diritto |
L'ordinamento giuridico
La vita in società non può fondarsi sul principio egoistico, e se si originano conflitti, per risolverli non si può ricorrere alla forza.
Per porre dei limiti alle libertà individuali occorre stabilire, infatti, una serie di regole che fissino quali comportamenti devono essere tenuti e quali devono essere evitati.
Lo stato è un insieme di individui stanziati su un territorio che si danno delle regole, per l'organizzazione della vita collettiva.
Il diritto, quindi, presuppone sia lo società sia lo stato.
Il diritto è il complesso delle regole che disciplinano i rapporti reciproci dei consociati, che hanno l'obbligo di rispettarle.
Alla base di una ordinata convivenza esistono delle norme sociali che mirano al fine comune di assicurare l'ordine a favore del singolo e della collettività. Esistono norme di correttezza, norme di buona educazione, norme morali, norme religiose, norme giuridiche.
Le norme giuridiche sono regole che hanno un'importanza particolare rispetto alle altre, perché mirano a garantire una convivenza tranquilla e ordinata, stabilendo quali sono i comportamenti da tenere e quali sono da evitare. La loro osservanza da parte dei consociati è assicurata, in genere, dalla sanzione, che può essere inflitta in caso di trasgressione.
La sanzione giuridica, infatti, è la punizione generalmente prevista per chi non osserva la norma giuridica.
I caratteri generali delle norme giuridiche sono: 1) l'obbligatorietà, tutti sono tenuti ad osservarle e per chi non le rispetta è prevista la sanzione; 2) la generalità, le norme non si rivolgono a una persona in particolare ma alla generalità dei soggetti che fanno parte di una certa comunità; 3) l'astrattezza, non si riferiscono a un caso concreto ma ipotizzano un evento astratto, perciò sono applicabili a un numero indefinito di situazioni.
Secondo il carattere della generalità e astrattezza si distinguono:
norme giuridiche di diritto comune, che si rivolgono alla generalità dei consociati e disciplinano il maggior numero dei casi;
norme giuridiche di diritto speciale, che rappresentano una deroga alle precedenti perché sottraggono alla disciplina della norma generale un certo numero di casi o soggetti.
Secondo il carattere della obbligatorietà si distinguono:
norme giuridiche imperative (o inderogabili), contenenti un comando che non ammette deroghe né eccezioni;
norme dispositive (o derogabili), perché contengono un comando derogabile (non sono cogenti).
Il complesso delle norme giuridiche costituisce l'ordinamento giuridico.
I rami più importanti sono rappresentati dalle due branche fondamentali:
diritto pubblico, cioè il complesso delle norme che regolano l'organizzazione e il funzionamento dello stato e di tutti i suoi organi;
diritto privato, cioè l'insieme delle norme che regolano i rapporti fra i privati.
Il diritto pubblico si distingue in : diritto costituzionale; diritto amministrativo; diritto penale; diritto processuale, penale e civile; diritto finanziario, diritto ecclesiastico.
Il diritto privato, invece, si distingue in: diritto civile; diritto commerciale; diritto della navigazione.
L'ordinamento giuridico di un certo stato, in un determinato momento storico, rappresenta il diritto positivo, cioè l'insieme delle norme giuridiche vigenti. Per comprendere meglio il concetto di diritto positivo occorre metterlo in relazione con quello di diritto naturale
Il diritto naturale è il complesso delle regole ideali (valori etici e sociali) che trovano fondamento nella natura dell'uomo e può essere considerato quasi immutabile, poiché è lenta la trasformazione di giustizia nel tempo; il diritto positivo è l'insieme delle norme in vigore in uno stato in un determinato momento e subisce una modificazione pressocchè continua, in seguito ai mutamenti di ordine sociale e politico cui è soggetta la vita collettiva.
Il diritto inteso come complesso di norme che disciplinano la convivenza umana, imponendo o vietando determinati comportamenti è diritto oggettivo; se, invece, si considera l'insieme dei diritti di cui un soggetto è titolare, si ha il diritto soggettivo, inteso come interesse giuridicamente protetto; infatti, il diritto soggettivo è la facoltà che una norma giuridica riconosce a un soggetto di agire nel proprio interesse e ottenere dagli altri consociati una certa condotta.
Si distinguono, poi, le norme scritte, che sono leggi, codici, decreti, regolamenti, da norme non scritte, come gli usi o consuetudini, che sono norme non scritte prodotte spontaneamente dai consociati e non per decisione di una autorità appositamente preposta. La consuetudine è un comportamento costante e uniforme tenuto dai consociati che ritengono di seguire una regola giuridica vincolante.
Il diritto è strettamente collegato all'economia e alla politica, per cui i cambiamenti che si verificano nel sistema economico o le diverse scelte politiche si ripercuotono sulle regole giuridiche. Di conseguenza, le norme e gli ordinamenti sono oggetto di continue modificazioni.
Ogni epoca ha avuto le sue regole e nel corso della storia ogni sistema giuridico si è evoluto e ha subito i cambiamenti indispensabili per adeguarsi alle strutture della società.
Le fonti del diritto sono i modi e i mezzi attraverso i quali si formano e si conoscono le norme giuridiche. ½ sono due tipi di fonti: di produzione e di cognizione. Le fonti di produzione sono tutti i fatti e gli atti che portano alla nascita, alla modificazione e all'estinzione delle regole giuridiche; le fonti di cognizione sono tutti i documenti che consentono di conoscere le norme giuridiche già formate (es. gazzetta ufficiale, codici . ). Dalle fonti di produzione si distinguono le fonti atto e le fonti atto. Le fonti atto sono norme scritte, per mezzo delle quali si manifesta la volontà dello stato e il suo potere di renderle obbligatorie; le fonti fatto sono comportamenti che scaturiscono dalla volontà della collettività, ai quali lo stato riconosce rilevanza giuridica.
Tra le fonti del diritto italiano sono fonti atto: la Costituzione e le leggi costituzionali, le leggi, i decreti, i regolamenti comunitari, le leggi regionali e i regolamenti. L'unica fonte fatto è la consuetudine.
Le fonti sono ordinate secondo un principio gerarchico in base al quale le fonti di grado superiore non possono essere modificate da quelle subordinate e quelle di grado inferiore non possono essere in contrasto con quelle di grado superiore.
Al vertice della gerarchia vi è la Costituzione, la legge fondamentale dello stato che rappresenta il punto di riferimento di tutto il sistema normativo, e le leggi costituzionali concepite per modificare o integrare la Costituzione;
Su un gradino inferiore rispetto alla costituzione e alle leggi costituzionali troviamo: leggi ordinarie, decreti leggi, decreti legislativi, trattati e regolamenti comunitari. Le leggi ordinarie sono gli atti tipici tramite i quali si manifesta l'attività normativa del parlamento. Equiparati alle leggi ordinarie, perché hanno la stessa efficacia, sono gli atti normativi emanati dal governo (decreti). Si può ricorrere a tali atti quando non ci sono i tempi sufficienti (es. calamità naturali) per l'emanazione di una legge ordinaria da parte del parlamento (decreto legge); oppure, quando il parlamento, dovendo porre in essere un atto normativo specifico, preferisce delegare il governo (decreto legislativo). Gerarchicamente equiparate alle leggi ordinarie sono le fonti comunitarie (trattati e regolamenti comunitari). Tali norme sono obbligatorie per gli stati membri della Ce, nel nostro ordinamento non possono contrastare con la Costituzione, ma possono modificare una legge ordinaria;
Le leggi regionali sono l'espressione dell'autonomia legislativa riconosciuta alle regioni nell'ambito previsto dalla Costituzione;
I regolamenti sono fonti secondarie adottate dall'autorità amministrativa (il governo, i ministri) per stabilire le modalità di attuazione di una legge o per disciplinare materie non regolate da leggi;
Gli usi o consuetudini sono fonti fatto, in quanto non sono le norme che indirizzano i fatti, ma è il comportamento che assume valore di norma
La pubblicità delle norme generalmente avviene per mezzo della pubblicazione. Le leggi, i decreti, i regolamenti e tutti gli atti che obbligatoriamente devono essere resi noti ai cittadini sono pubblicati sulla gazzetta ufficiale; le leggi regionali sui bollettini ufficiali regionali, e i regolamenti comunitari sulla gazzetta ufficiale delle comunità europee.
L'interpretazione è un atto che mira a determinare la volontà e il significato della norma giuridica, può essere effettuata da diversi soggetti: il legislatore (parlamento, consigli regionali), il giurista (studioso del diritto), il giudice
L'interpretazione ha un'efficacia e una denominazione diverse, secondo i soggetti dai quali viene effettuata.
Interprete |
Tipi di interpretazione |
Efficacia |
Legislatore |
Interpretazione autentica |
Vincola tutti |
Giudice |
Interpretazione giudiziale |
Vincola solo le parti in causa del processo |
Giurista |
Interpretazione dottrinale |
Non vincola nessuno; è priva di efficacia giuridica |
I criteri usati per l'interpretazione della norma sono:
criterio letterale: l'interprete non può andare oltre il significato proprio delle parole;
criterio logico: l'interprete deve sforzarsi di comprendere l'intenzione del legislatore;
criterio storico: l'interprete deve tener conto dell'invecchiamento delle norme, poiché la realtà regolamentata può essere diversa da quella in cui il giudice si trova ad operare;
criterio sistematico: l'interprete non deve considerare la norma isolatamente, ma deve cercare il suo significato tenendo presente la globalità dell'ordinamento giuridico di cui fa parte.
Può accadere che un certo caso non sia regolamentato da una norma precisa, il giudice deve individuare e può applicare una norma che regola un caso analogo; in questo caso si compie un'interpretazione analogica
Quando il giudice non trova una norma che tratti casi simili o materie analoghe, può ricorrere ai principi generali dell'ordinamento giuridico (analogia di diritto
Non sempre però è possibile fare ricorso alla analogia, infatti, essa non è consentita per le leggi penali ed eccezionali.
L'efficacia della norma giuridica
I limiti dell'efficacia delle norme nel tempo, nel nostro ordinamento, sono fissati dalle disposizioni sulla legge in generale, per cui la validità delle leggi e dei regolamenti si estende dall'entrata in vigore alla perdita di efficacia .
Gli atti normativi per esplicare la loro efficacia devono essere noti mediante la pubblicazione su documenti ufficiali, con la pubblicazione non diventano immediatamente operativi e entrano in vigore a partire dal 15° giorno successivo a quello della pubblicazione, con l'entrata in vigore l'atto inizia a esplicare i suoi effetti, viene applicato a tutti i consociati, anche a chi, di fatto, lo ignora.
Le norme giuridiche sono destinate a produrre effetti finchè non sono cancellate o sostituite. In tal caso si ha l'abrogazione, con essa si indica la perdita di efficacia di una norma giuridica.
L'abrogazione avviene mediante norme giuridiche che hanno un valore uguale o maggiore, ad es., una legge ordinaria può abrogare un'altra legge ordinaria o un decreto, ma non una legge costituzionale.
L'abrogazione totale o parziale di una legge o di un atto avente forza di legge può avvenire anche mediante referendum popolare o abrogativo, cioè attraverso una votazione richiesta da cinquecentomila elettori o da cinque consigli regionali.
Un altro mezzo per eliminare una norma dall'ordinamento giuridico è l'annullamento
In questo caso si tratta di una norma invalida, perché contrasta con il contenuto di un atto normativo di grado più elevato (non è stato rispettato il principio di gerarchia delle fonti). L'annullamento avviene mediante la sentenza di un giudice (corte costituzionale, giudice amministrativo).
Anche gli usi possono perdere di efficacia e ciò può avvenire perché la materia è disciplinata da norme scritte o perché si forma un uso diverso e contrario dal precedente o per desuetudine (non uso).
Nel nostro ordinamento vige il principio della irretroattività, per cui secondo l'art. 11 delle disposizioni preliminari, "la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo". Ciò significa che una nuova norma riguarda i rapporti futuri e deve essere applicata alle situazioni verificatesi successivamente alla sua entrata in vigore.
Quando entra in vigore una nuova norma possono esistere casi pendenti sorti sotto la vecchia normativa e non ancora perfezionati, per eliminare incertezze spesso la nuova legge contiene delle disposizioni transitorie. In tal modo, vengono disciplinati anche i casi dubbi.
In campo penale il principio dell'irretroattività è riaffermato dalla Costituzione per cui "nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso". In questo modo l'individuo ha la garanzia di non essere punito per un fatto ritenuto lecito quando è avvenuto, e considerato reato successivamente. Ad es. se una legge fissa il limite di velocità in autostrada riducendolo da 120 a 100 Km/h, gli automobilisti non possono essere puniti per eccesso di velocità se, prima dell'entrata in vigore della nuova normativa, hanno viaggiato a quella andatura.
Il principio della irretroattività ammette delle eccezioni, per cui la norma può essere retroattiva quando: la nuova norma dichiara espressamente la propria retroattività; la nuova norma interpreta una legge precedente; la nuova norma è una legge penale più favorevole al reo.
Quindi la retroattività è la possibilità, in casi eccezionali, di applicare la norma a fatti verificatesi prima della sua entrata in vigore.
L'efficacia delle norme giuridiche, oltre ad essere limitata nel tempo lo è anche nello spazio. Le norme che provengono dalle fonti italiane hanno validità sul nostro territorio. E' questo il principio della territorialità, in base al quale le leggi nazionali dispiegano la loro efficacia entro i confini dello stato, quelle regionali nell'ambito della regione e così via.
Questo principio viene applicato in maniera assoluta soltanto per quanto riguarda le leggi penali e di polizia, valide su tutto il territorio statale anche per gli stranieri. Sono ammesse eccezioni per quanto riguarda la disciplina dei rapporti tra privati.
Lo scopo delle norme giuridiche è quello di disciplinare i comportamenti e le relazioni tra gli individui. Esse prevedono delle situazioni rilevanti per il diritto, mentre attribuiscono a un soggetto un determinato diritto soggettivo (situazione attiva), impongono a un altro un dovere giuridico (situazione passiva).
Le relazioni che intercorrono tra i soggetti e alle quali viene riconosciuto il carattere della giuridicità, sono definite rapporti giuridici.
Il rapporto giuridico è una qualsiasi relazione tra due o più soggetti prevista e tutelata dall'ordinamento giuridico.
I rapporti giuridici sono numerosi e diversi tra loro, ma in tutti si riscontrano degli elementi costanti.
Gli elementi del rapporto giuridico sono:
soggetto attivo, il titolare del diritto il quale può far valere la pretesa;
soggetto passivo, colui sul quale grave il dovere giuridico;
oggetto, il bene al quale si riferisce il rapporto;
contenuto, il potere riconosciuto al soggetto attivo dal comando giuridico.
La più importante situazione giuridica soggettiva è il diritto soggettivo.
I diritti soggettivi possono essere classificati sotto diversi aspetti. In primo luogo si distinguono in diritti soggettivi pubblici e privati.
I diritti soggettivi pubblici sono riconosciuti nei confronti dello stato o di un ente pubblico (es. i diritti di libertà, i diritti civili, politici, economici);
i diritti soggettivi privati sono riconosciuti al singolo nei confronti di altri soggetti (es. i diritti della personalità, i diritti di famiglia, il diritto di proprietà, di credito ecc.).
I diritti soggettivi privati possono essere assoluti o relativi: assoluti, perché possono essere fatti valere nei confronti di tutti e ognuno ha il dovere di non turbare o impedire l'esercizio del diritto (un es. tipico di diritto assoluto è il diritto di proprietà); relativi, perché possono essere fatti valere nei confronti di uno o più soggetti determinati, sui quali gravano particolari obblighi (un caso di diritto relativo è rappresentato dal diritto di credito, se Caio è mio debitore per una certa somma, posso esigere tale somma solo da lui).
I diritti soggettivi privati si distinguono anche in trasmissibili e intrasmissibili: trasmissibili, perché possono essere trasmessi dal titolare ad altra persona in qualunque momento (sono trasmissibili il diritto di proprietà e quello di credito); intrasmissibili, perché non possono essere ceduti ad alcuno per nessun motivo: il titolare li acquisisce con la nascita e sono destinati a estinguersi con lui (sono intrasmissibili i diritti soggettivi che riguardano strettamente la persona, ad es. i diritti soggettivi pubblici o quelli della personalità e della famiglia).
Infine i diritti soggettivi privati, a secondo il contenuto, possono essere distinti in patrimoniali e non patrimoniali: i diritti patrimoniali riguardano la sfera economica della persona e si distinguono in diritti reali (assoluti e trasmissibili) che attribuiscono al soggetto un potere diretto e immediato su un bene come il diritto di proprietà e diritti di credito o di obbligazione (relativi e trasmissibili) che attribuiscono al soggetto attivo la pretesa a una prestazione di dare, fare e non fare da parte del soggetto passivo; i diritti non patrimoniali riguardano la sfera morale della persona e a loro volta si distinguono in diritti della personalità che riguardano l'individuo e costituiscono il fondamento della personalità umana (es. il diritto all'onore) e diritti di famiglia (relativi e intrasmissibili) che riguardano la persona come membro della famiglia (es. diritti dei li).
I diritti della personalità sono quegli attributi fondamentali che attengono all'individuo in quanto persona fisica e che sono riconosciuti dall'ordinamento giuridico.
CLASSIFICAZIONE DEI DIRITTI SOGGETTIVI |
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SECONDO LA NATURA DEL SOGGETTO |
VERSO CHI POSSONO ESSERE FATTI VALERE |
SECONDO LA POSSIBILITA' DI TRASFERIRLI |
SECONDO IL CONTENUTO |
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Diritti soggettivi pubblici |
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Diritti soggettivi privati |
Assoluti |
Trasmissibili |
Patrimoniali: -diritti reali -diritti di credito | ||
Relativi |
Intrasmissibili |
Non patrimoniali: -diritti di famiglia -diritti della personalità | |||
I destinatari delle norme giuridiche sono i soggetti giuridici o di diritto, i titolari dei diritti e dei doveri, connessi ai rapporti giuridici. Tali soggetti possono essere individui (persone fisiche) o organizzazioni ed enti collettivi (persone giuridiche).
LO STATO ITALIANO
L'ordinamento costituzionale italiano
Punto di partenza del nostro ordinamento costituzionale è lo Statuto Albertino, concesso, il 4 marzo 1848 dal re Carlo Alberto ai sudditi del Regno di Sardegna sotto la spinta dei movimenti liberali che si andavano manifestando in Europa.
Nonostante il fallimento del quarantotto e il riflusso generale che ne seguì, lo Statuto Albertino non fu revocato (contrariamente a quanto avvenne a Firenze, Roma e Napoli) per cui continuò a reggere il Regno di Sardegna fino all'unità, poi il Regno d'Italia e, formalmente, restò in vigore anche durante il fascismo, fino a quando non fu adottata la nuova Costituzione repubblicana (1° gennaio 1948).
Lo Statuto fu, dunque un atto di autolimitazione da parte di Carlo Alberto delle sue prerogative e dei suoi poteri di sovrano assoluto.
Sinteticamente, l'evoluzione costituzionale italiana, fino all'attuale ordinamento repubblicano, presenta tre periodi ben evidenti.
Il primo, di breve durata, è caratterizzato dal tentativo di dare stabilità a un regime monarchico costituzionale incentrato sulla ura e il ruolo del sovrano.
Il secondo, caratterizzato dalla creazione e dalla permanenza di un regime parlamentare, in cui la camera dei deputati è preminente rispetto al senato, e il governo rispetto alla corona.
Il terzo, caratterizzato dalla presenza di un regime totalitario e corporativo, in cui la rappresentanza della nazione spetta al partito nazista.
Chiaramente lo Statuto fu un compromesso tra il principio monarchico di diritto divino e i nuovi principi di libertà e democrazia.
La sovranità restò ereditaria e il re conservava un ruolo centrale e attivo.
Il Parlamento era formato dalla camera dei deputati e dal senato.
I deputati erano eletti per 5 anni, ma il diritto di voto era molto ristretto, perchè solo i cittadini benestanti e istruiti potevano votare.
I senatori, invece, erano nominati a vita dal re, che li sceglieva tra coloro che avevano compiuto i 40 anni, e la nomina doveva ricadere su vescovi e arcivescovi, sulle persone che avevano ricoperto le più importanti magistrature dello stato, su coloro che avevano onorato la patria con servizi e meriti.
I principi della famiglia reale facevano parte, per diritto di nascita, al senato; essi vi entravano a 21 anni e avevano diritto di voto a 25 anni.
Al re spettava la nomina dei giudici che amministravano la giustizia in suo nome e ai quali veniva assicurata una certa indipendenza del potere esecutivo. Tuttavia, dopo la proclamazione del regno d'Italia, l'ingerenza del governo negli affari della giustizia e nella carriera dei magistrati divenne maggiore.
Lo Statuto riconosceva, però anche importanti principi di libertà, come la libertà di stampa e la tolleranza di culti non cattolici.
L'affermazione del regime parlamentare
Il passaggio dal regime monarchico-costituzionale, in cui il governo godeva la fiducia della corona, al regime parlamentare, in cui invece la fiducia venne a poggiare sulle due camere, non fu né rapido né preciso.
E' certo che il regime parlamentare si affermò in modo definitivo sotto il regno di Vittorio Emanuele II. In particolare, le camere si arrogarono il diritto di disapprovare i provvedimenti del governo, che era tenuto ad illustrarne le ragioni e le finalità.
Il governo si venne così conurando come un organo autonomo e unitario, con il compito anche di assicurare l'equilibrio nei rapporti tra il sovrano e il parlamento.
Il re sfruttava l'opportunità di allontanarsi dall'esecutivo e dalla possibilità di prendere decisioni impopolari.
L'autonomia del sovrano fu ulteriormente ridotta quando il governo ottenne il diritto di proporre al sovrano la lista dei senatori da nominare. Nonostante tentennamenti, la destra storica riuscì a dar vita a uno stato costruito sui principi della dottrina liberale, su un forte e accentrato apparato burocratico e sulla regolamentazione dei rapporti con la chiesa secondo moderni criteri separatistici.
Il governo sancì la distinzione della sfera ecclesiastica da quella pubblica, il pontefice conservava il possesso del Vaticano, del Laterano e della villa di Castel Gandolfo, inoltre poteva continuare a tenere presso di sé guardie armate, infine lo stato rinunciava al controllo sulla stampa e sugli atti dell'autorità ecclesiastica.
Il deperimento dello Stato Liberale
Come classe politica la Destra era molto omogenea, essa era formata maggiormente da proprietari terrieri. Si caratterizzò per la moderazione, il rispetto scrupoloso dello Statuto, uno spiccato senso dello stato.
Con la presa di Roma, però, la sua funzione storica si chiuse definitivamente. Il paese aveva bisogno di respirare, di un minore carico fiscale, di una maggiore libertà.
La Sinistra, invece, più eterogenea risultò più aderente ai problemi del paese. Il suo programma fu formulato nel 1875 da Agostino Depretis che interpretava le attese del paese oppresso dal fiscalismo del governo, desiderosi di riforme. Si auspicavano più ampie libertà costituzionali, si richiedeva l'estensione del diritto di voto, il decentramento amministrativo, l'abolizione della tassa sul macinato, l'istruzione elementare obbligatoria e gratuita.
La sinistra trionfò nelle elezioni del 1876, ma la sua ascesa al potere non segnò quella svolta auspicata.
Eppure, nei primi anni di governo, la Sinistra riuscì a realizzare un certo numero di riforme: l'estensione fino ai nove anni dell'istruzione elementare, l'abolizione della tassa sul macinato, la riforma elettorale del 1882.
Il diritto di voto, pur abbassato dai 30 ai 21 anni, fu concesso solo a coloro che sapevano leggere e scrivere, oppure che avevano una certa somma di imposta diretta. Chiaramente questa legge avvantaggiò le popolazioni delle province settentrionali rispetto alle camne del Mezzogiorno, dove l'analfabetismo era più diffuso e più gravi le condizioni di arretratezza. Un altro importante aspetto della riforma elettorale fu l'abbandono del vecchio sistema uninominale e l'introduzione dello scrutinio di lista. Ma la riforma elettorale, sotto questo aspetto, evidenziò il difetto di favorire la presentazione di liste basate su accordi improvvisi e momentanei di persone di diverso orientamento politico.
L'azione riformatrice ben presto si arenò, anche perché la nuova maggioranza parlamentare si dilatava sempre più, attraverso il recupero di esponenti della vecchia Destra che, per opportunismo o per vocazione ministeriale, si dichiaravano disposti a entrare nelle sue file. Era l'inizio del trasformismo.
Tutto dipendeva dall'abilità del capo del governo nel mobilitare gli interessi più disparati dei grandi elettori dei collegi specialmente nel Sud, puntando sull'intimidazione, la corruzione, la distribuzione di benefici, ricorrendo al ricatto e alla minaccia.
Crispi cercò di mascherare l'autoritarismo con l'efficienza e la spregiudicatezza, mantenendo ai margini del sistema le forze emergenti e spingendole alla lotta extraparlamentare contro lo stato liberale. La classe dominante di fine secolo, di fronte alle agitazioni popolari accentuò l'azione repressiva.
Con Giolitti le istituzioni parlamentari registrarono una leggera ripresa. Esprimendo le esigenze della borghesia più aperta e interessata alla pace sociale, egli cercò di creare uno stato di diritto, garante della legge ma neutrale di fronte ai conflitti di lavoro. Giolitti promosse una serie di misure economiche e sociali che indubbiamente migliorarono le condizioni della classe operaia.
La fine dello Stato Liberale
L'impresa libica segnò l'inizio della fine del regime parlamentare. In quella circostanza Giolitti cedette alle pressioni della destra più aggressiva e alle suggestioni della proanda imperialistica; per contraccolpo, nel partito socialista prevalse la corrente rivoluzionaria.
La situazione di emergenza, provocata dalla guerra mondiale, non poté essere più fronteggiata con i tradizionali espedienti trasformistici, la violenta polemica tra neutralisti e interventisti scavalcò il parlamento, che stretto tra la pressione di piazza e l'esecutivo , votò i pieni poteri al governo, ma ormai aveva perduto la sua libertà. Lo stato divenne più autoritario e il potere legislativo dovette accettare le ragioni dell'esecutivo, ormai sottratto ad ogni controllo. I rigori della censura colpirono la stampa, specie quella d'opposizione.
Al termine del conflitto, le strutture dello stato liberale risultavano scardinate, mentre la classe politica continuava a perdere prestigio e credibilità, inerte o impotente qual era di fronte ai problemi vecchi e nuovi della società italiana.
Con l'occupazione delle fabbriche nel 1920, l'Italia parve essere alla vigilia di un moto rivoluzionario. Ma il partito socialista, diviso tra massimalisti e riformisti, non seppe assumere la guida politica delle masse. La ripresa del lavoro nelle fabbriche dimostrò che nel paese non esisteva un reale pericolo rivoluzionario, mentre il fascismo, sorto nel 1919 con un programma generico e contraddittorio, si poneva al servizio delle forze conservatrici e reazionarie scatenando, una lotta violenta contro le organizzazioni dei lavoratori.
Il regime fascista
La dittatura fascista, instauratasi con l'esplicito consenso e l'appoggio della monarchia, appena consolidatasi al potere dopo il "colpo di stato" del 1922 provvide, rapidamente, ad annullare le pur limitate conquiste politiche e civili sancite dallo Statuto.
Agli inizi del 1923 fu istituita una milizia volontaria per la sicurezza nazionale, che di fatto costituiva un corpo paramilitare al servizio della dittatura, inoltre fu fortemente ridotta la libertà di stampa.
Sul piano parlamentare, il fascismo preparò subito la riforma della legge elettorale per trasformare radicalmente il regime parlamentare. La nuova legge elettorale, elaborata dal sottosegretario Acerbo, prevedeva l'attribuzione dei due terzi dei seggi della camera al partito o alla coalizione di partiti che avesse ottenuto la maggioranza relativa, purchè non inferiore al 25% dei votanti, conservando alle liste minoritarie l'altro terzo in base alla percentuale dei voti ottenuti da ciascuna di esse.
La legge Acerbo, prevedendo la designazione dall'alto dei candidati da inserire nel cosiddetto listone, che doveva poi essere sottoposto all'approvazione di Mussolini, diede il via al sistema di nomina dall'alto dei rappresentanti da inviare alla camera e a grottesche risse tra gli aspiranti candidati per trovarvi posto.
Il successo fascista alle elezioni politiche del 6 aprile 1924 era scontato, date le particolari condizioni del momento; il terrorismo, le intimidazioni e i ricatti.
Il clima di illegalità, di violenze, di intimidazioni ai danni degli antifascisti in cui le elezioni si erano svolte, fu denunciato con coraggio alla camera da Matteotti il 30 maggio 1924.
Pochi giorni dopo, il deputato socialista veniva rapito e ucciso da sicari fascisti.
L'opposizione parlamentare, allora, sperando di indurre il re a togliere la fiducia al governo, abbandonò la camera (cosiddetta secessione dell'Aventino
Il 3 gennaio 1925 il dittatore pronunciò alla camera il famoso discorso con il quale assunse su di sé la responsabilità di tutto quanto era accaduto, facendo cadere così ogni ultima finzione delle stato liberale.
Nel 1928 fu eliminata la possibilità di presentare, alle elezioni, liste in concorrenza con quella fascista e si stabilì che venisse presentata una lista unica di 400 candidati, preparata dal gran consiglio del fascismo. Gli elettori erano chiamati ad una specie di plebiscito, ma anche se le elezioni, sul piano della correttezza democratica, risultarono una farsa, va tuttavia osservato che vasti strati della popolazione espressero la loro sincera adesione al regime.
La produzione industriale, infatti, era aumentata del 50%, l'industria chimica aveva realizzato significativi progressi e l'agricoltura aveva registrato un nuovo impulso produttivo.
Nel 1939 fu attuata una nuova riforma istituzionale, venne infatti soppressa la camera dei deputati e fu istituita la camera dei fasci e delle corporazioni: il parlamento era così svuotato di ogni funzione.
Il fascismo, intanto, per la sua natura dittatoriale, per il rifiuto dei principi di libertà e di uguaglianza politica e civile, si avvicinò sempre più alla Germania nazista, fino a stringere con essa un patto di alleanza politica e militare.
Repubblica e Costituzione
Tre date fondamentali segnano la nascita della nuova Italia emersa dalla lunga dittatura fascista e dall'immane tragedia del secondo conflitto mondiale:
la liberazione: il 25 aprile 1945 la liberazione delle province del nord ancora occupate dalle truppe tedesche, ricacciate oltre i confini della patria dalle formazioni partigiane in collaborazione con gli eserciti alleati (americano e inglese), segna la fine della guerra e la ssa del fascismo nel nostro paese.
la repubblica: il 2 giugno 1946, il popolo italiano scelse, con una significatica maggioranza, la repubblica, ponendo fine alla monarchia
la costituzione: insieme con il referendum istituzionale per la scelta tra repubblica e monarchia, il 2 giugno 1946 i cittadini elessero l'Assemblea Costituente cui era assegnato il compito di elaborare ed approvare una nuova Costituzione dello stato italiano, che venne promulgata il 27 dicembre 1947, entrando in vigore il 1° gennaio 1948.
INDICE
1° Anno
I fondamenti del diritto. 1
L'ordinamento giuridico 1
I rami del diritto 2
Le fonti del diritto 3
l'interpretazione della norma giuridica 4
L'efficacia della norma giuridica.. 5
L'irretroattività della norma giuridica.. 6
Il rapporto giuridico.. 7
Classificazione dei diritti soggettivi. 9
Lo stato italiano 10
L'ordinamento costituzionale italiano 10
L'affermazione del regime parlamentare 11
Il deperimento dello Stato Liberale. 12
La fine dello Stato Liberale.. 13
Il regime fascista. 14
Repubblica e Costituzione.. 15
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