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LA REALIZZAZIONE DELLA DIMENSIONE POSITIVA DELLA LIBERTA' RELIGIOSA

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LA REALIZZAZIONE DELLA DIMENSIONE POSITIVA DELLA LIBERTA' RELIGIOSA


CAPITOLO I

PROBLEMI DI IDENTIFICAZIONE DEI GRUPPI RELIGIOSI

Quando invece la tecnica giuridica è usata in funzione interventista, ciò avviene per ricollegare ad un certo fenomeno una disciplina, una tutela la cui particolarità è giustificata proprio da quella qualifica, ed è pertanto limitata a quel fenomeno, mentre non dev'essere utilizzata per fenomeni che non godono di quella qualifica. Si conura un interesse della collettività a non conferire risorse pubbliche o poteri giuridici particolari, a non caricarsi cioè di un sacrificio, se non a favore dei soggetti che lo meritano.

L'identificazione avviene, da parte della pubblica autorità, o caso per caso sulla base di criteri empirici, oppure sulla base del riconoscimento di personalità giuridica.

Si ha il primo caso quando ai fini della determinazione dell'imponibile IVA delle associazioni non aventi ad oggetto principale l'esercizio di attività commerciale, e dell'imponibile IRPEG degli enti non commerciali, le rispettiva leggi considerano fatte nell'esercizio di imprese e nell'esercizio di attività commerciale le cessioni di beni e le prestazioni di servizi agli associati verso amento di corrispettivi specifici, "ad eccezione di quelle effettuate, in conformità alle finalità istituzionali, da associazioni politiche, sindacali e di categoria, religiose, assistenziali, culturali e sportive".



Ricorre il secondo caso a proposito degli "istituti di culti diversi dalla religione cattolica". Per tali istituti l'ordinamento ha voluto precostituire un riconoscimento di personalità giuridica che si differenzia da quello di carattere generale soprattutto perché comporta uno specifico trattamento di favore. Ogni volta che sia stabilita una agevolazione tributaria a favore di enti che perseguono fini di istruzione e di beneficenza questa agevolazione si estende anche agli organismi in quanto perseguono un fine di religione o di culto.

La identificazione del soggetto beneficiario degli interventi statuali è dunque un procedimento affidato all'autorità amministrativa, caratterizzato quindi inevitabilmente da una certa dose di discrezionalità.

Sul giudizio dell'autorità amministrativa potrebbe invero pesare la reazione comune dell'opinione pubblica contro i nuovi movimenti religiosi, i quali a) svolgono pratiche di culto inconsuete e caratterizzate da modalità di svolgimento estranee a quelle cui il senso comune è abituato; b) svolgono attività di proselitismo in forme molto dinamiche ed aggressive; c) nell'uno e nell'altro caso tengono comportamenti che talvolta conurano fattispecie aventi la connotazione della illiceità; d) propugnano atteggiamenti e valutazioni e stili di vita lontani da, o fortemente critici nei confronti, dei valori etici dominanti nella società.

Rispetto ai movimenti inconsueti, l'autorità amministrativa dovrebbe controllare innanzitutto la pericolosità del gruppo che si proclama religioso. Ma la discrezionalità della P.A. nel concedere il riconoscimento della personalità giuridica, siccome non è contenuta da precisi parametri normativi, potrebbe costituire lo strumento attraverso cui il potere politico continua a tenere l'atteggiamento che gli sarebbe precluso dal principio di laicità: basterebbe negare il riconoscimento della personalità giuridica ad un gruppo religioso non gradito per rendergli difficile la vita e l'attività, e di precludergli l'accesso a certi beni e certe risorse di cui invece il gruppo religioso favorito può godere.

Per non assegnare risorse in modo scorretto, bisognerebbe assicurasi che il gruppo cui si dirige la disciplina speciale "persegua autentici scopi fideistici". Si profilano le categorie della autenticità e della in autenticità.

C'è il rischio, allora, che il giudizio sull'autenticità possa servire per compiere, sotto mutate spoglie, quella valutazione del contenuto dottrinale delle credenze religiose, che è vietata dal principio di incompetenza dello Stato.

La soluzione drastica sarebbe quella di rimettersi alla qualificazione che il gruppo fa di sé stesso come associazione, aggregazione religiosa. Ma è evidente che questo affidarsi a quel che il gruppo proclama di sé stesso è altrettanto pericoloso proprio per le ipotesi di mala fede o buona fede.

Una corretta assegnazione di risorse giuridiche e materiale può aversi solo facendo astrazione dai soggetti e riferendosi invece esclusivamente ad oggetti ed attività, i contorni delle quali, almeno garantiscono un più neutrale collegamento di effetti giuridici.

Interessi sociali, al soddisfacimento dei quali in linea di principio dovrebbe attendere innanzitutto lo Stato, cui questo compito è indicato dalla Costituzione, e che però non sempre è in grado di assolvere direttamente a questo compito.

Del soddisfacimento di questi interessi si occupano gruppi ed organismi che, nel perseguire attraverso tali attività un fine solidaristico, operano praticamente in convergenza con i soggetti dell'amministrazione pubblica, dai quali si distinguono proprio perché estranei all'apparato predisposto istituzionalmente per raggiungere i fini dello Stato. Si tratta, da questo punto di vista, di enti non profit, formuletta con cui si vuole sottolineare il fenomeno, sempre più rilevante, dell'incontro fra attività lucrativa e scopi altruistici, il fenomeno, cioè, per cui molti organismi che si dedicano a scopi benefici, sia pure con una motivazione religiosa, per lo più non sono pure e semplici aziende di erogazione, bensì sono vere e proprie aziende di produzione.

È noto che il pluralismo sociale ha difficoltà a tradursi, con riferimento all'istruzione, in pluralismo scolastico, inteso come concorrenza di istituti scolastici pubblici e privati nell'offrire questo delicato servizio oggettivamente pubblico.

Ogni impegno finanziario dello Stato rivolto al sostegno della scuola privata è escluso in virtù dell'art. 33 c. 3° Cost. che, dopo aver dato ampio riconoscimento al pluralismo scolastico, precisa però che ogni iniziativa scolastica sorge e si sviluppa "senza oneri per lo Stato".

L'art. 33 c. 3° è spiegabile solo come frutto della considerazione che il settore scolastico privato era (ed è) di quasi esclusiva ispirazione confessionale cattolica, per cui l'intervento finanziario dello Stato finirebbe con il favorire praticamente un solo gruppo ideologico molto forte socialmente.

Bisogna dire però che va prendendo sempre più forza l'esigenza di attuazione del principio della parità scolastica inteso come diritto di accesso al tipo di scuola preferito in condizioni di eguaglianza, e questo suggerisce un'interpretazione più elastica del divieto indicato, nel senso che esso si riferirebbe esclusivamente alla istituzione di scuole private ma non già alla loro gestione.

Diversamente si prospetta il problema, se ci si pone dal punto di vista dei soggetti aspiranti a ricevere l'istruzione.

Bisogna a questo proposito distinguere due ipotesi, a seconda cioè che l'alunno accesa all'istruzione per assolvere ad un obbligo stabilito dalla legge, oppure vi acceda al di fuori e al di là di questo vero e proprio obbligo.

Nel primo caso se indirizzate ai soli alunni che frequentano le scuole pubbliche, sarebbero incostituzionali rispetto all'art. 3 Cost., in quanto "ingiustificatamente discriminatorie".

Diversa sarebbe la soluzione se la legge che istituisce provvidenze rivolte ad agevolare l'obbligo scolastico facesse "riferimento alla capacità economica del destinatario della provvidenza".

La consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale considera i diritti sociali come "diritti finanziariamente condizionati"; quando cioè l'intervento a favore di un diritto sociale è oneroso per la finanza pubblica e crea un problema per la disponibilità finanziaria, la selezione nell'impiego delle risorse "rientra nella discrezionalità del legislatore, che non può essere sindacata in sede di giudizio di legittimità costituzionale se non quando emerge la manifesta irrazionalità della relativa normativa".

Ebbene, non appare irrazionale l'atteggiamento del legislatore che destina i fondi per il diritto allo studio prioritariamente alle scuole pubbliche.

Il diritto allo studio non è assolutamente "un diritto concretamente esigibile e fondamentale", bensì è un diritto subordinato al bilanciamento con altri beni ugualmente protetti dalla Costituzione.

Organizzazione non lucrative di utilità sociale. Sono tali associazioni ed enti i cui statuti o atti costitutivi prevedono espressamente lo svolgimento di attività nei campi dell'assistenza sociale e sanitaria, della beneficenza, istruzione e formazione e altro ancora, proponendosi "l'esclusivo perseguimento di finalità di solidarietà sociale". Siccome cioè gli utili ricavati dall'attività svolta non vengono distribuiti ai membri, bensì vengono destinati ad uno scopo altruistico, solidaristico, l'ordinamento istituisce "un regime fiscale agevolato", ossia non grava delle imposte irpeg ed iva i redditi e i guadagni derivanti da tali attività.

È evidente che di queste possibilità potranno fruire tutti gli organismi religiosi che perseguono fini solidaristici, ivi compresi gli enti confessionali.

Da notare che, in relazione a questi ultimi enti, quand'anche essi non rispondessero ai requisiti richiesti per essere riconducibili alla specifica categoria delle organizzazioni non lucrative sociale, comunque essi potrebbero essere ricondotti alla più generale categoria degli enti non commerciali, degli enti cioè non svolgono attività produttiva di ricchezza; e come tali fruire delle esenzioni ed agevolazioni tributarie previste dalla normativa disciplinatrice delle o.n.l.u.s.


CAPITOLO II

IL FINE DI RELIGIONE O DI CULTO

La Corte Costituzionale ritiene che "dall'insieme delle norme dell'ordinamento" sia possibile trarre i criteri idonei a chiarire "il significato della locuzione associazione religiosa": ebbene, tali criteri sono quelli "che qualificano l'ordinamento dello Stato i fini di religione e di culto".

Il ricorso al criterio del fine di religione o ci culto "ha caratterizzato l'intera tradizione giuridica italiana".

Il fine di religione e di culto riguarda quindi opere rivolte a ceti che - nella divisione classista di un tempo - appaiono socialmente ed economicamente inferiori.

Il fine di religione o di culto coincide con il soddisfacimento delle esigenze religiose dei cittadini, e costituisce perciò interesse pubblico la promozione delle iniziative che ne garantiscono il conseguimento.

Una volta stabilito che il criterio per l'assegnazione di risorse materiali e giuridiche è quello del fine di religione o di culto perseguito da un soggetto, il problema è solo rinviato e non ancora risolto, in quanto il fine è una astrazione, ed è ricavabile solo da concrete attività che ne costituiscano l'adeguato mezzo di raggiungimento.

Il fatto è, però, che non sempre un'attività indiscutibilmente funzionale ad un fine di religione o di culto presenta una valenza esclusivamente religiosa.

Se si considerassero attività di religione o di culto, ai fini di interventi finanziari positivi o negativi anche queste a doppia valenza, vi sarebbe una plateale discriminazione rispetto agli organismi che perseguono queste stesse attività ponendosi però in una esclusiva prospettiva statualistica. Pertanto, quale che sia la valutazione di queste attività dal punto di vista confessionale, esse non possono assurgere a criterio per l'interventismo dello Stato. Questo potrà esplicare i suoi interventi giustificati dalla meritorietà del fine di religione o di culto prendendo come punto di riferimento solo attività che abbiano un'esclusiva valenza religiosa, senza autonoma rilevabilità da altri punti di vista da altri punti di vista.

Va precisato che la determinazione delle attività di religione e di culto non è condizionata dai tipi di attività che il soggetto stesso ritiene espressive del fine di religione così come lui stesso se lo prospetta. Insomma la rilevazione del fine di religione e di culto è fatta dallo Stato con criteri del tutto autonomi a quelli confessionali.

Il fine di religione e di culto costituisce dunque il criterio per individuare i gruppi qualificabili come religiosi. Va avvertito però che il criterio deve considerarsi oggettivo, nel senso che non intende individuare direttamente un soggetto come religioso assegnandogli comunque risorse materiali e giuridiche sulla base di questa semplice qualificazione.

Stante la possibilità che accanto alla finalità principale ve ne siano altre, il trattamento speciale delle attività svolte in genere da un soggetto avente fine di religione o di culto costituirebbe per questo soggetto un ingiusto privilegio rispetto a qualsiasi altro soggetto che, non essendo qualificabile come religioso, si troverebbe a svolgere le identiche attività del primo senza le facilitazioni accordate al primo.

Invece il criterio del fine di religione o di culto ha carattere oggettivo: vale a dire che non verrà facilitata l'attività, di qualsiasi genere essa sia, solo perché svolta da un soggetto religioso: questo soggetto avrà l'aiuto finanziario e giuridico dello Stato solo con riferimento al peculiare tipo di attività considerata direttamente funzionale al raggiungimento del fine di religione o di culto.


CAPITOLO III

INTERVENTI FINANZIARI

Modalità attraverso cui l'ordinamento giuridico agevola l'interesse del gruppo confessionale al soddisfacimento delle esigenze religiose dei propri appartenenti. Le modalità sono sostanzialmente di due tipi: o interventi finanziari, oppure messa a disposizione di strutture necessarie per la resa del servizio.

Per quel che riguarda i finanziamenti, essi possono essere diretti, e consistono allora in vere e proprie erogazioni finanziarie, oppure indiretti, e consistono allora in sgravi fiscali.

Per quel che riguarda i finanziamenti diretti, l'organismo beneficiario viene individuato nelle confessioni religiose.

Quando l'ordinamento individua il soggetto beneficiario dell'assegnazione di risorse nella confessione religiosa, sorgono ulteriori problemi.

In effetti, si producono i seguenti inconvenienti:

a) non trovano possibilità di soddisfacimento le esigenze di gruppi che, pur avendo come specifico riferimento uno specifico messaggio religioso, dissentono dalle modalità di professione di fede stabilite dall'autorità confessionale;

b) non ricevono attenzione le esigenze di collettività unificate sì dalla comune credenza, ma carenti di un centro di imputazione gerarchico confessionale.

Per quel che riguarda il primo inconveniente, occorre considerare che attiene alla tattica di qualsiasi gruppo presentare i propri interessi istituzionali come interessi individuali dei suoi membri.

Ma ci sono casi, sia pure eccezionali, in cui la base dei fedeli può ritenere che le proprie esigenze religiose siano lese od ostacolate proprio da quella autorità confessionale che di tali esigenze viene riconosciuta quale interprete privilegiata.

Ci si chiede allora se esistano margini perché le esigenze sociali religiose possano essere soddisfatte prescindendo dal gruppo confessionale.

Il presupposto su cui si basa il meccanismo di finanziamento è quello di commisurare il sostegno economico "al consenso dei cittadini"; pertanto esso consiste in ciò, che una piccola quota del gettito complessivo della imposta IRPEF - precisamente l'8 per mille - "sulla base delle scelte espresse dai contribuenti in sede di dichiarazione annuale dei redditi", viene destinata "in parte a scopi di interesse sociale o di carattere umanitario a diretta gestione statale", e, in parte, viene devoluta alla Chiesa cattolica ed alla maggior parte delle confessioni che hanno stipulato intesa con lo Stato. La Chiesa cattolica utilizza le somme così corrisposte "per esigenze di culto della popolazione, sostentamento del clero, interventi caritativi"; le altre confessioni invece utilizzeranno le somme ottenute esclusivamente per interventi sociali, assistenziali, umanitari e culturali in Italia e all'estero.

Si infrange il principio basilare per cui non è ammissibile che i cittadini interferiscano direttamente sull'impiego delle entrate iscritte al bilancio dello Stato.

In secondo luogo, si opera in materia di tributi mediante una negoziazione concordataria, ossia ad iniziativa del Governo, laddove per tutte le leggi in materia di spese e di tributi è richiesto uno specifico controllo parlamentare che in questo caso non può esplicarsi.

Da notare che, con riferimento alla Chiesa Cattolica ed alla Chiesa Evangelica Luterana in Italia è stabilito nelle rispettive intese che "in caso di scelte non espresse da parte dei contribuenti, la destinazione si stabilisce in base alle scelte espresse".

Viene così istituita, a beneficio delle sole Chiesa Cattolica e Chiesa Luterana, una presunzione discutibile che non sussiste per altre confessioni, le quali invece "in caso di scelte non espresse da parte dei contribuenti", rinunciano "alla quota relativa a tali scelte in favore della gestione statale, rimanendo tale imposta di esclusiva pertinenza dello Stato".

Ad ogni modo, le somme così determinate attraverso le indicazioni dei contribuenti, vengono versate, se la scelta è per la Chiesa cattolica, alla Conferenza episcopale, la quale le utilizza, secondo suoi criteri di ripartizione, "per esigenze di culto della popolazione, sostentamento del clero, interventi caritativi a favore della collettività nazionale o di Paesi del Terzo Mondo".

Se la scelta è per gli avventisti o i pentecostali, le somme sono destinate "a interventi sociali ed umanitari anche a favore di Paesi del Terzo Mondo".

Una disciplina a parte è prevista per le Comunità ebraiche, i cui appartenenti sono tenuti, "a norma di Statuto", a versare alle Comunità stesse "contributi annuali".

I sacerdoti ricevono la loro remunerazione (nella misura fissata dal rispettivo vescovo) dall'ente della Chiesa locale presso il quale prestano servizio (la diocesi per il vescovo e per i sacerdoti che lavorano nella curia diocesana, la parrocchia per il parroco ed i vicari parrocchiali, ecc.). La legge 20 maggio 1985 n. 222 ha stabilito che in ogni diocesi viene eretto un Istituto diocesano per il sostentamento del clero, al quale compete la titolarità e l'amministrazione di una serie di beni prima costituenti la dote dei c.d. benefici.

La Conferenza Episcopale Italiana ha istituito una peculiare persona giuridica, l'Istituto Centrale per i sostentamento del clero, che è sotto il suo diretto controllo, e che ha come scopo precipuo quello di "erogare agli istituti diocesani e a quelli interdiocesani per il soddisfacimento del clero le risorse necessarie a consentire l'integrazione, fino al livello fissato dalla CEI, delle remunerazioni dei sacerdoti che svolgono servizio in favore della diocesi".

Canali di entrata fiscale dell'Istituto centrale per il sostentamento del clero:

a) la quota versata dallo Stato pari all'8 per mille dell'IRPEF;

b) le erogazioni liberali (donazioni di denaro) fatte dai cittadini.

Per quanto riguarda il rischio di malattia, i "sacerdoti secolari e ministri di culto delle confessioni religiose diverse dalla cattolica" sono tenuti a versare all'INPS i contributi sociali di malattia previsti in linea generale, a carico di tutte le categorie di lavoratori, per il finanziamento del Servizio sanitario nazionale.

Per la invalidità e la vecchiaia, più specificatamente, la legge 22 dicembre 1973 n. 903 ha istituito un Fondo di previdenza per il clero della confessione cattolica e per i ministri di culto delle confessioni acattoliche.

Il Fondo ha lo scopo di concedere una pensione diretta all'iscritto che abbia raggiunto il limite di età stabilita, oppure sia divenuto permanentemente invalido, ed una pensione indiretta (o di reversibilità) ai superstiti dell'iscritto o pensionato del Fondo.

Soggetti all'obbligo di iscrizione sono tutti i sacerdoti secolari e tutti i ministri di culto delle confessioni religiose diverse dalla cattolica, aventi cittadinanza italiana e residenti in Italia.

Restano dunque esclusi da questo sistema di sicurezza sociale i religiosi - a meno, ovviamente, che non lavorino alle dipendenze di terzi - per i quali la soluzione del problema è complicata dal fatto che essi, per definizione, sono poveri.

L'art. 19 Cost. garantisce "tutte le manifestazioni del culto, ivi indubbiamente incluse, in quanto forma e condizione essenziale del suo pubblico esercizio, l'apertura di templi ed oratori", e che quindi l'apertura di un tempio da parte di un gruppo religioso rappresenta un mezzo indispensabile "per una autonoma professionale della fede religiosa", questa esigenza di libertà si traduce facilmente in criterio confermativo dell'azione pubblica.

Gli edifici di culto possono essere perciò considerati opere pubbliche; e siccome la loro costruzione si pone nel quadro del compito specifico della Pubblica Amministrazione di "assicurare uno sviluppo equilibrato ed armonico dei centri abitativi", il loro approntamento rientra fra le opere urbanistiche. Pertanto la legge 22 ottobre 1971 n. 865 annovera le "chiese ed altri edifici per servizi religiosi" fra le opere di urbanizzazione secondaria.

Precisamente, i comuni, nella formazione dei c.d. piani di zona, devono indicare, "gli spazi riservati . ad edifici pubblici e di culto".

Stante l'obbligo di legge di determinare questi spazi riservati secondo standard minimali di volumetria, l'obbligo imposto all' "autorità civile" di tener "contro delle esigenze religiose delle popolazioni, fatte presenti" dalle autorità delle rispettive confessioni, "per quanto concerne la costruzione di nuovi edifici di culto".

Una volta identificati gli spazi da destinare alle "attrezzature religiose", il comune oppure i soggetti direttamente interessati, promuovono il procedimento di espropriazione per pubblica utilità.

Se il procedimento lo promuove il comune, questo acquisisce l'area nel suo patrimonio indisponibile e poi la trasferisce, a titolo di proprietà oppure di semplice superficie, agli enti interessati alla costruzione delle "attrezzature religiose".

Se invece il procedimento di espropriazione lo promuove direttamente il soggetto interessato alla costruzione dell'edificio di culto e di opere annesse, è questo soggetto che deve are a favore dei proprietari espropriati l'indennità di espropriazione, dopo di che acquisisce l'area come sua proprietà.

Anche a questo riguardo lo Stato si assume "impegni finanziari", consistenti in "contributi regionali e comunali".

Questi contributi sono erogabili sulla base di entrate ottenute attraverso due strumenti finanziari complementari:

a) il primo strumento finanziario è basato sui proventi derivanti dalla tassa di concessione comunale a carico di qualunque cittadino che intensa costruire o ricostruire e delle sanzioni pecuniarie per eventuali costruzioni abusive. In tal caso, i denari incassati "sono versati in un conto corrente vincolato presso la tesoreria del comune e sono destinati alla realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria";

b) il secondo strumento finanziario, da attivarsi evidentemente e soprattutto in caso di mancanza di fondi derivanti dall'applicazione della legge n. 10 del 1977, è costituito dai finanziamenti agevolati di cui il comune può fruire assumendo mutui con la Cassa depositi e prestiti proprio per la realizzazione di opere "destinate ad attività religiose".

A integrazione di queste due fonti di finanziamento, e solo per quel che riguarda la Chiesa cattolica, ulteriore fonte di finanziamento è costituita da una parte delle somme introitate dalla CEI attraverso il gettito dell'8 per mille dell'IRPEF destinato, su indicazione dei contribuenti, a scopi religiosi.

Impegni particolari di cura e manutenzione gravano sull'amministrazione pubblica in relazione agli edifici di culto di proprietà statale.

Proprio per provvedere alla conservazione, al restauro, alla tutela ed alla valorizzazione di tali edifici è stata creata un'apposita struttura amministrativa, il Fondo edifici di culto, dotato di personalità giuridica, che quindi è diventato proprietario di questo patrimonio, certo di valore urbanistico e monumentale inestimabile, ma non redditizio e per la cui cura e manutenzione sono necessari rilevanti interventi finanziari.

Il Fondo edifici di culto provvede a questa cura e manutenzione con i proventi derivanti dalla gestione di un patrimonio assegnatogli.

Quando si parla di finanziamenti indiretti si intende la c.d. incentivazione passiva, ossia quella forma di finanziamento indiretto che è costituito dalle agevolazioni tributarie, e che è il più idoneo a favorire iniziative ritenute particolarmente meritevoli.

Restano da considerare quelle che sono disposte in favore di determinate persone giuridiche confessionali e delle loro attività.

a) Edifici di culto.

Gli edifici di culto sono dunque esclusi dalla determinazione del reddito ai fini delle imposte IRPEF ed IRPEG, non tanto e non solo per la presunzione di improduttività di reddito di tali edifici, ma anche e soprattutto perché strumentali ad un'attività attraverso cui si compie lo sviluppo della persona umana.

Per quanto riguarda le imposte sul patrimonio, bisogna distinguere quelle che riguardano il patrimonio dal punto di vista statico dalle altre che concernono invece i trasferimenti di detto patrimonio.

Sotto il primo aspetto, abolita l'INVIM decennale, viene in rilievo l'ICI, in relazione alla quale l'art. 7 lett. b) del D.lgs. 504/1992 stabilisce che sono esentati da questa imposta "i fabbricati destinati esclusivamente all'esercizio del culto, purché compatibile con le disposizioni degli artt. 8 e 19 Cost. e le loro pertinenze".

Sotto il secondo aspetto, per quanto riguarda cioè le varie imposte sui trasferimenti patrimoniali, l'esenzione si ha solo se l'edificio di culto viene acquistato a titolo gratuito; ma l'aliquota dell'imposta di registro è ridotta alla metà se il trasferimento, anche a titolo oneroso, ha per oggetto "immobili di interesse storico, artistico o archeologico", e fra questi potrebbero esserci, molto spesso, proprio gli edifici di culto.

b) Beni culturali religiosi.

Canale di finanziamento dei beni culturali ecclesiastici può provenire dalla disposizione, che intende incentivare donazioni per la tutela di beni di rilevante interesse culturale, secondo cui sono detraibili dal reddito delle persone fisiche e giuridiche le erogazioni liberali in denaro fatte in favore dello Stato, di enti o istituzioni pubbliche, di fondazioni, di associazioni legalmente riconosciute, le quali utilizzino le somme donate per interventi di protezione di beni facenti parte del patrimonio culturale.

c)  Gli enti confessionali.

Sul terreno tributario, vale per gli enti confessionali, come una sorta di norma di chiusura, il principio secondo cui, agli effetti tributari, il fine di culto è equiparato a quello di beneficenza e di istruzione. Siccome gli enti ecclesiastici in tanto sono riconosciuti in quanto abbiano un fine di religione o di culto, è evidente che essi godranno di tutte le agevolazioni tributarie ricollegate a quel fine.


CAPITOLO V

L'INSEGNAMENTO DELLA RELIGIONE CATTOLICA NELLE SCUOLE STATALI

Nel quadro dell'ideologia dello Stato sociale che s'impegna a soddisfare una serie di bisogni non solo di tipo materiale, ma anche di tipo spirituale, in particolare perciò attinenti alla cultura, trova un posto centrale il soddisfacimento del bisogno di istruzione.

Molte famiglie possono desiderare che, nel quadro di questo progetto educativo, i loro li possano ricevere anche un'istruzione religiosa; una istruzione religiosa è stata impartita nella scuola, e la Chiesa ne fatto sempre un punto irrinunciabile delle sue richieste al potere politico.

Il problema è se se ne possa fare carico, ed a quali condizioni, il potere politico di un ordinamento democratico.

Per soddisfare la domanda religiosa rispettando il valore essenziale della laicità dello Stato, occorrerebbe trovare modalità di erogazione del servizio religioso che esprimano una netta distinzione fra servizio scolastico direttamente reso dallo Stato e servizio religioso reso da organismi ad esso doverosamente estranei.

Per rispondere alla domanda di istruzione religiosa cattolica, viene mantenuto il modello consistente nell'incorporare direttamente l'organizzazione confessionale cattolica nell'organizzazione amministrativa statale.

L'improponibilità del fondamento dell'insegnamento della religione cattolica nella libertà religiosa ha reso accorto il legislatore, che ha preferito richiamarsi ad una più generica e meno confutabile "importanza della cultura religiosa".

In quanto elemento della cultura la religione potrebbe essere considerata solo per la sua idoneità allo sviluppo di valori umanistici e quindi universalmente accettabili, non già come strumento di comunicazione controllata di uno specifico messaggio religioso.

Sulla base del valore che va riconosciuto alla "cultura religiosa", nonché del dato per cui "i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano", l'art. 9 n. 2 del nuovo Accordo garantisce l'insegnamento della religione cattolica "nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado". E l'art. 5 lett. a) del Protocollo addiz. all'Accordo del 1984 stabilisce che l'insegnamento della religione cattolica è impartito "in conformità alla dottrina della Chiesa" e "da insegnanti che siano riconosciuti idonei all'autorità ecclesiastica, nominati, d'intesa con essa, dall'autorità scolastica".

Gli insegnanti di religione sono considerati come "incaricati a tempo indeterminato", i quali "una volta nominati o assunti in servizio, si intendono automaticamente confermati negli anni successivi, salvo nuova intesa o revoca da parte dell'ordinario diocesano".

Questo provvedimento comporta quindi, per il Preside, l'obbligo di procedere alla revoca dell'incarico, revoca che rappresenta un "atto dovuto".

Con un solo limite, e cioè che questo revoca assume il carattere di attività dovuta solo se avviene a fine d'anno scolastico; ché se interviene nel corso dell'anno scolastico, essa è legittima solo se motivata con "idonee ragioni di pubblico interesse prevalenti rispetto alla posizione soggettiva dell'insegnante ed alle esigenze di continuità didattica". Gli insegnanti di religione appaiono inevitabilmente esclusi dalle garanzie di sicurezza e di stabilità che sono deducibili da valori costituzionali.

Viene istituito così un insegnamento attraverso il quale la Chiesa cattolica può esplicare nelle scuole statali il suo munus docendi, cioè il suo essenziale compito della evangelizzazione, e che quindi costituisce un ufficio ecclesiastico. È vero che l'insegnamento della religione avviene, secondo una formula di ambigua lettura, "nel quadro delle finalità della scuola", rispetto alle quali quell'insegnamento dovrebbe in chiave culturale e non già di indottrinamento.

È sintomatico che la Corte costituzionale affermi il principio di laicità dello Stato in occasione di questioni relative all'insegnamento della religione cattolica nelle scuole, che rappresentano proprio un caso di conferimento di partecipazione all'esplicazione di poteri pubblici a favore di un'organizzazione di tendenza religiosa. La Corte considera tale insegnamento "coerente con la forma di Stato laico della Repubblica italiana", una volta che lo Stato-comunità garantisca allo studente il diritto all'autodeterminazione consistente nel non avvalersi di detto insegnamento.

Abbiamo già visto come sia stato riconosciuto allo studente il diritto di avvalersi o non avvalersi dell'insegnamento della religione cattolica. Quello che viene concesso in termini di riconoscimento astratto può venire in parte tolto attraverso i meccanismi predisposti per dare effettiva attuazione a questo riconoscimento; per cui si tratta di vedere se siffatti meccanismi siano approntati in modo:

a) da consentire veramente al diretto interessato la libera scelta se avvalersi o non avvalersi dell'insegnamento della religione;

b) da non scoraggiare o rendere particolarmente difficile la scelta in favore del non avvalersi dell'insegnamento della religione, in modo da pilotare la scelta in senso contrario.

Per quanto riguarda il punto b) va detto che nessun problema sarebbe sorto se si legesse la norma dell'art. 9 n. 2 del concordato, cioè l'insegnamento della religione cattolica è da considerarsi facoltativo, con la conseguenza che per coloro che usufruiscono di tale insegnamento dovrebbe essere previsto un orario aggiuntivo.

Attraverso la burocrazie ministeriale e la giurisprudenza del Consiglio di Stato, è stata effettuata un'operazione di recupero, che è passata attraverso due fasi progressive:

a) la prima fase è consistita nel far passare l'insegnamento della religione cattolica da meramente facoltativo ad opzionale rispetto ad insegnamenti alternativi e da determinare anche in relazione alla concreta attuabilità;

b) la seconda fase è consistita nel trasformare questa raggiunta opzionalità da libera in obbligatoria, nel senso che gli studenti che non vogliono avvalersi dell'insegnamento della religione cattolica sono obbligati a seguire l'insegnamento alternativo.

Questa seconda fase è stata bloccata dalla Corte Costituzionale, la quale ha dichiarato che "per quanti decidono di non avvalersi dell'insegnamento della religione cattolica l'alternativa è uno stato di non obbligo". La Corte Costituzionale ha dovuto ribadire che lo stato di non obbligo ha la funzione "di non rendere equivalenti e alternativi l'insegnamento della religione cattolica ed altro impegno scolastico, per non condizionare dall'esterno della coscienza individuale l'esercizio di una libertà costituzionale, come quella religiosa, coinvolgente l'interiorità della persona".

"Alla stregua dell'attuale organizzazione scolastica è innegabile che lo stato di non-obbligo può comprendere, tra le altre possibili, anche la scelta di allontanarsi o assentarsi dall'edificio della scuola".

Ulteriore garanzia è costituita da un impegno che, nelle rispettive intese, alcune confessioni hanno richiesto, quello cioè secondo cui "l'ordinamento scolastico provvede a che . non siano previste forme di insegnamento religioso diffuso nello svolgimento dei programmi di altre discipline".

Questo impegno è più semplice nell'ambito della scuola media, ma molto meno nell'ambito della scuola elementare, "la scuola riconosce il valore della realtà religiosa come un dato storicamente, culturalmente e moralmente incarnato nella realtà sociale in cui il fanciullo vive", ed allora diventa molto difficile distinguere tra religione cattolica come comunicazione di tipo catechistico e religione cattolica come dato culturalmente rilevante.

Una circolare ministeriale del 13 febbraio 1992 suggeriva che i Consigli di circolo o di istituto potessero deliberare di far rientrare fra dette attività extrascolastiche "la partecipazione a riti e cerimonie religiose" nonché gli incontri delle scolaresche con i vescovi diocesani nell'ambito delle visite pastorali da essi effettuate.

Le delibere con cui i Consigli d'Istituto consentono pratiche religiose in sostituzione delle normali ore di lezione sono illegittime, innanzitutto per un motivo formale, perché cioè l'indicato testo normativo, nel riferirsi ad attività extrascolastiche, indica esplicitamente "attività culturali, sportive e ricreative"; ed in secondo luogo sono illegittime per un motivo sostanziale, perché cioè se la Chiesa fosse legittimata a compiere pratiche religiose nelle sedi scolastiche, "assisteremmo ad una vera interferenza della Chiesa nell'attività dell'istituzione statale, esclusa e non consentita dalla Costituzione".





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