo, quanto ai rapporti fra il governo e gli altri organi costituzionali; secondo, quanto ai rapporti fra il presidente stesso ed il consiglio dei ministri; terzo, nei confronti dei ministri individualmente assunti.


Nel primo senso. È sostenibile in linea di principio che spetta al presidente di agire per l'organo del governo complessivamente inteso, assumendo in tal modo la "rappresentanza generale". Ciò è vero nei rapporti con le Camere. In effetti il presidente può mettere in gioco le sorti dell'intero governo, allo stesso modo che può farlo cadere qualora presenti le sue personali dimissioni. Del pari è il presidente che instaura i giudizi c.d. principali della corte costituzionale sulla legittimità delle leggi regionali. Ancora, è coerente ritenere che lo stesso presidente della repubblica debba convocare il presidente del consiglio quando voglia essere informato della politica generale del governo. Una volta che il consiglio dei ministri sia stato convocato, nell'ambito di esso il presidente non è dotato di poteri predominanti rispetto a quelli degli altri componenti il collegio; ma egli dispone di poteri specifici nella fase precedente la convocazione. Per prima cosa, gli spetta di regolare il ritmo delle attività consiliari. Inoltre, egli ha la competenza di redigere l'ordine del giorno, individuando gli argomenti da trattare in ciascuna riunione. Vero è che tutti questi poteri non si esplicano tanto nel sollecitare quanto nel frenare l'attività governativa. Ma in ogni caso, rimane fermo che la principale funzione del presidente del consiglio dei ministri consiste nell'avviare le decisioni dell'intero consiglio. Ciò che più conta, è tuttora tale il principio che informa sul punto il nuovo ordinamento della presidenza del consiglio. La legge n. 400 riafferma infatti, che il presidente "può sospendere l'adozione di atti da parte dei ministri competenti in ordine a questioni politiche e amministrative, sottoponendoli al consiglio dei ministri nella riunione immediatamente successiva. In vista di siffatte previsioni legislative, trova sostegno la tesi che il consiglio dei ministri disponga di tutte le attribuzioni del governo, cioè sia titolare di una competenza generale. Ed è a questo fine che si rendono indispensabili tre ordini di poteri presidenziali: quello di esigere l'informazione su qualunque iniziativa ministeriale che possa interferire con la politica generale del governo; quello di disporre la sospensione delle iniziative medesime; quello di stabilire la conseguente avocazione o rimessione delle relative decisioni al Consiglio dei ministri.


A questo punto è necessario però chiedersi quali possano essere le conseguenze di un'eventuale inosservanza dell'obbligo di dare informazioni e di sospendere l'esecuzione delle proprie proposte. Non essendo stato organizzato alcun procedimento tipico, le richieste e gli inviti provenienti dal presidente non hanno che un valore politico. D'altra parte anche nell'ipotesi che si pervenga ad una deliberazione consiliare, provocata dal presidente per mezzo del suo potere di avocazione, la delibera può essere contraddetta o frustata dal ministro interessato.


Malgrado non si possa considerarli inconsistenti dal punto di vista del diritto costituzionale, i poteri del presidente hanno un carattere negativo e compromissorio piuttosto che positivamente direttivo. Ne segue che quella del governo finisce per essere una struttura policentrica, tendente al cosiddetto: "ministerialismo". Tutto ciò determina una notevolissima deroga rispetto al classico schema dei sistemi parlamentari. Secondo la loro peculiare logica, infatti, il governo dovrebbe essere sempre concepito come un potere unitario. Nel nostro sistema invece risulta spesso difficile parlare di unità del governo, di responsabilità collegiale, di solidarietà governativa, di indirizzi politici omogenei.


Gli organo governativi non necessari; i vice presidenti del consiglio; i ministri senza portafoglio; gli alti commissari; i sottosegretari (ina 416).


A rendere ancor più articolata l'organizzazione del governo, contribuiscono poi le numerose varianti che la struttura di quest'organo subisce nella prassi. Tutti i governi possono infatti venire costituiti da parecchi altri tipi di organi non necessari, alcuni dei quali sono meramente eventuali. Tali sono organi di tipo individuale, quali i vicepresidenti del consiglio, i ministri senza portafoglio, gli alti commissari, i sottosegretari di stato; ed organi collegiali come i comitati interministeriali o come i consigli di gabinetto. Poiché nessuno degli organi stessi è disciplinato o comunque previsto dalla costituzione, si pone anzitutto il problema complessivo se non debbano considerarsi costituzionalmente illegittime. Bisogna ritenere invece che anche in questo campo la costituzione non escluda di essere integrata, sia da leggi ordinarie sia da convenzioni fra gli organi costituzionali interessati: convenzioni che sono a loro volta suscettibili di tradursi in consuetudini facoltizzanti. In quest'ultimo senso concorre anche la considerazione che tutti gli organi costituzionali dispongono di un'autonomia organizzativa ovvero di un potere di autoorganizzazione: con la conseguenza che il governo stesso può essere definito come un organo a composizione aperta.


La funzione del vicepresidente invece non è data dalla sostituzione integrale del presidente, per dimissioni o destituzione od impedimento o morte di questi. Nel nostro sistema le responsabilità non si prestano ad essere affidate ad un organo presidenziale vicario. La verità è che il vicepresidente altro non è che un ministro, normalmente senza portafoglio, diversificato per il nome e il maggior prestigio politico ma giuridicamente equiparato ad ogni altro componente del collegio. Le uniche funzioni gli sono conferite dal consiglio dei ministri.


Quanto ai ministri senza portafoglio, basti ricordare che per "portafoglio" si intende in questa sede un dicastero o un ministero. "senza portafoglio" sono quindi quei ministri che non vengono preposti ad alcun dicastero, pur essendo inseriti nel governo.



L'esistenza di un gran numero di organi governativi che la costituzione non ha disciplinato espressamente, offre la riprova del carattere aperto ed elastico della struttura del governo. In sintesi, all'interno della complessiva ura dei ministri senza portafoglio si possono distinguere almeno tre ipotesi. Per prima cosa, continuano a sussistere alcuni ministri puramente "politici", fra i quali rientrano i Ministri per i rapporti con il parlamento. Secondariamente, vi sono ministri che rispondono in proprio di certi complessi di funzioni loro delegate dal presidente del consiglio, pur non essendo collocati al vertice di un consistente apparato burocratico: come nel caso dei compiti svolti dai Ministri per gli affari regionali. Infine si danno quei ministri che non stanno a capo di un determinato dicastero, ma dirigono o comunque utilizzano al più vario titolo apparati amministrativi assai complessi, l'importanza dei quali può persino essere maggiore di quella spettante a certi ministri di minore rilievo. Basti pensare al Ministro per il mezzogiorno, oppure al Ministro per la funzione pubblica.


Vale la pena di aggiungere che vi è sempre la possibilità che il presidente del consiglio od un qualsiasi altro ministro assumano ad interim la direzione di un dicastero che diversamente rimarrebbe vacante.


Inverso rispetto al caso dei ministri senza portafoglio è il caso degli alti commissari; mentre i primi erano privi di specifiche responsabilità amministrative, i secondi sono infatti posti a capo di importanti apparati amministrativi di settore, non ancora ministerializzati ma sovente destinati a trasformarsi in ministeri appositi. Oggi come oggi si può comunque affermare che la ura degli alti commissari appartiene al passato. Tuttavia la ura in questione non ha completamente perso l'originaria importanza. Non a caso la legge n. 400 ragione espressamente di "commissari straordinari del governo", nominati del presidente della repubblica su proposta del presidente del consiglio; ma sottolinea che debbono restare "ferme . le attribuzioni dei ministeri, fissate per legge".


Per quanto riguarda i sottosegretari ci si chiede anzitutto se li si possa considerare alla stregua di veri e propri organi di governo. Nondimeno è altrettanto certo che essi rientrino nella complessiva comine governativa, nel senso che concorrono a definirne la formula politica. D'altra parte, quelle che vengono loro attribuite, sia pure in virtù di una delega, sono funzioni di governo. Originariamente ai sottosegretari era stato affidato un triplice compito: quello di "sostenere la discussione degli atti e le proposte del ministero" nel parlamento; quello di coadiuvare il rispettivo ministro, esercitando le attribuzioni da questi delegate; e quello di rappresentarlo "in caso di assenza e di impedimento". Rimane invece insoluta la questione del numero dei sottosegretari; con la conseguenza che il numero stesso viene attualmente definito volta per volta, secondo la complessità di ciascun gruppo di funzioni ministeriali e secondo le contingenti esigenze politiche.


I comitati interministeriali (ina 425).


In seno al governo, tutti i ministri si trovano su di un piano di perfetta parità formale: tanto è vero che ad ognuno di essi, quand'anche non disponga di alcun "portafoglio", spetta un voto deliberativo nel consiglio. È stata di recente prevista la possibilità che il presidente del consiglio, quanto all'esercizio delle sue funzioni, venga coadiuvato da un consiglio di gabinetto, composto dai ministri da lui designati. L'ordinamento costituzionale del governo ha invece subito una serie di notevoli alterazioni, per effetto del formarsi dei comitati interministeriali. Con questa denominazione si suole qualificare un complesso di veri e propri organi governativi collegiali.


Nel 1965 viene pertanto creato il Comitato interministeriale per la programmazione economica (CIPE), quale organo sopraordinato agli altri comitati ed ai singoli ministri competenti all'attuazione del programma. D'altra parte la legge del '67 ha contribuito ad attenuare le critiche di ordine giuridico, sovente mosse dai costituzionalisti e dagli amministrativisti al precedente sistema dei comitati di ministri. La dottrina prevalente riteneva invece che i comitati fossero dotati di competenze nuove rispetto a quelle esercitate individualmente dai ministri: cioè di competenze tipicamente collegiali sfocianti più volte nell'adozione di atti dotati di esterno rilievo, produttivi di effetti nei confronti dei cittadini interessati. Proprio in questa luce diventava difficile ricostruire i rapporti fra i comitati interministeriali e le tre componenti necessarie del governo in termini compatibili con i disposti costituzionali. Quanto al presidente del consiglio, si sosteneva bensì che il suo potere-dovere di coordinamento di tutta l'azione governativa trovava riscontro nel fatto che le leggi istitutive dei vari comitati gli attribuivano generalmente la presidenza dei collegi stessi. Quanto al consiglio dei ministri, si affermava che la centralità della suo posizione poteva comunque venire a mantenuta mediante un opportuno esercizio del suo potere di direttiva nei confronti dei diversi comitati. Quanto infine ai ministri non si poteva fare a meno di notare come fossero privilegiati coloro che ne restavano esclusi. La legge n. 48 del '67 ha cercato invece di risolvere una buona parte se non la totalità di questi problemi, conurando un armonico sistema di rapporti, entro il quale i comitati potessero trovare la loro giusta collocazione. Parrebbe pertanto che il sistema sia stato strutturato su tre piani distinti, avendo per vertice il consiglio dei ministri, che prende le decisioni politiche di fondo; mentre in secondo piano si trovano le pubbliche amministrazioni in genere, ivi compresi gli altri comitati come il CICR ed il CIP. Ma l'edificio previsto dal legislatore non si è compiutamente realizzato, essendo venuto a mancare il suo fondamentale presupposto: ossia la politica di programmazione economica globale.


Le funzioni del consiglio dei ministri: le procedure di formazione degli atti normativi del governo (ina 432).


Il consiglio dei ministri delibera "su ogni questione relativa all'indirizzo politico fissato dal rapporto fiduciario con le camere", determinando altresì "l'indirizzo generala dell'azione amministrativa". In questa prospettiva, ogni deliberazione consiliare incide per definizione sulla politica stessa: il che rende perplessi nei riguardi della diffusa tripartizione delle funzioni in esame, per cui converrebbe suddividerle fra quelle prettamente politiche o di indirizzo politico, quelle legislative o più generalmente normative e quelle amministrative o di alta amministrazione.


In primo luogo, vanno allora ricordate le delibere governative concernenti i rapporti governo-parlamento. Rientrano nel quadro, da una parte, la previa approvazione delle dichiarazioni del presidente del consiglio; dall'altra, si aggiungono le delibere concernenti i disegni governativi di legge e quelle riguardanti il ritiro dei disegni già presentati al parlamento.


In secondo luogo, esigono appunto una specifica considerazione le funzioni normative, attinenti ai "decreti aventi valore o forza di legge" ed ai "regolamenti da emanare con decreto del presidente della repubblica".


In terzo luogo, varie attribuzioni costituzionali si riferiscono ai rapporti governo-regioni.


In quarto luogo, segue un eterogeneo complesso di compiti concernenti i rapporti fra il governo e le altre autorità dell'esecutivo, a cominciare dai singoli ministri.


Al pari del procedimento legislativo ordinario, anche la formazione degli atti governativi aventi forza di legge comprende almeno tre fasi: quella preparatoria, consistente nella predisposizione d'uno schema di decreto da parte del ministro o dei ministri competenti in materia; quella costitutiva, che si risolve nell'adozione di un atto da parte del consiglio stesso; quella formalmente prefettiva ed integrativa dell'efficacia, che include da un lato l'emanazione ad opera del presidente delle repubblica e d'altro lato la pubblicazione sulla gazzetta ufficiale.


L'esatta qualificazione di tali momenti assume una notevole importanza in vista del termine entro il quale il governo è tenuto ad esercitare le deleghe legislative. La giurisprudenza della corte costituzionale è consolidata nel senso che il momento chiave sia rappresentato a questi effetti dall'emanazione, con la quale deve dunque reputarsi esaurito "l'esercizio della funzione legislativa".


I cosiddetti limiti ulteriori della delegazione legislativa vanno osservati a pena d'illegittimità, accertabile dalla corte costituzionale.


L'iter formativo dei decreti legge coincide con quello riguardante le leggi delegate. Ma il procedimento di formazione dei decreti stessi presenta la spiccata peculiarità di sfociare nel procedimento legislativo dal quale scaturisce la conversione di essi. È comunque un punto fermo che gli atti governativi in esame vanno presentati per la conversione alle camere o che vanno presentati dal governo i corrispettivi disegni di legge, destinati a tradursi in altrettante leggi di conversione. A tale scopo, le camere si riuniscono entro cinque giorni e debbono poi convertire i decreti nel termine perentorio di sessanta giorni. Spetta dunque alle camere complessivamente prese, approvare o bocciare il disegno governativo di conversione. Ma la possibile ed anzi frequente presenza degli emendamenti aggrava anche il problema dell'ambito temporale di efficacia delle leggi di conversione. Le disposizioni cui si convertono i procedimenti governativi necessitati ed urgenti non sottostanno alla regola della vacatio legis: poiché sarebbe assurdo creare in tal modo un periodo di vuoto normativo. Né il problema può dirsi troncato dalla legge n. 400: essa infatti dispone che le "modifiche eventualmente apportate al decreto-legge in sede di conversione hanno efficacia dal giorno successivo a quello della pubblicazione della legge di conversione. Problemi del genere non si pongono più nel caso di un totale diniego di conversione. La nuova disciplina dell'attività di governo ha infatti previsto che "del rifiuto di conversione o della conversione parziale, purché definitiva, nonché della mancata conversione per decorrenza del termine sia data immediata pubblicazione nella gazzetta ufficiale: il che significa che l'effetto di tali delibere è immediato, pur quando il termine dei sessanta giorni non sia ancora trascorso interamente.


Più complesso è il procedimento formativo dei regolamenti del governo. Nell'ambito di esso vanno infatti distinte sei fasi: quella preparatoria, quella consistente nella consultazione del consiglio di stato, quella costitutiva nella quale delibera il consiglio dei ministri, quella dell'emanazione ad opera del capo dello stato, quella del controllo preventivo spettante alla corte dei conti, quella della pubblicazione sulla gazzetta ufficiale.


L'iter dal quale scaturiscono i regolamenti è quindi peculiare, come pure è peculiare il loro nomen juris, che oggi li contraddistingue nei confronti degli altri atti amministrativi del governo.


Le responsabilità governative e ministeriali (ina 440).


Dell'esercizio di tutte le funzioni che vengono loro attribuite dalla costituzione e dalle leggi i membri del governo rispondono nelle due forme costituzionali previste. Da un lato, tutti i ministri sono politicamente responsabili e sanzionabili. D'altro lato, grava su di essi la responsabilità penale. Quanto alla responsabilità politica vanno per altro integrate in un triplice senso. In primo luogo, il governo può essere chiamato a rispondere di fronte alle camere; questo però non comporta un "obbligo di dimissioni", neppure in casi di particolare gravità. In secondo luogo, è stato notato che il regolamento della camera prevede espressamente la mozione di sfiducia individuale a carico dei singoli ministri.


In terzo luogo, ogni ministro è politicamente responsabile delle delibere adottate nel consiglio del ministri, quand'anche fosse assente o dissenziente; ed il solo modo per esimersi da questa responsabilità collegiale consiste nel rassegnare le proprie dimissioni. Quanto alla responsabilità penale essa riguarda ogni singolo ministro.


La legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1, ha sostituito il testo dell'art. 96 Cost.: "il presidente del consiglio dei ministri ed i ministri, anche se cessati dalla carica, sono sottoposti, per i reati commessi nell'esercizio delle loro funzioni, alla giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione del senato della repubblica o della camera dei deputati. La sola peculiarità costituzionale del caso consiste, ormai, nella prevista autorizzazione a procedere.


Da ultimo, pur non sussistendo in tal senso un'espressa previsione costituzionale, anche ai ministri si applicano le norme sulla responsabilità civile. Malgrado il rilievo costituzionale del loro ufficio, i soggetti in questione rientrano pur sempre fra quei funzionari dello stato che l'art. 28 Cost. dichiara "direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili ed amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti".


Ed è concepibile altresì che i ministri siano sottoposti alla giurisdizione della corte dei conti, se "nell'esercizio delle loro funzioni per azione ed omissione imputabili anche a sola colpa o colpa o negligenza cagionino danno allo stato".


L'elezione e la durata in carica del capo dello stato (ina 447).


In un ordinamento repubblicano, si danno fondamentalmente tre vie per risolvere il ricorrente problema dell'elezione del capo dello stato: primo, che la scelta sia direttamente affidata al corpo elettorale; secondo, che il compito stesso venga riservato alle camere del parlamento; terzo, che si adottino sistemi intermedi fra le due ipotesi estreme, sia costituendo un collegio elettorale apposito sia conurando elezioni di secondo grado.


L'elezione diretta del capo dello stato caratterizza le repubbliche presidenziali. In coerenza con la scelta di un governo tendenzialmente parlamentare, i nostri costituenti hanno invece optato per la seconda delle tre soluzioni accennate, affidando l'elezione presidenziale al parlamento in "seduta comune dei suoi membri". Non deve trarre in inganno la circostanza che all'elezione prendano parte "tre delegati per ogni regione". Ciò non significa, infatti, che sia stata attuata una soluzione di tipo compromissorio perché il numero dei delegati regionali risulta troppo esiguo rispetto a quello dei parlamentari; sia perché quasi tutti gli elettori presidenziali obbediscono secondo esperienza ad una comune disciplina di partito.


Si suole perciò ritenere che sia necessario prendere alla lettera il riferimento al Parlamento in seduta comune. Ne segue che la presidenza del collegio in questione continua a spettare al presidente della camere dei deputati. E ne deriva che le camere riunite potrebbero validamente procedere all'elezione del nuovo presidente della repubblica, anche se qualche consiglio regionale non designasse in tempo utile i propri rappresentanti.


Tanto i quorum richiesti per l'elezione quanto la durata in carica del capo dello stato fanno però intendere che i costituenti non hanno voluto stabilire un necessario collegamento fra il titolare di quest'organo e la maggioranza di governo, ma hanno cercato di svincolarlo dalle forze sulle quali si regge in quella fase il raccordo governo-parlamento. Da un lato, infatti, il presidente è eletto per sette anni. D'altro lato, analoga è la ratio per cui l'art. 83 terzo comma esige che l'elezione stessa avvenga per scrutinio segreto e non dia esito se non quando raggiunga la maggioranza dei due terzi degli aventi diritto nei primi tre scrutini o la maggioranza assoluta a partire dalla quarta votazione. L'obiettivo consiste nel garantire una base parlamentare e politica più larga da quella che sostiene il governo in carica.


Ci si è resi conto che potrebbe verificarsi l'eventualità di un inutile superamento dei termini costituzionali, determinato dalla mancata formazione della maggioranza assoluta. Ma la dottrina prevalente ritiene che si debba optare per la prorogatio. Certo è che la prorogatio del capo dello stato rappresenta nel nostro ordinamento un'eccezione alla regola per cui l'elezione del nuovo presidente dovrebbe avvenire prima ancora della scadenza del settennato. Ed è un'eccezione da evitare per quanto possibile, poiché non soltanto in quest'ultimo periodo, ma già negli ultimi sei mesi del suo normale mandato il presidente è di norma provato del più importante fra tutti i suoi poteri, non avendo più la facoltà di sciogliere le camere.


Gli impedimenti temporanei e permanenti (ina 452).


L'ipotesi più ovvia e più sicura d'impedimento presidenziale è quella di una grave malattia, che può conurare tanto una causa di temporanea quanto una causa permanente d'impossibilità di esercitare le relative funzioni.


Altra è la natura di ipotesi sul tipo di un viaggio o di una permanenza all'estero; sicché l'impedimento non è qui totale, ma consente o richiede addirittura che le funzioni medesime siano bipartite, venendo affidate al supplente in quella sola parte che vada esercitata nella capitale o comunque all'interno dei confini nazionali. Ci si chiede, ancora, se la ura dell'impedimento possa essere estesa a tal punto da comprendervi un grave scandalo. Ma il problema non può essere correttamente impostato, se non si considera cosa stabiliscono le norme costituzionali per responsabilità penali del capo dello stato. L'art. 90 Cost. dispone in proposito che il "presidente della repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla costituzione". Ne segue che i procedimenti penali comune non concretano una nuova causa d'impedimento presidenziale. Per meglio dire, se dal procedimento derivasse una condanna comportante l'interdizione dai pubblici uffici, il presidente dovrebbe ritenersi decaduto; mentre in ogni altro caso del genere non si produrrebbero impedimenti di sorta. Ma giova aggiungere che, in tutte queste situazioni, la valvola di sicurezza è rappresentata dalla volontarie dimissioni: alle quali il presidente può sempre ricorrere. Meno complesso è il problema relativo alla durata massima dell'impedimento temporaneo: gli impedimenti temporanei devono essere considerati in relazione alla loro durata che comunque dipende dalla valutazione degli organi interessati, con riferimento alla gravità della causa impeditivi, alla possibilità che essa venga meno o si protragga indefinitivamente, alla stessa data di scadenza del settennato presidenziale in corso. S'intende in tal modo che il problema non è ancora compiutamente risolto: perché resta da vedere a quale organo spetti il potere di accertamento. Indiscutibile è il coinvolgimento del governo. Ma non è meno evidente che il governo deve ottenere a tal fine il consenso del presidente del senato. Un simile quadro si presta a generare l'impressione che l'accertamento degli impedimenti presidenziali costituisca l'oggetto di una disciplina quanto mai confusa ed incerta. Ma è più giusto concludere che l'accertamento stesso rappresenta il frutto di un procedimento a struttura variabile, nel quale vari organi statali di vertice possono inserirsi sulla base di regole convenzionali, volta per volta stipulabili d'intesa fra i loro titolari.


Quanto infine ai poteri del supplente la dottrina si presenta nuovamente divisa: per costituzione il supplente dovrebbe esercitare tutte le funzioni che in quelle circostanze risultassero validamente esplicabili da un vero e proprio presidente della repubblica. Ed anzi vi è che ritiene che sia dato al supplente di procedere persino allo scioglimento anticipato delle camere.


Il ruolo e le funzioni del capo dello stato: generalità; gli atti presidenziali e la controfirma ministeriale (ina 458).


In tutte le forme di governo a tre componenti essenziali nelle quali il capo dello stato si distingue dal governo soggettivamente inteso, per determinare il ruolo che spetta a quest'organo entro il sistema complessivo si devono affrontare delicatissimi problemi. Più adeguata alla forma di governo vigente in Italia è per questi aspetti la quarta ricostruzione dottrinale, risalente a celebri teorie formulate fin dalla prima metà dell'ottocento: vale a dire l'idea che il capo di uno stato parlamentare debba essere posto al di fuori dei tre tradizionali poteri statali, per venire concepito come l'esclusivo titolare di un quarto potere neutro, spoliticizzato ed imparziale, avente per oggetto specifico la moderazione dei conflitti e la risoluzione delle crisi.


Per avvicinarsi alla soluzione del problema, occorre dunque andar oltre le teorizzazioni troppo generali e considerare che, anche sotto questo aspetto, l'Italia rappresenta un caso a sé stante. Si consideri da un lato, il nutritissimo elenco dell'art. 87 Cost.: "il presidente della repubblica è il capo dello stato e rappresenta l'unità nazionale. Può inviare messaggi alle camere. Indice le elezioni delle nuove camere e ne fissa la prima riunione. Autorizza la presentazione alle camere dei disegni di legge di iniziativa del governo. Promulga le leggi ed emana i decreti aventi valore di legge e i regolamenti. Indice il referendum popolare nei casi previsti dalla costituzione. Nomina, nei casi indicati dalla legge, i funzionari dello stato. Accredita e riceve i rappresentanti diplomatici, ratifica i trattati internazionali, previa, quando occorra, autorizzazione delle camere. Ha il comando delle forze armate, presiede il consiglio supremo della difesa costituito secondo legge, dichiara lo stato di guerra deliberato dalle camere, presiede il consiglio superiore della magistratura. Può concedere grazie e commutare le pene. Conferisce le onorificenze della repubblica". Stando alla lettera di tutto questo insieme di previsioni, parrebbe dunque che il presidente della repubblica provveda in prima persona ad una vasta serie di fondamentali adempimenti. Ma è chiaro che tali disposizioni non possono avere un significato compiuto, dovendo invece venire inserite nel complesso delle norme riguardanti l'organizzazione costituzionale dello stato. L'art. 90 cioè, escludendo in via di principio che il presidente della repubblica sia responsabile degli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni, esclude in pari tempo che egli sia titolare di un ruolo politico essenziale. "Nessun atto del presidente della repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti, che ne assumono la responsabilità".


Per meglio intendere la ragion d'essere e i significati della controfirma ministeriale degli atti del capo dello stato, giova per altro aprire una parentesi sulle origini di tale istituto e sulle profonde trasformazioni che esso ha subito o sta subendo nel corso della storia.


In sintesi, dunque, è stato sostenuto che la controfirma apposta dai ministri o dai cancellieri regi, assolvesse ad una duplice funzione: quella di attestare la provenienza dell'atto da parte del monarca; e quella di impegnare il controfirmante a dare esecuzione dello stesso. A questo punto la controfirma continua ad implicare una assunzione di responsabilità da parte del ministro controfirmante: ma l'effetto in questione ritrova la propria giustificazione ed il proprio fondamento nella circostanza che è il controfirmante a costituire l'autore materiale dell'atto. La controfirma acquista significato primario di proposta vincolante e dunque attesta che l'atto formalmente imputabile al capo dello stato è il frutto di una scelta politica governativa. Già dalla carta costituzionale si desume in verità la necessaria esistenza di almeno due tipi di atti presidenziali, in ordine ai quali il controfirmante non si pone come soggetto proponente, ma come soggetto consenziente con una iniziativa presa dal presidente della repubblica.


Nell'ordinamento costituzionale vigente però, la casistica appare assai più varia e complessa; i rapporti che si instaurano fra il presidente che firma ed il ministro o i ministri che controfirmano gli atti medesimi danno origine a cinque categorie di atti presidenziali.


In primo luogo vi sono gli atti presidenziali esenti da controfirma; in secondo luogo, si danno gli atti dovuti per costituzione o per legge, relativamente ai quali nessuno dei due sottoscriventi può assumere una propria iniziativa; in terzo luogo sta poi la gran massa degli atti adottati su proposta del controfirmante; in quarto luogo vi sono invece gli atti d'iniziativa presidenziale; in quinto luogo esistono infine taluni atti complessi eguali, alla determinazione dei quali concorrono tanto il capo dello stato quanto il presidente del consiglio dei ministri, senza che l'uno di questi due organi possa imporre all'altro le proprie volizioni.


Le singole specie di atti presidenziali; gli atti non controfirmati; gli atti dovuti; gli atti d'iniziativa ministeriale (ina 466).


Per ovvie ragioni, fra gli atti esenti da controfirma rientrano anzitutto quelli personali, che il presidente della repubblica compie come soggetto privato e non come titolare dell'ufficio in questione. In particolar modo si discute in dottrina se fra gli atti personali se debbano includere le dimissioni, come pure le dichiarazioni di un impedimento permanente; o se in questi casi sia necessaria la controfirma del presidente del consiglio. Ma la prima opinione sembra preferibile; sicché la controfirma non aggiungerebbe nella alla delibera scelta già fatta dall'interessato.


Un altro caso in cui la natura dell'atto esclude la controfirma ministeriale è quello dei messaggi orali; mentre per i messaggi scritti non vi sarebbe ragione di sottrarli alla regola che l'art. 89 pone per la generalità degli atti presidenziali. L'esercizio di questo generico "potere di esternazione" non è disciplinato che da regole convenzionali. Un caso ulteriore è poi rappresentato dagli atti orali di conferimento dell'incarico. Ed ancora si aggiungono i regolamenti presidenziali, che attengono all'organizzazione ed al personale della presidenza della repubblica: in ordine ai quali la legge n. 1077 prevede l'esenzione dalla controfirma.


Infine un quarto gruppo di atti che si sottraggono alla controfirma consiste in quelli che il capo dello stato pone in essere come componente di organi collegiali costituzionalmente previsti, quali il consiglio supremo di difesa ed il consiglio superiore della magistratura. Nessun dubbio che per forza di cose non siano controfirmabili. Viceversa è discutibile se conclusioni analoghe valgano anche per quegli atti che il capo dello stato adotta a titolo individuale, quale presidente del consiglio supremo o del consiglio superiore: per esempio, allo scopo di convocarne le sedute oppure di esternarne ufficialmente le deliberazioni. E qui il diritto costituzionale positivo richiede che vengano introdotte ulteriori distinzioni.


La legge non prescrive nulla in ordine alla forma degli atti con i quali il presidente assicura la costituzione ed il funzionamento del collegio. In proposito si possono astrattamente produrre due contrarie interpretazioni: primo, che tali atti non debbano e non possano venir controfirmati, in quanto non sarebbero propriamente imputabili al capo dello stato, ma verrebbero compiuti dal titolare di un organo giuridicamente diverso, costituito dal presidente del consiglio superiore; secondo, che per costituzione i due uffici si confondano in uno. La prima interpretazione va preferita senz'altro. Ora, risulta abbastanza evidente che gli atti compiuti in tal senso dal vicepresidente non vanno sottoposti ad alcuna controfirma ministeriale. Né giova replicare che l'obbligo della controfirma sussisterebbe comunque per gli atti presidenziali determinativi delle deleghe in questione.


Fra quelli imputabili al presidente della repubblica urano poi vari atti giuridicamente dovuti: vale a dire tali che in date circostanze essi devono essere emessi con dati contenuti, per cui non si può concepire la loro controfirma alla stregua di una libera e responsabile proposta del ministro competente.


In ultima analisi, quegli atti adottati su proposta del controfirmante non rappresentano che una fra le varie categorie degli atti presidenziali. E la circostanza che quella ministeriale non uri mai come una proposta vincolante non vale a smentire che tutti questi atti vengano predeterminati dal consiglio dei ministri o dai singoli ministri competenti. Proprio a questa stregua ci si deve chiedere quale possa essere la funzione della firma che il presidente della repubblica deve pur sempre apporre a questi atti. Certo è soltanto che il presidente della repubblica non potrebbe bloccare le proposte ministeriali per ragioni di merito politico, dal momento che il potere di indirizzo rimane in tal campo di piena competenza del governo. Per converso, il controllo presidenziale dovrebbe invece svolgersi sul piano della legittimità dell'atto, implicando il rifiuto di emettere quei decreti il cui contenuto contrasti con la costituzione o con le leggi vigenti in materia. Ma sotto questo profilo si riscontra che il presidente non suole approfondire il proprio esame: tanto che si può ben dire che il vero controllo preventivo di legittimità non viene esercitato dal capo dello stato ma dalla corte dei conti.


Conviene ricordare che nel nostro ordinamento si dà per lo meno un caso tipico, nel quale la proposta governativa ed il conseguente controllo presidenziale sono evidenziati e formalmente dissociati. Il caso è quello dei disegni di legge deliberati dal consiglio dei ministri, in ordine ai quali il presidente della repubblica adotta ed emana appositi decreti che ne autorizzano la presentazione alle camere. Il riscontro del capo dello stato non coinvolge di certo tutti i possibili vizi di legittimità delle proposte governative.


Gli atti d'iniziativa presidenziale (ina 472).


Si potrebbe essere indotti a ritenere che le più importanti e caratteristiche specie di atti, alla base dei quali si ritrova un'autonoma iniziativa del presidente della repubblica, siano quelle collegate alle più volte ricordate funzioni presidenziali di risoluzione delle crisi insorgenti nel sistema parlamentare di governo: vale a dire il conferimento dell'incarico, il corrispondente decreto di nomina del nuovo presidente del consiglio, l'alternativo scioglimento di una o di entrambe le camere del parlamento. In realtà nessuna di queste tre specie può essere fatta propriamente rientrare nel genus degli atti d'iniziativa presidenziale. Vero è viceversa, che esistono tre o quattro casi ormai scontati e pacifici di iniziativa presidenziale, che hanno presupposti ed oggetti completamente diversi dalla soluzione delle crisi di governo: e tali sono il rinvio delle leggi operabile in sede di promulgazione; i messaggi che il presidente della repubblica può inviare alle camere; la nomina dei cinque giudici costituzionali di cui all'art. 135 primo comma. In nessuno di questi casi la carta costituzionale fa capire che il ministro controfirmante non assume la consueta veste di proponente il decreto presidenziale. Ma la prassi è ormai costante nel senso che tutte le scelte in questione competono effettivamente al capo dello stato. Tra queste attribuzioni, la prima che il presidente della repubblica abbia acquisito è stata quella riguardante il rinvio delle leggi con riesame da parte delle camere. Il rinvio rimarrebbe inutilizzato se presupponesse una proposta deliberata dal consiglio dei ministri. Infatti, delle due l'una: o il governo tollera che si approvino atti legislativi non ricollegabili al suo indirizzo politico; oppure il governo si oppone in partenza, subendo per altro una sconfitta, ed allora esso è indotto a dimettersi.


Già in questo senso ne risulta che la stessa formulazione dei messaggi alle camere rientra nell'effettiva competenza del capo dello stato e non del governo; perché il messaggio è la forma nella quale si esplica il rinvio delle leggi in sede di promulgazione. Basta infatti pensare che l'esecutivo non ha nessun bisogno di comunicare con le camere attraverso il tramite del presidente della repubblica, in quanto si trova in un costante e quasi quotidiano rapporto con le camere stesse.


Non meno significativo è il caso della nomina di cinque giudici costituzionali. La motivazione essenziale su cui si è fondato l'assunto di una competenza sostanzialmente presidenziale è consentita in ciò che solo affidando al capo dello stato le nomine in esame si può evitare che la maggioranza dei quindici componenti la corte costituzionale venga espressa dal raccordo governo-parlamento.


Considerazioni non molto dissimili valgono per argomentare che deve competere al presidente la scelta dei cinque senatori a vita che si aggiungono ai 315 senatori elettivi. Qui pure la maggioranza parlamentare riceverebbe un premio, se tali nomine fossero in sostanza effettuate dall'esecutivo: mentre l'affermazione che l'iniziativa spetta al capo dello stato assicura non tanto l'imparzialità delle nomine stesse, quanto la scelta di persone diverse da quelle che altrimenti verrebbero proposte dal consiglio dei ministri.


Per completare il discorso, bisogna ricordare che in dottrina si è cercato di conurare altre specie di atti d'iniziativa presidenziale. Vari autori hanno anzitutto sostenuto che spettasse al capo dello stato di decidere sulla concessione delle amnistie e degli indulti. Ma il carattere imperativo della delega in questione troncavano il problema alla radice. D'altro canto non può nemmeno essere accolta la tesi dottrinale per cui ricadrebbe nell'iniziativa presidenziale lo scioglimento anticipato dei consigli regionali.


Gli atti complessi eguali (ina 478).


Rispetto agli altri gruppi di atti presidenziali che sono stati finora esaminati, la categoria degli atti complessi eguali è senza dubbio la meno comprensiva in quanto vi appartengono due sole specie di decreti del capo dello stato: cioè quelli di nomina dei nuovi presidenti del consiglio e quello di scioglimento anticipato delle camere. Relativamente più semplice è il caso della nomina del presidente del consiglio. Qui la qualificazione dell'atto come complesso eguale non esclude affatto che all'origine di esso si ritrovi una scelta operata dal presidente della repubblica. Ma non per questo lo si può collocare sul medesimo piano di uno di quegli atti d'iniziativa presidenziale, in ordine ai quali le decisioni del capo dello stato s'impongono per forza propria. Ben più difficile è lo stabilire quale sia la volontà preponderante ai fini dello scioglimento anticipato delle camere. Alcuni autori ritengono che la decisione sullo scioglimento debba o quanto meno possa essere governativa. Molti altri oppongono invece che il nostro ordinamento non sarebbe in questa sede equiparabile a quello inglese, ma esplicherebbe la presidenzialità del potere di scioglimento,


effettivamente, numerosi e concordi argomenti indurrebbero ad includere lo scioglimento fra gli atti di iniziativa presidenziale; ma il significato spettante ad una simile definizione è alquanto diverso da quello riscontrabile nel caso delle nomine dei senatori a vita e dei giudici costituzionali di spettanza del capo dello stato. Nel caso di scioglimento non è sostenibile che la controfirma del decreto sia dovuta e che il governo in carica non possa in alcun modo opporsi.


Ne segue che la responsabilità dell'atto ricade su entrambi i suoi sottoscrittori: giacché il presidente del consiglio si espone al pericolo che la sua politica e quella del suo partito vengano bocciate dal corpo elettorale ed in ogni caso predetermina una crisi, mentre il presidente della repubblica si accolla comunque una responsabilità politica di tipo diffuso, esponendosi alle censure che la sua decisione si presta a suscitare in seno alle forze politiche interessate ed all'opinione pubblica in genere. In secondo luogo, il presidente della repubblica non ha nessun altro mezzo per superare l'eventuale opposizione del governo, se non quello di servirsi della propria influenza per provocarne le dimissioni. Ma anche in questa ipotesi non si può certo desumerne che il presidente si ritrovi libero di formare un nuovo governo.


Quando si afferma che quelli realizzati in Italia risultano spesso assimilabili agli autoscioglimenti delle assemblee parlamentari, non si vuol sostenere, però, che la ratio dello scioglimento possa essere in Italia affine a quella che si riscontra in altri regimi parlamentari sul tipo della Gran Bretagna. In Italia il presidente della repubblica non è mai vincolato in tal campo dagli eventuali suggerimenti del governo; ed in nessun caso, poi, potrebbe usare lo scioglimento all'unico scopo di avvantaggiare il gabinetto in carica, indicendo le nuove elezioni politiche nel momento ritenuto più opportuno dalla maggioranza. Lo scioglimento resta uno strumento concepito per fronteggiare le disfunzioni in cui versino una od entrambe le camere.


I correttivi del regime parlamentare (ina 485).


Già nella descrizione dei ruoli che in Italia sono stati assunti dai tre organi essenziali di ogni sistema parlamentare, si è constatato che il regime vigente nel nostro paese non coincide con il parlamentarismo puro. Da un lato, nei rapporti fra governo e parlamento, si sono più volte registrati fenomeni che obbedivano ad una logica assembleare piuttosto che ad una logica parlamentare. D'altro lato, neanche la posizione del capo dello stato rientra del tutto nel modello del parlamentarismo. Accanto a queste ragioni per così dire intrinseche, si danno vari altri profili. Una prima eccezione alla logica del parlamentarismo consiste in tal senso nello stesso carattere rigido della costituzione. Quel che più conta, le disposizioni stabilite in varie parti del testo costituzionale fanno capire che nel nostro ordinamento la logica del parlamentarismo è stata sottoposta a molteplici correttivi. In altre parole, una serie di decisioni politiche è stata sottratta al raccordo governo-parlamento, per venire riservata ad altri organi o soggetti. In particole, è questo l'effetto che deriva sia dalle previsioni costituzionali di autonomie politiche a base territoriale, sia dalla conurazione di un'apposita corte costituzionale come giudice della legittimità delle leggi.



Residuano, invece, le questioni concernenti gli altri due "contropoteri", previsti dalla vigente costituzione: quello facente capo al corpo elettorale, nella forma del referendum abrogativo; e quello consistente nell'indipendenza del potere giudiziario, a garanzia del quale è concepito ed istituito il consiglio superiore della magistratura.


Il "referendum! Abrogativo nella forma italiana di governo (ina 487).


Pur potendo colpire la generalità delle leggi statali e degli atti normativi equiparati, il referendum è stato indubbiamente concepito dall'assemblea costituente come uno strumento utilizzabile solo in circostanza eccezionali, avendo pertanto rilievo secondario ed un carattere complementare rispetto agli istituti della democrazia rappresentativa. Tuttavia sta di fatto che i ritmi di ricorso all'arma del referendum sono improvvisamente e notevolmente cresciuti. Nella prima metà degli anni settanta, a partire dall'entrata in vigore della legge regolante le "modalità di attuazione del referendum", le richieste erano rimaste del tutto specifiche sebbene molto importanti, avendo per oggetto dapprima il divorzio e poi l'aborto. Sul finire di quel decennio, per contro, tali iniziative sono sopraggiunte "a pioggia", soprattutto ad opera di un vero e proprio "partito del referendum", come quello radicale. Del resto è certo che i referendum abrogativi richiesti ed indetti negli anni settanta ed ottanta non hanno mancato di incidere sulle sorti stesse delle coalizioni di maggioranza, fino al punto di rappresentare la concausa di vari scioglimenti anticipati delle camere. Ma il sistematico ricorso al referendum non ha perseguito il solo intento di delegittimare il sistema politico in atto; bensì ha determinato una sorta di uso molteplice delle consultazioni referendarie. A fianco dei tradizionali referendum "di rottura", si sono avuti svariati referendum "di stimolo", tendenti a sollecitare il parlamento all'approvazione di nuove leggi. Del pari, alle richieste meramente abrogative si sono affiancate le richieste manipolative, volte a rinnovare certi settori dell'ordinamento mediante l'abrogazione di parti di disposizioni legislative o addirittura di singole parole contenute nei testi di legge in questione. Ancora, la crescente varietà e complessità delle richieste referendarie ha messo in luce lo scarto che spesso sussiste fra quesiti formali, ufficialmente prospettati dalle richieste medesime, e i quesiti "impliciti" riguardanti il significato politico delle rispettive votazioni. In altre parole, si è riscontrato che la cosiddetta valenza politica dei referendum può trascendere di molto la portata delle norme delle quali di chiede l'abrogazione: come nel tipico caso dei referendum "sul nucleare", che hanno finito per porre in questione la sopravvivenza in Italia delle relative centrali, ben oltre gli specifici interrogativi trascritti nelle schede. Per contro la Corte ha dato via libera ai referendum manipolativi, malgrado i dubbi espressi da quanti contestano la conformità di tali richiesta al modello costituzionale: dal momento che essi sarebbero miranti a generare discipline legislative nuove, difformi da quelle che il parlamento aveva previsto e voluto.


Il procedimento referendario (ina 490)


L'iter attraverso il quale si giunge al voto popolare è stato fondamentalmente strutturato in quattro fasi. A monte del procedimento si collocano i richiedenti, cioè gli elettori nel numero minimo di 500.000 sottoscrittori della richiesta, od almeno cinque consigli regionali. Ma la raccolta di firme costituzionalmente previste dev'essere a sua volta preceduta dall'iniziativa di un gruppo di promotori. Prende in tal modo avvio la fase preparatoria, tendente alla formazione e presentazione della richiesta. A tale scopo, in appositi fogli vanno indicati "i termini del quesito che si intende sottoporre alla votazione popolare". Il deposito può essere effettuato entro il 30 settembre di ciascun anno; ed alla scadenza del 30 settembre si apre la fase dei controlli preventivi, imperniata sugli accertamenti svolti e sulle decisioni consecutivamente adottate da un apposito Ufficio centrale, costituito presso la corte di cassazione e dalla corte costituzionale. A sua volta, la corte costituzionale è chiamata a pronunciarsi entro il 10 febbraio successivo sull'ammissibilità delle richieste ritenute legittime dall'ufficio centrale. Al pari che nei procedimenti elettorali, segue a questo punto una fase costitutiva culminante nella votazione. Ai fini dell'approvazione della richiesta, l'art. 75 Cost. prescrive tanto un quorum di partecipazione quanto un quorum riferito ai votanti. Occorre, cioè, che partecipi alla votazione "la maggioranza degli aventi diritto"; ed occorre che "la maggioranza dei voti validamente espressi" si pronunci per l'abrogazione, rispondendo al quesito in senso affermativo. Effettuata la votazione, si apre comunque la quarta fase del procedimento, imperniata sulla proclamazione dell'esito del referendum. Se il risultato è contrario alla richiesta di abrogazione, la legge n. 352 si limita a prescrivere che ne sia data "notizia" sulla gazzetta ufficiale. Se invece il risultato è favorevole, "l'avvenuta abrogazione" dev'essere dichiarata con decreto del presidente della repubblica, da pubblicare nella gazzetta e da inserire nella raccolta ufficiale. Una questione ricorrente ha riguardato, anzitutto, i rapporti fra l'ufficio centrale e la corte costituzionale. All'ufficio centrale la legge n. 352 assegna il controllo sulla conformità delle richieste alle norme della legge stessa; ma l'unico punto fermo consiste in ciò, che spetta all'ufficio verificare se il numero delle firme valide superi o meno il minimo di 500.000. Senonché l'organo giurisdizionale in questione si è anche arrogato il compito di stabilire se fossero in causa leggi statali o atti normativi equiparati. E la corte costituzionale ne ha costantemente preso atto, riservandosi la sola "cognizione dell'ammissibilità del referendum"; sicché spetta alla corte accertare se vengano in considerazione leggi ordinarie o leggi costituzionali comunque "rinforzate". Una volta che l'ufficio abbia fissato il senso della disciplina legislativa sottoposta a referendum, la corte non può dunque operare "come giudice di secondo grado". Ancor più in generale, all'ufficio centrale compete la cognizione di tutte le vicende riguardanti le norme legislative ordinarie assoggettate al voto popolare. Con questa logica prevedeva che, in caso di abrogazione sopravvenuta delle norme per le quali era stata avanzata richiesta di referendum, fossero l'ufficio centrale a dichiarare che le operazioni non avevano più corso.


Le tensioni e le questioni generate dalle recenti esperienze referendarie hanno anche formato la causa di svariate proposte di riforma della disciplina costituzionale ed ordinaria vigente in materia. La corte costituzionale ha rilevato in diverse occasioni che il quesito referendario dovrebbe esser reso più chiaro, anziché accontentarsi di formulazioni troppe volte oscure o addirittura incomprensibili per la generalità degli elettori. La legge n. 352 consente, in effetti, che si richieda il referendum per l'abrogazione di singoli articoli di legge o anche di singoli commi i di singole parole; ma solo in queste ultime ipotesi impone che nelle schede venga "integralmente trascritto il testo letterale delle disposizioni di legge". In secondo luogo, la corte stessa ha consigliato l'anticipazione dei controlli, che andrebbero effettuati a monte del procedimento. Del pari, il numero minimo delle firme occorrenti per sostenere ciascuna richiesta continua ad esser quello originariamente stabilito dall'assemblea costituente. Allo stesso modo sono state insabbiate le iniziative tendenti a dotare il presidente della repubblica di ampie facoltà di sospensione del referendum.


L'indipendenza della magistratura e delle singole autorità giurisdizionali; giudici ordinari e giudici speciali (ina 496).


Nel proclamare che "la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere", l'art. 104 della costituzione risente senza dubbio dell'idea che uno stato di diritto debba fondarsi sulla divisione o sulla separazione dei poteri. Non devono essere toccati comunque alcuni valori: primo è l'indipendenza, riferita non solo alla magistratura come istituzione complessiva bensì ad ogni singola autorità giurisdizionale. Qualora ciascun giudice non fosse indipendente nell'esercizio delle sue tipiche attribuzioni, non si conseguirebbe l'obiettivo dell'imparzialità o della "terzietà". La parallela garanzia dell'indipendenza dell'istituzione e dell'indipendenza del singolo giudice concorre a far capire il perché la magistratura sia denominata ordine piuttosto che potere. Ne segue però che il giudiziario si presenta come un potere diffuso, nell'ambito del quale tutti i giudici possono assumere la veste di "poteri dello stato". Ed unicamente in senso riassuntivo si può dunque parlare di un potere giurisdizionale comprendente le autorità giudicanti di qualunque genere. Vero è che per "magistratura" s'intende il solo complesso dei giudici ordinari, istituiti e regolati da un apposito ordinamento giudiziario; ed è noto che i giudici ordinari non esauriscono la serie delle autorità giurisdizionali, dal momento che l'assemblea costituente non ha accolto il principio dell'unicità della giurisdizione. Quanto invece ai giudici speciali, formati in via permanente al di fuori dell'ordinamento giudiziario. La costituzione si limita a vietarne l'istituzione ex novo. Dalla revisione sono state anzi esonerate le giurisdizioni del consiglio di stato, della corte dei conti e dei tribunali militari, che hanno in effetti un preciso rilievo costituzionale: in quanto regolate e previste dall'art. 103 della costituzione. La pluralità delle giurisdizioni, fondata soprattutto sulla tradizionale contrapposizione fra diritti soggettivi ed interessi legittimi nelle controversie riguardanti gli atti delle pubbliche amministrazioni, non toglie però che la disciplina costituzionale delle attività giurisdizionali rimanga fondamentalmente comune. Vige in ogni caso il principio di riserva di legge, come risulta dall'espresso disposto dell'art. 108. più specificamente, tutti i giudici "sono soggetti soltanto alla legge", in base al capoverso dell'art. 101 Cost., con l'implicito intento di escludere la loro soggezione all'esecutivo o ad altre autorità.


Con questo fondamento sono state annullate la norma per cui poteva fungere da giudice il ministro della marina mercantile; la disciplina che attribuiva ai consigli comunali e provinciali potestà giurisdizionali in tema di controversie elettorali riguardanti i consigli medesimi.


Certo è tuttavia che non tutte le norme costituzionali del titolo IV sono egualmente applicabili ai giudici ordinari ed ai giudici speciali; come pure ai giudici togati ed ai "cittadini estranei alla magistratura", previsti dal secondo comma dell'art. 102 Cost. innanzitutto, il principio della nomina dei magistrati mediante concorso, fissato dal primo comma dell'art. 106, riguarda i soli giudici ordinari professionali. Si pensi ai giudici laici che possono comporre le sezioni specializzate presso gli organi giudiziari ordinari. In secondo luogo, si consideri il caso dei "magistrati onorari". Quanto alla magistratura ordinaria è pur sempre esclusa la nomina governativa dei giudici. Per contro, nomine del genere sono tuttora possibili nei confronti di giudici speciali costituzionalmente rilevanti, quali il consiglio di stato e la corte dei conti. Ma anche l'inamovibilità dei giudici speciali risulta spesso attenuata e comunque diversa da quella riguardante i magistrati ordinari. Basti pensare alla circostanza che soli per i primi la costituzione stabilisce che essi "non possono essere dispensati o sospesi dal servizio, né destinati ad altre sedi o funzioni se non in seguito a decisione del consiglio superiore della magistratura.


L'autonomia dell'ordine giudiziario ed il consiglio superiore della magistratura (ina 502).


Nel valutare il regime costituzionale dei magistrati ordinari, assume un rilievo centrale il discorso concernente le garanzie offerte dalla necessaria esistenza dell'apposito consiglio superiore. Talune delle varie giurisdizioni speciali possono anche esser dotate di strumenti, più o meno analoghi, di "autogoverno": così, specialmente, presso il consiglio di stato è ora in funzione un "consiglio di presidenza", costituito per la maggior parte da componenti eletti dai magistrati amministrativi, che svolge funzioni corrispondenti a quelle proprie del CSM.


Prende corpo, in tal modo, la definizione della magistratura come "ordine autonomo", contenuta nel primo comma dell'art 104. l'autonomia della magistratura stessa non va infatti collocata sul piano della normazione. Piuttosto, ciò che rende autonomo l'ordine giudiziario sono appunto i limiti che esso comporta, nei confronti degli altri poteri dello stato e soprattutto dell'esecutivo, sottoforma di "potestà valutativa riservata". Per necessaria conseguenza da essa deriva una corrispondente limitazione delle attribuzioni del ministero della giustizia, che divengono in tal senso residuali, concernendo "l'organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia". Prevale, tuttavia, l'opinione negativa, incline a definirlo quale organo di rilievo costituzionale; ed in questi termini si è espressa anche la corte costituzionale.se però si trascendono le concezioni formali o letterali, le istituzioni effettivamente costituzionali si riducono a quattro: il parlamento, il governo, il presidente della repubblica, la corte costituzionale. Di questi soli poteri può infatti sostenersi che essi detengono una posizione di parità reciproca, al vertice dell'organizzazione costituzionale dello stato. A rafforzare questi assunti concorre la considerazione che il consiglio superiore non è il vertice dell'ordine giudiziario né l'organo di governo della magistratura. In positivo, dunque è nettamente preferibile definire il consiglio superiore come un "organo di garanzia costituzionale"; e la natura delle sue funzioni, costituzionalmente previste, induce inoltre a qualificarlo come un collegio "fondamentalmente amministrativo". Il che non toglie che si tratti di un organo del potere giudiziario.


Per meglio intendere il perché di tali conclusioni, occorre però analizzare le norme concernenti la composizione, la struttura e le funzioni del CSM. Più precisamente, secondo e terzo comma dell'art. 104 prevedono tre componenti di diritto: cioè il Presidente della repubblica, il primo presidente ed il procuratore generale della corte di cassazione. I componenti elettivi spettano invece per due terzi alla magistratura e per il terzo residuo al parlamento in seduta comune. Quanto ai consiglieri eletti dal parlamento, basti dire che la loro elezione va effettuata "con la maggioranza di tre quinti dell'assemblea". La circostanza che il quorum sia stato in tal modo elevato per effetto di una legge ordinaria ha determinato qualche dubbio di legittimità costituzionale. Ma i dubbi sono stati superati perché il CSM non deve essere ridotto ad uno strumento della maggioranza del governo. Quanto ai consiglieri eletti dai magistrati, va notato che la loro scelta si effettua con sistemi proporzionali corretti e sulla base di liste concorrenti. Lo scrutinio di lista è stato voluto allo scopo di rendere più democratica l'investitura del CSM non deve esser ridotto, in alcuna delle sue componenti, ad uno strumento della maggioranza di governo. Quanto ai consiglieri eletti dai magistrati, va notato che la loro scelta si effettua con sistemi proporzionali corretti e sulla base di liste concorrenti. Lo scrutinio di lista è stato voluto allo scopo di rendere più democratica l'investitura del CSM. Ma l'effetto è stato quello di accentuare in seno al consiglio una sorta di partitocrazia, sia pure sui generis. Le strutture del consiglio non sono state considerate dalla carta costituzionale, fatta eccezione per gli uffici di Presidente e di vice-presidente. A sua volta, nemmeno la legge istitutiva contiene una compiuta disciplina degli altri organi del consiglio, limitandosi invece a disporre che in seno al CSM agiscono varie commissioni referenti, nominate dal presidente sulla base di un potere consiliare di autoorganizzazione. La legge stessa prevede specificamente una commissione per il conferimento degli uffici direttivi e una sezione disciplinare, cui compete la "cognizione dei procedimenti disciplinari a carico del magistrato.


Giudizi disciplinari a parte, le funzioni tipiche del CSM riguarderebbero le assegnazioni, i trasferimenti e le promozioni dei giudici ordinari: cioè tutte le delibere amministrative attinenti allo status dei magistrati in questione. Il contenuto dei conseguenti atti va determinato dal consiglio, appunto allo scopo di assicurare l'indipendenza dei giudici stessi. Ma la fase costitutiva del procedimento dev'essere seguita da una fase percettiva, imperniata sui decreti del presidente della repubblica, controfirmati dal ministro della giustizia. Inoltre, rimane ferma l'impugnabilità dei decreti in questione dinanzi ai giudici amministrativi, su ricorso dei magistrati che si ritengono lesi dei relativi provvedimenti. Come ha rilevato la corte costituzionale, gli appartenenti alla magistratura non possono rimanere "indifesi" di fronte a possibili lesioni dei loro diritti ed interessi legittimi da parte del CSM; e la sottoposizione del consiglio ad in sindacato giurisdizionale "di stretta legittimità" non vale a vanificare od attenuare la "funzione garantistica" che gli compete. Per altro, diversa è la natura e diverso il regime delle funzioni atipiche, a mano a mano assunte dal CSM al di fuori dei disposti costituzionali e legislativi che lo riguardano. È questo il caso delle relazioni sullo stato della giustizia che il consiglio ha più volte inviato al ministro per la trasmissione alle camere: in quanto la legge istitutiva prescrive bensì che il consiglio esprima "proposte" e "pareri" sull'ordinamento giudiziario, sull'amministrazione della giustizia, sull'organizzazione ed il funzionamento dei relativi servizi, ma indirizzandoli al solo ministro competente.


Inoltre rientrano in tal campo le inchieste sul funzionamento di determinati uffici giudiziari, frequentemente effettuate dal consiglio non senza interferire con i compiti riservati alla sezione disciplinare. Ancora, sia aggiungono le cosiddette funzioni "paranormative", svolte dal CSM per prestabilire i criteri di esercizio delle attribuzioni tipiche, costituzionalmente fondate. Sembra perciò più corretto definire gli atti in questione come circolari, impegnative per il consiglio ma dotate di una mera "efficacia persuasiva" nei confronti delle autorità giurisdizionali chiamate a sindacare le deliberazioni consiliari. In vista di fenomeni siffatti, si è parlato e si parla spesso di un ruolo politico che il CSm si sarebbe arrogato, ma la conclusione è probabilmente eccessiva.


Profili storici della riforma regionale (ina 515).


Il dibattito sulle regioni sulle regioni si riapre in Italia non appena caduto il regime fascista; ma non produce esiti concreti per oltre vent'anni, se non nei riguardi delle autonomie regionali differenziate. È anzi il governo Badoglio un !alto commissario" ed una "giunta consultiva" relativamente alla Sardegna. Senonché , mentre la sardegna non acquista ancora una vera autonomia viceversa alla rapidissima emanazione di uno statuto speciale per le regionali siciliana. Tanto in relazione alla Sicilia, alla Sardegna ed alla Valle d'Aosta, quanto in vista dell'Alto Adige, l'Assemblea costituente si trova pertanto, di fronte ad una serie di passi più o meno compiuti. Nel prevedere "forme e condizioni particolari di autonomia", l'art. 116 Cost. si riferisce testualmente, anzi, ad una quinta regione differenziata: vale a dire al Friuli-Venezia Giulia. Ma la stessa Costituzione introduce una riserva per cui tale regione avrebbe dovuto, "provvisoriamente", subire il regime comune delle amministrazioni regionali ordinarie. In realtà, anche la X disp. Trans. È rimasta inapplicata: con la conseguenza che il Friuli-Venezia Giulia è stato senz'altro costituito come regione a statuto speciale. Molto più lento ed accidentato si è rilevato, nel frattempo, il processo costitutivo delle autonomie regionali ordinarie. L'VIII disposizione transitoria costituzionale prevedeva che le elezioni dei consigli regionali di diritto comune fossero indette "entro un anno dall'entrata in vigore della costituzione"; ma il termine venne variamente prorogato, dapprima al 30 ottobre 1949 e quindi al 31 dicembre 1950. è appena nella seconda metà degli anni sessanta, che l'applicazione del titolo V si sblocca, con l'approvazione della legge 17 febbraio 1968 disciplinante l'elezione dei consigli delle regioni di diritto comune. Ma l'iter formativo si prolunga sulla base di una delega legislativa contenuta nella "legge finanziaria" viene adottata una serie di cecreti legislativi per il trasferimento delle funzioni amministrative nelle materie elencate nell'art. 117 Cost.; e successivamente si provvede a completare il trasferimento stesso. Senonché la sistemazione dei rapporti fra lo stato e regioni non può dirsi compiuta. È precisamente per mezzo di leggi statali ordinarie e di atti equiparati che Parlamento e Governo hanno allargato nuovamente la sfera dell'autonomia regionale. La "legge Bassanini" ha delegato l'esecutivo a conferito alle regioni e agli enti autonomi locali "funzioni e compiti amministrativi" in tutte le materie che la legge stessa non riservava allo Stato.


Le forme regionali di governo (ina 518).


L'art. 121 Cost. esordisce disponendo che "sono organi della regione: il consiglio regionale, la giunta e il suo presidente". Non si tratta di un numero chiuso; quelli indicati dall'art. 121 primo comma sono invece gli organi costituzionali necessari, al di là dei quali le leggi regionali possono conurare organi ulteriori, purché in posizioni subordinate e non di governo.


La carta costituzionale si limita a disporre che "il presidente e i membri della giunta sono eletti dal consiglio regionali fra i suoi componenti". Gli unici punti fermi sono dunque di segno negativo. È incontroverso che la costituzione abbia scartato con nettezza l'idea di una forma presidenziale di governo, come anche la disposizione onde il consiglio "può sostituire la giunta o il presidente", ma è stata scartata altresì l'idea di un governo direttoriale. In definitiva, quella che la costituzione lascia aperta è la scelta di una delle forme rimanenti, intermedie fra il modello parlamentare e il modello assembleare. L'interpretazione più coerente con il titolo V è invece nel senso che sia consentita una gamma di soluzioni diverse. Ciò spiega con quale fondamento le regioni a statuto speciale siano state senz'altro dotate d'una forma di governo tendenzialmente parlamentare. Dal modello nazionale, quelli regionali si differenziano per l'ovvio motivo che il primo è contraddistinto dalla coesistenza del parlamento, del governo e di un terzo organo chiave quale il capo dello stato; mentre nei secondi il consiglio e la giunta si fronteggiano senza intermediari. Ma le giunte assomigliano pur sempre al governo centrale; sicché al legislativo non spetta se non l'approvazione delle leggi e l'esercizio di taluni controlli politici sull'esecutivo. Al di là degli statuti fra i consigli e le giunte deve sussistere una costante relazione fiduciaria. Le disposizioni statutarie prevedono talvolta che la giunta sia revocata anziché colpita da un voto di sfiducia. Ma in tutte le regioni differenziate regolamenti consiliari "Interni" disciplinano le mozioni di fiducia e di sfiducia. Il che determina ulteriori ragioni di affinità fra il regime vigente in sede nazionale e quelli regionali.


Tutte le regioni ordinarie hanno invece adottato la comune decisione di assumere sistemi tendenzialmente assembleari. Ora, gli statuti ordinari approvati negli anni 70-71 hanno superato le indicazioni della legge n. 62 quanto alla formazione della giunta: pur non prevedendo formalmente l'instaurazione di un rapporto di fiducia, essi hanno in quella sede imposto la votazione palese di documenti programmatici riguardanti la futura attività dell'esecutivo regionale. Giuridicamente, però, è il consiglio che in tal modo predetermina l'indirizzo politico della regione: con la conseguenza che la giunta sembra porsi come un comitato esecutivo anziché direttivo. Oltre all'indirizzo politico e amministrativo i vari statuti ordinari hanno infatti riservato al legislativo le più varie attribuzioni amministrative: dall'approvazione dei piani e dei programmi di competenza regionale, fino alla nomina degli amministratori di enti pararegionale.


L'assetto dei consigli; il procedimento legislativo regionale (ina 522).


La carta costituzionale, pur lasciando intendere che il consiglio regionale è l'organo rappresentativo dell'ente regione, non dichiara espressamente che esso va eletto da tutti i cittadini maggiorenni della regione medesima, limitandosi a disporre che "il sistema d'elezione, il numero e i casi di ineleggibilità e di incompatibilità dei consiglieri regionali sono stabiliti con legge della repubblica". Quello vigente per le regioni ordinarie è comunque un singolare sistema misto, nell'ambito del quale alle liste vincenti viene attribuita "una quota aggiuntiva di seggi", tale da consentire che esse dispongano di una sicura maggioranza nel consiglio. La parte residua della disciplina concernente le elezioni consiliari resta invece modellata sulla legislazione elettorale amministrativa. Deriva di qui la non-coincidenza fra l'elettorato attivo e quello passivo, spettante a tutti gli elettori italiani senza alcuna distinzione di residenza.


Ancor più netto è il divario riscontrabile fra la convalida dei parlamentari e quella dei consiglieri regionali. La prima infatti è completamente riservata alle camere di appartenenza. La seconda è caratterizzata da deliberazioni consiliari aventi un carattere amministrativo. Malgrado in entrambi i casi si tratti di organi principalmente legislativi, il regime dei consigli regionali e dei loro componenti non coincide con quello spettante alle camere ed ai singoli parlamentari. Si pensi alla discontinuità dei consigli regionali. Solo di recente la corte costituzionale ha posto rimedio a questa discrasia, chiarendo che fino al termine del quinquennio della loro durata in carica i consigli non cessano senz'altro ma sono provvisti di "poteri attenuanti confacenti alla loro situazione di organi in scadenza". Del resto, il parallelo fra consigli e camere non regge in assoluto. "L'analogia tra le attribuzioni delle assemblee regionali e quelle delle assemblee parlamentari non significa identità e non toglie che le prime si svolgano a livello di autonomia, anche se costituzionalmente garantita, le seconde, invece, a livello di sovranità". Di più: la stessa costituzione stabilisce che "i consiglieri regionali non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell'esercizio delle loro funzioni". Ma tale immunità è stata ridimensionata dalla corte costituzionale, la quale ha negato che essa tuteli l'esercizio di funzioni amministrative conferite ai consigli per mezzo di leggi regionali.


Fra tutte le funzioni esercitabili dai consigli, giova porre l'accento su quella legislativa. Il procedimento legislativo va diviso in quattro fasi: l'iniziativa spettante ai vari titolari della potestà di sottoporre al consiglio i disegni di legge; l'approvazione di competenza dell'assemblea legislativa; il controllo preventivo, cui prendono parte necessariamente il commissario del governo e lo stesso governo nazionale; la promulgazione ad opera del presidente della giunta e la pubblicazione della legge nel bollettino ufficiale della regione. Quanto all'iniziativa, basti ricordare le tre forme essenziali nelle quali essa si svolge: cioè quella giuntale, quella spettante ad ogni consigliere e quella popolare, esercitatile in tutte le regioni, tranne la Sicilia. Quanto all'approvazione, essa va comunque riservata all'intera assemblea. Assai più delicata e complessa è la fase dei controlli. Non appena approvata, ogni legge regionale dev'essere comunicata al commissario del governo. Ma il potere di controllo non spetta al commissario stesso, che si limita a ritrasmettere la legge al governo nazionale, dopo di che un primo vaglio viene effettuato dal ministro per gli affari regionali, restando però riservato al consiglio dei ministri il rinvio della legge così controllata, affinché il consiglio regionale competente la riesamini. È solo se il governo manifesta il suo consenso che il commissario può vistare la legge. A questo punto, il consiglio regionale non può sbloccare l'iter, se non riapprovando la legge "a maggioranza assoluta dei suoi componenti"; e il governo nazionale non dispone allora se non del ricorso alla corte costituzionale od alle camere. Ma in che consiste la riapprovazione? La carta costituzionale non precisa se il testo riapprovato debba coincidere con quello rinviato al consiglio; o se la riapprovazione possa essere anche emendativa del testo originario. Eppure è proprio quest'ultima l'ipotesi fisiologica: giacché la richiesta governativa di riesame, promossa quando il governo ritiene "che una legge approvata dal consiglio regionale ecceda la competenza della regione o contrasti con gli interessi nazionali o con quelli di altre regioni".


La corte ha ritenuto che il rinvio non sia reiterabile, qualora il consiglio regionale abbia emendato le sole parti già censurate dal governo. Il che, tuttavia, non manca di provocare incertezze nel momento applicativo, connaturate al criterio che la corte ha più recentemente utilizzato. È certo che la legge non può essere promulgata fino a quando il commissario non abbia apposto il visto. Restano solo i problemi derivanti da un parziale annullamento della legge impugnata: nel qual caso spetta al presidente della giunta stabilire se la parte residua del testo si presti a venire promulgata come tale oppure esiga di essere rielaborata dall'organo legislativo.


La giunta regionale e il suo presidente (ina 529).


Pur definendo l'intera giunta quale "organo esecutivo", il titolo V respinge la formula del governo collegiale puri, entro il quale il presidente sarebbe soltanto un primis inter partes rispetto agli assessori. Nell'ambito dell'esecutivo, infatti, il presidente mantiene una posizione distinta e preminente, giacché "rappresenta la regione".


Rimane il fatto che il presidente della giunta è anche il presidente della regione; ed in tale veste egli ne sottoscrive gli atti, ne promulga le leggi ed i regolamenti, indice referendum regionali, procede alla prima convocazione del consiglio, prende parte alle riunioni della conferenza permanente per i rapporti fra lo stato e le regioni. Ma egli non esprime opinioni né prende decisioni personali, bensì sostiene gli indirizzi propri della giunta e della maggioranza consiliare. Ed anche quando esercita un potere-dovere il suo compito si distingue nettamente da quello peculiare del presidente della repubblica, in quanto non implica controlli di sorta sugli atti da promulgare. Rimane fermo che le funzioni essenziali dell'organo in esame attengono alla presidenza della giunta regionale ed alla sua veste di capo dell'amministrazione. Nel primo senso, egli dispone di poteri analoghi a quelli esercitati dal presidente del consiglio dei ministri; dalla convocazione della giunta e dalla determinazione dei relativi ordini del giorno, fino al coordinamento dell'azione dei vari assessori. Nel secondo senso, poi, è generalmente proprio del presidente il compito di sovrintendere ali uffici e servizi regionali svolgendo funzioni direttive e di vigilanza nei confronti dei livelli inferiori dell'apparato esecutivo.


Malgrado l'accentuata supremazia del presidente sui singoli assessori, non è dubbio che la giunta costituisca l'organo centrale del potere esecutivo regionale. In tutte le regioni fra gli organi politici del potere stesso la giunta è quello dotato di una competenza amministrativa generale. Si danno, anzi, funzioni riservate alla giunta, dall'iniziativa legislativa propria dell'esecutivo stesso alla predisposizione o all'approvazione di piani e programmi economici e territoriali. Più in generale, anche nelle regioni ordinarie si deve ritenere che gli assessori possano essere dotati di funzioni esterne. Giuridicamente le limitazioni più forti della competenza spettante alla giunta si rinvengono nel rapporto fra l'esecutivo ed il legislativo. Occorre ricordare che in nessuna regione compete alle giunte l'adozione di atti aventi forza di legge. Ma esorbita dalle attribuzioni dell'esecutivo l'esercizio della stessa potestà regolamentare. Solo nel campo delle funzioni amministrative vige infatti la regola per cui la giunta può adottare, in caso d'urgenza, provvedimenti di competenza del consiglio.


L'amministrazione regionale; i rapporti fra le regioni e gli enti autonomi minori (ina 531).


Statuendo che "spettano alle regione le funzioni amministrative per le materie elencate nel precedente articolo", ha inteso enunciare il principio del parallelismo fra legislazione ed amministrazione. Di tanto si estende la prima potestà, altrettanto è di norma lo spazio spettante alla seconda. Ma vale anche la regola inversa, per cui le norme statali sul trasferimento delle funzioni amministrative alle regioni, ordinarie e speciali, sono valse e valgono tuttora a fornire criteri per l'interpretazione dell'art. 117, in tema di legislazione locale.


Le norme statali sul trasferimento delle funzioni amministrative hanno previsto moltissime volte attribuzioni destinate ad essere ancora esercitate dallo stato. Analogamente hanno poi disposto le leggi statali che al più vario titolo sono sopravvenute nei settori di spettanza delle regioni. E la corte costituzionale ha accolto la tesi che possano sussistere in tal senso due distinti livelli di amministrazione, statale e regionale; similmente a ciò che si verifica per la potestà legislativa locale. Le dette norme statali sul trasferimento delle funzioni amministrative hanno previsto moltissime volte attribuzioni destinate ad essere ancora esercitate dallo stato. Analogamente hanno poi disposto le leggi statali che al più vario titolo sono sopravvenute nei settori di spettanza delle regioni. E la corte costituzionale ha accolto la tesi che possano sussistere in tal senso due distinti livelli di amministrazione, statale e regionale: similmente a ciò che si verifica per la potestà legislativa locale, l'esercizio della quale non vale mai ad escludere del tutto la concorrente legislazione dello stato. La più clamorosa riprova di questa realtà giuridica, consolidata da tempo, è offerta dalla funzione di indirizzo e coordinamento delle attività regionali: funzione che non trova alcun fondamento testuale, ma viene regolata ed esercitata dallo stato, nelle materie di competenza delle regioni. Contestata da varie regioni che la ritenevano incostituzionale, la funzione stessa è stata subito difesa dalla corte, che l'ha collegata al limite degli interessi nazionali. Anche a tali effetti si è dunque riaffermata la regola del parallelismo, nel senso che l'indirizzo e coordinamento statale incide "indiscriminatamente sull'attività amministrativa e su quella legislativa delle regioni". La stessa corte costituzionale lo ha confermato più volte, sostenendo che alla funzione in esame tutti gli organi delle regione "devono adeguarsi", dal momento che essa "ha sicuro fondamento in costituzione".


Il controllo sugli atti amministrativi delle regioni viene svolto "in forma decentrata" ad opera di apposite commissioni costituite in ciascun capoluogo regionale, sotto la presidenza del commissario del governo. Più precisamente, tale organo dello stato esplica in via preventiva un controllo di legittimità, relativo alle più importanti categorie di atti amministrativi regionali; con la sola eccezione delle delibere "dichiarate immediatamente eseguibili", che vanno sottoposte ad un controllo successivo. Tuttavia, una volta esauriti i controlli in questione, lo stato non dispone di alcun rimedio ulteriore nei confronti degli atti amministrativi regionali. La regola del parallelismo subisce una rilevante eccezione in virtù dell'art. 118, là dove si dispone che le funzioni amministrative di interesse esclusivamente locale "possono essere attribuite dalle leggi della repubblica alle province, ai comune o ad altri enti locali". Attraverso l'imposizione di siffatte deleghe amministrative, la costituzione sembrerebbe statuire che le regioni non debbano disporre di un proprio apparato burocratico, salvo che si tratti di funzioni in suscettibili di esercizio decentrato. D'altro lato, i decreti legislativi concernenti il trasferimento delle funzioni amministrative hanno coinvolto contingenti assai notevoli di funzionari ed impiegati statali, pur prevedendo la loro necessaria assegnazione agli enti eventualmente delegati delle regioni; il che, concretamente, ha allontanato di molto l'ipotesi dell'amministrazione regionale indiretta.


Va solo ricordato che alle regioni compete comunque il controllo sugli atti amministrativi degli enti locali. Quegli organi della regione cui si accenna nell'art. 130 primo comma risultano però del tutto sui generis, essendo costituiti ed organizzati in modo da sottrarli al comune regime degli uffici regionali. Ma anche nel nuovo "ordinamento delle autonomie locali", che assegna quattro componenti al consiglio contro uno designato dal commissario, si riscontra che tutti i membri in questione debbono essere "esperti": il che trova giustificazione in vista della natura dei compiti che si tratta di svolgere, con particolare riguardo alla legittimità degli atti controllati.


La finanza regionale (ina 538).


"Le regioni hanno autonomia finanziaria nelle forme e nei limiti stabiliti da leggi della repubblica, che la coordinano con la finanza dello stato, delle province e dei comuni". In sede dottrinale si suole rispondere che alle regioni non compete la mera disponibilità dei mezzi finanziari occorrenti perché esse siano in grado di svolgere le loro "funzioni normali"; ma vanno dati autonomi poteri di determinazione delle loro entrate, amministrando e riscotendo una serie di propri tributi. Al contrario è dominante la tesi per cui la legislazione locale istitutiva di nuove tasse od imposte sarebbe soltanto attuativa della legislazione nazionale. Ed anche la giurisprudenza costituzionale si è saldamente collocata lungo questa linea, rilevando "come l'autonomia legislativa regionale in materia tributaria . trovi la sua specifica fonte di disciplina nell'art. 119 Cost". In questi stessi termini occorrerebbe che le regioni fossero dotate di reali e significativi margini di scelta. In quell'ordinamento si ragione di quattro specie di tributi "attribuiti" alle regioni: cioè dell'imposta sulle concessioni statali, della tassa sulle concessioni regionali, della tassa di circolazione e della tassa per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche. Se a ciò si aggiunge che i proventi di simili tributi non sono adeguati alle spese che si tratta di sostenere, s'intende il motivo per cui quella regionale è comunemente detta una finanza derivata o di trasferimento. Ad aggravare la condizione dell'autonomia finanziaria regionale concorrono due circostanza ulteriori. In primo luogo, sullo stesso versante della spesa, varie leggi statali di finanziamento delle regioni tendono a dettare discipline di principio assai penetranti, tali da indirizzare la spesa stessa, orientandola verso puntuali obiettivi di interesse regionale. Ma una tale indicazione non ha ricevuto applicazioni univoche e costanti; e basta ricordare i macroscopici casi di fondi speciali come quello "sanitario nazionale" o come quello "per gli investimenti nel settore dei trasporti pubblici locali". In secondo luogo, giova ricordare che la finanza regionale non forma più l'oggetto di una disciplina apposita. È accaduto, perciò, che i flussi del finanziamento statale siano stati quantificati di anno per anno, attraverso le leggi finanziarie collegate alle leggi di bilancio.


I principi costituzionali dell'ordinamento comunale e provinciale (ina 543).


Il titolo V della costituzione esordisce proclamando che "la repubblica si riparte in regioni, province e comuni". In tutti e tre i casi si tratta di enti autonomi territoriali. Territoriali perché gli enti stessi agiscono in forza di una rappresentanza politica dei cittadini che compongono le comunità regionali; e sono quindi giuridicamente capaci di perseguire la generalità delle loro esigenze, con particolare riguardo a quelle localizzate entro i rispettivi territori. Autonomi, perché una tale qualificazione non spetta alle sole regioni, ma abbraccia comuni e province. Resta il fatto che l'autonomia regionale è tutelata ben diversamente da quella comunale e provinciale. La prima si estende alla legislazione; e in difesa di tali competenze le amministrazioni regionali possono adire la corte costituzionale. Comuni e province, per contro, non sono garantiti dalla costituzione, se non nella loro complessiva esistenza. Del pari, anche le funzioni comunali e provinciali vanno individuate dalle leggi dello stato. Né si può dire che la costituzione abbia implicitamente riservato ai minori enti autonomi le loro funzioni originarie. È solo in via provvisoria che l'VIII disp. Cost. ha statuito la conservazione, in capo ai comuni ed alle province, delle funzioni "attualmente" esercitate. Sicché il solo dato, ricavabile con certezza dal sistema costituzionale, consisteva e consiste in ciò che le "leggi generali della repubblica" debbono rafforzare e non deprimere i ruoli spettanti alle amministrazioni comunali e provinciali; senza di che verrebbe contraddetto l'indirizzo espresso dall'art. 5 per cui "la repubblica riconosce e promuove le autonomie locali". Nel corso di oltre quarant'anno sono rimasti in vigore, sia pure novellati in moltissimi punti, i testi unici delle leggi comunali e provinciali. In primo luogo, non era pensabile che una nuova legge comunale e provinciale potesse precedere l'attuazione della riforma regionale sull'intero territorio del paese. In secondo luogo, il disegno costituzionale era ed è oscuro, per quanto riguarda i rapporti fra le regioni e minori enti autonomi. In terzo luogo, un motivo di profonde incertezze ha riguardato la sorte delle province. Sostanzialmente soppressi dal progetto elaborato nella commissione dei 75, tali enti sono stati recuperati come centri di autonomia. Ma le loro funzioni rimanevano troppo esigue per giustificarne l'esistenza. Queste ed altre regioni hanno dunque fatto sì che il nuovo "ordinamento delle autonomie locali", comunali e provinciali in prima linea, sia stato stabilito solo in forza della legge 8 giugno 1990.


I comuni (ina 546).


Nel confronto con quelle regionali e provinciali, le amministrazioni comunali si caratterizzano molto nettamente, poiché si pongono nel più diretto ed immediato rapporto con le rispettive collettività locali. È in questa prospettiva che il nuovo ordinamento riconosce testualmente ai comuni una competenza generale, senza più riprendere la vecchia distinzione fra le funzioni obbligatorie e quelle facoltative. Ma il "regime di uniformità" non manca di subire eccezioni di notevole rilievo. Le leggi generali della repubblica sono in grado di introdurre categorizzazioni che tengano conto delle oggettive ragioni di diversità. Ed in questi termini si spiegano i tre principali ordini di deroghe: primo, con riferimento alle circoscrizioni di decentramento comunale, che vanno istituite nei comuni capoluogo di provincia ed in quelli con popolazione superiore a 100.000 abitanti; secondo, nei riguardi delle cosiddette aree metropolitane; terzo, nell'ambito di quelle comunità montane dove i comuni sogliono essere sottodimensionati. Va considerato inoltre che la legge n. 142 ha dotato anche gli enti territoriali minori di una specifica autonomia statutaria. Su questa base ogni comune ha infatti dettato "le norme fondamentali per l'organizzazione dell'ente". L'atto normativo in questione ha appunto il nome di statuto, da approvare a maggioranza assoluta, con voto favorevole ripetuto per due volte; e lo statuto prevale sulla generalità dei regolamenti comunali, compresi quelli di più notevole rilievo. Ciò non toglie che la forma di governo degli enti in esame risulti sostanzialmente predeterminata dalla legge, ben più di quanto sia dato riscontrare per le regioni ordinarie. Gli organi essenziali del comune continuano a consistere nel consiglio, nella giunta e nel sindaco. Di essi, direttamente formati dagli elettori sono tanto il consiglio quanto il sindaco; e il sistema elettorale costituisce l'oggetto di un'apposita disciplina legislativa statale. La legge stessa distingue i comuni con popolazione sino a 15.000 abitanti da quelli con popolazione superiore. Nel primo caso l'elezione si effettua ad unico turno. Nel secondo caso, vale a dire per tutti i comuni più importanti, il sindaco viene eletto al secondo turno, mediante ballottaggio fra i due candidati che nel primo turno abbiano ottenuto il maggior numero di voti; mentre la lista i le liste collegate al candidato vincente si vedono assegnato il 60 per cento dei seggi del consiglio. A propria volta, la giunta acquista una competenza generale o residuale, deliberando "gli atti di amministrazione che non siano riservati dalla legge al consiglio". Permane tuttora il rapporto di fiducia fra il consiglio e la giunta. Per meglio dire, il consiglio non costituisce più di altri due organi fondamentali, ma si può soltanto approvare una "Mozione di sfiducia". Senonché tale atto produce automaticamente lo scioglimento del consiglio medesimo, per l'ovvia ragione che un sindaco direttamente eletto dal popolo non può essere sostituito in forme diverse. Con tutto questo, il sindaco mantiene la duplice veste già nota nel passato ordinamento. D'altro lato egli è l'organo di vertice del comune. D'altro lato egli esercita una serie di attribuzioni concernenti "servizi di competenza statale", agendo quale ufficiale del governo: donde il giuramento che il sindaco è tenuto a prestare al prefetto, prima di assumere le proprie funzioni.


Le province (ina 550).


Uno fra i cardini del nuovo ordinamento delle autonomie locali va ricercato nel ruolo di ente intermedio fra le regioni e i comuni, mediante il quale si è inteso rivitalizzare le province.


Le province sono ora concepite come enti ai quali spettano "le funzioni amministrative di interesse provinciale che riguardino vaste zone intercomunali o l'intero territorio provinciale". Inoltre, a tali compiti di gestione si aggiungono i compiti di programmazione, consistenti sia nel concorrere alla formazione dei programmi regionali, coordinando le eventuali proposte dei comuni, sia nell'adottare "propri programmi pluriennali", come pure il "piano territoriale di coordinamento". Con tutto questo, però, il ruolo che le amministrazioni provinciali verranno ad assumere permane alquanto incerto, giacché le province dovranno per un verso fare i conti con le attribuzioni comunale e per l'altro con quelle regionali. Sul piano organizzativo, viceversa, province e comuni sono strettamente assimilabili. Entrambi sono dotati di tre organo fondamentali, che per le province assumono il nome di consiglio, di giunta e di presidente. Le sole eccezioni di rilievo attengono a quelle specifiche parti del territorio nazionale che verranno assoggettate al regime delle aree metropolitane. Ma la delimitazione territoriale della aree medesime dovrà essere effettuata con legge regionale. È appunto la provincia che verrà a conurarsi come "autorità" e come "città metropolitana". Quanto ai comuni inclusi nell'area, essi rimarranno in vita ma non conserveranno tutte le loro funzioni originarie, giacché la provincia dovrà essere dotata dei compiti aventi "precipuo carattere sovracomunale", o comunque tali da richiedere uno svolgimento coordinato. Sicché le autorità metropolitane si risolveranno in una sorta di super-province, sia pure dotate di caratteristiche profondamente diverse le une dalle altre.


La tipologia delle situazioni soggettive nel diritto costituzionale (ina 555).


Mentre le libertà nel senso stretto formano il tema di determinate disposizioni della parte prima della carta costituzionale, per intendere compiutamente la condizione dei cittadini e delle persone in genere entro il nostro ordinamento, occorre allargare l'indagine all'intero complesso dei "rapporti civili", "etico sociali", "economici" e "politici" considerati dalla costituzione stessa.


Ma come vanno classificate e definite le svariatissime situazioni soggettive che la costituzione disciplina? Le norme costituzionali in esame non si limitano a conurare quelle posizioni di favore o di vantaggio, comunemente dette situazioni attive; ma si collocano anche sull'opposto versante delle situazioni passive o di svantaggio, con particolare riguardo ai doveri e agli obblighi costituzionalmente imposti. Ma la tipologia delle ure stesse è molto più eterogenea. Basta scorrere il testo costituzionale, per avvedersi che esso ragiona della libertà e delle libertà fatte consistere nei contenuti di altrettanti diritti costituzionalmente garantiti. Inoltre accanto ai diritti soggettivi strettamente intesi, la costituzione considera in più punti gli interessi legittimi, come pure una serie di situazioni attive facenti capo a determinate funzioni sociali. Per contro, ricorrono anche gli accenni ai doveri, variamente detti inderogabili, civici, sacri, come pure agli obblighi dei cittadini o di determinate istituzioni. Ma i riferimenti testuali non coprono affatto l'intera gamma delle situazioni in discussione; tanto è vero che in dottrina si tratta altresì di pretese e di facoltà, di poteri e di stati di soggezione.


Prima bisogna introdurre il concetto di libertà. Il significato più noto e diffuso di tale termine è riferito ad una situazione di "non impedimento" o di "Non costrizione". Si tratta di "Libertà a contenuto negativo" ed anzi di uno status negativus, nel quale potrebbero includersi tutti i singoli diritti di libertà, specificamente garantiti dalle stesse costituzioni. Di qui ricava lo spunto la concezione della libertà giuridica come pretesa di non essere impediti nell'esercizio delle proprie facoltà. Da un lato la costituzione repubblicana considera, garantisce e delimita specificatamente una serie di particolari situazioni attive; sicché l'immaginare che esse siano tutte conglobate in una indistinta libertà giuridica diverrebbe causa di gravi confusioni. D'altro lato il concetto della libertà come non-costrizione trascura la circostanza che molti diritti di libertà presentano tanto un profilo negativo quanto un profilo positivo.


Siffatti momenti positivi possono essere della più varia natura secondo diverse ipotesi. Alcuni diritti di libertà implicano l'esercizio di facoltà materialmente intese, riducendosi ad altrettante libertà di fatto: per esempio nel caso della libertà personale, intesa come libera disponibilità del proprio corpo. In altri casi invece i diritti in questione includono la titolarità e l'esercizio di poteri implicanti la produzione di effetti giuridici.


Nell'ambito dei poteri stessi, poi, si possono distinguere le potestà spettanti alle cosiddette "autorità private". È in quest'ultimo campo che si collocano anche "i poteri di conformazione", più comunemente noti come diritti potestativi, atti a modificare non solo la propria ma l'altrui sfera giuridica. Quanto si è detto finora non deve far pensare, tuttavia, che le situazioni attive di cui si discute siano sempre concepibili come diritti soggettivi. La garanzia costituzionale abbraccia gli interessi legittimi. In estrema sintesi, è sostenibile che entrambi i tipi di situazioni attengano ad interessi specificamente protetti. Nel caso dei diritti soggettivi costituzionalmente rilevanti, ci si trova in presenza di diritti assoluti. Nel caso degli interessi legittimi è tradizionale l'assunto che si tratti di situazioni intimamente collegate con l'interesse pubblico. Nondimeno, rimane profondo il divario intercorrente fra gli interessi legittimi e gli interessi semplici o di mero fatto. I primi sono definibili come "interessi qualificati alla legittimità dell'attività amministrativa".


Ancor meno lineare e sicura si presenta la distinzione centrale nel campo delle situazioni passive, cioè quella che passa fra doveri ed obblighi. Ma occorre avvertire che il linguaggio della carta costituzionale non è in linea con queste sottili distinzioni. Effettivamente, in più punti si tratta dei doveri nel senso di obblighi. Per contro, non mancano i passi che usano il termine obblighi, dove sarebbe stato più proprio parlare di doveri. Nella costituzione italiana, perciò, le due locuzioni si dimostrano perfettamente fungibili.


Principio personalista e principio pluralista (ina 561).


Alla base della proposizione di cui si discute vi è la pretesa di veder riconosciuta "la precedenza sostanziale della persona umana rispetto allo stato e la definizione di questo al servizio di quella". È pur sempre ai sensi dell'ordinamento giuridico italiano che si deve stabilire in che cosa consistevano i vari diritti inviolabili e quali siano dunque le corrispettive garanzie, a cominciare da quella che fa capo alla corte costituzionale: il che comporta che i diritti stessi "si risolvono integralmente nel diritto positivo". Appare incontrovertibile, comunque, che l'art. 2 Cost. concorre in tal modo a definire la stessa forma di stato, ponendo a base di essa, oltre al principio democratico, il principio personalista ovvero quello che altri denomina principio liberale. I "diritti inviolabili dell'uomo" non sono pertanto concepibili come il frutto di un'autolimitazione dello stato repubblicano, ma rappresentano un dato congenito dell'ordinamento statale vigente. Ne segue che l'inviolabilità dei diritti non si risolve nell'imprescrittibilità, nell'inalienabilità, nell'indisponibilità di tali situazioni ma implica altresì la loro intangibilità ad opera di qualsivoglia pubblico potere, comunque esplicato. Più precisamente, bisogna a questa stregua ritenere che tali diritti non si prestino ad essere soppressi: giacché ne verrebbe alterato il nucleo essenziale della vigente forma di stato.


Rispetto ai diritti pubblici soggettivi, i "diritti inviolabili" divergono perché spettano agli uomini in genere e non solamente ai cittadini. Vero è che l'opinione dottrinale ha tratto argomento dall'intitolazione della parte prima della carta costituzionale, riferita ai soli "diritti e doveri dei cittadini"; ed ha messo in luce come "la condizione giuridica della straniero" venga "regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali". Ma in linea di principio può dirsi abbastanza pacifico che sia connaturale a vari diritti di libertà la loro appartenenza ad ogni essere umano sottoposto al nostro ordinamento, anche se la costituzione non chiarisce testualmente quali siano i loro titolari. Ed anzi si può riscontrare che almeno una delle situazioni attive costituzionalmente garantite riguarda in modo specifico i soli stranieri: vale a dire il diritto di asilo. D'altro canto, la cerchia dei soggetti cui sono riferiti i "diritti inviolabili" è ulteriormente allargata da quel passo dell'art. 2 Cost. in cui si ragiona delle formazioni sociali: fondamentalmente intese quali "comunità intermedie" fra singoli e la repubblica. Accanto al principio personalista emerge in tal modo il principio pluralista, assai variamente concretato da una serie di successivi disposti costituzionali. Sempre di regola, infine, dovrebbe dirsi che i "diritti inviolabili" non possono spettare alle formazioni sociali se non mediatamente; giacché i loro titolari immediati dei diritti stessi sarebbero pur sempre le sole persone fisiche.


L'individuazione dei "diritti inviolabili": serie chiusa o serie aperta? (ina 566).


Ma quali situazioni debbono venire definite come "diritti inviolabili"? La carta costituzionale denomina espressamente "inviolabili" talune situazioni attive: quali la libertà personale, di domicilio e di comunicazione, come pure il diritto di difesa giudiziale. Ma non può dubitarsi che nel quadro rientrino altri diritti fondamentalissimi: a cominciare dalla libertà d'associazione e di manifestazione del pensiero. Ancor più decisiva è la considerazione che i tre principi ai quali si informa questa parte della costituzione - quello democratico, quello personalista e quello pluralista - fanno parte di un comune disegno, integrandosi e sostenendosi a vicenda; sicché non sono contestabili le premesse democratiche del principio personalista, sebbene le prime non esauriscano del tutto il secondo. Nell'individuazione di tali diritti occorre guardare anche al titolo dei "rapporti politici", quali il diritto di voto e la libera associazione in partiti. Ma non si possono nemmeno escludere i "rapporti economici", di cui al titolo terzo della parte prima. Da un lato, l'intera repubblica è stata "fondata sul lavoro", tanto che un'autorevole corrente dottrinale ha proposto di inserire il "principio lavorista" accanto ai principi democratico, personalista e pluralista.


Detto ciò bisogna subito aggiungere che il conseguente quadro dei "diritti inviolabili" appare quanto mai disomogeneo. In comune tali situazioni hanno unicamente la posizione ad essa spettante "nella scala dei valori costituzionali": vale a dire la loro coessenzialità rispetto alla forma di stato vigente in Italia. Al di là di questo dato, s'impongono invece accurate distinzioni interne, sul tipo di quella fra diritti individuali e diritti funzionali. Si suole sostenere che trovino "in se stessi la propria esclusiva finalità". Degli altri si afferma che sarebbero contraddistinti dalla loro "funzione sociale". Ora l'utilità e la stessa validità della contrapposizione fra diritti individuali e funzionali sono state messe in dubbio, soprattutto perché entrambi sarebbero riconosciuti e garantiti anche in vista del buon funzionamento del sistema. Ma queste obiezioni, di per sé fondate, non tolgono che la distinzione sia pur sempre producente, in vista dei limiti che le rispettive situazioni si prestano a subire. Alcuni fra i "diritti inviolabili" non tollerano altro che i limiti immediatamente e specificamente risultanti dalla costituzione, accanto a quelli imposti dall'esigenza di non pregiudicare oltre misura quei valori costituzionalmente garantiti. In altri campi la disciplina costituzionale si risolve nell'assicurare la presenza di certe specie di situazioni attive, devolvendo alla legge ordinaria il compito di determinarne i confini. Si deve avvertire però, che la conurazione dei diritti del primo tipo richiede comunque, nel più vario senso, il bilanciamento degli interessi in gioco. Le scelte inerenti ad un tale contemperamento spettano innanzitutto alla legge. All'organo della giustizia costituzionale compete cioè, per prima cosa, verificare se a fondamento delle norme limitative dei diritti in questione vi siano altri interessi costituzionalmente meritevoli.


Sino a pochi anni fa, l'orientamento della corte costituzionale era comunque nel senso che la formula dell'art. 2 fosse riassuntiva delle situazioni giuridiche attive puntualmente considerate nel seguito della costituzione. Vero è che la giurisprudenza costituzionale non ignorava l'esistenza di "diritti inviolabili" non previsti dalla costituzione. Così il "diritto alla vita" veniva fin d'allora definito come "premessa naturale di qualsiasi altra situazione costituzionalmente protetta". Più in generale, la corte ammetteva la sussistenza dei "diritti fondamentali inviolabili . necessariamente conseguenti a quelli costituzionalmente previsti.


Il che concorre a spiegare per quali motivi la giurisprudenza costituzionale più recente abbia ragionato dell'inviolabilità del "diritto all'abitazione". Le potenze normative dei disposti costituzionali concernenti i diritti fondamentali "sono talmente ampie ed elastiche da ricomprendere" quei "nuovi diritti" che lo sviluppo della coscienza sociale proponga. In altre parole, ciò che consente quasi sempre di giungere a conclusioni soddisfacenti nei singoli casi è la reciproca "integrazione" delle norme stesse.


Le garanzie comuni alle situazioni soggettive costituzionalmente rilevanti; la riserva di legge; l'eguaglianza (ina 573).


La classificazione e l'analisi delle situazioni soggettive rilevanti ai fini del diritto costituzionale debbono essere precedute dell'esame delle rispettive garanzie. Ed anzi accade che tali precetti diano corpo ad ulteriori situazioni attive, aventi la natura delle "libertà-garanzie".


In un'accezione assai larga del termine, fra le garanzie delle libertà fondamentali possono farsi rientrare le riserve di legge. Senonché le molte riserve risultanti dalla parte prima della costituzione sono pur sempre contraddistinte dal loro "valore garantista", che consiste nel sottrarre le libertà fondamentali alle arbitrarie incisioni altrimenti effettuabili dal potere esecutivo. In altre parole, il potere di comprimere le libertà medesime, disponendo dei loro limiti nella misura costituzionalmente consentita, può dirsi così attribuito al solo parlamento. Più volte però la garanzia risulta accentuata dalla caratteristiche proprie delle singole riserve. È questo il caso delle cosiddette riserve rinforzate od aggravate, alle quali corrisponde l'obbligo "di conferire alle leggi un certo contenuto", o di conseguire certi scopi, appositamente indicati dalla costituzione. In secondo luogo si danno riserve testualmente informate all'esigenza che il legislatore disponga "in via generale"; il che vale ad escludere le discipline legislative speciali. Ed in terzo luogo si aggiungono i casi in cui la legge, nella sua esclusiva competenza a regolare certe fattispecie, è vincolata al principio d'irretroattività. Anche la garanzia dell'eguaglianza davanti alla legge, nei generalissimi termini in cui viene proclamata dall'art. 3 Cost. non va concepita in funzione della sola tutela dei "diritti inviolabili". È stato infatti notato che si tratta di un principio dell'intero ordinamento, dal quale discende il solo limite generale della funzione legislativa. Ma questo non toglie che l'imperativo del pari trattamento si dimostri molto rigoroso, dal momento che la proclamazione di ognuno dei diritti in esame può concepirsi "quale specificazione ulteriore del principio di eguaglianza". Inoltre, alcune di tali specificazioni si rinvengono all'interno dell'art. 3 là dove si prescrive l'eguaglianza "senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, di condizioni personali e sociali". Più precisamente quanto al sesso si afferma "l'uguaglianza morale e giuridica dei coniugi" che equipara i diritti della "donna lavoratrice" a quelli propri dei lavoratori. Ferma restando l'assoluta irrilevanza della razza, più complesso è il discorso concernente la lingua. Per sé considerato l'art. 3 non offre nulla più che una tutela negativa, garantendo a tutti i cittadini l'eguale "Libertà di lingua" e dunque escludendo differenziazioni dovute all'uso dell'uno o dell'altro linguaggio. Ma l'eguaglianza giuridica può risentire assai sensibilmente dei particolari regimi attribuiti alle singole minoranze linguistiche.


Considerazioni in parte analoghe valgono anche per quanto concerne il principio dell'eguaglianza sostanziale, come proclamato dal secondo comma dell'art. 3 Cost. In dottrina si è sostenuto che la rimozione degli "ostacoli di ordine economico e sociale", limitanti "di fatto" la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, si risolverebbe in una pura e semplice "promessa" senza contenere alcuna "regola giuridica". Ma questa polemica svalutazione finisce per eccedere il segno. La proclamata esigenza dell'eguaglianza sostanziale o materiale rappresenta il titolo giustificativo delle discipline indispensabili per attuare il programma in questione. L'eguaglianza formale di cui al primo comma e quella sostanziale non stanno quindi in antitesi reciproca; piuttosto, "l'eguaglianza sostanziale si aggiunge a quella formale riempiendola di contenuti più ricchi". Ma ciò non significa che nella meta dell'eguaglianza sostanziale si debba concretare per intero il "valore di giustizia" legittimante le discipline legislative differenziate.


Le garanzie relative alla giurisdizione (ina 578).


Solamente per atto motivato dell'autorità giudiziaria si possono restringere le libertà personale, di domicilio, di corrispondenza e di stampa. Rispetto agli organi dell'esecutivo le autorità giudiziarie offrono in tal campo maggiori garanzie nell'applicazione delle previe norme di legge. Accanto alle riserve di giurisdizione, però, ulteriori e più generali garanzie sono evidenziate dalle stesse disposizioni costituzionali sui "rapporti civili": a cominciare dal primo comma dell'art. 25, in cui si afferma che "nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge". Il principio del giudice naturale non si risolve nel divieto di istituire "giudici straordinari"; bensì concerne le modalità di "designazione del giudice in relazione a ciascuna regiudicanda". Per mezzo di esso si concreta la certezza del giudice, con riguardo a qualsiasi tipo di giudizio. In dottrina si è anzi ragionato di un "diritto al giudice naturale", mettendo in tal modo l'accento sul nesso riscontrabile fra tale garanzia e la tutela delle libertà fondamentali.


Giudice naturale è in linea di massima sinonimo di giudice in vista del quale la legge effettui una "previa determinazione della competenza, con riferimento a fattispecie astratte realizzabili in futuro". Essenziale in tal senso appare il requisito della precostituzione, da verificare rispetto al momento in cui l'azione viene esercitata. Così definita la regola non manca di subire importanti eccezioni. La corte costituzionale ha sostenuto in diverse occasioni che l'art. 25 primo comma non esclude del tutto le norme processuali retroattive. D'altro canto, la corte non ha mai negato che possa aversi un qualche "spostamento della competenza" dall'uno all'altro giudice. Di qui derivava e tuttora deriva un problema ricorrente, che può esser prospettato nei seguenti termini: la scelta del singolo magistrato nell'ambito di un composito ufficio giudiziario mette o meno in gioco il principio del giudice naturale? La corte costituzionale ha tendenzialmente risposto nel secondo senso, esigendo la preventiva individuazione del giudice, che deve postularsi legata a criteri di obiettività ed imparzialità"; ma nel concreto essa ha largamente ammesso che i dirigenti di ciascun ufficio possano e debbano ripartire il lavoro fra i vari magistrati. È in questa prospettiva che occorre chiedersi se la naturalità del giudice debba essere distinta dalla precostituzione. Ma le scelte discrezionali che la corte ha finito per giustificare incrinano l'assunto che la precostituzione s'imponga in maniera assoluta. Nel campo della giurisdizione non trovano posto le sole garanzie di diritto oggettivo, sul tipo di quella concernente il "giudice naturale", ma veri e propri diritti soggettivi. È questo soprattutto il caso del diritto-potestà di agire in giudizio; nonché il conseguente diritto di difesa. Le due componenti, l'azione e la difesa, concorrono anzi a formare un comune diritto alla tutela giurisdizionale. Quanto all'azione essa abbraccia la tutela di qualunque situazione soggettiva si vantaggio che abbia un "carattere sostanziale". Inoltre essa "deve trovare attuazione per tutti" - cittadini o stranieri o apolidi - "indipendentemente da ogni differenza di condizioni personali o sociali". È quindi venuta meno l'antica esclusione degli atti politici del governo dal novero dei provvedimenti impugnabili presso i giudici amministrativi; formano infatti eccezione i solo "atti costituzionali" del potere esecutivo. Tuttavia, il precetto dell'art. 24 non si risolve nell'assicurare l'accesso ad un giudice; bensì comporta che sia garantita "l'effettività" della tutela, togliendo di mezzo "qualsiasi limitazione che ne renda impossibile o difficile l'esercizio da parte di uno qualunque degli interessati". Così la giurisprudenza costituzionale è costante nell'assumere che i termini processuali per l'esercizio dell'azione non debbano essere tanto brevi da vanificarlo, ma ragionevoli e congrui, "in relazione alla funzione assegnata all'istituto nel sistema dell'intero ordinamento giuridico". La corte ha sempre richiesto che le parti abbiano conoscenza degli eventi dai quali può dipendere l'estinzione del processo. Con questo fondamento sono stati eliminati vari ostacoli che precludevano il ricorso alla tutela giurisdizionale: quale la cautio pro expensis, per cui l'attore non ammesso al gratuito patrocinio poteva venire obbligato a prestare cauzione; o quale il solve e repete, onde il contribuente doveva versare il tributo in questione, prima di poterlo contestare innanzi al giudice. La corte stessa ha ripetutamente sostenuto che anche in questo campo si possono imporre esigenze di economia processuale, tali da escludere un immediato avvio del giudizio; ed ha tenuto ferme svariate ipotesi di giurisdizione condizionata, nelle quali l'esercizio dell'azione è subordinato al previo esperimento di rimedi extragiudiziali. Più in generale, la giurisprudenza costituzionale ha sempre insistito nel senso che il legislatore ordinario possa differenziare le discipline riguardanti i vari tipi di processi. E questa giusta premessa ha talvolta generato conseguenze assai discusse.


Nei processi di parte vige tendenzialmente il principio della cosiddetta parità delle armi fra i soggetti della controversia; ed è notevole che in questo quadro rientrino non solamente i giudizi civili ed amministrativi, ma anche quelli penali. Il perno della difesa è infatti costituito dal contraddittorio fra le parti stesse: cioè dalla concreta "possibilità di tutelare in giudizio le proprie ragioni", proponendo a tal fine domande ed eccezioni, ovvero opponendosi a quelle avanzate dalla controparti, prima che il giudice si pronunci sul punto. Il che non vieta che il contraddittorio sia talvolta differito. Ancora una volta, ciò presuppone che i termini processuali siano congruamente stabiliti; che l'interessato "sia posto in grado di potersi difendere", avendo tempestiva conoscenza degli atti processuali e che soprattutto gli sia garantito il diritto alla prova circa i fatti sui quali le sue ragioni si fondano.


In linea di massima invece la corte costituzionale ha negato che le garanzie dell'azione e della difesa abbiano implicitamente costituzionalizzato il principio del doppio grado di giurisdizione. Ma il diritto di impugnazione tende pur sempre ad affermarsi sulla base del principio di eguaglianza: giacché la sistematica conurazione dell'appello prova sovente di giustificazione quelle isolate norme da cui rimane esclusa qualunque possibilità di gravame. A tutti questi effetti l'art. 24 secondo comma non garantisce la sola difesa personale bensì la difesa tecnica, consistente nell'assistenza del difensore. La particolare complessità delle questioni esige infatti che patrocinatori professionali provvedano "alla corretta e completa prospettazione, in termini giuridici, delle ragioni e richieste della parti". Il gratuito patrocinio dovrebbe, in verità, formare un'essenziale componente della parità delle armi. È sempre in questi termini che possono inquadrarsi le notevolissime pronunce adottate dalla corte, quanto alla difesa dell'imputato. La corte ha ritenuto a vari effetti necessaria la presenza del difensore in sede di istruzione sommaria, di interrogatorio istruttorio in genere, di acquisizione di prove e persino di indagini di polizia giudiziaria. Di più: nel momento in cui certi imputati per fatti di terrorismo rifiutarono la difesa tecnica, la corte obiettò che tali assistenza può essere non solo consentita ma imposta dal legislatore ordinario. L'interesse dell'imputato ad ottenere il riconoscimento della propria innocenza rappresenta il valore primario da proteggere. E sulla presunzione di non-colpevolezza si fondano ben determinate regole di trattamento e di giudizio: sia perché la carcerazione preventiva dev'essere coordinata con il precetto dell'art. 27; sia perché ne deriva il diritto al silenzio, usando del quale non si viene costretti ad autoincriminarsi in sede processuale; sia perché, a questa stregua, il nuovo codice di procedura penale ha potuto eliminare la formula dell'assoluzione per insufficienza di prove, disponendo che l'alternativa alla condanno sta solo nel pieno proscioglimento dell'imputato.


Le garanzie relative all'amministrazione; le responsabilità dei funzionari e dipendenti pubblici (ina 587).


Nel campo delle attività amministrative urano alcune garanzie di diritto oggettivo. Fondamentale è l'imperativo che i pubblici uffici vengano "organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione". Da questa previsione emerge il principio di legalità dell'amministrazione. Strettamente connesso è il principio di imparzialità dell'amministrazione stessa. Da un lato si tende a ricavarne una "istanza democratica"; ed effettivamente la democraticità della pubblica amministrazione trova parecchi riscontri nella carta costituzionale. D'altro lato si suole desumere dall'art. 97 l'esigenza di uno stacco tra la sfera della politica, naturalmente parziale e quella propria delle funzioni amministrative. Ma un tale stacco risulta a sua volta difficile, se non impossibile. Non a caso diversa è la strada frequentemente seguita negli ultimi anni, che consiste nella istituzione di autorità indipendenti, scisse dalle pubbliche amministrazioni di stampo tradizionale e non sottoposte ai poteri governativi di vigilanza e di indirizzo.


Ancor più controversa è la questione se l'imparzialità sancita dall'art. 97 includa o meno il principio del giusto procedimento. È costituzionalmente indispensabile "udire gli interessati prima dell'emanazione dell'atto" e dunque esercitare le funzioni amministrative "in ideale contraddittorio" con gli interessati stessi? La corte costituzionale lo ha negato. Ma anche in dottrina sembra prevalente la tesi che l'attuazione di un giusto procedimento sia rimessa alle singole norme di legge in tema di partecipazione e di contraddittorio amministrativo.


Altro è il piano sul quale si colloca quell'art. 28 Cost. "i funzionari e i dipendenti dello stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili degli atti compiuti in violazione dei diritti". Alle dette responsabilità corrisponde il potere di richiedere ed ottenere il risarcimento del danno. Il che contribuisce a garantire gli altri diritti, in violazione dei quali abbiano agito i funzionari pubblici, specialmente nell'esercizio dell'amministrazione. La formula costituzionale "in violazione" comporta che la lesione possa essere imputata a chi l'abbia materialmente prodotta. Accade che gli impiegati civili dello stato vengano chiamati a rispondere meno duramente di quanto è disposto per la generalità dei soggetti privati: giacché l'azione di risarcimento nei loro confronti può essere esercitata soltanto in vista di violazioni commesse "per dolo o per colpa grave". La corte costituzionale non ha aderito alle tesi che vorrebbe far gravare la responsabilità civile in termini identici per tutti. La corte è costante nel sostenere che la responsabilità in questione possa essere "disciplinata variamente per categorie o per situazioni". Di più: nello stesso interno della cerchia formata dai funzionari e dai dipendenti possono perciò verificarsi disparità di trattamento.


In definitiva, il solo dato sicuro che si trae da questa parte dell'art. 28 consiste nel divieto di escludere del tutto le responsabilità dei funzionari e dei dipendenti pubblici, salvo che si tratti di comportamenti obbligati. Nella prospettiva del risarcimento dei danni l'azione proponibile contro il funzionario personalmente responsabile non rappresenta il mezzo più producente allo scopo; ed è viceversa preferibile chiamare senz'altro in giudizio lo stato. L'art. 113 presuppone infatti che gli atti amministrativi in violazione di diritti siano imputabili allo stato quantunque illegittimi; e su questa base risulta perciò confermata la tradizionale idea della diretta responsabilità dei pubblici apparati. Senonché la tesi corrente in giurisprudenza e prevalente in dottrina è invece nel senso che le pubbliche amministrazioni rispondano immediatamente dell'una al pari che degli altri; salvo soltanto l'eventuale esercizio del loro potere di rivalsa nei confronti del funzionario o del dipendente responsabile in prima persona. In effetti, la stessa corte costituzionale ha sostenuto che la responsabilità dello stato non presuppone quella dei funzionari o dei dipendenti pubblici, ma "si accomna" ad essa.


Restano scoperte le lesioni degli interessi legittimi, per le quali le pubbliche amministrazioni non sono tenute a rispondere. Ma i giudici ordinari tendono a superare l'ostacolo mediante una conurazione molto ampia dei diritti stessi. Sicché si può ben dire che il principio del neminem ledere vale per lo stato e per gli enti pubblici, a prescindere dalla soggettiva colpa di taluno.


Cenni sulle situazioni soggettive di svantaggio (ina 593).


I doveri e gli obblighi sono fissati nella prima parte della costituzione. Ma la dottrina si propone di distinguere fra "doveri di solidarietà politica" e "doveri di solidarietà economica e sociale": alla base dei quali si porrebbe un comune "principio costituzionale di solidarietà". Più precisamente fra i doveri di solidarietà politica spicca la fedeltà alla repubblica; e si tende soltanto ad ammettere che il legislatore ordinario possa colpire le azioni che compromettano la "fedeltà materiale allo stato". Più delicato, se mai, è il caso del dovere di adempiere le pubbliche funzioni "con disciplina ed onore". Quella gravante sui funzionari pubblici è infatti una "fedeltà qualificata", cui si connettono obblighi specifici: dal divieto di iscriversi a partiti politici, fino ai limiti che può incontrare la libera manifestazione delle proprie opinioni, a causa dell'impiego ricoperto. Ma rimane fermo che in Italia l'accesso e la permanenza nei pubblici uffici devono di regola prescindere dalle opinioni politiche degli interessati. Maggiormente precisi risultano i contorni del dovere di prestazione militare nel quadro del più generale dovere di difesa della patria. Il servizio militare è infatti obbligatorio "nei limiti e modi stabiliti dalla legge". La legge stessa ha potuto introdurre con questo fondamento la cosiddetta obiezione di coscienza. La corte costituzionale ha sostenuto che il dovere di difesa è "ben suscettibile di adempimento attraverso le prestazioni di adeguati comportamenti di impegno sociale non armato". Nel campo dei doveri di solidarietà economica e sociale occorre ricordare in primo luogo il dovere di istruzione. Ma l'obbligo scolastico rappresenta un minimo indispensabile. In secondo luogo si colloca il dovere di concorrere alle spese pubbliche. Sebbene inserito nel titolo dei "rapporti politici" tale dovere ha per oggetto prestazioni tributarie, che non gravano sui soli cittadini, ma su tutti i percettori di reddito nel territorio dello stato.


I fattori condizionanti l'esercizio dei diritti di libertà. (ina 599).


Malgrado i diritti di libertà siano costituzionalmente attribuiti a tutti gli uomini, i loro titolari non si trovano sempre in situazioni di assoluta parità reciproca. Universale è soltanto la capacità giuridica di diritto privato. La specifica disposizione costituzionale, onde "nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica", va tuttavia riferita alla cosiddetta capacità di diritto pubblico. S'intende, allora, che i veri problemi non riguardano la capacità giuridica tradizionalmente intesa, ma investono piuttosto la capacità di agire, nell'esercizio dei diritti costituzionalmente rilevanti. In primo luogo, va sempre tenuto presente il fattore dell'età, nel senso che la capacità di agire si acquista "al compimento del diciottesimo anno". In secondo luogo, anche in correlazione con l'età, possono avere un determinante rilievo gli ordinamenti speciali: dalla famiglia all'impresa, concepita quale comunità di lavoro, dalle forze armate fino agli istituti di prevenzione e pena. I soggetti sottoposti a tali ordinamenti subiscono infatti, nell'esercizio delle loro libertà fondamentali, le più varie specie di limitazioni. La gerarchia dei valori costituzionali esige che le libertà fondamentali non vengano negate o compromesse. In terzo luogo, su tutt'altro piano, possono rientrare le situazioni di emergenza, che coinvolgano l'intero paese o determinate parti di esso. Al di là della guerra si può ritenere che altre e minori esigenze legittimino la sospensione di norme costituzionali, a cominciare dal campo dei "diritti inviolabili"? Fra i costituzionalisti italiani sono state proposte due diverse soluzioni: primo che il procedimento dell'art. 78 si presti a venire utilizzato in qualunque caso di effettivo pericolo interno o esterno, sicché lo stato di guerra verrebbe a ricomprendere lo stato di assedio; secondo, che il governo possa invece servirsi di decreti-legge temporaneamente deroganti alle norme costituzionali. Altro è il problema se l'emergenza possa incidere non sull'efficacia ma sulla interpretazione delle norme costituzionali concernenti le libertà fondamentali. La corte costituzionale ha risposto affermativamente, soprattutto con riferimento ai limiti massimi della carcerazione preventiva.


La libertà personale (ina 603).


Fra le situazioni soggettive attive che vanno analizzate in questa sede spiccano i diritti civili. In Italia le stesse situazioni sono accomunate sotto il nome di diritti della personalità o della persona. Nel più stretto quadro dei rapporti giuridici, una volta esclusi i diritti-garanzia, tre sono invece le situazioni fondamentali: la libertà fondamentale, la libertà di pensiero e la libertà di associazione. Fra queste la libertà personale parrebbe anzi la più comprensiva, fino al punto di abbracciare la totalità o una buona parte delle altre. Un siffatto esito interpretativo diverrebbe inevitabile se l'aggettivo personale venisse concepito come sinonimo di individuale. Il concetto estensivo della libertà personale viene per altro respinto da una notevole corrente dottrinale soprattutto perché non si concilia con l'insieme dei disposti dettati sul punto dalla carta costituzionale. Ma qual è il rapporto fra la libertà personale ed altre libertà fisiche come quella di circolazione? Alcuni precisano che quelle coinvolte nell'art. 13 sono "misure degradanti", suscettibili di ledere la "pari dignità" sancita dall'art. 3 della Costituzione. In quest'ultimo senso si è pronunciata la corte costituzionale. Dovunque un individuo venga sottoposto ad una speciale sorveglianza di polizia, con l'imposizione di particolari obblighi di fare e non fare si parla di degradazione giuridica.


Le garanzie dalle detenzioni arbitrarie; le altre forme di restrizione della libertà personale (ina 605).


Il secondo comma dell'art. 13 Cost. stabilisce due ordini di garanzie. Prima fra queste è la riserva assoluta di legge; riserva ribadita dal terzo comma, circa i "provvedimenti provvisori" adottabili dall'autorità di pubblica sicurezza, in "casi eccezionali di necessità e urgenza", che la legge deve indicare "tassativamente". Al che si aggiunge una corrispondente riserva di giurisdizione: è infatti l'autorità giudiziaria che deve normalmente provvedere, in applicazione delle dette norme legislative. Inoltre, contro i motivati provvedimenti del giudice stesso è sempre ammesso ricorso in cassazione per violazione di legge. Rimane aperto il grave e ricorrente problema dei fini in vista dei quali l'arresto o la carcerazione o la custodia preventiva possono essere legittimamente previsti o imposti dalla legge. Quanto alle misure cautelari personali nei procedimenti penali bisogna domandarsi quand'è che si possa disporle a carico degli imputati. Allorché si tratti di eseguire sentenze di condanna a pene detentive che siano passate in giudicato, la restrizione della libertà personale non incontra ostacoli di ordine costituzionale. Viceversa, la sottoposizione degli stessi imputati a misure detentive deve fare i conti con la presunzione di non colpevolezza sancita dal secondo comma dell'art. 27 Cost.: il che concorre a spiegare per quali motivi la Corte costituzionale abbia argomentato "che la detenzione preventiva in nessun caso possa avere la funzione di anticipare la pena"; ma debba venire predisposta "unicamente in vista della soddisfazione di esigenze di carattere cautelare o strettamente inerenti al processo. Tuttavia la corte stessa ha notevolmente attenuato la potenziale portata di queste sue proclamazioni di principio. Essa ha subito stabilito che il legislatore possa limitare la libertà personale dell'imputato in nome "di una ragionevole valutazione dell'esistenza di un pericolo derivante dalla libertà di chi sia indiziato di determinati reati". D'altro lato, la giurisprudenza costituzionale ha costantemente negato l'illegittimità delle norme che prevedano mandati obbligatori di cattura. La carcerazione preventiva assolve una pluralità di funzioni, parte processuali parte di prevenzione speciale. Lo stesso art. 13 prescrive che in nessun caso le "persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà" possono formare oggetto di violenze fisiche o morali. La corte costituzionale non ha esitato ad annullare le norme dettate dal codice del '30 che limitavano alla fase istruttoria la scarcerazione automatica per decorrenza dei termini. Le gravi e generalizzate lentezze della giustizia penale italiana hanno per altro impedito che l'ultimo comma dell'art. 13 trovasse un'adeguata applicazione. Dal che la conseguenza abnorme che il numero dei detenuti in attesa di giudizio si dimostra spesso superiore a quello dei soggetti definitivamente condannati. Un parziale rimedio è ora costituito dalle misure alternative alla carcerazione, qual è specialmente l'arresto nella propria abitazione. Ma in tutte le ipotesi di ingiusta detenzione preventiva si applica la "riparazione degli errori giudiziari"; il diritto al amento di una somma di denaro può essere fatto valere in ogni caso di detenzione che si riveli illegittima.


Nelle medesime forme delle misure cautelari personali vanno poi disposte le altre restrizioni della libertà personale, a cominciare dalle ispezioni e dalle perquisizioni. Fra tutte, la disciplina più discussa attiene alle misure di prevenzione che possono venire imposte a carico di una vasta ed eterogenea serie di soggetti, dai vagabondi abituali a coloro che "abitualmente e notoriamente" siano dediti a traffici illeciti. Nel campo delle restrizioni della libertà personale s'inseriscono infine i "provvedimenti provvisori", variamente spettanti alle autorità di pubblica sicurezza. Il nuovo codice di procedura penale continua a prevedere numerose ipotesi del genere: dall'arresto obbligatorio e facoltativo al fermo dei soggetti indiziati di delitti. Ma nelle due prime ipotesi l'arresto o il fermo vanno convalidati dall'autorità giudiziaria, entro i termini fissati dall'art. 13 Cost.; mentre nella terza ipotesi è addirittura prescritta l'autorizzazione dal giudice.


La libertà di domicilio; la libertà di comunicazione (ina 611).


La cosiddetta libertà domiciliare è sottoposta al medesimo regime della libertà personale. Riserva assoluta di legge, riserva di giurisdizione, necessaria convalida delle ispezioni, delle perquisizioni e dei sequestri provvisoriamente disposti dall'autorità di pubblica sicurezza nei luoghi costituenti il domicilio. Il domicilio, in effetti, è stato inteso dalla carta costituzionale come "proiezione spaziale della persona" e come ambito nel quale la riservatezza viene maggiormente e più specificamente tutelata. Ma cosa s'intende per domicilio? Il domicilio corrisponde all'abitazione. Senonché la tesi non è generalmente accolta. Si tende a ritenere, infatti, che esista un'autonoma nozione costituzionale di domicilio, inclusiva di ogni ambito di cui si disponga "a titolo privato", compresi i luoghi di lavoro. Di qui deriva il diritto di escludere e di ammettere chiunque voglia introdursi nel domicilio, senza averne titolo. Fanno eccezione le "leggi speciali" che in vista di particolari "motivi di sanità e di incolumità pubblica" ovvero di specifici "fini economici e fiscali" possono consentire accertamenti ed ispezioni, senza l'osservanza delle garanzie riguardanti la libertà personale. Ma la stessa corte ha chiarito che il regime delle perquisizioni e dei sequestri, eccedente la "vigilanza amministrativa", rimane assoggettato alla rigorosa disciplina degli art. 12 e 14 della costituzione. Libertà e segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono state spesso collegate dal primo comma dell'art. 21 fino al punto di farne una "sottospecie" della libertà di manifestazione del pensiero. In primo luogo, corrispondenza e comunicazione sono qui considerate nella loro materialità, indipendentemente dai contenuti del pensiero così manifestato. In secondo luogo quelle considerate dall'art. 15 sono le "comunicazioni interpersonali", rivolte a destinatari previamente individuati. In terzo luogo, la garanzia dell'art. 15 si estende a coloro che ricevono il messaggio. D'altra parte è dubbio quali siano gli oggetti della garanzia in esame.


La polizia giudiziaria può solo sequestrare determinati oggetti; l'autorità giudiziaria ha il potere di autorizzare intercettazioni telefoniche. Questo a dimostrazione del fatto che per le comunicazioni segrete, la garanzia di libertà si dimostra più forte.


La libertà di circolazione e soggiorno; la libertà di espatrio; il diritto di asilo (ina 615).


Quanto alla circolazione e al soggiorno dei cittadini, l'art. 16 non fa riferimento alle garanzie della libertà personale. Il riesame dei diritti in questione è invece rimesso alla legge, sia pure sotto forma di riserva rinforzata. Inoltre, la riserva imposta dall'art. 16 sembra essere di tipo relativo e non assoluto. Ma la peculiarità di tali previsioni costituzionali non toglie che esse interferiscano con la disciplina della libertà personale. A questo si aggiunge che, in tema di circolazione e soggiorno, la condizione rispettiva dei cittadini e degli stranieri appare fortemente differenziata. Gli uni sono sempre in grado di spostarsi, di sostare, di fissare il proprio domicilio, si svolgere attività lavorative in qualunque parte dell'Italia. Quanto agli stranieri che il loro trattamento sia diverso risulta dallo stesso testo della costituzione. Fanno eccezione i soli cittadini degli stati membri dell'unione europea, per i quali vige piena libertà di circolazione e soggiorno, nonché uno specifico "diritto di stabilimento". A carico dei cittadini resta soprattutto il vago limite della sicurezza, che la corte costituzionale ha inteso come sinonimo di ordine pubblico. Ma in questi stessi termini è solamente l'ordine pubblico materiale, riferito all'incolumità delle persone e delle cose ovvero alla pacifica convivenza.


Nel secondo comma dell'art. 16 si aggiunge che "ogni cittadino è libero di uscire dal territorio della repubblica e di rientrarvi, salvi gli obblighi di legge". Da un lato, però, la libertà di rimpatrio p incondizionata, fino a quando perduri il rapporto di cittadinanza. D'altro lato, la libertà di espatrio è invece subordinata al rispetto degli obblighi specificamente stabiliti. Ma gli obblighi in questione debbono disporre di un qualche fondamento costituzionale. Si tratta cioè di tre generi di obblighi: quelli familiari, con particolare riferimento alla potestà genitoriale e al connesso "assenso dell'altro genitore"; quelli di giustizia, in vista di taluni procedimenti penali e quelli militari, soprattutto per quanto concerne il servizio di leva. Conclusioni analoghe si impongono per quanto riguarda la libertà di emigrazione. Anche in questo caso si deve ragionare di un diritto fondamentale. Ma gli obblighi di quest'ultimo tipo si risolvono in altrettanti oneri, poiché dalla loro osservanza può dipendere l'assistenza fornita dallo stato agli emigranti. Per contro l'ingresso degli stranieri extra-comunitari nel territorio dello stato non forma oggetto di situazioni costituzionalmente rilevanti, fatta eccezione per il diritto d'asilo.


Il regime delle prestazioni personali e patrimoniali imposte (ina 620).


La proclamazione della libertà personale non vale a garantire la libertà individuale. Ma sembra forzante l'interpretazione dottrinale, che vorrebbe ricavarne una globale tutela della libertà individuale dallo stato, non soltanto in vista degli obblighi di fare, bensì per fissare il regime delle stesse "prestazioni negative". Così concepite, le prestazioni personali imposte sulla base dell'art. 23 si riducono ai minimi termini. La più importante, che ha per oggetto il servizio militare obbligatorio, si fonda infatti sugli appositi disposti dell'art. 52; ed analoghi discorsi valgono per gli obblighi inerenti alle pubbliche funzioni ed ai rapporti di pubblico impiego. Fuori di ciò, l'imposizione di prestazioni personali non può certo essere illimitata, perché si oppone il principio fondamentale della libertà di lavoro. Molto più rilevante è la menzione delle prestazioni patrimoniali. Oggetto precipuo di questo passo della costituzione sono le obbligazioni tributarie. Ma il novero delle prestazioni patrimoniali imposte è alquanto più ampio, giacché vi sono inclusi tutti i prelievi di ricchezza autoritariamente stabiliti. In ogni caso, tutte queste imposizioni, personali o patrimoniali che siano, vengono sottoposte ad una riserva relativa di legge. La corte costituzionale ha genericamente risposto che la determinazione di ciascuna prestazione non va lasciata "all'arbitrio dell'ente impositore", sicché la legge di base deve indicare "i criteri idonei" a delimitarne la discrezionalità.


La libertà di manifestazione del pensiero (ina 623).


Della libertà di pensiero la corte costituzionale ha sempre sottolineato il carattere fondamentalissimo, in quanto "pietra angolare dell'ordine democratico". Ed effettivamente è questo un sommo bene. Il regime della libertà di pensiero per sé considerata è retto interamente dalla premessa che si tratti di un diritto individuale, "garantito al singolo come tale". Lo prova la circostanza che la libera manifestazione del proprio pensiero sia testualmente assicurata a "tutti", stranieri compresi; ed anzi spetti alle stesse formazioni sociali ed ai gruppi del più vario tipo. Tuttavia tanto i contenuti quanto i limiti della libertà di pensiero rimangono assai problematici. Ma che cosa si intende per manifestazione del proprio pensiero? La prevalentissima dottrina e la giurisprudenza della corte costituzionale non hanno esitato nel concludere che la libera manifestazione del pensiero corrisponde alla "Libertà di dare e divulgare notizie, opinioni, commenti". Ancora più arduo risulta lo sforzo mirante a separare pensiero ed azione; ma una tale distinzione è resa comunque necessaria dalla complessa problematica dei reati di opinione. Con questo fondamento si suole affermare la legittimità delle norme penali che incrinano l'istigazione a delinquere. Ma la giurisprudenza costituzionale si è spinta al di là di questo segno. Essa ha rigettato l'impugnazione della norma che sanziona la pubblica apologia dei delitti; essa ha più volte contrapposto il diritto di critica al vilipendio; ed ha tenuto ferme l'incriminazione del "dispregio delle istituzioni" da parte dei pubblici ufficiali.


Strettamente intrecciata alle questioni riguardanti i contenuti è la problematica dei limiti gravanti sulla libertà di pensiero; ma anche in tal senso la carta costituzionale non offre compiute indicazioni. Tutt'altro che univoco è l'unico riferimento contestuale al buon costume. La giurisprudenza costituzionale ha oscillato sul punto, ora assumendo che sarebbe in gioco la "pubblica decenza", ora facendo un generico richiamo alla "morale" senza ulteriori specificazioni. La carta costituzionale non prevede il limite dell'ordine pubblico; ma questo silenzio viene assai variamente interpretato. In dottrina è prevalente l'avviso che non si tratti di un valore costituzionalmente opponibile. La giurisprudenza costituzionale, viceversa, suole ricorrere proprio in tal campo ai cosiddetti limiti naturali delle libertà. L'analisi delle controversie considerate dalla corte fa capire come questa abbia avuto di mira, quasi sempre, l'ordinamento pubblico nel senso materiale. Resta pur sempre la necessità di non pregiudicare la libera manifestazione del pensiero se non per la tutela di beni o valori costituzionali. Ciò spiega lo sforzo di agganciare alla costituzione determinati valori sul tipo dell'onorabilità delle persone, evidentemente meritevoli di essere protetti in questa sede.


Il regime di diffusione; la stampa, la radiotelevisione, gli spettacoli.


Nel proclamare il diritto di libera manifestazione del proprio pensiero, il primo comma dell'art. 21 aggiunge che tale libertà può essere esercitata "con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione". "La costituzione garantisce sia la manifestazione del pensiero sia la divulgazione del pensiero dichiarato". Ciò non toglie che lo stesso art. 21 stabilisca un'apposita disciplina di principio, relativamente ad uno degli "altri mezzi": cioè con riguardo alla stampa e più di preciso alla stampa periodica. Si spiega in tal senso che la stampa non sia suscettibile né di autorizzazioni né di censure. L'unica misura consentita dal terzo comma consiste nel sequestro degli stampati, che può venire disposto dall'autorità giudiziaria esclusivamente "nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi". E la riserva di giurisdizione non può essere derogata se non ricorrono situazioni di "assoluta urgenza". A sua volta, però, il quinto comma dell'art. 21 ammette che la legge stabilisca "con norme di carattere generale, che siano resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica": all'evidente scopo di far si che i lettori individuino gli interessi sottostanti alle diverse imprese giornalistiche. Ma la legge sull'editoria si è spinta ben oltre, in quanto ha voluto precludere il formarsi di monopoli o di oligopoli; ed ha istituito a tal fine uno specifico "garante". Tuttavia, non si può condividere la tesi che le norme anti-trust contraddicano la libertà di diffusione del pensiero e la libera iniziativa economica.


La libertà di informazione, della quale si avvalgono giornalisti e direttori dei giornali, può considerarsi piena; e ad essa si aggiunge il comune "diritto di informarsi", riferito alla libera acquisizione di notizie. Nella prospettiva dei lettori si tratta invece di un mero interesse. Sotto vari profili lo status di coloro che svolgono la professione giornalistica rimane peculiare. Una chiara riprova di ciò consiste nell'esistenza di un apposito ordine dei giornalisti: la legittimità del quale, pur non contestata in dottrina, è stata più volte affermata dalla corte costituzionale e nella stessa letteratura giuridica. Effettivamente, sugli iscritti all'albo dei giornalisti gravano obblighi specifici di deontologia professionale, a cominciare da quello di rispettare "la verità sostanziale dei fatti". D'altronde è peculiare la condizione dei direttori, sui quali grava la responsabilità di controllare i contenuti dei rispettivi periodici. Ma i poteri-doveri spettanti a tali soggetti si ripercuotono, a loro volta, sui giornalisti stessi.


Il disinteresse dell'assemblea costituente nei riguardi dei massmedia diversi dalla stampa è testimoniato dal fatto che l'art. 21 Cost. non reca nemmeno la menzione delle diffusioni radiofoniche e televisive. Dopo un'attesa durata quasi tre lustri, è finalmente sopraggiunta la nuova disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato, dettata dalla legge 6 agosto 1990. La legge stessa prevede che imprese private possano ottenere concessioni per radiodiffondere programmi del più vario genere; ma non la condizione che non stabiliscano "posizioni dominanti" e che il medesimo soggetto non disponga di più di tre reti televisive nazionali, non superi il 25% del totale delle reti previste sul "piano nazionale di assegnazione" e non dia comunque luogo ad eccessive concentrazioni multimediali. Da ultimo, la tormentata materia è stata ancora una volta ridisciplinata dalla legge 31 luglio 1997. Il nuovo testo prevede il rilascio delle concessioni radiotelevisive di rilievo nazionale a favore di soggetti che non detengano una "posizione dominante", sia pure per il tramite di "soggetti controllati o collegati"; e affida ad un'apposita "autorità per le garanzie nelle comunicazioni" il compito di assicurare che non si realizzino situazioni "comunque lesive del pluralismo". Occorre che i titolari delle varie concessioni non irradino più del 20% dei programmi nazionali e che i proventi raccolti da ciascun soggetto non superino il 30% delle complessive risorse del settore televisivo in ambito nazionale.


Mentre la stampa e le stesse trasmissioni radio-televisive non tollerano censure, sul punto differiva il regime degli spettacoli.


La libertà di riunione (ina 638).


Quanto al "diritto di riunirsi" ricorre nella dottrina e in giurisprudenza costituzionale l'assunto che si tratti di una libertà strumentale: nel senso che la situazione attiva così garantita sarebbe servente rispetto ai più vari diritti individuali e collettivi. Ed è per questo motivo che giova parlarne subito dopo aver preso in considerazione la libertà di pensiero; anche se occorre avvertire che, nel caso delle riunioni, la relativa libertà viene testualmente conferita dall'art. 17 ai soli cittadini e non a tutti gli uomini. Perché si abbia riunione occorre comunque che più soggetti si incontrino nel medesimo luogo in vista di uno scopo comune. Ma le riunioni rimangono ben differenziate dalle associazioni. Al pari delle associazioni, tuttavia, anche le riunioni sono penalmente illecite, se tale risulta l'attività che per il loro tramite si svolge. La costituzione repubblicana assimila luoghi privati e luoghi aperti al pubblico: per luoghi privati intendendosi quelli disponibili per un uso privato da parte di determinati soggetti; mentre aperti al pubblico sono i luoghi materialmente chiusi o comunque separati dall'esterno, l'accesso nei quali sia libero, purché si osservino certe condizioni. L'obbligo di un tempestivo preavviso è dunque circoscritto, nell'ordinamento vigente, alle sole riunioni in luogo pubblico. Soltanto sulla base di altre previsioni può accadere che l'obbligo del preavviso venga meno: come nel caso delle riunioni elettorali. Per tutte le riunioni resta fermo, però, l'imperativo che esse si svolgano pacificamente e senz'armi. Non sono quindi vietata, o suscettibili di essere impedite, le sole riunioni penalmente illecite, ma tutte quelle che concretamente mettano in pericolo l'ordine pubblico materialmente inteso. Da ultimo va ricordato il problema della sorte spettante alle riunioni in luogo pubblico per le quali difetti il preavviso. La giurisprudenza costituzionale ha notevolmente oscillato sul punto. In un primo tempo, il preavviso è stato ritenuto indispensabile. In un secondo tempo, invece, la corte ha ritenuto che il preavviso rappresenti "un onere", posto a carico dei soli promotori; mentre gli altri partecipanti alla riunione non preavvisata eserciterebbero pur sempre "un diritto costituzionalmente protetto".


La libertà di associazione (ina 641).


Statuendo che "i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, l'art. 18 Cost. sembra presupporre un larghissimo concetto di associazione. Secondo l'opinione dottrinale prevalente, sono infatti tali le associazioni "riconosciute" e quelle "non riconosciute", provviste o mancanti di personalità giuridica. In sostanza, la previsione dell'art. 18 primo comma abbraccia tutte le formazioni sociali aventi un carattere volontario. Non a caso essa pone l'accento sulla libertà di associarsi che spetta a ciascun cittadino, prima ancora che sulle associazioni in quanto tali. Ma è parallelamente garantita, di riflesso, la cosiddetta libertà negativa di associazione, cioè la posizione di chi non intende associarsi: donde l'esclusione delle associazioni coattive, imposte dalla legge ovvero da altri atti di pubbliche autorità. In ogni caso, quanto alle associazioni volontarie, l'unico limite comune consiste nel divieto di quelle che perseguano fini comunque vietati dalla legge penale. A carico delle associazioni in genere non possono darsi limitazioni specifiche, tali da colpire siffatti organismi collettivi ed i loro associati. Ma nella medesima luce si dimostra dubbia la legittimità delle norme che tuttora sanzionano i membri delle associazioni sovversive, senza distinguere adeguatamente fra quelle che compiano "atti di violenza" e quelle che si limitino alla proanda politica eversiva. Effettivamente, per le comuni associazioni non s'impone il limite dell'ordine pubblico nel senso ideale. Né occorre soddisfare l'esigenza che sia democratica la struttura interna di tali organismi. La base democratica dell'ordinamento interno è testualmente prescritta per i soli sindacati. Le sole formazioni volontarie precluse a priori sono quelle espressamente riguardate dal capoverso dell'art. 18: vale a dire le "associazioni segrete" e le associazioni che perseguano "scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare". Per le seconde, comunemente dette paramilitari, ha già provveduto il decreto legislativo 14 febbraio 1948: nel quale si considerano tali "quelle costituite mediante l'ordinamento degli associati in corpi, reparti o nuclei, con disciplina ed ordinamento gerarchico interno analoghi a quelli militari. Più delicato e complesso appare il caso delle associazioni segrete. D'altro lato è ormai dominante l'avviso che le associazioni segrete siano precluse dalla costituzione, solo in quanto diano luogo ad un potere occulto; sicché la ragion d'essere del divieto costituzionale non si coglie fuori "dalla sfera del politico" o "dei fenomeni di interesse collettivo". Del resto, già nel testo unico delle leggi di pubblica sicurezza le associazioni segrete non venivano colpite come tali. Ma unicamente "per ragioni di ordine pubblico o di sicurezza pubblica". In entrambe le ipotesi considerate dall'art. 18, il regime delle associazioni implica inoltre una riserva di giurisdizione, per cui spetta al giudice decidere sullo scioglimento delle associazioni incostituzionali.


La libertà religiosa (ina 646).


Per chi ne consideri il solo momento individuale, la libertà religiosa inserisce alla libera manifestazione del proprio pensiero. Ma le disposizioni dell'art. 19 religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne proanda e di esercitarne in privato o in pubblica il culto", sottolineato anche il momento collettivo della libertà in esame: cioè si propongono la "tutela dei gruppi sociali con finalità religiose", dia che si tratti di comuni associazioni, sia gruppi stessi assumano la particolare natura delle confessioni religiose. Il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d'una associazione o di un'istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività. Primario è comunque il momento individuale. All'eguaglianza religiosa si ricollega il diritto di cambiare religione o di modificare sul punto le proprie opinioni, senza subire conseguenze negative di sorta. A tutti gli individui è poi garantita la liberta proanda della propria fede, ivi comprese "la critica e la confutazione pur vivacemente polemica" delle opinioni religiose altrui: purché non si cada nel vilipendio. Sotto questo aspetto, anzi, è ormai prevalente la tesi che la libertà negativa di religione, inclusa la proanda dell'ateismo, non sia tutelata dal solo art. 21 ma dallo stesso art. 19 Cost. Sul versante collettivo o associativo, a complicare oltremodo il discorso concorre però la circostanza che nel tronco dell'art. 19 s'innestano ulteriori disposizioni costituzionali. La proposizione iniziale dell'art. 8, in linea con l'art. 19, fissa il principio dell'eguale libertà di tutte le confessioni religiose. Le stesse confessioni acattoliche hanno diritto di organizzarsi secondo propri statuti, nel rispetto dei soli principi fondamentali dell'ordinamento nazionale.


Non sussiste una situazione di parità fra la chiesa cattolica e le altre confessioni, né sul piano legislativo ordinario né sul piano costituzionale. L'affermazione iniziale del trattato del 1929, per cui "la religione cattolica, apostolica e romana" veniva considerata "la sola religione dello stato" risulta bensì superata dal concordato del 1084. Ma la religione cattolica è maggiormente protetta anche in sede penale, nelle ipotesi di "delitti contro il sentimento religioso".


I "diritti di famiglia"; i rapporti fra coniugi; le potestà genitoriali e i rapporti di filiazione (ina 653).


La celebre proposizione costituzionale, per cui la repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio, ha offerto lo spunto alle più varie ed antitetiche ricostruzioni. Da un lato, si è sostenuto che la "società" in questione sarebbe titolare di propri diritti, distinti da quelli dei singoli individui che la compongono, e dunque disporrebbe di una propria soggettività, avvicinabile a quella spettante alle persone giuridiche. Ma, d'altro lato, è stato per contro affermato che la famiglia ricadrebbe nel novero delle formazioni sociali considerate dall'art. 2 Cost., pur avendo un carattere peculiare ed anzi privilegiato, dato il favor familiare che informa gli art. 31, 36 e 37; con l'ulteriore conseguenza che i "diritti della famiglia" non sarebbero altro che una "sintesi verbale", basata pur sempre sulle posizioni attive e di vantaggio, spettanti a ciascun componente il gruppo familiare. È tuttavia preferibile l'opinione intermedia, che intende i "diritti della famiglia" come sinonimo di una sfera di autodeterminazione, riconosciuta "ai singoli nella specifica qualità di membri della famiglia" medesima: sfera nella quale la legge non può arbitrariamente penetrare, sicché i componenti del nucleo familiare hanno appunto il diritto do organizzarsi senza rispettare modelli precostituiti. Dell'art. 29 si deve comunque desumere, in altre parole, una "garanzia costituzionale di rispetto dell'autonomia familiare", pur senza che questa si trasformi in "sovranità". La comunità garantita dall'art. 29 consiste però nella sola famiglia legittima. La cosiddetta famiglia di fatto, inclusiva della convivenza more uxorio, non ha in questa sede rilievo. Senza dubbio, anch'essa rientra fra le formazioni sociali genericamente riguardate dall'art. 2; ma non ne deriva l'esigenza di equipararla integralmente alla famiglia legittima. Per società familiare si intende in maniera ormai pacifica la cosiddetta famiglia nucleare. L'indirizzo giurisprudenziale privilegia invece la famiglia legittima comprensiva del coniuge e dei li, ad esclusione di ogni altro soggetto.


Non meno controverso si è rivelato l'ambiguo e compromissorio capoverso dell'art. 29: "il matrimonio è ordinato sull'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare".


L'opinione prevalente dice che sia l'eguaglianza coniugale che le deroghe finalizzate all'unità della famiglia vadano concepite in senso strettissimo.


Ma il passo determinante è stato fatto in parlamento, con l'approvazione della legge 19 maggio 1975. Basti qui ricordare che "con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri"; e che "i coniugi concordano tra loro l'indirizzo della vita familiare".


Già in partenza, l'affermazione del principio di eguaglianza risultava assai più netta in tema di rapporti fra genitori e li minori. Da un lato, perciò, la costituzione fissa senz'altro il principio della parità dei genitori. D'altro lato, ciò che si ricava dall'art. 30 primo comma è il principio della parità dei li: non avendo alcun rilievo la circostanza che si tratti di li legittimi o naturali o anche adulterini o incestuosi. Quanto ai genitori appare letteralmente chiaro che il loro potere-dovere è dunque un ufficium, che non può venire usato o trascurato ad arbitrio. Al limite, la legge 4 maggio 1983 prescrive ora che siano dichiarati "in stato di adattabilità i minori in situazione di abbandono perché privi di assistenza morale o materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi". Quanto invece ai li, è proprio la costituzione ad escludere che spettino loro, malgrado il detto principio di parità, posizioni di assoluta eguaglianza reciproca.


I diritti sociali: premesse (ina 660).


Da un lato per diritti sociali s'intendono i "diritti civici", formati da altrettanti "diritti pubblici di prestazione", che lo stato è tenuto a fornire ai propri cittadini: come in Italia ed altrove si verifica per l'assistenza sanitari. Non si contesta che il nucleo dei diritti in esame consiste appunto in uno status positivus del genere or ora accennato; ma in una prospettiva assai più ampia si assegnano a quell'ambito gli stessi diritti in esame consiste appunto in uno status positivus del genere; ma in una prospettiva assai più ampia si assegnano a quell'ambito gli stessi diritti familiari o si definiscono sociali i "diritti di partecipazione dei gruppi o degli individui". La concezione risulta intermedia fra questi due estremi. Possono anzitutto considerarsi sociali il "diritto al lavoro", il diritto alla salute e quello mirante ad ottenerne un minino grado di istruzione, i diritti all'assistenza ed alla previdenza sociale . ; e nel medesimo quadro vanno inserite le agevolazioni riguardanti la famiglia, la maternità, l'infanzia e la gioventù. Ma occorre subito aggiungere che altri diritti sociali hanno per controparti soggetti privati quali i datori di lavoro, piuttosto che la sola mano pubblica. Nel quadro stesso rientrano taluni diritti tradizionalmente propri delle coalizioni dei lavoratori. Il che rende palesi le interferenze esistenti fra i diritti sociali così costruiti e certi diritti fondamentali di libertà, connessi ratione materiae. Si tratta indubbiamente di una categoria quanto mai eterogenea, perché comprensiva di diritti soggettivi in senso stretto, di interessi legittimi tutelabili dinanzi ai giudici amministrativi, di interessi semplici nei quali si riflettono i principi amministrativi, di interessi semplici nei quali si riflettono i principi programmatici e i conseguenti doveri della mano pubblica.


Lo stato sociale del diritto è caratterizzato dall'imperativo della giustizia sociale, guardato come premessa indispensabile per la realizzazione dei diritti civili fondamentali. Quanto ai diritti civili, la proclamazione e l'effettiva realizzazione dei diritti sociali non sono che il mezzo per assicurarne il pieno godimento, attraverso la tutela e lo sviluppo della personalità umana che ne rappresenta il comune presupposto. Affinché ciascun cittadino sia concretamente in grado di valersi dei diritti che la costituzione definisce inviolabili, occorre cioè che si determini la rooseveltiana liberazione "dal bisogno" e "dalla paura"; occorre l'equiparazione dei cittadini stessi nelle loro condizioni di partenza, relative ai beni più fondamentali. Sotto la specie dei diritti sociali, la carta costituzionale pone dunque norme ed impone misure a beneficio delle "categorie sottoprotette". Ciò vale a spiegare le varie previsioni miranti a tutelare il lavoro subordinato. Ma in Italia si aggiunge il dato consistente nella costituzionalizzazione dei diritti sociali: vale a dire nel rilievo costituzionale conferito alle proclamazioni di principio sulle quali si fondano i diritti stessi.


Il principio lavoristico e le sue varie implicazioni costituzionali (ina 663).


Il diritto al lavoro è riconosciuto dall'art. 4 Cost. Il massimo che può desumersi dal principio lavoristico, isolatamente preso, è il fondamento costituzionale dell'indennità di disoccupazione. Ma la corte costituzionale ha fin dagli inizi ritenuto che il "diritto" in esame si risolvesse in un "invito al legislatore", per definizione insufficiente ad assicurare a ciascun cittadino il "conseguimento di una occupazione". Così, le norme legislative ordinarie sul collocamento dei lavoratori nei posti di lavoro sono state giustificate dalla corte, appunto in nome dell'intervento dei poteri pubblici; sicché si determina un nesso fra il principio lavoristico e le norme sui licenziamenti. Sotto i profili indicati l'art. 4 si riferisce comunque al lavoro dipendente. Ma quell'articolo è comunemente interpretato come la fonte di una garanzia ben più comprensiva. Quale premessa indispensabile del "diritto al lavoro", si pone cioè la cosiddetta libertà di lavoro, concernente l'accesso al lavoro medesimo e dunque lo svolgimento di "un'attività corrispondente alla propria capacità professionali". Ma anche quanti insistono sulle garanzie positive e sociali, ricavabili dal citato primo comma, sono unanimi nel riconoscere che le libere decisione sulle proprie attività lavorative precedono il "diritto al lavoro": il quale, altrimenti, si tramuterebbe in un obbligo, imponibile e sanzionabile. Il dovere del lavoro è stato definito come un semplice vincolo morale. Ma il dovere stesso può essere forse concepito come il fondamento delle norme legislative e dei provvedimenti a carico degli oziosi e dei vagabondi.


In applicazione del principio lavoristico gli articoli 35 e successivi della costituzione riaffermano e puntualizzano i diritti sociali pertinenti ai rapporti di lavoro. Ma gli oggetti, il grado di penetrazione e lo stesso concetto di lavoro sono alquanto diversi secondo i vari casi. "La repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni"; tale disposto ha una "funzione introduttiva". Si spiega perciò che esso non riguardi il solo lavoro subordinato, ma anche il lavoro autonomo, con la sola esclusione delle attività imprenditoriali. Tutte le disposizioni successive degli articolo 35-36-37 si riferiscono ai lavoratori dipendenti. Ma la destinazione ai rapporti di lavoro dipendente è ancora più palese quanto all'art. 36 concernente il diritto alla giusta retribuzione, la durata massima della giornata lavorativa, il riposo settimanale e le ferie annuali retribuite. A differenza di altri diritti sociali le proposizioni costituzionali riguardanti la giusta retribuzione sono state subito considerate immediatamente precettive e dunque operative. Ma il livello retributivo costituzionalmente garantito non è stato fissato a discrezione; ciò che ha contraddistinto il ricorso all'art. 36 è stato l'utilizzo giudiziale dei contratti collettivi. In altre parole, sia la sufficienza della retribuzione si ala proporzionalità di essa trovano i loro "indici rivelatori" nei contratti collettivi stipulati per varie categorie. È su questa base che spetta al giudice far corrispondere la retribuzione "a due fondamentali e diverse esigenze": la prima della quali si ricollega al rapporto di scambio tra prestatori d'opera e datori di lavoro"; la seconda, cioè la sufficienza, va salvaguardata "in ogni caso". Dei due criteri è quello della proporzionalità che appare primario. E ad esso fa riferimento anche l'art. 37 quando prescrive che alle donne lavoratrici ed ai minori competano, "a parità di lavoro", le stesse retribuzioni di cui godano i lavoratori adulti adibiti alle medesime mansioni.


La libertà sindacale e il diritto di sciopero (ina 668).


Fra i mezzi costituzionalmente predisposti a tutela del lavoro rientra, senza dubbio, la libertà di organizzazione sindacabile. E tale libertà si concreta nella spontanea formazione delle più varie coalizioni di lavoratori. La realtà giuridica degli attuali sindacati e della loro azione si presenta alquanto lontana dalle indicazioni delle carta costituzionale. Anziché registrarsi ed acquisire personalità giuridica, i sindacati hanno ancor oggi la veste delle associazioni di fatto. Nel confronto con la massa delle altre strutture associative, essi sono dotati di particolare tutela, soprattutto in forza dello "statuto dei lavoratori". Vero è che svariate norme legislative hanno privilegiato quelli maggiormente rappresentativi sul piano nazionale: dotandoli di particolari poteri, in ragione dei quali i sindacati stessi possono considerarsi provvisti d'una sorta di "libertà politica". Ma la corte costituzionale ha recentemente avvertito che le disposizioni siffatte, pur non essendo irragionevoli, devono tendere "alla valorizzazione dell'effettivo consenso come metro di democrazia"; sicché la legge non potrebbe prescindere dalla "rappresentanza reale", a pena di ledere "i principi di libertà e pluralismo sindacale". Lo scarto fra il diritto vigente e le previsioni costituzionali si avverte al massimo grado quanto al regime dei contratti collettivi di lavoro. Senonché l'efficacia erga omnes, che non si è potuta realizzare nelle forme costituzionalmente previste, viene in qualche modo conseguita con altri mezzi.


La costituzione repubblicana ha poi conurato lo sciopero-diritto. La sospensione del rapporto, dovuta alla proclamazione di sciopero e alla conseguente astensione collettiva dal lavoro, non determina sanzioni di sorta a carico degli scioperanti, né penali né civili, salva soltanto la perdita della retribuzione corrispondente alle ore non lavorate. La norma in questione è ritenuta immediatamente precettiva; e dunque è stata senz'altro applicata dai giudici, ordinari e costituzionali, a tutela degli scioperanti. Quanto alla sciopero, la corte ha ribadito che esso "è riconosciuto costituzionalmente come un diritto".


I diritti sociali di prestazione (ina 675).


I diritti sociali nel senso più stretto hanno per oggetto prestazioni dovute ai cittadini, in forza di specifiche disposizioni costituzionali rivolte alla repubblica, intesa quale insieme dei pubblici poteri. Ma è proprio in questo campo che si avverte con la massima evidenza il nesso intercorrente fra diritti sociali e diritti di libertà. Ciò vale in primo luogo per la tutela della salute, che l'art. 32 Cost. considera "come fondamentale diritto dell'individuo" e come "interesse della collettività". L'utilità di proclamazioni siffatte fu posta seriamente in dubbio da certi costituenti, i quali sostenevano che si sarebbe trattato di un tertium genus d'incerta classificazione, comunque affidato alla buona volontà del legislatore ordinario. Dal che la concezione assicurativa-previdenziale del diritto alla salute, che appunto confondeva la sfera di applicazione dell'art. 32 con quella dell'art. 38, a vantaggio di categorie determinate anziché di tutti i cittadini. Con tutto questo, a partire dagli anni '70 si sono registrate l'emergenza e la graduale concretizzazione del diritto alla salute, autonomamente concepito. Lo "statuto dei lavoratori" si è sforzato di tutelare comunque la salute e l'integrità fisica dei lavoratori stessi nei luoghi di lavoro. Successivamente un passo decisivo è stato compiuto dalla legge istitutiva del servizio sanitario nazionale, che si è proposta di assicurare "mantenimento" e "recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione senza distinzione di condizioni individuali o socialy". In pari tempo la giurisprudenza della cassazione ha fatto della salute il contenuto di un vero e proprio diritto soggettivo assoluto.


Anche in tema di pubblica istruzione, la carta costituzionale impone allo stato una serie di prestazioni. In primo luogo, spetta alla repubblica istituire "scuole statali per tutti gli ordini e gradi". Inoltre è sempre alle scuole statali che sembra riferirsi la proposizione costituzionale per cui "l'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita": la gratuità della scuola dell'obbligo non potrebbe, infatti, essere posta a carico dei gestori privati, senza compromettere il loro stesso diritto di istituire scuole non statali. Del pari, è sempre allo Stato ed altri enti pubblici competenti in materia che la costituzione prescrive di concretizzare il diritto allo studio, nei riguardi degli alunni o degli studenti "capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi".


La proclamazione delle libertà di arte e di scienza non è il frutto di un esercizio retorico dei costituenti ma vale a chiarire che non possono esistere espressioni artistiche ufficiali, né indirizzi scientifici "di Stato". Quanto alla libertà d'insegnamento la letteratura giuridica è concorde nell'assegnarle un campo ben più vasto. Da una parte, il combinato disposto degli art. 21 e 33 Cost. vale a garantire l'insegnamento svolto a titolo individuale. D'altra parte, lo stesso art. 33 tutela, sia pure in modo implicito, l'insegnamento finalizzato all'istruzione ed esercitato nell'ambito delle istituzioni scolastiche. Ma nella seconda ipotesi l'insegnamento si presenta come una libertà fondamentale. Da ultimo, l'art. 33 terzo comma, statuendo che "enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione", garantisce altresì il pluralismo scolastico e dunque la libertà di scuola: per scuola intendendosi l'organizzazione di tutti gli elementi personali. Si suole ritenere che il riferimento alle "norme generali sull'istruzione" sottintenda una vera e propria riserva di legge statale: riserva che abbraccia tutti gli istituti di istruzione, comprese quelle che la corte costituzionale ha denominato scuole meramente private. Più ardua e controversa si dimostra l'interpretazione dell'inciso "senza oneri per lo stato". L'opinione prevalente è nel senso che si tratti del tassativo divieto di qualsivoglia sovvenzione pubblica senza distinguere fra il momento dell'istituzione e il momento della conseguente attività. Un'ulteriore ragione distintiva tra le scuole statali e non statali consiste nel carattere pubblico di tutti gli istituti di istruzione superiore, comprese le cosiddette università libere. Ma la recente legge è valsa a garantire alle istituzioni universitarie di qualsiasi denominazione e natura ampi spazi di autonomia, soprattutto normativa. A completare il discorso concorre l'art. 38 Cost.: sia garantendo l'assistenza sociale a favore dei cittadini bisognosi, sia fissando le basi costituzionali della previdenza sociale. Sia nell'uno che nell'altro caso, la mano pubblica non monopolizza l'erogazione delle prestazioni necessarie; bensì fornisce un minimo di grado di tutela. Quanto poi alle prestazioni assistenziali, lo stesso art. 38 proclama la libertà d'assistenza. Nell'ambito di quella che complessivamente è stata definita sicurezza sociale, gli interventi pubblici sono però i più rilevanti ed onerosi. È dunque inevitabile che sia riservato al legislatore ordinario il compito di determinare l'ammontare delle prestazioni, non soltanto in vista delle "esigenze di vita dei lavoratori" ma anche in considerazione delle "effettive disponibilità finanziarie".


L'iniziativa economica privata (ina 684).


Alla base di quella che suol essere chiamata la costituzione economica, si pongono i disposti dell'art. 41, che garantiscono e limitano la libertà d'iniziativa economica. Su questa disciplina si è fondato il carattere misto dell'economia italiana. Nel quadro costituzionale l'iniziativa economica provata riceve però una tutela assai meno forte di quella attribuita ai diritti civili. Ma questo non significa affatto che l'art. 41 non offra garanzie di sorta, affidando la libera iniziativa dei privati alle scelte insindacabili del legislatore ordinario. Da un lato si ricava che nessuno potrebbe esser costretto ad iniziare una qualche attività economica, fosse pure per legge. E per attività economica s'intende non solo l'insieme delle attività imprenditoriali, ma anche altre specie di attività comunque indirizzate alla produzione, fatto salvo il lavoro, subordinato ed autonomo, che forma l'oggetto di altre previsioni costituzionali. D'altro lato è ben vero che la costituzione distingue fra l'iniziativa strettamente intesa, come "atto di impulso" o "di avvio di un nuovo processo produttivo", il conseguente svolgimento o esercizio dell'iniziativa medesima e la specifica attività economica degli operatori privati. Ma i tre commi dell'art. 41 fanno "corpo", sia nel senso che l'utilità sociale può imporsi a carico di tutti e tre i momenti della libertà considerata dall'articolo stesso, sia nel senso che la loro compressione non può essere incondizionata, neanche per ciò che riguarda lo "svolgersi" dell'iniziativa economica. Ciò che più conta, la corte ha sempre affermato che limitazioni siffatte formino l'oggetto di una riserva relativa di legge. Solo impropriamente, dunque, si è potuto ragionare di "funzionalizzazione" dell'intera attività economica. In realtà, se la legge non impone vincoli specifici, la libertà proclamata dall'art. 41 non degrada ad interesse legittimo, ma rappresenta l'oggetto di un diritto soggettivo costituzionalmente garantito. Gli stessi "fini sociali" costituiscono d'altronde una serie di meri punti di riferimento. Resta in ogni caso escluso che la legge sia libera di riservare alla mano pubblica determinati ambiti dell'economia nazionale. Le statalizzazioni, le nazionalizzazioni a favore di determinati enti pubblici, le socializzazioni e le conseguente autogestioni, complessivamente denominabili e denominate collettivizzazioni, rappresentano dunque l'eccezione rispetto alla regola. In altre parole, la costituzione ha imposto a questi effetti una riserva rinforzata.


La problematica costituzionale della proprietà privata (ina 688).


Nel primo comma dell'art. 42 Cost. si premette che "la proprietà è pubblica o privata"; ma non si definiscono né l'uno né l'altro istituto. "La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e renderla accessibile a tutti". La prima impressione è dunque nel senso che la proprietà, sia pure privata, non venga sostenuta da alcuna garanzia costituzionale specifica. Si è detto che l'art. 42 conferirebbe alla legge il compito di stabilire "fin dove, fin quando e in quali limiti vi debba essere, e in che modo debba esistere, la proprietà privata"; si è sostenuto che alla legge spetterebbe "la disponibilità senza indennizzo della struttura stessa e del contenuto delle proprietà preesistenti". Si è quindi dedotto che la costituzione non imporrebbe null'altro che una riserva di legge, per di più relativa: in linea con quella giurisprudenza costituzionale per cui l'art. 42 esige unicamente, nel rapporto fra il legislativo e l'esecutivo, che i limiti della proprietà privata non siano lasciati "in balia delle autorità amministrative". Deriva pur sempre dal secondo comma dell'art. 42 che la proprietà privata debba essere "riconosciuta e garantita" nell'ordinamento giuridico italiano. Risulta evidente che la garanzia dell'istituto sarebbe soltanto verbale, se l'art. 42 non presupponesse taluni "indici di riconoscibilità" della proprietà privata, destinati a restare fondamentalmente costanti nel succedersi delle leggi regolatrici. È appunto in tal senso che una notevole corrente dottrinale ha sostenuto l'esistenza di un insopprimibile contenuto essenziale o minimo che alcuni autori vorrebbero fa coincidere con l'art. 832 c.c., onde "il proprietario ha il diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo . ". In realtà tesi del genere non mancano di suscitare difficoltà, perché già prima del 1948 la parola proprietà non possedeva un significato univoco. Basti pensare al fondamentale divario che passa fra la proprietà dei beni mobili e quella avente per oggetto gli immobili. Il comune criterio dei giudizi che la corte ha effettuato ed effettua in applicazione dell'art. 42 secondo comma dev'essere invece rintracciato nella funzione sociale della proprietà privata. Essa vale, cioè, a giustificare le restrizioni dei diritti soggettivi spettanti ai proprietari. Il che concorre a spiegare come una medesima pronuncia della corte, quanto ad una legge sugli affitti dei fondi rustici, sostenga trattarsi di una scelta politica ed economico-sociale naturalmente riservata al legislatore; ma nel contempo annulli, considerandola irragionevole e contraddittoria, la conversione in affitto dei contratti di mezzadria, relativamente ai proprietari imprenditori. L'art. 42 dice inoltre che "la proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale". È stato ed è controverso lo stesso concetto di espropriazione. Per contro nel periodo repubblicano si sono teorizzare, accanto a quelle tradizionali, le cosiddette limitazioni espropriative: con la conseguenza di far ricadere nel campo di applicazione dell'art. 42 terzo comma, rendendoli dunque indennizzabili dalla mano pubblica, tutti i provvedimenti di stampo particolare destinati a diminuire in modo rilevante una posizione proprietaria", quand'anche tali da non implicare la totale espropriazione del bene. Su quest'ultima linea si è schierata la giurisprudenza costituzionale. Più precisamente, le pronunce della corte sono tuttora costanti nel senso che occorra distinguere fra i limiti imposti a titolo individuale, che valgano a sottrarre il godimento di un bene determinato al suo titolare; e quelli che attengono in modo obiettivo, con riferimento alla generalità dei proprietari, al regime di intere categorie di beni. Nel primo caso l'indennizzo sarebbe costituzionalmente indispensabile. Nel secondo caso, invece, la necessità di risarcire i proprietari colpiti sarebbe esclusa a priori, appunto perché tutti riceverebbero il medesimo trattamento. Ma che cosa è l'indennizzo? L'indennità dovuta all'esproprio era necessariamente pari al "giusto prezzo che . .avrebbe avuto l'immobile in una libera contrattazione di compravendita". Anche la giurisprudenza costituzionale ha riconosciuto che l'indennizzo "non significa in ogni caso integrale ristoro del sacrificio subito per effetto dell'espropriazione. Ma questo non toglie che il ristoro debba essere serio e non fissato in misura "meramente simbolica" o completamente scollegata dalle "caratteristiche del singolo bene da espropriare".


Le ragioni giustificative della giustizia costituzionale (ina 697).


Le disposizioni concernenti la corte costituzionale precedono immediatamente quelle relative alla revisione della costituzione. E non senza ragione, tanto le prime quanto le seconde concorrono a formare ciò che la stessa costituente ha definito "garanzie costituzionali". Essenziale è che le forze politiche organizzate nel paese rimangano fedeli ai valori che informano la costituzione. Ma la previsione di un'apposita giustizia costituzionale fornisce pur sempre un'effettiva garanzia. Non basta, ad assicurare la rigidità della costituzione, distinguere il procedimento legislativo ordinario dell'iter formativo delle leggi costituzionali e di revisione costituzionale. L'autocontrollo del parlamento non può essere sufficiente allo scopo; ma si rende invece necessario l'eterocontrollo di un organo o di organi diversi da quelli politicamente rappresentativi. Solo a questo modo, cioè, si rafforza il principio di legalità, imponendolo al legislatore stesso sotto forma di "principio di costituzionalità"; così da perfezionare lo stato di diritto, nel quale la legittimità costituzionale viene ad integrare la legittimità amministrativa e giurisdizionale. I critici delle corti costituzionali obiettano che esse, proprio perché irresponsabili nei confronti del corpo elettorale, menomerebbero il basilare principio democratico. Ma è stato già detto che una compiuta democrazia esige che la maggioranza sia limitata, in nome degli stessi valori costituzionali.


Perché la forma di governo e la forma di stato non siano sovvertite, occorre che la giustizia costituzionale non debordi nel merito, scambiando il sindacato di costituzionalità con un controllo allargato alla complessiva "ingiustizia delle leggi". Deve dunque indurre le corti stesse all'auto-limitazione, evitando di dar vita a quello che in dottrina è stato polemicamente denominato governo dei giudici. Ma l'immanente pericolo di abusi non toglie che la giustizia costituzionale rimanga il coronamento necessario dei sistemi sul tipo di quello vigente in Italia.


La tipologia dei sistemi di sindacato sulla legittimità costituzionale (ina 699).


La prima e fondamentale suddivisione è quella che suole tracciarsi fra i sindacati aventi natura giurisdizionale, in quanto affidati ad uno o più giudici in forme processuali, ed i controlli di natura politica, spettanti ad autorità affatto diverse da quelle giudiziarie.


Più netta è la linea divisoria fra i sistemi accentrati e quelli diffusi. I primi comportano che il sindacato in questione sia riservato ad un organo apposito, avente il nome di corte o di tribunale costituzionale. I secondi trovano il loro prototipo negli Stati Uniti d'America, dove i giudizi sulla legittimità costituzionale possono considerarsi come una "irradiazione delle stesse funzioni attribuite alla competenza istituzionale degli organi giudiziari"; sicché ad ogni giudice spetta far prevalere la costituzione, disapplicando le leggi ordinarie ritenute illegittime. Così definito, il divario intercorrente fra i due ordini di sistemi risulta a prima vista profondissimo. Per contro, la ratio dei sistemi accentrati vien fatta risiedere nella certezza del diritto, non più esposta ai contrasti delle giurisprudenze dovute a diversi e molteplici giudici.


Nella letteratura giuridica di lingua tedesca è poi abituale la contrapposizione fra il sindacato di natura astratta e quello di natura concreta, secondo che il giudizio prescinda o meno dalle puntuali applicazioni delle leggi o degli altri atti in discussione. La dottrina italiana distingue, piuttosto, il sindacato instaurato in via principale o diretta e quello promosso in via incidentale o indiretta. Nel primo caso la corte può essere adita da determinati organi o soggetti, dei quali può ben dirsi che essi propongono un'astratta questione di legittimità. Nel secondo caso a monte del sindacato di legittimità vi è sempre un giudizio nel quale si tratta di applicare un certo atto o una certa norma, sicché la questione non può porsi che in termini concreti. A ciò si collega la distinzione fra i giudizi instaurabili in via preventiva e quelli destinati a svolgersi in via successiva. Gli uni assumono ad oggetto una legge od eventualmente un altro atto non ancora entrato in vigore. Gli altri attengono a leggi o ad altri atti già vigenti, poco importa se impugnati in via principale od incidentale. Quanto invece all'efficacia propria delle decisioni concernenti occorre anzitutto distinguere fra le pronunce produttive di effetti erga omnes e quelle efficaci soltanto inter partes. Ma le distinzioni più fondamentali concernono le sentenze che dichiarino l'illegittimità costituzionale dell'atto o della norma in esame. In alcune ipotesi esse ne accertano l'originaria nullità. In altre ipotesi, invece, esse producono l'annullamento della norma o dell'atto stesso. In altre ipotesi ancora, esse danno luogo ad un effetto abrogativo oppure precludono l'entrata in vigore dell'atto. E di qui discendono le ulteriori distinzioni intercorrenti fra i sistemi nei quali le dichiarazioni d'illegittimità costituzionale operano ex tunc, sin dal momento dell'entrata in vigore delle norme in esame o comunque in modo retroattivo, quelli che circoscrivono la loro efficacia ex nunc, a partire dalla pronuncia del giudice in questione, e quelli che addirittura prevedono un'operatività de futuro. Cioè può dirsi che da un lato stanno i sistemi diffusi, concreti, a sindacato successivo, con decisioni efficaci inter partes. D'altro lato, si rinvengono invece i sistemi accentrati, astratti, con decisioni efficaci erga omnes, produttive dell'annullamento o dell'abrogazione ex nunc dell'atto impugnato.


Le caratteristiche essenziali della giustizia costituzionale in Italia; la fase transitoria precedente l'entrata in funzione della corte (ina 703).


Dalla corte costituzionale risulta un solo carattere essenziale del nostro sistema di giustizia costituzionale: cioè quello consistente nella natura accentrata dei relativi giudizi. Per un primo verso, infatti, sono rimasti isolati coloro che osteggiavano la stessa introduzione della giustizia in esame, nel timore che il controllo così esercitato dovesse rivelarsi incompatibile con la "sovranità" degli organi centrali di governo. Per un secondo verso, non ha trovato seguito la tesi del sindacato diffuso, esercitatile da qualunque giudice nell'ambito della sua giurisdizione. Entrambe le proposte alternative furono respinte, sia perché si volle istituire un giudice diverso, sia perché i giudizi della corte sono profondamente dissimili da quelli attribuiti ai giudici comuni. Con questo fondamento si sarebbe addirittura potuto dubitare della natura giurisdizionale della corte. Ma ciò non toglie che sia dominante in giurisprudenza e in dottrina la qualificazione della corte come un particolarissimo tipo di autorità giurisdizionale. I tratti distintivi della giurisdizione costituzionale non sono stati, però, fissati dalla costituzione; e la materia non è stata regolata che in modo assai sommario dalla stessa legge costituzionale 9 febbraio 1948 n.1. Ma le indicazioni contenute in questo atto bastano a far intendere: primo, che le leggi e gli atti equiparati sono impugnabili tanto in via incidentale quanto in via principale; secondo, che le eventuali dichiarazioni d'illegittimità costituzionale, efficaci erga omnes in base all'art. 136 Cost., non possono non retroagire. Tuttavia, le scarne disposizioni di questa legge non erano sufficienti per consentire l'immediato avvio della giustizia costituzionale; ed occorsero altri cinque anni perché fosse promulgata la legge 11 marzo 1953, accomnata dalla contemporanea legge costituzionale n.1 del 1953. Al contrario, ha predominato in dottrina e in giurisprudenza la tesi che il sindacato potesse investire anche i vizi sostanziali, concernenti i contenuti normativi delle leggi stesse. Quanto alle norme legislative preesistenti alla costituzione, ciascun giudice è stato perciò chiamato a valutare se le norme costituzionali ne avessero operato una "abrogazione implicita"; quanto invece alle leggi sopravvenute dopo il 1° gennaio 1948, anch'esse sono state sindacate in vista di una loro eventuale disapplicazione. Nel medesimo tempo, però, in luogo della corte costituzionale funzionò anche un altro giudice del tutto speciale; cioè l'alta corte per la regione siciliana. All'alta corte spettava giudicare "sulla costituzionalità delle leggi emanate dall'assemblea regionale". Ma l'entrata in funzione della corte comportò, immediatamente o quasi subito, la concentrazione di tutti i giudizi di legittimità costituzionale in capo alla corte medesima.


I giudici costituzionali: nomina, permanenza in carica e "status" (ina 708).


Stando all'art. 135 primo comma della costituzione, la corte consta di quindici giudici: "nominati per un terzo dal presidente della repubblica, per un terzo dal parlamento in seduta comune e per un terzo dalle supreme magistrature ordinaria ed amministrative". Ma le necessarie attitudini ed esperienze tecniche di tutti i giudici sono state comunque garantite dal secondo comma dell'art. 135, dove si prescrive che le scelte cadano "fra i magistrati anche a riposo delle giurisdizioni superiori ordinaria ed amministrative, i professori ordinari di università in materie giuridiche e gli avvocati dopo venti anni di servizio". Quanto ai giudici eletti dalle camere riunite, è degno di nota che la loro nomina debba essere deliberata "con la maggioranza dei due terzi dei componenti dell'assemblea". Fin dagli inizi, pertanto, la composizione della corte è dipesa da scelte che venivano a coinvolgere la stessa minoranza. Quanto ai giudici nominati dal presidente della repubblica, è ancora più determinante il fatto che i relativi decreti di nomina vengano bensì controfirmati dal presidente del consiglio dei ministri, ma indipendentemente da qualsivoglia proposta governativa. Problemi siffatti non si pongono, invece, quanto ai giudici eletti dalle "supreme magistrature": tre dei quali vanno scelti dalla Cassazione, uno dal consiglio di Stato ed uno dalla corte dei conti. È significativo che sin dalla prima votazione ci si accontenti della "maggioranza assoluta dei componenti del collegio". Fra le varie componenti della corte costituzionale si realizza in tal modo una equilibrata integrazione reciproca. Ma l'equilibrio corre il rischio di venire meno, allorché nella corte si inseriscono, per i giudizi penali di sua competenza, altri sedici giudici aggregati: i cui nominativi sono "tratti a sorte da un elenco di cittadini aventi i requisiti per l'eleggibilità a senatore, che il parlamento compila ogni nove anni mediante elezione".


Già estesa a dodici anni, quella dei giudici costituzionali è ora una durata novennale. Di più: "alla scadenza del termine il giudice costituzionale cessa dalla carica e dall'esercizio delle funzioni": il che vale ad escludere la prorogatio. Nel corso del suo novennato, però, nessun giudice può essere rimosso o sospeso dall'ufficio. Fanno eccezione le sole ipotesi di "sopravvenuta incapacità fisica o civile" e di "gravi mancanze" nell'esercizio delle funzioni. Ulteriori garanzie dell'indipendenza dei giudici costituzionali risultano dalla disciplina del loro status. In primo luogo, consiste anche in ciò il fondamento della norma costituzionale che vieta la loro nomina per un secondo novennato. In secondo luogo, è questo lo scopo cui tendono le norme sulle rispettive cause d'incompatibilità. In terzo luogo, al pari dei parlamentari, i giudici in questione "non sono sindacabili, né possono essere perseguiti per le opinioni espresse e i voti dati nell'esercizio delle loro funzioni". In quarto luogo, ai giudici in carica competono le "immunità" già previste dall'art. 68 secondo comma Cost.; ed è la corte che può, in tali casi, deliberare le necessarie autorizzazioni a procedere ed agli arresti.


L'indipendenza e l'autonomia della corte costituzionale; gli organi e le strutture della corte (ina 712).


Alla scopo di assicurarne l'indipendenza,la corte è stata dotata di una vasta ed articolata autonomia. Il cardine consiste nell'autonomia normativa, che ha consentito alla corte di produrre un regolamento generale e vari regolamenti "amministrativi" minori. Sebbene previste da una legge ordinaria, sono queste norme regolamentari che disciplinano le strutture della corte stessa. Si aggiungono l'autonomia finanziaria, contabile, amministrativa, riguardanti la gestione dei propri fondi e del proprio apparato. Pur fermo restando che le somme occorrenti vanno stanziate "con la legge del parlamento". D'altronde, è sull'indipendenza della corte che si basa anche la cosiddetta giurisdizione domestica. Nel medesimo quadro vanno poi collocate le norme riguardanti l'autoorganizzazione, cioè la formazione degli organi e delle strutture interne della corte. Così, sono i giudici costituzionali ordinari che provvedono alla elezione del loro presidente. Ed è il presidente che convoca e presiede la corte, determina i ruoli delle udienze pubbliche e delle camere del consiglio. Al presidente spetta poi designare un vicepresidente della corte.


Generalità; le fonti normative disciplinanti i processi costituzionali (ina 717).


La corte costituzionale è competente a giudicare "sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello stato e su quelli tra lo stato e le regioni, e tra le regioni", nonché "sulle accuse promosse contro il presidente della repubblica". I giudizi sulle leggi e sugli atti equiparati formano, però, il cuore della giurisdizione stessa. Indipendentemente da essi, l'istituzione di un'apposita corte perderebbe la sua fondamentale ragion d'essere. Centrale è la questione concernente la natura della legge n. 87, dal momento che questa è la fonte in cui si rinviene gran parte delle norme destinate a regolare in via primaria i processi costituzionali. Oltre che nel secondo comma dell'art. 137 Cost., la legge n. 87 trova il suo fondamento specifico nell'art. 1 della legge costituzionale n. 1 del 1953: in cui si dispone che "la corte costituzionale esercita le sue funzioni nelle forme, nei limiti ed alle condizione di cui alla carta costituzionale, alla legge costituzionale 9 febbraio 1948 n. 1, ed alla legge ordinaria emanata per la prima attuazione delle predette norme costituzionali. Si è anzi ragionato di una sorta di "costituzionalizzazione" delle disposizioni legislative in esame, anche perché esse ricadrebbero entro una materia tuttora riservata alla legge costituzionale. Il diritto positivo e "vivente" non sembra però confortare né l'una né l'altra opinione. È sostenibile piuttosto che l'art. 1 della legge costituzionale n. 1 del 1953 abbia decostituzionalizzato la disciplina dei giudizi di legittimità costituzionale, nelle parti non considerate in modo specifico dalla costituzione e dalla legge costituzionale n. 1 del 1948. La legge n. 87 non poteva dunque contraddire le rispettive norme costituzionali, con essa interferenti; ed a loro volta le "norme integrative" non possono porsi in contrasto né con quella legge né con leggi ordinarie successive.


L'instaurazione dei giudizi di legittimità costituzionale in via incidentale: il giudizio "a quo" (ina 720).


È di gran lunga preferibile ragionare di impugnative o di impugnazione incidentali delle leggi, anziché di impugnative indirette. I giudici che si rivolgono alla corte in via incidentale debbono affrontare controversie riguardanti responsabilità civili, illeciti penali, provvedimenti amministrativi e via dicendo; per contro, ciò che si chiede alla corte è il sindacato sulle leggi relative a quelle responsabilità, a quegli illeciti, a quei provvedimenti . "La questione di legittimità costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge della repubblica è rimessa alla corte costituzionale per la sua decisione". Più precisamente ancora, la legge n. 87 stabilisce che "nel corso di un giudizio dinanzi ad un'autorità giurisdizionale una delle parti o il pubblico ministero possono sollevare questione di legittimità costituzionale mediante apposita istanza . ". Le controversie delle quali si tratta insorgono, pertanto, sotto forma di questioni incidentali nel corso di un altro processo: questioni che occorre risolvere pregiudizialmente, perché da esse dipendono le sorti stesse del procedimento principale. Il processo principale viene anche definito come giudizio "a quo" in quanto da esso provengono le questioni di legittimità. In vista dell'ammissibilità di tali impugnative, la legge n. 87 richiede comunque il concorso di due requisiti: che l'istanza sia proposta "nel corso di un giudizio"; e che il giudizio stesso veda investita "una autorità giurisdizionale". Le ura del giudice e del giudizio vanno qui considerate agli specifici fini delle impugnative incidentali delle leggi; sicché la loro identificazione non dev'essere effettuata in astratto bensì alla stregua della giurisprudenza costituzionale formatasi in materia, cioè privilegiando il diritto "vivente" rispetto alle precostituite ed unilaterali impostazioni dogmatiche. La corte ha inoltre sostenuto che "i due requisiti, soggettivo ed oggettivo, non debbono necessariamente concorrere affinché si realizzi il presupposto processuale richiesto dalle norme richiamate". Ed è sufficiente viceversa che i procedimenti di qualsivoglia natura "si compiano . alla presenza e sotto la direzione del titolare di un ufficio giurisdizionale". Di regola, però, il concorso del requisito soggettivo e del requisito oggettivo rimane indispensabile. Non a caso, non tutte le funzioni spettanti agli stessi giudici ordinari possono dare adito alla proposizione di questioni di legittimità costituzionale. Vero è che la corte ha ritenuto ammissibili impugnative sollevate in sede di giurisdizione volontaria. Per contro, non è sempre vero che l'autorità chiamata ad affrontare un qualsiasi tipo di controversie possa porsi per questo solo fatto come un giudice a quo. La corte ha sempre preteso che autorità del genere fossero dotate dell'indipendenza. Ma la stessa indipendenza può essere insufficiente allo scopo, nei casi di più manifesta scissione fra il requisito oggettivo e quello soggettivo. Così la giurisprudenza della corte risulta costantissima nel negare che fosse legittimato alle impugnative incidentali il pubblico ministero.


Nel novero dei giudici legittimati a sollevare questioni di legittimità si è inserita, per altro, anche la corte costituzionale. La stessa corte, cioè, si è posta più volte come giudice "a quo". Una simile eventualità non è prevista dal diritto scritto vigente in Italia. Ma la corte ha argomentato che non poteva esserle imposta l'applicazione di norme incostituzionali; e si è concluso che la corte ha l'obbligo di "mettere in moto il meccanismo . destinato a condurre . alla eliminazione, con effetti erga omnes, delle leggi incostituzionali".


Le ordinanze di rimessione; la rilevanza e la non manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale (ina 725).


Sulle istanza di parte il giudice a quo provvede mediante ordinanza. Qualora l'autorità giurisdizionale competente aderisca a tali eccezioni di legittimità, il provvedimento assume le particolari caratteristiche dell'ordinanza di rimessione. Si tratta comunque di un'ordinanza e non di una sentenza perché, in queste ipotesi, il giudizio in corso non viene definito ma anzi subisce una necessaria sospensione. Sempre a pena d'inammissibilità, occorre che il giudice a quo determini anzitutto il c.d. thema decidendum: cioè provveda a indicare l'oggetto dell'impugnativa. La legge n. 87 ragiona in tal senso di disposizioni; ma in vari casi l'esatta definizione dei termini dell'impugnativa richiede che il giudice a quo indichi nell'ordinanza di rimessione anche le norme reputate illegittime. Secondo una terminologia ricorrente si suole dire chi giudice a quo deve in tal modo precisare il pentitum, cioè la "domanda" che egli rivolge all'organo della giustizia costituzionale. A prescindere dalla questioni terminologiche, certo è che l'autorità rimettente deve motivare la propria ordinanza, chiarendo in qual senso sussistano i due requisiti delle questioni incidentali di legittimità costituzionale: quello attinente alla loro rilevanza e quello consistente nella non manifesta infondatezza. Di più: la recente giurisprudenza costituzionale è divenuta così rigorosa sul punto, da escludere che la motivazione possa mai farsi per relationem. Dei due requisiti predetti, di gran lunga più discusso e problematico è quello concernente la cosiddetta rilevanza. Ma la tesi ormai dominante è invece nel senso che la legge n. 87, prescrivendo che "il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità" abbia corrisposto alla logica del processo costituzionale incidentale. Più precisamente, occorre che la questione sollevata attenga ad una delle discipline legislative, poco importa se processuali o sostanziali, applicabili nel giudizio a quo. Si è notato che l'impugnativa incidentale è necessariamente concreta. E sul medesimo piano si è precisato che la rilevanza riguarda pertanto la norma investita dall'impugnativa. Le questioni di legittimità prospettante invia incidentale debbono essere dunque caratterizzate dalla loro pregiudizialità nei confronti del giudizio di origine. Da un lato, perciò, si rende indispensabile che il giudizio stesso risulti ancora incorso; d'altro lato sarebbe viceversa necessario che la questione di legittimità fosse attuale quando il giudice a quo dovesse ancora risolvere altre questioni attinenti al suo giudizio. Ma quest'ultima esigenza non viene fatta valere rigorosamente. Certo è che la rilevanza dev'essere valutata "allo stato degli atti", senza escludere che il nesso di strumentalità possa venire meno nel seguito del giudizio a quo. È ben vero che la pregiudizialità delle questioni di legittimità costituzionale implica una qualche influenza delle rispettive decisioni sul giudizio a quo. Ma una tale esigenza non va enfatizzata fino al punto di pretendere che l'esito concreto del processo principale debba essere sempre legato alle pronunce incidentali della corte. Se così fosse le norme penali di favore non potrebbero mai essere impugnate quand'anche annullate dalla corte stessa, dato il principio del favo rei sancito dall'art. 2 Cod. pen. La rilevanza delle impugnazioni concernenti norme penali di favore discende dal puro e semplice fatto che il loro annullamento modifica comunque la ratio decidendi del giudice. Resta da vedere quali siano i rimedi utilizzabili dalla corte, qualora il giudice a quo disattenda l'uno o l'altro imperativo desumibile sul punto dalla legge n. 87. La giurisprudenza costituzionale è ormai costante nell'esigere che la rilevanza venga motivata dall'autorità giurisdizionale rimettente e che la motivazione sia congrua e non contraddittoria. Più delicato è il problema se la corte possa mai riesaminare la rilevanza che il giudice rimettente abbia invece argomentato. Nella più parte dei casi l'organo della giustizia costituzionale si arresta ma non mancano eccezioni, che vedono la corte rivalutare autonomamente la rilevanza. Tutte le volte che la corte dubita della rilevanza ma non vuole approfondire il suo giudizio, lo strumento adeguato consiste in un'ordinanza di restituzione degli atti. Rinviando gli atti stessi al giudice a quo, perché riesamini la rilevanza dell'impugnativa già proposta. Delle ordinanza di restituzione la corte fa un uso sistematico specialmente nelle ipotesi di jus superveniens: vale a dire, quando la disciplina contestata dall'impugnazione incidentale sia totalmente od anche parzialmente novellata dal legislatore. Nel valutare la non manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale per esse rilevanti, le comuni autorità giurisdizionali non dovrebbero anticipare i giudizi riservati alla corte, bensì limitarsi a verificare che il fumus boni juris delle questioni medesime, o meglio ad accertare se in proposito sussista i meno un ragionevole dubbio; il che viene spesso smentito dalla prassi, nella quale i giudici tendono senz'altro a deliberare la fondatezza delle eccezioni di parte. Ciò sta a significare che le impugnative incidentali debbono superare un filtro, mediante il quale ogni giudice è in grado di bloccare le questioni che egli ritenga pretestuose o comunque in contrasto con i precedenti fissati dalla stessa giurisprudenze costituzionale. Qualora il giudice operante in un certo grado del giudizio respinga per manifesta infondatezza l'eccezione di parte, questa "può essere riproposta all'inizio di ogni grado ulteriore del processo". Ma la dizione legislativa non persuade interamente: la circostanza che le questioni di legittimità costituzionale possano anche venire sollevate d'ufficio finisce, infatti, per ridurre "a mera apparenza" quella delimitazione temporale, consentendo che l'impugnazione si abbia in qualunque momento precedente la conclusione del giudizio.


Gli interventi dinanzi alla corte; i rapporti fra il giudizio "a quo" ed il conseguente giudizio incidentale (ina 731).


A cura dell'autorità rimettente le ordinanze instaurative del processo costituzionale incidentale devono essere notificate "alle parti in causa ed al pubblico ministero quando il suo intervento sia obbligatorio, nonché al presidente del consiglio dei ministri o al presidente della giunta regionale a seconda che sia in questione una legge o un atto avente forza di legge dello stato o di una regione"; e vanno altresì comunicate "ai presidenti delle due camere del parlamento o al presidente del consiglio regionale interessato". Del pari, non appena pervenute le ordinanze stesse, il presidente della corte costituzionale deve disporre che esse vengano pubblicate "nella gazzetta ufficiale". Il momento della pubblicazione non riguarda il giudice a quo, ma gli altri giudici chiamati ad affrontare controversie identiche od analoghe. In particolare, sugli altri giudici incombe il dovere di verificare a loro volta se la questione sollevata sia per essi rilevante e non manifestamente infondata. La notificazione dell'ordinanza mira a consentire che le parti del giudizio a quo si costituiscono tempestivamente dinanzi alla corte costituzionale. A sua volta la comunicazione alla camere mira a far si che il legislatore si dia carico del problema, magari accelerando procedimenti legislativi già in corso che potrebbero condurre a soluzioni diverse da quella contestata. La costituzione delle parti del giudizio a quo non è affatto indispensabile affinché la corte costituzionale si pronunci sul punto. Anche per tale motivo si è sostenuto in dottrina che quello incidentale sarebbe "un processo senza parti" o, quanto meno, un giudizio "a parti eventuali". Ma occorre aggiungere che le parti del giudizio a quo assumono una veste completamente diversa da quella detenuta nel procedimento principale. Nel processi costituzionale di cui si discute i soggetti costituiti non possono mai rinunciare al giudizio della corte, in antitesi a ciò che si verifica nei procedimenti instaurati in via principale; e le sole facoltà che vengono loro conferite sono quelle consistenti nel sollecitare la corte ad emettere questo o quel tipo di decisione. In realtà, è solo in un senso assai largo che la legge n. 87 e le norme integrative ragionano di "parti" del processo costituzionale incidentale. Sarebbe preferibile parlare di "soggetti interessati" ovvero di "soggetti intervenienti", sia pure in termini alquanto diversi dagli interventi previsti dall'art. 105 del codice di procedura civile. La ragione per cui le disposizioni trattano costantemente di "parti" sembra risolversi nell'esigenza di contrapporre questa categoria di soggetti processuali a quegli intervenienti del tutto peculiari del processo costituzionale. Ma anche la corte ha rilevato che "il giudizio di legittimità costituzionale, pur ammettendo la partecipazione di parti private, si svolge al di sopra dei loro interessi . "


Il cosiddetto intervento del presidente del consiglio dei ministri risulta ancor più lontano dai correnti schemi processualistici. La corte ha argomentato che "questo intervento ha quindi un carattere suo proprio, come mezzo di integrazione del contraddittorio prescritto dalla legge". Quale sia la ragione della presenza del presidente del consiglio non è tuttavia ben chiaro. Di fatto, gli interventi sono stati a senso unico, giacché il presidente lo ha fatto per difendere la validità della norma in discussione: il che ha indotto un'altra corrente dottrinale ad affermare che l'intervento medesimo avrebbe "natura di atto politico".


Resta pur sempre fermo che il giudizio costituzionale incidentale non si risolve affatto nel tutelare talune delle posizioni soggettive in gioco nel giudizio a quo. È dominante la tesi che si tratti d'una giurisdizione di diritto oggettivo; tanto è vero che qualche autore non ha esitato a parlare d'una particolarissima forma di giurisdizione volontaria. Pur riconoscendo che la sua attività "si svolge secondo modalità e con garanzie processuali ed è disciplinata in modo da rendere possibile il contraddittorio fra i soggetti e gli organi ritenuti più idonei", anche la corte ha rilevato che essa "è chiamata a risolvere la questione di legittimità, astraendo dai rapporti con la controversia principale e persino dalla successive vicende processuali di questa". Ciò non toglie che il procedimento principale e quello incidentale siano collegati necessariamente da una sorta di "cordone ombelicale". Il giudizio a quo rappresenta infatti la sede esclusiva dalla quale scaturiscono le impugnazioni in esame. La corte è perciò vincolata dalla corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato: in luogo delle domande di parte stanno infatti le domande del giudice a quo. La legge n. 87 prescrive che l'organo della giustizia costituzionale si pronunci "nei limiti dell'impugnazione". Ma il "cordone" si spezza non appena instaurato il processo costituzionale. Dalla particolare controversia all'esame del giudice a quo la corte ricava talvolta elementi di fatto; senonché il suo giudizio può ben prescindere dalle peculiarità di quel caso specifico. Di qui la relativa autonomia del processo costituzionale.


Il quadro e le caratteristiche comune dei giudizi principali (ina 737).


In altri sistemi europei di giustizia costituzionale, l'instaurazione diretta dei giudizi sulle leggi rappresenta la regola e non già l'eccezione. Nel nostro ordinamento, infatti, vi è una rigorosa delimitazione dei soggetti legittimati e dagli atti rispettivamente impugnabili in questa sede. Sulla base del quarto comma dell'art. 127 Cost., legittimato è il governo della repubblica, che può impugnare le leggi regionali già rinviate dal governo stesso e quindi riapprovate dal competente consiglio. D'altro lato, le impugnative principali spettano anche alle singole regioni, che dispongono della "azione di legittimità costituzionale davanti alla corte". Inoltre le leggi regionali sono impugnabili per illegittimità costituzionale da parte di altre regioni. In tutti questi casi occorre che l'impugnativa sia preceduta da una deliberazione collegiale dell'organo competente. Costituisce eccezione la sola Sicilia, il cui statuto speciale affida l'impugnazione delle leggi regionali al commissario dello stato. Altrove i ricorsi dello stato vengono bensì proposti in nome del presidente del consiglio dei ministri, ma sulla base di una previa e conforme delibera del consiglio stesso. Ed è rimasta isolata una sentenza che in via derogatoria aveva consentito la proposizione del ricorso da parte del solo presidente del consiglio. Del pari, è incontestato che i ricorsi del presidente della giunta regionale debbano essere sorretti dal voto del rispettivo collegio. In entrambe le ipotesi la violazione delle norme predette comporta pertanto l'inammissibilità del ricorso. Da questi indici risulta che quelle sottostanti alla proposizione dei vari ricorsi sono altrettante scelte politiche. In altre parole, vige il principio della "facoltatività del ricorso", sicché tanto lo stato quanto le regioni non si trovano affatto nella posizione del giudice a quo. Ma resta inteso che la politicità delle delibere adottabili dal consiglio dei ministri e dalle giunte regionali non si estende ai motivi del ricorso stesso: i quali debbono sempre investire la legittimità delle leggi impugnate. Diversamente dai processi incidentali, quelli instaurati in via principale vengono comunque concepiti come giudizi di parti. Alla maniera dei giudizi amministrativi è quindi richiesto che il ricorso del governo sia notificato al presidente della giunta regionale. Ciò spiega che nei giudizi in esame la rinuncia al ricorso, se accettata "da tutte le parti", estingua il processo; la rinunciabilità costituisce la naturale conseguenza della disponibilità dell'azione.


Impugnative statali ed impugnative regionali: i tratti distintivi (ina 741).


Le impugnative esercitabili dallo stato si presentano, però, nettamente differenziate da quelle spettanti alle regioni. Il primo tratto distintivo riguarda il tempo in cui sono proponibili i rispettivi ricorsi: giacché il governo può agire unicamente in via preventiva, impugnando leggi regionali non ancora perfette, nei quindici giorni "dalla data in cui il presidente del consiglio dei ministri ha ricevuto la comunicazione dal presidente della giunta regionale; mentre le regioni debbono impugnare le leggi in via successiva entro il perentorio termine di trenta giorni dalla loro pubblicazione. Di regola, dunque, gli atti impugnati dallo stato non sono ancora muniti della promulgazione ad opera del presidente regionale. L'effetto specifico di queste impugnazioni consiste, nel precludere la promulgazione delle leggi in esame, fino a quando la corte non si sia pronunciata; ed ove ne venga dichiarata l'illegittimità costituzionale, non trova applicazione il primo comma dell'art. 136 Cost., ai sensi del quale la legge ritenuta illegittima "cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione".


Un secondo tratto distintivo ha invece riguardo ai motivi deducibili o ai vizi denunciabili per mezzo dei ricorsi statali e regionali. Quanto al governo della repubblica l'art. 127 prevede espressamente che la legge suscettibile di essere rinviata al consiglio regionale "ecceda la competenza della regione o contrasti con gli interessi nazionali o con quelli di altre regioni". Ma la corte costituzionale ha replicato che "per competenza legislativa attribuita alla regione deve intendersi la sfera entro la quale la stessa può legiferare, sfera che trova i suoi limiti nelle stesse norme costituzionali attributive della potestà": dal che la conseguenza che può essere denunciato in questa sede qualunque contrasto con la costituzione. Appunto in tal senso si afferma che lo stato agisce "a tutela dell'ordinamento giuridico complessivo"; che in altre parole i ricorsi governativi sono a tali effetti lo "strumento dell'unità della repubblica"; che il conseguente giudizio della corte forma perciò l'ultima fase di un procedimento di controllo sulla legge regionale, in cui si manifesta la superiorità dello stato nei confronti della regione. L'unico limite concernente i motivi dei ricorsi del governo riguarda, perciò, la necessaria corrispondenza tra i vizi denunciati in sede di rinvio e quelli che si prestano a venire successivamente sottoposti all'esame della corte. Ben diversamente, i ricorsi regionali avverso leggi dello stato non possono basarsi se non sulla pretesa invasione o lesione delle attribuzioni proprie della regione ricorrente. Tali azioni sono proponibili "quando una regione ritenga che una legge o un atto aventi forza di legge della repubblica invada la sfera della competenza ad essa assegnata dalla costituzione". Con questo fondamento la giurisprudenza costituzionale ha quindi ragionato di un indispensabile interesse a ricorrere. Così la corte stessa ha richiesto che l'interesse risulti concreto, ossia che l'impugnazione regionale si presti ad avere "pratico effetto". Del pari, sono stati ritenuti inammissibili i ricorsi non sorretti da un interesse attuale. Occorre notare però che il requisito dell'invasione di una qualche competenza regionale non è presentemente inteso in senso stretto. Si danno alcuni statuti speciali che fanno capire come le regioni ricorrenti possano appellarsi a tutte le disposizioni statutarie riguardanti il loro assetto ed i loro rapporti con lo stato. Ciò che più conta, la giurisprudenza è ormai costante nel senso che basti, a rendere ammissibile il ricorso, prospettare alla corte qualunque tipo di "menomazione" o "lesione" delle proprie attribuzioni costituzionalmente garantite.


Analisi degli atti impugnabili in base al primo alinea dell'art. 134.


Nel disporre che "la corte costituzionale giudica sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi, l'art. 134 Cost. determina due grandi ordini di questioni: primo, a quali tipi di leggi e a quali altri atti si riferisca il citato disposto; secondo, che cosa debba intendersi per "legittimità costituzionale". Pur fermo restando che nella iniziale previsione dell'art. 134 rientrano anzitutto le leggi ordinarie dello stato, un problema insorto fino agli anni cinquanta riguarda il sindacato sulle leggi anteriori alla costituzione. S'intende che i contrasti ipotizzabili fra le previsioni costituzionali e la legislazione entrata in vigore antecedentemente al 1° gennaio 1948 non attengono ai procedimenti di formazione delle leggi stesse: sotto questo profilo s'impone, infatti, il principio tempus regit actum; sicché gli atti legislativi in esame sono comunque validi, se ed in quanto posti in essere secondo le norme che in quel momento disciplinavano l'iter formativo di esse. L'incompatibilità con la costituzione può invece concernere i contenuti normativi delle leggi anteriori. Ora, due sono le soluzioni estreme, astrattamente sostenibili. Da un lato si può immaginare che, in presenza di totale incompatibilità, si applichi l'art. 15 disp. Cod. civ., quanto all'abrogazione delle leggi per effetto di leggi posteriori. D'altro lato, per contro, è sostenibile che il sindacato debba comunque venire accentrato: con la conseguenza che non si dovrebbe mai ragionare di abrogazione delle norme legislative anteriori, ma d'incostituzionalità sopravvenuta. L'organo di giustizia snola ha affermato la propria competenza, ogniqualvolta investito da parte di un giudice che non ritenesse di sentenziare l'avvenuta abrogazione di norme precostituzionali. Di quest'ultimo genere è stato l'orientamento adottato dalla costituzione italiana. Questa affermazione di competenza è stata però interpretata, a sua volta, in due modi assai diversi. Vari autori hanno sostenuto che si dovesse trattare di una "competenza esclusiva", tale da non lasciare alcuno spazio al sindacato dei giudici comuni. Ma altri autori hanno invece ipotizzato una sorta di concorso, per cui ogni giudice avrebbe mantenuto il potere di considerare abrogata la norma del suo giudizio, sia pure ad opera della sopravvenuta carta costituzionale. La corte stessa lasciava spazio alla illegittimità costituzionale, là dove argomentava che "i due istituti dell'abrogazione e dell'illegittimità costituzionale non sono identici fra loro, si muovono su piani diversi, con effetti diversi e con competenze diverse"; e la corte di cassazione si affrettava a dichiarare ancora l'avvenuta abrogazione, quanto alle ipotesi di più evidente contrasto fra la costituzione e le leggi anteriori. Il sindacato svolto dalla corte costituzionale è stato di gran lunga preponderante, anche perché le dichiarazioni di sopravvenuta illegittimità sono efficaci erga omnes, diversamente dalle concorrenti decisioni dei giudici comuni. Ma ciò non toglie che, nella visione della corte, "il riconoscimento dell'avvenuta abrogazione rientri nella competenza del giudice ordinario". Per un altro verso, a prima vista potrebbe parere che sottratte al sindacato della corte siano le leggi costituzionali e di revisione costituzionale. Ma non è così, per lo meno sotto un duplice profilo. In primo luogo, il legislatore costituzionale è pur sempre tenuto a seguire il procedimento prescritto dall'art. 138 Cost. In secondo luogo, s'impone comunque la norma fondamentale dall'art. 139 Cost., quanto all'assoluta immodificabilità della "forma repubblicana".


L'individuazione degli atti con forza di legge sindacabili dalla corte (ina 749).


Nella logica dell'art. 134 Cost. l'insieme delle fonti costituzionalmente rilevanti non coincide affatto con l'intero complesso degli atti normativi suscettibili di costituire e modificare l'ordinamento giuridico italiano. Si tratta, al contrario, di una serie chiusa, comprensiva di ben determinate specie di atti-fonte. Oltre alle leggi statali e regionali nella serie rientrano unicamente, cioè, gli atti equiparati a questi effetti dalla costituzione stessa. Per identificare tali atti nel loro intero complesso si suole rilevare che essi si presentano come fonti primarie. In primo luogo, le fonti in esame sono tutte subordinate alla costituzione, rispetto alla quale dev'essere appunto valutata la loro legittimità. Si potrebbe dunque definirle secondarie, proprio per mettere in luce questa loro funzione peculiare. In secondo luogo, non va dimenticato che la primarietà può ben contraddistinguere talune specie di fonti-atto, quali le consuetudini costituzionali o anche i anche i regolamenti comunitari. Ma è prevalentissimo l'avviso che i fatti normativi strettamente intesi non possano mai formare oggetto del sindacato di legittimità costituzionale spettante alla corte. In terzo luogo, per contro, primari potrebbero considerarsi i regolamenti dell'esecutivo qualora indipendenti o autonomi, e dunque vertenti in materie non disciplinate dalla legge. Nello sforzo di precisare meglio le caratteristiche degli atti impugnabili si è detto che determinante sarebbe la loro "posizione di immediata subordinazione alla sola costituzione e di sovraordinazione rispetto ad ogni altra manifestazione normativa della stessa materia". Ma anche quest'ultima definizione non risponde al vero nella totalità delle ipotesi in esame. In definitiva, dunque, la determinazione degli "atti aventi forza di legge" agli effetti del sindacato di legittimità costituzionale, deve anzitutto fondarsi sulla lettera della costituzione. Per sé decisivo può dirsi il dato testuale consistente nell'attribuire a certi normativi la "forza" o il "valore di legge": ed anzi l'espressione valore è quella concettualmente più propria, trattandosi in tal caso del regime degli atti medesimi, piuttosto che dei loro rapporti con le altre fonti normative.


Quanto ai decreti legislativi delegati, che essi possiedano "valore di legge ordinaria" risulta testualmente dal primo comma dell'art. 77 Cost. In linea di massima s'impongono a tali fini i criteri formali: aventi anzitutto riguardo alla lettera della legge delegante (dalla quale dovrebbe risultare se il parlamento abbia inteso conferire una delega legislativa). A volte però nella giurisprudenza costituzionale emergono criteri sostanziali, con riferimento alla natura della funzione esercitata, secondo che si tratti di normazione o di amministrazione di norme attuative. Dubbi del genere non si pongono, invece, per quelle particolari specie di atti con forza di legge, che consistono nei decreti legislativi di concessione dell'amnistia e dell'indulto, ovvero di attuazione degli statuti speciali. In entrambi i casi non sussistono problemi di individuazione, date le peculiarità degli oggetti spettanti a queste fonti.


È da gran tempo risolta la questione se il sindacato sugli eccessi di delega spetti ai giudici comuni oppure alla corte costituzionale. La corte stessa ha infatti affermato la propria competenza. L'eccesso di delega determina un'indiretta violazione degli art. 70, 76 e 77. L'appartenenza dei decreti legge alla categoria degli atti con forza di legge è resa evidente dal secondo comma dell'art. 77 Cost. Ora, nell'ipotesi che si determini la decadenza del decreto per mancata o denegata conversione di legge, la giurisprudenza costituzionale è orientata a dichiarare l'inammissibilità di tali impugnative. Se, viceversa, il provvedimento in discussione viene tempestivamente convertito occorre distinguere secondo che i vizi denunciati fossero peculiari di quell'atto ovvero suscettibili di ripercuotersi sulla rispettiva legge di conversione. Nel primo caso, la questione diviene nuovamente inammissibile. Nel secondo caso, se la legge di conversione riproduce tal quali le disposizioni impugnate, sicché il contenuto di esse resti "inalterato", il giudizio si trasferisce a carico della legge medesima. Per il fatto stesso di incidere sul leggi o atti normativi equiparati, anche i referendum abrogativi dovrebbero inquadrarsi fra gli atti aventi forza di legge. Coerentemente, la corte ha fatto intendere in varie occasioni che l'effetto abrogativo del referendum potrebbe generare esiti "non conformi alla costituzione": nel qual caso "la conseguente situazione normativa" sarebbe però sindacabile dalla corte stessa. I veri problemi riguardano piuttosto lo spazio spettante al successivo giudizio di costituzionalità. Si è risposto in dottrina che residuerebbero svariate ipotesi di vizi del procedimento referendario.


Più in generale, è stato sostenuto che nel novero delle fonti equiparabili alla legge ricadrebbero tutti gli atti normativi abilitati "a sostituirsi . nella disciplina di determinate materie, ad essi riservate, alla stessa legge formale". Sulla base di questa interpretazione dell'art Cost., dovrebbero dirsi assoggettati agli appositi giudizi di legittimità i regolamenti degli organi costituzionali. Si è visto, però, che la corte ha recentemente risolto il problema nel senso negativo. E la conclusione accolta per la disciplina regolamentare delle camere dovrebbe valere in ordine agli stessi regolamenti "presidenziali" e per quelli adottati dalla corte costituzionale. Quanto agli atti con forza di legge delle regioni è ormai un punto fermo che gli esecutivi regionali non possono adottare né decreti-legge né decreti legislativi delegati. Ma questo non toglie che gli atti così qualificati si prestino ad essere sindacati ed annullati dalla corte costituzionale. Viceversa, la corte ha finito per escludere la propria competenza a sindacare i regolamenti "interni" dei consigli regionali. I soli esempi di atti con forza di legge regionale, rientranti fra le attribuzioni dell'ente regioni, rimangono quindi costituiti dai referendum abrogativi delle leggi stesse e dagli atti improrogabili spettanti alle commissioni.


I parametri dei giudizi di legittimità costituzionale (ina 756).


Stando alla legge n. 87 sembrerebbe che il criterio di determinazione dei parametri alla luce dei quali la corte costituzionale svolge i suoi giudizi sulle leggi sia puramente formale. Ed effettivamente sono rimaste minoritarie le opinioni dottrinali intese ad includere fra i parametri in esame le leggi ordinarie materialmente costituzionali o le cosiddette leggi costituzionali del periodo fascista o della successiva fase transitoria. Vero è che la stessa giurisprudenza costituzionale ha fatto, eccezionalmente, un qualche uso di parametri desunti da norme antecedenti al 1° gennaio 1948. Ma si trattava di vizi accertabili e censurabili. Elevare a parametro le sole disposizioni di rango costituzionale non è tuttavia corretto né esaustivo, per un triplice ordine di motivi. In primo luogo, è manifesto che la costituzione scritta oggetto d'interpretazione ed è per questa via che si passa dalle disposizioni alle norme.


In secondo luogo, è appunto in tal senso che le consuetudini costituzionali possono entrare a comporre i parametri dei giudizi sulle leggi. In terzo luogo, può dirsi ormai pacifico che dei parametri facciano parte le cosiddette norme interposte: cioè le previsioni stabilite o desumibili da fonti subcostituzionali, ma elevate dalla costituzione ad altrettanti limiti delle leggi ordinarie. Ma non si può dire che ogni richiamo costituzionale di particolari fonti valga, per sé solo, a generare un corrispondente limite delle legislazione ordinaria.


La legittimità delle leggi: vizi formali e vizi sostanziali (ina 758).


Ragionando di legittimità ai fini dei giudizi sulle leggi, il primo alinea dell'art. 134 ha inteso indubbiamente precludere alla corte ogni sindacato concernente il merito delle scelte legislative, vale a dire la loro opportunità politica e tecnica. Si può trarne conferma, a contrario, dal quarto comma dell'art. 127 Cost., che conferisce da un lato al governo il potere di "promuovere la questione di legittimità davanti alla corte costituzionale, ma d'altro lato riserva alle camere la soluzione delle parallele questioni "di merito per contrasto di interessi". Ed è in questo senso che va interpretato il disposto dell'art. 28 della legge 87, onde "il controllo di legittimità della corte costituzionale su una legge o un atto avente forza di legge esclude ogni valutazione di natura politica e ogni sindacato sull'uso del potere discrezionale del parlamento". Secondo le correnti impostazioni dottrinali, la summa divisio intercorre fra i vizi formali ed i vizi sostanziali: i primi concernenti il procedimento formativo delle leggi e degli atti equiparati; i secondi relativi, invece al contenuto normativo degli atti medesimi. Non giova replicare che il parlamento può porre qualsiasi norma, purché si serva del procedimento costituzionalmente adeguato allo scopo. Nell'ordinamento vigente si danno limiti del tutto insuperabili cui dunque corrispondono altrettanti vizi sostanziali. In secondo luogo, il discorso kelseniano rimane inapplicabile alle fonti "specializzate" sul tipo delle leggi regionali. In terzo luogo, è radicale la diversità dei rispettivi parametri: nel caso dei vizi formali si tratta, in particolar modo, degli art. 70 della costituzione, mentre nel caso dei vizi sostanziali vengono in rilievo i più vari precetti e principi costituzionali. Né va dimenticato che soltanto i vizi sostanziali sono sindacabili dalla corte costituzionale quanto alle leggi anteriori al 1° gennaio 1948. Più precisamente, si suole sostenere che quelli formali si risolvono in vizi inficianti l'atto legislativo; ed anzi si tende a pensare che i vizi medesimi involgano l'atto considerato "nella sua interezza". Quest'ultimo assunto è stato però contestato da una notevole corrente dottrinale, in nome del canone utile per inutile non vitiatur: donde la conseguenza che l'invalidità formale di una singola disposizione non dovrebbe comportare l'incostituzionalità dell'intera legge. Anche la corte costituzionale ha tratto argomento dal "principio generale di conservazione degli atti" per desumerne che il vizio formale "non comporta, per sé considerato, l'annullamento integrale della legge . , ma può solo incidere sulla parte specificamente viziata". Sia che colpiscano l'intero atto, sia che riguardino singole parti di esso, i vizi formali possono risultare così gravi, da far dubitare che il loro accertamento spetti alla corte. I vizi stessi potrebbero implicare addirittura la giuridica inesistenza delle leggi, secondo il principio jura novit curia. Non diversamente dalle leggi anteriori alla costituzione anche le leggi infirmate si prestano ad essere disapplicate da ogni autorità giurisdizionale competente. Quanto ai vizi sostanziali è assai controverso se essi riguardino le norme o le disposizioni delle leggi e degli atti equiparati. Il dilemma presenta una notevole importanza, concettuale e pratica, giacchè per disposizioni s'intendono i testi legislativi, mentre le norme sono il frutto dell'interpretazione dei testi medesimi. Ma i dati ricavabili in proposito dalla costituzione e dalle leggi integrative ed attuative dei essa non sono affatto concordi. Ma la disputa può essere composta, ricordando che la necessaria indicazione di determinati testi legislativi da parte del giudice a quo non esclude affatto, ma anzi comporta, che i testi medesimi debbano venire interpretati, tanto in sede d'impugnativa quanto e soprattutto in sede di giudizio sulla loro legittimità. È per questa via che le norme sono dunque "dedotte" dalle disposizioni o dalle statuizioni di legge; ed è sulle norme che la corte concentra il proprio sindacato: come risulta con particolare evidenza nel caso delle sentenze interpretative, di rigetto o di accoglimento. Senonché, nel momento in cui la corte si pronuncia, dichiarando illegittime le norme impugnate, i dispositivi delle relative decisioni fanno sempre riferimento alle leggi o agli articoli di legge sui quali essi incidono, eliminandone talune parti od anche integrando i testi in questione.


Resta il problema concernente la classificazione dell'incompetenza in cui possono incorrere gli organi e gli enti dotati di questa o quella specie di potestà legislativa: donde un vizio che alcuni finiscono per ritenere formale, mentre altri preferiscono considerarlo come un tertium genus, intermedio fra i vizi degli atti e i vizi delle norme testè analizzati. Per incompetenza s'intende il vizio riguardante il soggetto titolare di una certa legislazione, che la eserciti fuori del campo ad essa attribuito dalle norme costituzionali. Così concepito, però, il vizio stesso tende a confondersi con quelli consistenti nella violazione di qualunque altro parametro, che valga a condizionare l'utilizzazione delle potestà in esame.


L'eccesso di potere legislativo ed il sindacato sulla ragionevolezza delle leggi (ina 763).


I vizi inficianti la legittimità possono consistere nel cosiddetto eccesso di potere, avente precipuo riguardo alle ipotesi di sviamento: vale a dire all'uso di un certo potere per il conseguimento di un fine diverso da quello indicato nelle norme attributive. Analogamente, vi è chi ritiene che tale tripartizione si estenda ai giudizi sulle leggi; sicché la corte potrebbe dichiarare illegittime non solo le norme che si pongano in diretto contrasto con i parametri costituzionali, ma anche con le norme che comunque perseguano finalità incompatibili con quelle prescritte dalle fonti sopraordinate. Concettualmente l'eccesso di potere amministrativo attiene all'uso illegittimo d'un qualche potere discrezionale, cioè vincolato nel fine; ma la funzione legislativa si dimostra libera piuttosto che discrezionale nel significato tecnico del termine, sicché viene meno il fondamento primo sul quale si dovrebbe reggere l'idea di un eccesso di potere del legislatore statale ordinario. Praticamente è ben vero che la corte costituzionale ha sindacato moltissime volte la ragionevolezza delle scelte legislative, per colpire gli eventuali arbitri nei quali il legislatore fosse incorso. Senonché il controllo della ragionevolezza trascende di molto quei particolari settori nei quali si potrebbe ragionare di norme costituzionali di scopo, tali da rendere discrezionale la conseguente attività legislativa. Per meglio intendere i termini reali del problema, basti pensare che le valutazioni inerenti alla non-arbitrarietà delle norme legislative impugnate sono particolarmente frequenti allorché la corte assume a parametro il principio generale di eguaglianza. Ma l'eguaglianza non è un fine che la costituzione abbia imposto alle leggi; essa è piuttosto un criterio, nel rispetto del quale il legislatore ordinario resta libero di perseguire gli scopi più svariati. In quella prospettiva, dunque, il sindacato di ragionevolezza rimane indispensabile. Conclusioni analoghe valgono in tutti quei casi nei quali il legislatore oltrepassa i limiti estremi dei margini di scelta offerti da certe "formule elastiche". Più in generale, sembra fuor di luogo riferirsi all'eccesso di potere legislativo, quando la corte è chiamata a conciliare o bilanciare una serie di valori costituzionali. Quali che siano i fini perseguiti dal legislatore, ciò che conta è l'equilibrio da salvaguardare nel rapporto tra i valori stessi. Il vero nodo non consiste, comunque, nel definire le varie specie di vizi sostanziali. Ma in ultima analisi quella distinzione si affida al senso di responsabilità dei giudici costituzionali.


Sentenze e ordinanze della corte (ina 766).


Le sentenze di accoglimento, cioè le pronunce che dichiarano "l'illegittimità costituzionale di una norma di legge o di un atto avente forza di legge". Solo per implicito si può viceversa desumerne che alla corte è dato pronunciarsi mediante sentenze di rigetto, dichiarative della non-fondatezza delle questioni sollevate. Ed a ciò si aggiungono i cenni relativi alle ordinanze di manifesta infondatezza. Da un lato, la giurisprudenza costituzionale ha gradualmente evidenziato vari tipi o sottotipi di sentenze. Si pensi, anzitutto, alle ordinanze istruttorie, che provvedono all'acquisizione degli opportuni "mezzi di prova". Ma, specialmente, si ricordino le ordinanze di restituzione degli atti al giudice "a quo", utilizzate in maniera sistematica nelle ipotesi di jus superveniens, modificativo degli originari termini delle questioni incidentali di legittimità. Appartengono al genus delle ordinanze svariate "decisioni processuali" che "chiudono" il giudizio. Nel primo senso, tornano in rilievo le pronunce che dichiarano manifestamente infondate le relative impugnazioni. Nel secondo senso, invece, si tratta soprattutto delle ordinanze di manifesta inammissibilità, ignorate sia dalla legge n. 87 sua dalle conseguenti norme integrative. In tutte queste ipotesi la corte ha implicitamente ritenuto che al caso della manifesta infondatezza potesse corrispondere, appunto, il caso della manifesta inammissibilità.


Le sentenze di accoglimento (ina 769).


Disponendo che le dichiarazioni d'illegittimità costituzionale di norme legislative ne fanno cessare l'efficacia, il primo comma dell'art. 136 Cost. lascia chiaramente intendere che tali decisioni sono efficaci erga omnes. Si tratta, perciò, di sentenze che producono, all'atto di accertare la presenza di una qualche ragione d'invalidità, un particolarissimo effetto costitutivo, tale da impedire ogni ulteriore applicazione delle norme stesse. Circa la natura e la portata di questo effetto si sono aperte, però, le più varie controversie dottrinali e giurisprudenziali. L'interpretazione letterale dell'art. 136 precisa che la norma illegittima "cessa di aver efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione". Senonché una tale soluzione del problema è stata ben presto superata. L'art. 136 continua a prescrivere che l enorme illegittime cessino di aver efficacia in conseguenza della pubblicazione delle sentenze di accoglimento, a conclusione dei rispettivi processi costituzionali e non del corso di essi. Ma quella cessazione non può non reagire sul passato. Di più: la cosiddetta retroattività delle sentenze di accoglimento non si risolve nel coinvolgere i rapporti all'esame dei giudici che hanno sollevato le relative questioni, ma incide su tutti gli altri rapporti del medesimo genere. La legge n. 87 dispone assai chiaramente che "le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione; senza dunque distinguere tra i fatti sopravvenuti e quelli pregressi. Le sentenze di accoglimento sono dunque operative ex tunc; ma non senza limiti rilevantissimi, che valgano ad escluderne l'incondizionata retroattività. Secondo una terminologia consolidata in dottrina bisogna cioè distaccare i rapporti pendenti, tuttora suscettibili di essere rimessi in discussione dinanzi ad una qualche autorità giurisdizionale, dai rapporti esauriti, giuridicamente definiti e non più modificabili. La linea distintiva non rientra, però, nel campo del diritto costituzionale. In particolar modo, è indiscusso che l'esaurimento di un rapporto derivi anzitutto dalla cosa giudicata, cioè dalle sentenze non soggette ad alcuna impugnazione. Inoltre, la stessa conclusione vale per i casi di prescrizione e decadenza, nei quali il decorso del tempo determina "la certezza definitiva del rapporto" ovvero esclude l'impugnabilità di dati atti, quand'anche applicativi di norme successivamente colpite dalla corte. Ma occorre ricordare che la distinzione non è sempre così chiara e pacifica. Per esempio, la corte di cassazione e la corte costituzionale si sono apertamente contrapposte nel qualificare l'incidenza delle sentenze di accoglimento sui procedimenti penali già in atto; soltanto al termine di accese controversie ha prevalso l'avviso della cassazione, onde il giudice penale non può fare "diretta applicazione" delle norme processuali dichiarate illegittime. Per tutt'altro verso si è dibattuto ed ancora si dibatte se la dichiarata illegittimità di una certa disciplina determini i meno la "reviviscenza" delle norme legislative da essa abrogate. Taluno sostiene che l'effetto abrogativo debba considerarsi istantaneo. Altri sono orientati nel senso che la "reviviscenza" si produca comunque, salvo il potere della corte di colpire contestualmente le stesse norme abrogate. Ma è preferibile, piuttosto, la tesi intermedia per cui la legge abrogata non potrebbe rivivere, se non quando la sentenza di accoglimento incida sulla clausola abrogativa inclusa nella legge sopravvenuta. Beninteso, tutto questo non toglie che una qualche retroattività si registri pur sempre. Ciò basta per escludere che le sentenze in esame debbano considerarsi abrogative. La circostanza che restino salvi i rapporti esauriti e che l'incostituzionalità non sia verificabile da qualunque giudice ma sindacabile esclusivamente dalla corte, dimostra invece che la corte stessa provvede in tal modo all'annullamento delle norme o degli atti ritenuti illegittimi. Qual è il vincolo che, conseguentemente, una legge illegittima produce a carico dei sottoposti, prima che la corte ne accerti e ne dichiari l'incostituzionalità? Il solo punto fermo riguarda i giudici, in ordine ai quali è pacifico che essi hanno l'obbligo di sollevare questione di legittimità e di sospendere i rispettivi giudizi. Qualche motivo di incertezza riguarda invece la situazione in cui si trovano i soggetti privati. Un'altra corrente dottrinale li considera facoltizzati alla disapplicazione, sia pure a proprio rischio e pericolo. Quest'ultima è l'intepretazione maggiormente persuasiva. Assai più discussa è la posizione dei funzionari pubblici a fronte di leggi illegittime, non pervenute all'esame dell'organo della giustizia costituzionale. I doveri gravanti su tali soggetti differiscono da quelli concernenti i privati. Alcuni cioè tornano a sostenere "il carattere non obbligatorio della legge incostituzionale". Altri ragionano di "esecutorietà" delle leggi, negando che il potere esecutivo possa distinguere fra quelle conformi e quelle difformi. Sembra preferibile la seconda impostazione.


Subito dopo aver sancito l'obbligo di emettere le sentenze di accoglimento "nei limiti dell'impugnazione", la legge n. 87 aggiunge che la corte "dichiara, altresì, quali sono le altre disposizioni legislative, al cui illegittimità deriva come conseguenza dalla decisione adottata". Ma anche per quest'ultimo profilo la portata delle sentenze medesime appare problematica; tanto più che la giurisprudenza costituzionale non è affatto concorde e costante nell'uso della cosiddetta illegittimità costituzionale delle leggi. Ciò che più conta, l'illegittimità derivata viene talvolta contenuta nei minimi termini, con riguardo a quelle norme strumentali o di dettaglio. Altre volte, la corte ha annullato norme applicative del medesimo principio già ritenuto costituzionalmente illegittimo.


Le sentenze di rigetto (ina 775).


Le sentenze di rigetto non vengono ritenute efficaci erga omnes. Ma non convince il tentativo di assimilare le decisioni di rigetto alle sentenze sul merito passate in giudicato. Se così fosse, tali pronunce dovrebbero dirsi efficaci inter partes. In realtà viceversa dottrina e giurisprudenza sono da tempo orientate nel senso di non escludere affatto che la medesima questione sia comunque sollevata in un altro giudizio, quand'anche in presenza delle stesse parti. Ed anzi vari autori affermano che la riproposizione sia possibile nei successivi gradi dello stesso procedimento; mentre nessuno contesta la preclusione riguardante il giudice che abbia già proposto la questione incidentale esaminata dalla corte. D'altra parte si suole ritenere che anche quel giudice possa sollevare impugnative diverse da quella già respinta, sebbene concernenti le medesime norme.


Le sentenze "interpretative" (ina 777).


La netta ed elementare contrapposizione fra le sentenze di accoglimento e le sentenze di rigetto è stata alterata e complicata dalla giurisprudenza costituzionale. La corte ha fatto leva, in primo luogo, sul potere di reinterpretare entrambi i termini dei suoi giudizi sulla legittimità delle leggi. È stata ovviamente la corte a concretare la cosiddetta costituzione vivente: le ricostruzioni offerte dalle sue sentenze sono valse infatti a fissare il significato dei precetti e dei principi costituzionali addotti a parametro. D'altro lato, però, la corte ha rivendicato l'interpretazione delle norme sottoposte al suo giudizio, anche in termini distanti da quelli indicati nelle ordinanze e nei ricorsi introduttivi; ed è a questo punto che la distinzione fra le norme e le disposizioni legislative impugnate ha assunto un rilievo quanto mai concreto. La corte non sempre si è limitata a fornire puntuali risposte; bensì ha ricavato da quelle leggi norme diverse, costituzionalmente legittime sotto il profilo in esame. Con questo fondamento si è fin dagli inizi enucleato il tipo delle sentenze interpretative di rigetto: cioè dalle pronunce basate sulla premessa che ciascuna disposizione deve appunto venire interpretata. In un primo tempo, la corte ha cercato di affermare le proprie ricostruzioni dovunque esse fossero atte a risolvere i proposti problemi di legittimità costituzionale. Ne sono derivati notevoli e gravi dissensi interpretativi. Mentre è soltanto dagli anni settanta che un criterio di risoluzione è stato rinvenuto, su entrambi i versanti, nel cosiddetto diritto vivente, cioè nelle interpretazioni giurisprudenziali prevalenti e consolidate. Ciò sta a significare che, dinanzi al diritto vivente, la stessa corte costituzionale vi adegua la propria interpretazione delle norme legislative in esame. Quando il "diritto" medesimo risulta conforme alla costituzione, accade pertanto che essa pronunci sentenze interpretative di rigetto le quali ricalcano gli orientamenti della cassazione e contribuiscono a rafforzarli. Ma viceversa, dove la giurisprudenza non si è consolidata, la corte costituzionale riassume la propria libertà di giudizio anche in ordine all'interpretazione delle norme impugnate. In altre parole, esistono oggi due specie di sentenze del genere in questione: vale a dire le "decisioni meramente correttive", che dichiarano infondate le proposte questioni di costituzionalità; e le decisioni propriamente "adeguatici", che mirano bensì ad imporre un'interpretazione diversa da quella sostenuta ad opera del giudice a quo, ma sulla base di convinzioni della corte. Ad entrambi i tipi corrisponde un complesso tendenzialmente omogeneo di dispositivi, nei quali la corte dichiara non fondata la questione proposta in esame, "ai sensi di cui in motivazione": così facendo intendere che la portata di quelle decisioni di rigetto non può essere compiutamente colta, se non mettendo a confronto il ben diverso significato rispettivamente attribuito alla norma impugnata dal giudice a quo e dalla corte stessa. Fin dall'inizio, tuttavia, la corte si rendeva ben conto che tali interpretazioni correttive ed adeguatici non erano giuridicamente in grado di affermarsi per forza propria, poiché rimanevano pur sempre contenute in decisioni di rigetto. Anche le predette sentenze interpretative non obbligano, infatti, la totalità dei sottoposti, né delle pubbliche autorità competenti in materia; ed allo stesso giudice a quo rimane la possibilità di seguire una terza via, reinterpretando ulteriormente la disposizione contestata. Gli altri giudici restano comunque liberi di riadattare le interpretazioni implicitamente ritenute illegittime. È stato appunto questo l'esito finale della vicenda. Quanto meno nel corso degli anni sessanta, quelle decisioni sono state tradotte in altrettante sentenze interpretative di accoglimento.


Le sentenze "additive" e "sostitutive"; le decisioni di accoglimento "pro futuro" (ina 781).


Tuttavia, il genus delle sentenze interpretative di accoglimento propriamente intese è stato ben presto abbandonato. Quelle pronunce finivano infatti per determinare incertezze, non lasciando intendere con la necessaria precisione quanta parte della disciplina sindacata fosse stata annullata dalla corte. Con sempre maggiore frequenza, perciò, la corte ha cominciato a formulare siffatte decisioni con una tecnica legislativa, sotto specie di emendamenti puntualmente indicativi degli effetti ritenuti illegittimi: il che ha dato vita alle cosiddette sentenze additive o sostitutive. Le pronunce in questione rientrano, dunque, alla lettera, fra le sentenze di accoglimento parziale. Ma ciò non toglie che esse, con tutta evidenza, non svolgano una funzione caducatoria di determinate parti di testo impugnato. Quella annullata è solo la parte ideale, ovvero un "precetto implicito". Di più: ad essere colpita è semplicemente un'omissione del legislatore. Le cosiddette sentenze sostitutive, per mezzo delle quali la corte non si limita a far cadere un'esclusione od un vincolo od una mancata previsione di qualsivoglia natura; bensì modifica esplicitamente il precetto in discussione. Ciò vale per la sentenza che ha dichiarato l'illegittimità di una norma del codice penale, "nei limiti" in cui essa attribuiva "il potere di dare l'autorizzazione a procedere per il delitto di vilipendio della corte costituzionale al ministro di grazia e giustizia anziché alla corte stessa".


Fino agli ultimi anni si soleva affermare in dottrina che le sentenze di accoglimento fossero sempre produttive di "precisi, automatici ed invariabili effetti". Con questo fondamento si negava, perciò, che l'organo della giustizia costituzionale italiana fosse in gradi di restringere l'ambito temporale di efficacia degli annullamenti da esso disposti.


Nel più recente periodo la corte ha emesso, però, talune sentenze additive del tutto peculiari, che nel dispositivo provvedevano appunto a ridurre gli effetti temporali della dichiarazione di accoglimento. Pronunce del genere, che rimangono comunque molto rare, sono per altro basate sulla particolarissima premessa che nei casi in questione si possa ragionare di un'illegittimità sopravvenuta e non originaria. Al di fuori di siffatte ipotesi la corte stessa ha invece utilizzato la tecnica della "doppia pronuncia": consistente nell'assumere una prima decisione d'infondatezza o d'inammissibilità, la cui motivazione preannuncia però un futuro accoglimento non appena la questione si dovesse ripresentare.


Parallelamente, per conseguire analoghi scopi l'organo della giustizia costituzionale si è servito delle cosiddette sentenze additive di principio: in cui la dichiarazione di parziale illegittimità delle discipline impugnate si accomna all'imposizione di nuove misure costituzionalmente indispensabili, che tuttavia rimangono affidate agli interventi legislativi.


Cenni conclusivi sulla natura delle sentenze di accoglimento (ina 785).


Le pronunce analizzate nel precedente paragrafo sono state spesso accomunate nella letteratura giuridica. Alcuni autori ragionano, infatti, congiuntamente, di sentenze integrative; altri preferisce il nomen di sentenze "normative" o di "sentenze-legge"; altri ancora le ingloba nel tipo delle sentenze manipolative. Nella gran parte dei casi, la creatività delle sentenze manipolative è piuttosto apparente che reale. La linea divisoria fra le sentenze interpretative di rigetto e le corrispondenti sentenze di accoglimento è quanto mai sottile, salvo soltanto il ben diverso ambito soggettivo di efficacia. In parecchie occasioni d'altronde, se la corte avesse emanato decisioni puramente caducatorie anziché additive o sostitutive, si sarebbe determinata una situazione ancor meno adeguata di quella originaria. Del resto, una volta superate le iniziali resistenze della cassazione, le sentenze "manipolative" non hanno quasi mai suscitato le reazioni dei giudici, né quelle del parlamento. In proposito è corrente l'avviso per cui le sentenze "manipolative" non possono essere veramente creative di nuovo diritto. Precisamente si è detto in dottrina che le decisioni additive e sostitutive , si sarebbe determinata una situazione ancor meno adeguata di quella originaria. Del resto, una volta superate le iniziali resistenze della cassazione, le sentenze manipolative non hanno suscitato quasi mai le reazioni dei giudici, né quelle del parlamento. In proposito è corrente l'avviso per cui le sentenze "manipolative" non possono essere veramente creative di nuovo diritto. Precisamente si è detto in dottrina che le decisioni additive e sostitutive devono pur sempre contenersi nei termini di una composizione "a rime obbligate", limitandosi a trarre dal sistema la norma. Qualora le soluzioni ipotizzabili siano molteplici la corte deve escludere che la questione si collochi sul piano della legittimità costituzionale; ed è per contro tenuta a pronunciare una dichiarazione d'inammissibilità, riconoscendo che il petitum rientra nel campo riservato alla cosiddetta discrezionalità del parlamento. Ne segue che le sentenze "manipolative" non sono pienamente assimilabili alle leggi, ordinarie e costituzionali; ma questo non toglie che le pronunce medesime possano pur sempre venire inquadrate nel novero delle fonti normative. Indipendentemente dal grado della loro creatività, gli annullamenti pronunciati dalla corte sono infatti efficaci erga omnes:il che induce una notevole corrente dottrinale a concludere nel senso che ci si trovi in presenza di altrettanti atti con forza di legge. Chi volesse attribuire a queste decisioni un posto ben preciso nel sistema delle fonti, verrebbe anzi condotto a pensare che esse abbiano il rango delle norme costituzionali applicate dalla corte. Senonché l'equiparazione fra le sentenze di accoglimento e le corrispondenti norme costituzionali non può essere portata alle estreme conseguenze. Quelle stesse norme, non appena mutati i punti di riferimento formati dal tertium o dai termia ationis, possono infatti apparire legittime anziché difformi dal principio generale dell'art. 3 Cost.; il che dimostra, limitatamente a tali ipotesi, che le dette sentenze di accoglimento non hanno un rango propriamente costituzionale, ma sono piuttosto assimilabili alle norme legislative ordinarie.


I conflitti di attribuzione tra i poteri dello stato (ina 791).


Nell'affidare alla corte la risoluzione dei conflitti tra i poteri dello stato, il secondo alinea dell'art. 134 Cost. non ha inteso coinvolgere i conflitti interni ai singoli poteri. È questo il caso dei "conflitti di attribuzione tra i ministri". Inoltre, non è alla corte costituzionale bensì alla cassazione che spetta ancor oggi risolvere le "questioni di giurisdizione" espressamente eccettuate dalla legge n. 87. I conflitti in esame rappresentano, dunque, un rimedio nuovo ed aggiuntivo. La legge n. 87, che forma la fonte primaria della relativa disciplina, si limita a disporre quanto segue: "il conflitto tra i poteri dello stato è risolto dalla corte costituzionale se insorge tra organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà dei poteri cui appartengono e per la delimitazione della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali. Il nucleo della controversia è certamente costituito da un conflitto di competenze. Un secondo dato riguarda invece i parametri del giudizio. Occorre cioè che il conflitto abbia un "tono costituzionale" anche se le norme costituzionali invocate nel ricorso vengono spesso integrate da norme legislative ordinarie. Assai più complessa e problematica è la determinazione dei possibili soggetti del conflitto. In primo luogo, si è riconosciuto che il conflitto può insorgere fra organi costituzionali di qualsiasi tipo: ivi compresi quegli organi-potere che si risolvono in un solo organo dello stato. In secondo luogo generalmente sono stati inclusi fra i "poteri" legittimati a congere tanto il consiglio di stato e la corte dei conti quanto il consiglio superiore della magistratura. In terzo luogo, si è sostenuta l'esperibilità del rimedio in esame da parte di "sezioni di organi", quali le commissioni o anche i gruppi parlamentari. Così la corte ha senz'altro inserito nel quadro il presidente della repubblica; ha lasciato intendere che la corte stessa rientra "fra gli organi legittimati ad essere parti in conflitti di attribuzione fra poteri"; ha dichiarato ammissibili ricorsi promossi dai presidenti della camera e del senato; ed ha concluso nello stesso senso, già in precedenza, quanto alle commissioni parlamentari d'inchiesta. Ciò che più conta la corte ha qualificato il giudiziario come un potere "diffuso". Fuori dalla cerchia degli organi dello stato-apparato la corte si è spinta in una sola occasione, quando ha ritenuto ammissibile un ricorso proposto dal comitato promotore di un referendum abrogativo.


Oggetto e procedimento dei conflitti tra poteri (ina 795).


La causa scatenante del conflitto in esame può consistere in qualsiasi atto o di comportamento imputabile ad un altro potere dello stato, che il ricorrente ritenga invasivo o lesivo delle proprie attribuzioni. Per aversi conflitto basta che sia prospettabile un qualche pregiudizio di ordine costituzionale. La corte ha ribadito "il criterio per cui la ura dei conflitti di attribuzione, sia tra lo stato e le regioni sia tra i poteri dello stato, non si restringe alla sola ipotesi di contestazione circa l'appartenenza del medesimo potere, che ciascuno dei contendenti rivendichi per sé, ma si estende a comprendere ogni ipotesi in cui dall'illegittimo esercizio di un potere altrui consegua la menomazione di una sfera di attribuzioni costituzionalmente assegnata all'altro soggetto. La giurisprudenza costituzionale ha messo in luce, però, due ordini di eccezioni o di limiti al detto principio. Da un lato, la corte ha più volte negato di poter giudicare dei pretesi errori commessi da un organo giurisdizionale nell'esercizio di una funzione sicuramente compresa nella sua competenza. D'altro lato la corte stessa ha recentemente concluso nel senso che, "in linea di principio, il conflitto . non possa ritenersi dato contro una legge o un atto equiparato". Per contro l'esperienza giuridica non ha offerto finora alcun sostegno alla tesi che i conflitti in questione possano essere virtuali oltre che reali. Al pari di tutti i ricorsi che instaurino un giudizio di parti, anche quelli previsti dalla legge n. 87 presuppongono un concreto interesse a ricorrere. Il che non esclude situazioni di conflitto negativo, in vista delle quali il ricorrente si dolga della mancata adozione di un determinato atto.


Rispetto agli altri giudizi di parti il conflitto fra i poteri presenta tuttavia due caratteristiche procedurali quanto mai spiccate. In primo luogo nel caso in esame il ricorso può essere proposto in ogni tempo, purché il ricorrente sia tuttora interessato a farlo. In secondo luogo il ricorso dev'essere preliminarmente dichiarato ammissibile, mediante un'apposita ordinanza adottata in camera di consiglio. È dubbio e controverso se anche in tal campo la corte possa sospendere l'esecuzione degli atti impugnati. Parte della dottrina ritiene infatti che si debba ricorrere analogicamente alla norma che regola tale rimedio nell'ambito dei conflitti fra lo stato e le regioni; mentre altri autori inclinano a considerare tassativa e dunque in estensibile quella previsione della legge n. 87. La corte stessa ha invece evitato di prendere posizione. Ancora si discute se le sentenze pronunciate dalla corte siano o meno efficaci erga omnes.


I conflitti di attribuzione tra lo stato e le regioni (ina 798).


Sulla carta anche i conflitti fra stato e regioni o fra regioni dovrebbero concernere la spettanza di attribuzioni individuate mediante norme di rango costituzionale. Tuttavia la giurisprudenza della corte è saldamente orientata nell'erigere a parametro discipline subcostituzionali, quali le norme di attuazione degli statuti speciali. In tutti questi casi, dunque, verrebbe pur sempre in prima linea la "definizione dei limiti dell'autonomia costituzionale delle regioni". Dapprima la corte negava che tali attribuzioni potessero formare il tema di un conflitto. Da ultimo quell'indirizzo costituzionale è stato corretto. Un allargamento ancor più notevole ha poi riguardato la determinazione degli atti impugnabili. Anche i giudizi in esame possono assumere ad oggetto qualsiasi atto comunque lesivo, cioè produttivo della menomazione dedotta nel ricorso. Soltanto in una prima fase, dunque, i regolamenti di competenza hanno avuto esclusivo riguardo ai provvedimenti amministrativi. A partire dagli anni sessanta, per contro, la corte ha risolto svariati conflitti concernenti atti giurisdizionali, impugnati dalle regioni. Nondimeno anche in questi casi la corte stessa ha evitato di sindacare gli errori "in iudicando". I conflitti fra lo stato e le regioni presuppongono, comunque, che il ricorrente impugni un qualche atto; sicché nessuno dubita che si tratti di conflitti reali e non virtuali. Ma la serie degli atti impugnabili è stata estesa oltremodo. La corte, cioè, si è spinta ben oltre il novero dei provvedimenti; sino a concludere che possa bastare allo scopo "una univoca non formale manifestazione di volontà". In dottrina è stato anzi sostenuto che il conflitto potrebbe anche insorgere a causa di una omissione.


I profili procedurali (ina 801).


Nel caso dei conflitti stato e regioni si ritrovano in una posizione paritetica. Tanto i ricorsi statali quanto i ricorsi regionali vanno infatti proposti entro un comune termine perentorio di sessanta giorni. Ed è appunto nei sessanta giorni che il ricorso va notificato alla controparte. La legittimazione tanto attiva quanto passiva appartiene, in effetti, al presidente del consiglio dei ministri; e per la regione al presidente della giunta regionale. Peculiare dei conflitti in esame è invece l'espressa previsione che, "in pendenza del giudizio", l'esecuzione degli atti generatori del conflitto possa essere "sospesa per gravi ragioni, con ordinanza motivata dalla corte". Tale sospensione ha esclusivo riguardo alla gravità ed irreparabilità degli effetti che l'atto impugnato potrebbe produrre medio tempore. Ma le ordinanze in questione possono anche tener conto del fumus boni juris. Nei conflitti fra poteri, stato e regioni dispongono di questo tipo di giudizi e possono quindi rinunciarvi, purché vi sia l'accordo di tutte le parti. Ma la corte può comunque dichiarare "cessata la materia del contendere", allorché venga meno l'oggetto specifico del suo giudizio. Anche in questo tipo di procedimenti deve sussistere e deve permanere un concreto ed attuale interesse a ricorrere. Tutto questo non consente però di concludere nel senso che il conflitto fra stato e regioni abbia per esclusivo oggetto l'eventuale annullamento di un determinato atto. Occorre piuttosto ritenere che la statuizione sulla competenza rimanga "relativa al singolo atto-origine del conflitto". In altri termini, quando pervengono al merito, le decisioni della corte si pronunciano sempre sulla spettanza delle attribuzioni controverse. Resta il difficile problema dei rapporti intercorrenti fra i giudizi per conflitto, instaurati dinanzi alla corte costituzionale, e di paralleli giudizi amministrativi, promossi dinanzi al consiglio di stato. La sospensione di questi ultimi procedimenti sarebbe forse desiderabile de jure condendo, ma non è necessaria secondo il diritto positivo. I due tipi di giudizi si svolgono indipendentemente l'uno dall'altro. E solo nell'ipotesi che l'atto in questione venga annullato nell'una o nell'altra sede, si rende necessario tenerne conto nel giudizio ancora pendente.


Le responsabilità penali del presidente della repubblica ed il loro accertamento (ina 804).


La giurisdizione penale della corte stessa riguarda unicamente i reati suscettibili di essere commessi dal capo dello stato, "nell'esercizio delle sue funzioni": cioè le ure dell'alto tradimento e dell'attentato alla costituzione. La generalità dei costituzionalisti che si sono occupati del tema propende, pertanto, a ritenere che gli illeciti previsti dall'art. 90 Cost. rappresentino "reati propri" del solo presidente della repubblica, cioè ure autonome del diritto penale comune. Ma è precisamente in questo senso che viene più volte sostenuta l'indeterminatezza delle previsioni costituzionali in esame. A ciò si aggiunge l'estrema difficoltà di separare ed identificare "l'alto tradimento" e "l'attentato". Non è accidentale che vari autori mettano l'accento sulla prima ura. Ma tutto ciò non significa che gli illeciti nominati dall'art. 90 Cost. rimangano del tutto indefiniti. Il dato che associa entrambe le ipotesi in esame consiste pur sempre in un qualificato "abuso di poteri" o in una "violazione dei doveri inerenti alle funzioni presidenziali". Ed è abbastanza sicuro che le relative condotte costituiscano per definizione un illecito penale.


Illeciti siffatti continuano, però, a rappresentare ipotesi del tutto uniche nel loro genere. Da un lato, le ragioni giuridiche sulle quali potrebbero fondarsi le accuse e le condanne riguardanti il capo dello stato sono per loro natura di ordine costituzionale piuttosto che di ordine penale. D'altro lato, le sanzioni eventualmente applicabili dalla corte costituzionale comporterebbero valutazioni da svolgere entro un amplissimo margine discrezionale. In ultima analisi, è dall'oggettiva e spiccatissima particolarità di tali fatti e dei relativi giudizi che deriva la giustificazione delle previsioni contenute negli art. 90 e 134 Cost.: per cui la messa "in stato di accusa" del presidente della repubblica va deliberata "dal parlamento in seduta comune". L'assoluta rarità del caso in un reato presidenziale vale comunque a spiegare che il procedimento penale costituzionale sia stato alleggerito, da quando ha cessato di coinvolgere i reati ministeriali. In luogo dell'apposita commissione opera attualmente "un comitato formato dai componenti della giunta del senato della repubblica e della giunta della camera dei deputati competenti per le autorizzazioni a procedere". A questo collegio è demandata la prima valutazione delle notitiae criminis. Per il comitato si aprono quindi tre vie: la dichiarazione della propria incompetenza; l'archiviazione per manifesta infondatezza della denuncia; e al via maestra della relazione alle camere riunite. Si è già ricordato come i giudizi penali costituzionali siano stati sottratti alla corte nella sua composizione consueta. L'assemblea costituente ha voluto, in sostanza, che la corte integrata fosse prevalentemente espressa dal parlamento. Le forme del giudizio, tuttavia, rimangono affini a quelle risultanti dalla comune disciplina dei processi penali. In particolar modo, anche in questa sede si dà una prima fase del processo, avente natura istruttoria: il che vale ad escludere che la sospensione stessa sia automatica. Segue la fase del dibattimento, che vede necessariamente impegnato l'intero collegio. Per salvaguardare l'immutabilità del collegio giudicante è anzi previsto che i giudici costituzionali ordinari impegnati in un certo giudizio penale continuino a far parte della corte integrata. Alla eventuale sentenza di condanna si accomna la determinazione delle "sanzioni costituzionali, amministrative e civili": quali la rimozione dall'ufficio. E la circostanza che sia dunque preclusa ogni forma di appello produce una tanto più spiccata anomalia, in quanto è ben possibile che accanto al presidente della repubblica urino altri soggetti, imputati e condannati per connessione.










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