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Il carattere rigido dell'assetto costituzionale della chiesa non impedisce che nell'ordinamento canonico si realizzino riforme anche sostanziali di gran portata.
Il concilio Vaticano II e poi il Codex del 1983 hanno ridefinito e riscritto il modulo delle persone e dei soggetti di diritto.
Carattere essenziale dell'ordinamento canonico sino alla codificazione del 1917 era quello della disuguaglianza dei suoi appartenenti e del loro inquadramento in determinati status giuridici e sociali, e soprattutto in due, quello dei chierici e dei laici.
Per un insegnamento che si fa risalire a Girolamo (santo) vi sono due specie di cristiani.
I chierici, votati al culto divino, e coloro che sono dediti alla contemplazione e alla preghiera. Sono tutti coloro che Dio ha voluto eleggere prima d'ogni altro.
I laici, ai quali è permesso possedere beni temporali, ma solo per i loro bisogni. Ad essi è permesso sposarsi, coltivare la terra, dirimere le liti attraverso un giudizio, difendere la propria causa, depositare offerte sull'altare, are le decime: possono così essere salvati, se tuttavia evitano i vizi e fanno del bene.
Attorno a questa divisione si è creata una cultura e una letteratura basata su una concezione dualistica della società ecclesiastica, nella quale la condizione dei laici era considerata meno elevata rispetto a quella dei chierici, tale da comportare una differenziazione sostanziale delle rispettive condizioni giuridiche.
Ancora in epoca recente la definizione del laico era negativa. Esso era considerato colui al quale manca del tutto la partecipazione al potere giurisdizionale e d'ordine.
L'immagine stessa della chiesa restava affidata alle classiche ripartizioni tra ecclesia discens (la comunità dei fedeli) ed ecclesia docens (la gerarchia), populus ductus (i laici) e populus ducens (i chierici).
Il codice del 1917 dettava inoltre una disciplina sistematica dei diversi stati, clericale, religioso e laicale, regolando i rapporti tra i singoli e l'istituzione ecclesiastica.
Lo stato di chierico, e in parte quello di religioso, comportavano una precisa capacità di governo, mentre i laici restavano ancorati ad un ruolo passivo di destinatari e d'oggetto delle attività dei chierici.
Per tale motivo, il Vaticano II e il codice del 1983 hanno voluto introdurre la categoria di popolo di Dio come categoria identificante la chiesa. Hanno inoltre affermato il carattere del sacerdozio comune che unisce i fedeli a prescindere dalle funzioni specifiche di ciascuno.
Tutti gli uomini sono chiamati a formare il popolo di Dio. Per tale motivo, questo popolo, pur restando uno e unico, si deve estendere a tutto il mondo e a tutti i secoli affinché si adempia il volere di Dio.
Tale affermazione ha conseguenze importanti sul piano giuridico; infatti, dalla stessa definizione deriva il principio per il quale: "I fedeli sono coloro che, essendo stati incorporati in Cristo con il battesimo, sono costituiti popolo di Dio e resi partecipi nel modo loro proprio dell'ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo. Essi sono chiamati ad attuare, secondo la condizione giuridica di ciascuno, la missione che Dio ha affidata alla Chiesa " (can204).
L'appartenenza alla chiesa, che si acquisisce mediante battesimo, fa conseguire un carattere sacro che è fonte di diritti e di doveri.
L'identificazione della chiesa come popolo di Dio fonda giuridicamente e teologicamente il sacerdozio comune dei fedeli per il quale si può parlare di corresponsabilità diretta e personale di tutti i fedeli nel perseguimento delle finalità principali della chiesa.
Lo stato di battezzato è di per se uno stato giuridico che rende partecipi alla vita della chiesa e le attività dei fedeli possono tutte entrare a far parte della sua missione.
Secondo tale principio, si afferma l'uguaglianza di tutti i fedeli nella dignità e nel modo di agire.
Per tale uguaglianza tutti cooperano all'edificazione del Corpo di Cristo, secondo la condizione e i compiti propri di ciascuno (can 208).
L'uguaglianza di tutti i membri della chiesa è causa ed effetto del sacerdozio comune dei fedeli. Da ciò derivano delle conseguenze:
I. Nel codice canonico si enunciano i diritti fondamentali dei fedeli che possono essere esercitati da tutti i battezzati e che da tutti devono essere rispettati.
Tra i diritti, acquistano rilievo quello di vedere rispettato, da parte di chiunque, il proprio buon nome e la propria riservatezza (can 220) e quello di scegliere il proprio stato di vita che ciascuno ritenga più consono alle proprie capacità e aspirazioni (can 219).
Nei confronti dell'autorità ecclesiastica sono garantiti i diritti di esercitare personalmente l'apostolato, di ottenere i sacramenti, di seguire il proprio rito e il proprio metodo di vita spirituale, di ricevere un'educazione cristiana e il diritto di fruire della giusta libertà di ricerca nelle discipline sacre conservando il dovuto ossequio verso il magistero ecclesiastico (can 218).
Il codice canonico da un certo spazio al diritto d'associazione, il quale implica una parziale possibilità d'autogoverno.
In materia occorre ricordare il principio secondo il quale nessun'associazione può assumere il nome di cattolica se non con il consenso dell'autorità ecclesiastica (can 300).
Per le associazioni pubbliche, è previsto un regime di più penetrante controllo e vigilanza dell'autorità ecclesiastica.
In applicazione del principio di legalità, tutti i fedeli possono rivendicare e difendere legittimamente i propri diritti nel competente foro ecclesiastico; se sono chiamati in giudizio sono giudicati a norma di legge, con equità, e non possono essere colpiti da pene canoniche non previste dalla legge.
Merita un richiamo particolare la formulazione del diritto di manifestare le proprie opinioni nella chiesa. Per l'art. 212 tutti i fedeli possono e talvolta devono manifestare il proprio pensiero su ciò che riguarda il bene della chiesa e renderlo noto sia ai pastori sia agli altri fedeli: devono farlo in proporzione alla cultura, alla competenza e al prestigio di cui ciascuno gode. Nell'esercizio di tale diritto devono essere fatte salve l'integrità della fede e dei costumi e il rispetto per i pastori; devono inoltre essere tenute presenti l'utilità comune e la dignità della persona.
Si tratta dunque di una sorta di diritto-dovere.
Tale caratteristica il codice la estende a tutti i diritti dei fedeli, il cui esercizio deve sempre tenere conto del bene comune della chiesa, dei diritti altrui e dei propri doveri nei confronti degli altri (can 223).
Sono strettamente correlati ai diritti, i doveri che incombono su tutti i membri della chiesa a prescindere dal loro stato.
Tutti questi membri devono mantenere, anche nel modo di agire, la comunione con la chiesa e adempiere gli obblighi. Sono tenuti all'obbedienza verso la gerarchia quando questa esercita le funzioni d'insegnamento e di governo; devono aiutare la chiesa nelle sue necessità, anche materiali, per ciò che riguarda il culto, le opere d'apostolato e il sostentamento dei suoi ministri,
I diritti fondamentali dei fedeli non esauriscono l'obiettivo del sacerdozio comune che unisce tutti i membri del popolo di Dio.
Insieme al principio comunitario, un altro fondamento della costituzione teologica è diretto all'uguaglianza degli appartenenti della chiesa: il principio carismatico o principio di varietà che riflette l'azione dello Spirito Santo che conduce i fedeli dispensando a ciascuno qualità e capacità originali.
Il principio di varietà implica il riconoscimento dei carismi, che rendono i fedeli adatti e pronti ad assumersi gli incarichi e gli uffici utili ad espandere e rinnovare la chiesa.
In virtù di questo principio la partecipazione dei fedeli non si esaurisce nella collaborazione sottoposta al gradimento della gerarchia, ma acquista la dimensione di un diritto di tutti, attraverso cui ciascuno esprime e mette a disposizione della comunità la propria capacità d'iniziativa ecclesiale.
In questa rivalutazione del sacerdozio comune si situa la nozione di laico, il quale non è altro che il fedele comune privo delle attribuzioni dell'ordine sacro, il quale si realizza la propria vocazione conducendo una vita normale nel mondo.
Accanto allo stato di laico e a quello di chierico la costituzione della chiesa contempla lo stato di coloro che s'impegnano a seguire consigli evangelici di povertà, castità e obbedienza, imitando così più da vicino l'esempio di Cristo.
Chi opera questa scelta plasma la propria vita ed esistenza personale consacrandola a Dio, e cerca di tendere alla perfezione professando di volere osservare i consigli evangelici e i conseguenti impegni.
Il consiglio di castità comporta l'obbligo della perfetta continenza nel celibato (can 599);
il consiglio di povertà implica la limitazione e la dipendenza nell'usare e nel disporre dei beni (can 600);
il consiglio d'obbedienza obbliga alla sottomissione della volontà ai legittimi superiori (can 601).
Lo stato che si viene così a determinare non è fondato su un sacramento, come è il battesimo per lo stato laicale, o l'ordine per i chierici. Non può neanche affermarsi che esso sia una condizione intermedia tra i chierici e i laici, poiché può essere scelto sia dai laici sia dai chierici.
Esso ha piuttosto un fondamento profetico perché testimonia la volontà di rinuncia come suggerito dal vangelo, e preura in qualche modo quella perfezione cui tende la chiesa.
Lo stato di vita consacrata appartiene all'assetto costituzionale ecclesiastico e ha una radice divina, poiché " i consigli evangelici, fondati sull'insegnamento e sugli esempi di Cristo, sono un dono divino che la chiesa ha ricevuto dal Signore e con la sua grazia sempre conserva" (can 575).
Non può invece dirsi con altrettanta sicurezza che esso sia di diritto divino, mancando dell'elemento della necessità quale scaturito da un comando o da un atto di volontà divino.
Esso però è parte integrante della struttura costituzionale della chiesa e contribuisce la dialettica con gli altri stati, significativa sotto il profilo teologico.
Si può affermare che i tre stati sono strutturalmente reciproci e complementari. Ognuno di essi gode di una priorità strutturale sugli altri.
Lo stato laicale assolve una funzione insostituibile per la presenza della chiesa nel mondo.
Lo stato clericale costituisce e rappresenta la struttura e l'unità, anche sacramentale, della chiesa.
Lo stato di vita consacrata assolve una funzione profetica ed escatologica: quella di testimoniare la volontà e la capacità di trascendere vincoli e bisogni umani, anticipando qualcosa della perfezione a cui tutti gli uomini sono chiamati.
Per meglio comprendere questa problematica occorre menzionare il ruolo svolto da quanti hanno scelto di seguire i consigli evangelici nella storia.
Tale scelta di solito non è rimasta chiusa nella sfera personale del singolo, ma ha creato esperienze e strutture comunitarie ciascuna con proprie specificità.
Ne è derivata una molteplicità di associazioni, istituti, ordini religiosi che hanno favorito la concentrazione di patrimoni ricchezze morali e spirituali.
Molto spesso questi istituti sono stati eccezionali centri di accumulazione culturale, di sperimentazione di attività religiose e sociali che hanno interessato vaste aree territoriali in ogni parte del mondo.
Anche quando la scelta di perfezione ha interessato personalità singole, apparentemente isolate, essa è stata all'origine di esperienze contemplative o di speciale approfondimento intellettuale.
La chiesa ha costantemente preferito la professione dei consigli evangelici che si esprime in una forma stabile di vita, che si svolge nell'ambito di determinati istituti di vita consacrata.
Questi istituti devono la propria origine ad una speciale intuizione, o vocazione, dei rispettivi fondatori i quali per dono dello Spirito Santo hanno proposto ed attuato un modo particolare di seguire i consigli evangelici.
Il carisma specifico del fondatore costituisce, pertanto, l'identità propria di ciascun istituto che deve essere salvaguardata anche attraverso regole certe di vita e di condotta.
A tal fine, il codice afferma che:
"i progetti dei fondatori, sanciti dalla competente autorità della chiesa, relativamente alla natura, al fine, allo spirito e all'indole dell'istituto, così come le sue tradizioni, cose che costituiscono il patrimonio dell'istituto, devono essere tutti fedelmente custoditi" (can 578);
"per custodire più fedelmente la vocazione e l'identità dei singoli istituti, il codice fondamentale di ciascuno deve contenere le norme relative al governo dell'istituto e alla disciplina dei membri, alla loro incorporazione e formazione, e anche l'oggetto proprio dei sacri vincoli" (can 587).
In tale modo si determina nell'istituto la sintesi tra elemento carismatico ed elemento giuridico.
Strumento di tale sintesi è l'autodeterminazione riconosciuta dall'ordinamento canonico ai singoli istituti. Questi godono, infatti, di una giusta autonomia di vita, specialmente di governo, mediante la quale possano valersi nella chiesa di una propria disciplina e conservare integro il proprio patrimonio (can 586).
Tra le distinzioni che sono opportune in questa sede ricordiamo quella tra istituti religiosi e istituti secolari.
I. L'istituto religioso è una società i cui membri, secondo il diritto proprio, emettono i voti pubblici, perpetui oppure temporanei da rinnovarsi alla scadenza, e conducono vita fraterna in comunità in modo tale da determinare una separazione dal mondo (can 607).
II. L'istituto secolare è un istituto di vita consacrata in cui i fedeli, vivendo nel mondo, tendono alla perfezione della carità e s'impegnano per la santificazione del mondo, operando al loro interno (can 710); è previsto che i membri di tali istituti conducano la propria vita nelle situazioni ordinarie del mondo, soli o ciascuno nella propria famiglia, o in gruppi di vita fraterna a norma delle costituzioni (can 714).
Altra distinzione importante è tra istituti clericali e laici. A tale riguardo, il codice ricorda che lo stato di vita consacrata, per sua natura, non è né clericale né laicale.
Afferma che si dice istituto clericale quello che assume l'esercizio dell'ordine sacro ed è governato da chierici, mentre si chiama istituto laicale quello che, in forza della sua natura, dell'indole e del fine, ha un compito specifico che non comporta l'esercizio dell'ordine sacro (can 588).
IL SACERDOZIO MINISTERIALE
La struttura sociale e giuridica della chiesa ha nella potestà d'ordine la fonte della diversità di funzioni affidate ai suoi membri.
La potestà d'ordine è la capacità di santificare amministrando i sacramenti e costituisce la forma principale di potere-servizio nella costituzione ecclesiastica.
Per divina istituzione esistono tra i fedeli dei ministri sacri ai quali è conferito, con il sacramento dell'ordine, un carattere personale indelebile che li rende idonei ad amministrare i sacramenti.
Chi è insignito dell'ordine nel grado episcopale è capace di amministrare lo stesso sacramento trasmettendo il carattere indelebile, e le capacità connesse, ad altri soggetti che diverranno, essi stessi, ministri della chiesa.
La potestà d'ordine non è un potere in senso stretto; essa conferisce un carattere personale che rende capace sempre e dovunque il soggetto di compiere quegli atti che intrinsecamente dispensano i mezzi di santificazione connessi ai sacramenti.
La chiesa disciplina rigorosamente la materia sacramentale, stabilendo le condizioni oggettive di validità per i singoli sacramenti e le condizioni soggettive nelle quali deve trovarsi il ministro per esercitare lecitamente la potestà d'ordine di cui è insignito.
Questo sta a significare che gli effetti dei sacramenti si producono a prescindere dalle qualità personali del ministro. Una volta rispettate le condizioni oggettive di validità, l'effetto dell'atto si avrà ugualmente anche se non saranno rispettate le condizioni soggettive previste dalla chiesa per il ministro stesso: in tale caso l'atto sarà illecito ma valido. Es. 22.
La potestà d'ordine attiene alla più intima natura sacramentale della chiesa e presiede alla distribuzione di quei doni, spirituali e invisibili, che sono necessari per il conseguimento della salvezza.
Essa ha la sua fonte nel vangelo, sia a causa dei riferimenti scritturali, sia perché Cristo ha scelto gli apostoli quali pastori e li ha dotati del potere di nominare dei successori che potessero perpetuarsi sino alla fine dei secoli.
La potestà d'ordine al suo grado più elevato si consegue attraverso la consacrazione episcopale che conferisce il sacramento nella sua pienezza e abilita il soggetto, oltre che ad amministrare tutti i sacramenti, a creare altri sacerdoti e vescovi, trasmettendo dunque la potestà di cui è titolare.
I vescovi, dunque, quali successori degli apostoli, sono i soggetti attivi essenziali per la diffusione dei beni spirituali e i garanti della continuità e trasmissione della p. d'ordine nella comunità ecclesiastica.
Essi costituiscono il personale ecclesiastico attorno al quale ruota l'intera opera di santificazione della chiesa.
Ai vescovi compete la capacità di amministrare tutti i sacramenti, e proprio a causa della vasta attività loro affidata si sono presto affermati nuovi gradi della potestà d'ordine.
Gradi di potestà d'ordine:
I. Il livello sacerdotale o presbiterale, che ha la sua origine nel fatto che la funzione ministeriale dei vescovi fu trasmessa in grado subordinato ai presbiteri, i quali sono dunque costituiti nell'ordine del presbiterato per essere cooperatori dell'ordine episcopale, per l'assolvimento della missione apostolica. La potestà d'ordine che spetta ai presbiterali abilita ad amministrare tutti i sacramenti, sotto la guida del vescovo, tranne la confermazione o cresima, che può essere validamente data dal presbitero solo se provvisto di specifica facoltà per norma di diritto comune o per speciale concessione della competente autorità (can 882), e il sacramento dell'ordine, riservato in modo assoluto al vescovo.
II. Il livello diaconale del sacramento dell'ordine. Al diacono, cui sono imposte le mani "non per il sacerdozio, ma per il servizio", spetta amministrare solennemente il battesimo, conservare e distribuire l'eucaristia, assistere e benedire il matrimonio in nome della chiesa, portare il viatico ai moribondi, leggere la sacra scrittura ai fedeli, istruire ed esortare il popolo, presiedere al culto e alla preghiera dei fedeli, amministrare i sacramentali, presiedere al rito funebre e alla sepoltura. La funzione del diacono può essere svolta o in vista dell'assunzione dell'ordine, o in modo permanente.
Il sacerdozio ministeriale non implica sono un impegno aggiuntivo per l'ordinato, ma porta la totale dedizione della persona alle funzioni cui deve attendere e alla chiesa nel suo complesso.
Questo spiega la regola del celibato che presiede alla potestà d'ordine, che ha finito col caratterizzare la ura e lo stato dei ministri nella chiesa cattolica.
Il celibato può essere considerato un principio costituzionale dell'ordinamento della chiesa latina, proprio per le conseguenze che comporta nella formazione del ceto sacerdotale, allo stesso modo del requisito del sesso maschile per quanti intendono assumere gli oneri ministeriali.
Vi sono delle discussioni circa il fondamento divino o umano dell'esclusione delle donne dalle funzioni sacerdotali; entrambi i principi rappresentano le discriminanti fondamentali che presiedono alla differenziazione di funzioni nell'ambito della comunità dei fedeli.
Per la formazione e preparazione del personale ecclesiastico con potestà d'ordine, la chiesa si avvale dell'istituzione seminariale che si articola nei seminari minori, nei quali si favorisce lo sviluppo delle vocazioni religiose e si dà una prima preparazione spirituale, umanistica e scientifica, e nei seminari maggiori, ai quali accedono solo quanti sono ritenuti idonei ad assumere con perpetuità gli oneri commessi al ministero.
Nei seminari maggiori, dove gli interessati vivono in comune, è previsto un corso di studi di sei anni, due dei quali dedicati alle discipline filosofiche e quattro a quelle teologiche.
Solitamente l'ordinazione presbiteriale viene conferita dopo l'acquisizione dei diversi gradi dell'ordine e non prima del compimento del venticinquesimo anno di età e dopo sei mesi kal diaconato.
Il codice canonico, oltre a lasciare al vescovo il giudizio sulla idoneità dei singoli a ricevere l'ordine, prevede alcune cause tassative di irregolarità e di impedimento:
La concezione unitaria del potere: potestà legislativa, esecutiva e giudiziaria.
la gestione del potere del governo nella chiesa è sostanzialmente unitaria.
Questo non solo nel senso della connessione tra potestà d'ordine e potestà di giurisdizione, ma anche nel senso che la potestà di governo compete ordinariamente ai rispettivi titolari nella sua interezza, comprensiva vale a dire della triplice funzione legislativa esecutiva e giudiziaria.
Nell'esercizio del potere ecclesiastico occorre che si applichino e si riflettano quei caratteri che ai titolari derivano dalla rispettiva potestà d'ordine e dalla funzione d'insegnamento che ciascuno assolve, o può assolvere.
La chiesa ha la finalità di rendere funzionale, e quindi omogeneo e coerente, l'esercizio del potere con l'unità di fede e di comportamenti che deve caratterizzare la comunità dei fedeli.
Questo fatto non impedisce che nella concreta organizzazione del governo ecclesiastico l'esigenza dell'equilibrio dei poteri si persegua in tante forme diverse:
con un originale pluralismo istituzionale, nel quale si trovano importanti organismi collegiali di governo;
con la partecipazione di diversi soggetti all'esercizio della potestà di giurisdizione;
con un ampio decentramento di poteri da cui scaturisce una pluralità di gradi di giurisdizione.
In alcuni casi, come nel governo degli istituti religiosi, si da una qualche forma di separazione dei poteri, in particolare tra esecutivo e giudiziario, ma il principio costituzionale che è alla base dell'organizzazione del governo ecclesiastico è un principio d'unità organica dei poteri.
Tali poteri possono essere distinti ed esaminati in relazione alla materia, ma non soggettivamente in relazione al soggetto titolare, il quale è unico sia nella chiesa universale sia in quella locale.
L'esercizio della potestà legislativa è regolato nell'ordinamento canonico da due principi:
I. il legislatore sotto all'autorità suprema non può validamente delegare la sua potestà se no glielo consente espressamente il diritto;
II. il legislatore inferiore non può dare una legge contraria a norme giuridicamente superiori (can. 135).
Infatti, fermo restando il potere legislativo supremo di cui è titolare il pontefice e il collegio episcopale con lui, la potestà legislativa è distribuita tra soggetti diversi che la esercitano in via ordinaria o straordinaria, in forma collegiale o personale.
In tale modo si determina una gradazione del potere legislativo, che ha importanza sia nei rapporti tra le fonti sia per la dispensa sia può essere concessa per non rispettare una disposizione normativa.
Le leggi ecclesiastiche universali sono promulgate con l'edizione degli Acta Apostolicae Sedis, salva diversa disposizione, ed entrano in vigore dopo tre mesi dal giorno apposto al numero degli Acta, salvo che non obblighino immediatamente o la stessa legge abbia stabilito espressamente una più lunga o breve vacanza.
Le leggi particolari, invece, sono promulgate nel modo determinato dal legislatore e cominciano ad obbligare dopo un mese dal giorno della promulgazione, salvo che nella stessa legge non sia stabilito un termine diverso (can. 8).
Le leggi universali sono:
quelle emanate dal collegio episcopale riunito in concilio;
dal pontefice;
dai dicasteri della curia romana, che però legiferano per conto e con l'approvazione del pontefice.
Le leggi particolari sono:
quelle che i vescovi danno ciascuno per la propria diocesi;
quelle che organismi particolari approvano per il territorio, o per i soggetti, su cui esercitano giurisdizione.
In tale senso hanno competenza legislativa:
i concili plenari;
le conferenze episcopali;
i concili provinciali;
i superiori (direttori-dirigenti) e i moduli (collegi di canonici) degli istituti religiosi.
La forma e la titolazione delle leggi sono particolarmente libere nell'ordinamento canonico e hanno assunto una pluralità di significati.
Gli atti del pontefice sono indicati con nomi differenti, cui non sempre corrisponde un preciso contenuto.
I. Le costituzioni apostoliche contengono norme legislative generali, spesso relative ad organi costituzionali della chiesa.
II. Le lettere apostoliche risolvono questioni più limitate.
III. I chirografi o epistole concernono determinati soggetti.
IV. I motu proprio hanno contenuti diversi ma segnalano che sono stati emanati per diretta iniziativa pontificia.
V. I rescritti rispondono a richieste rivolte da altri al pontefice.
VI. I decreti dettano una disciplina organica su argomenti diversi.
Le decisioni dei concili ecumenici hanno assunto, nel tempo, forme diverse:
costituzioni, decreti, canoni.
Con il Vaticano II, che non ha utilizzato lo strumento dei canoni, si è aggiunta quella delle dichiarazioni.
Anche i dicasteri della curia romana possono emanare:
decreti,
dichiarazioni,
lettere circolari,
istruzioni,
ma si deve tenere presente che, oltre a doversi far risalire la loro imputazione giuridica al pontefice che li sottoscrive o li approva, spesso non hanno valore di legge in senso proprio, essendo piuttosto strumenti d'interpretazione e d'attuazione d'altre leggi universali già emanate.
Una previsione specifica è quella relativa alle conferenze episcopali che possono emanare decreti generali, con cui si danno disposizioni comuni per le diocesi rette dai vescovi che sono membri della conferenza.
Anche i vescovi possono emanare i propri atti legislativi con una considerevole libertà di forma, dalle epistole ai decreti, ai rescritti, ecc.
Le leggi ecclesiastiche che integrano principi di diritto divino sono, per la chiesa, vincolanti per tutti gli uomini, poiché si ritiene che essi hanno la possibilità di riconoscerle con la propria ragione.
Le leggi, invece, puramente ecclesiastiche obbligano solo i battezzati nella chiesa cattolica che hanno sufficiente uso di ragione e, salvo diversa disposizione, abbiano compiuto sette anni (can. 11).
Dalle leggi universali sono vincolati tutti i destinatari, che possono essere indicati per ragioni di territorio o di situazioni soggettive.
Se, però, la legge non riguarda un determinato territorio ne sono esenti quanti si trovano in quel territorio.
Le leggi particolari si presumono territoriali, se non è disposto altrimenti.
I forestieri non sono obbligati alle leggi del loro territorio sino a che ne sono assenti, salvo che non si tratti di leggi personali o che con la loro trasgressione non si rechi danno nel proprio territorio;
sono obbligati alle leggi del territorio in cui si trovano solo quando queste provvedono all'ordine pubblico, determinano la formalità degli atti, o riguardano gli immobili situati in quel territorio.
I girovaghi, infine, sono obbligati alle leggi (sia universali sia particolari) che sono in vigore nel luogo un cui si trovano (can.13).
A differenza degli ordinamenti civili, nei quali l'ignoranza sulla legge non ha rilevanza, nell'ordinamento canonico l'ignoranza o l'errore è irrilevante solo per le leggi che stabiliscono la nullità degli atti, o che determinano l'incapacità delle persone.
L'ignoranza o l'errore circa la legge o la pena, su un fatto personale o intorno ad un fatto noto di altri, non si presumono: se però sono dimostrati hanno la loro influenza nell'applicazione della legge stessa (can. 15).
Da tener presente è che l'interpretazione delle leggi, e la loro applicazione, seguono i fondamenti canonici ermeneutici che valgono per le leggi civili, ma con differenziazioni notevoli che ne attenuano il rigore anche a scapito della loro certezza formale.
Qualora ci si trovi di fronte alla lacunosità di norme, che non disciplinano una materia o un particolare rapporto, sempre che non si tratti di legge penale (che non consente interpretazione analogica), soccorrono criteri e fonti alternative di diritto e si deve ricorrere in ordine di priorità:
alle leggi date per i casi simili
ai principi generali del diritto applicati con equità canonica
alla giurisprudenza e alla prassi della curia romana
al modo di sentire comune e costante dei giuristi (can. 19).
Un significato speciale assume il criterio dell'equità canonica che svolge la sua funzione non solo nell'ipotesi della lacunosità della norma, ma anche dell'interpretazione e applicazione delle leggi canoniche in generale.
Il principio d'equità è radicato all'ordinamento della chiesa, che ha come finalità suprema la salvezza delle anime (can. 1752), e sovviene ogni volta che dall'applicazione letterale e rigida di una norma deriverebbero mali maggiori del bene per cui tale norma è stata concepita, e ogni volta si possano prevedere danni alla salute spirituale di uno o più soggetti o scandalo per la comunità ecclesiastica.
Di fronte a tali evenienze, il giudice o l'autorità ecclesiastica competente devono adattare le norme canoniche, attenuandone il rigore e al limite disapplicandole, per conseguire obiettivi che più rispondono alla natura e alla finalità della chiesa.
Anche per tale motivo l'ordinamento canonico si presenta con un'impronta d'elasticità e di flessibilità sconosciute negli ordinamenti statali.
La potestà esecutiva comprende quel vasto campo d'attività che attiene all'organizzazione amministrativa ecclesiastica e al suo funzionamento.
A differenza di quella legislativa, può essere delegata sia per un atto sia per un insieme di casi, salvo che non sia disposto diversamente (can. 137).
La potestà delegata non va confusa con quella vicaria, la quale è esercitata da un soggetto in nome di un altro, ed è normalmente annessa ad un ufficio.
Esempi di potestà vicaria, nelle chiese particolari, sono:
la potestà esecutiva del vicario generale;
la potestà giudiziaria del vicario giudiziale.
Potestà d'ordine e potestà di giurisdizione: teorie giuridiche
L'intreccio tra potestà d'ordine e p. di giurisdizione costituisce come abbiamo visto, il motore centrale della dinamica dei poteri nella chiesa e ciò ha alimentato una riflessione teorica che tende ad individuare, e definire dottrinalmente, l'origine e la natura del potere nella società ecclesiastica ed a meglio motivare le relazioni tra sacramentalità e giurisdizione nell'ufficio episcopale.
La tradizione canonistica prevalente fino al Vaticano II partiva da una concezione dualistica dei poteri ecclesiastici e individuava nella chiesa una duplice gerarchia:
I. La gerarchia d'ordine, d'origine sacramentale e spirituale;
II. La gerarchia di giurisdizione, giuridica e sociale.
Anche in questa teoria dualistica era presente un elemento unitario, ricavato dalla definizione della chiesa come" società perfetta", che appariva garanzia sufficiente per evitare pericolose disgregazioni nel corpo ecclesiastico.
Tale società perfetta era considerata superiore ad ogni altra perché il fine che essa persegue, quello di avviare gli uomini alla salvezza, è ritenuto più elevato rispetto ai fini che qualunque altra organizzazione societaria terrena persegue.
L'unità della chiesa è desunta dalla meta ultima dei suoi membri, ma è anche la risultante della loro professione di fede, della comunione sacramentale e della soggezione di tutti i fedeli al governo dei legittimi pastori, in primo luogo del romano pontefice.
In tale contesto unitario, due poteri finiscono con l'acquisire autonomia, sia per l'origine di ciascuno di essi sia per le modalità con cui sono esercitati:
la potestà d'ordine che si conferisce con il rito sacro e i segni esteriori ritenuti necessari;
la potestà di giurisdizione che si acquisisce con il mandato, o istituzione canonica che assegna un ambito di popolazione necessario perché gli atti di governo possano concretamente indirizzarsi a determinati destinatari.
Il potere di giurisdizione garantisce la compattezza della società ecclesiastica, ed ha come fonte unica il primato pontificio dal quale dipende ogni concreta distribuzione di potestà ad altri soggetti.
Il potere pubblico fondato divinamente, nella chiesa, è dato non al popolo ma al pontefice cui compete distribuirlo, coordinarlo, delimitarlo e revocarlo.
La santificazione degli uomini, in tale prospettiva, resta il fine della chiesa, ma è perseguita immediatamente dall'amministrazione dei sacramenti attraverso la gerarchia d'ordine, e solo mediatamente dall'esercizio della giurisdizione che ha come obiettivo quello di governare ordinatamente la società ecclesiastica.
I netti contorni della concezione dualistica avevano il pregio di garantire contro ogni contestazione il sistema di governo ecclesiastico, ma la stessa si rivelava insoddisfacente nel momento stesso in cui relegava in un ambito più sfumato il primato e la dimensione sacramentale e spirituale della chiesa.
Questo spiega la ricerca della dottrina canonistica che soprattutto dopo il concilio ha capito come ogni dualismo giuricista avrebbe fatto perdere qualcosa d'importante della comunità dei credenti.
La comunità dei credenti, per un altro orientamento dottrinale, costituisce una realtà nella quale l'elemento umano e quello divino si saldano strettamente.
Secondo tale dottrina la chiesa è una società che vive e risente dell'umanità e storicità delle proprie scelte e attività, ma è influenzata costantemente dallo spirito e dalla volontà del suo fondatore.
Il sacerdozio dei fedeli, in tale senso, riflette l'interconnessione tra umano e sacro, presente nella chiesa: è esso stesso il fondamento di una prima strutturazione della società ecclesiastica.
Vi è poi un salto qualitativo tra il sacerdozio comune dei fedeli e quello ministeriale, poiché per il tramite del sacramento dell'ordine determinati soggetti sono resi partecipi in modo più diretto dei poteri ecclesiastici:
i vescovi sono, così, ministri anzitutto in relazione alla comunione sacramentale che si rinnova perennemente anche come comunione sociale, e sono forniti dei poteri necessari alla realizzazione di questa comunione.
I poteri giuridici si sviluppano concretamente in modo tale da non identificarsi con la dispensazione dei mezzi sacramentali, ma svolgendo la funzione di tradurre socialmente ciò che è interno e innato nella struttura spirituale della chiesa, e che è sottinteso nell'ordinazione sacramentale.
La struttura esterna dell'organizzazione gerarchica non può negare ciò che validamente il sacramento conferisce, ma l'esercizio legittimo dei poteri connessi all'organizzazione presuppone l'adesione alla comunione gerarchica ed è subordinato alle ulteriori condizioni giuridiche poste e richieste dall'organizzazione esterna della chiesa: proprio l'indipendenza tra sacramentalità e giurisdizione è dunque la prova di una radice unitaria dei poteri nella chiesa.
Oltre a queste due teorie, riguardanti l'interpretazione del potere ecclesiastico, altre analisi hanno saputo cogliere nuovi aspetti e profili delle relazioni tra dimensione ministeriale e struttura gerarchica.
Alcuni hanno ritenuto che non si debba accentuare oltre misura la lettura personale della potestà d'ordine e quella giuridica della potestà di governo, ricordando che la chiesa è complessivamente realtà istituzionale che unisce in sé elementi ontologici, o sacramentali, ed elementi formali esterni, senza che sia possibile separare gli uni dagli altri: la struttura ecclesiastica è portatrice di un dialogo continuo tra esperienza spirituale e organizzazione giuridica.
La divisione tra potestà d'ordine e di giurisdizione resta, ma essa è essenzialmente marginale perché il carattere personale derivato dall'ordinamento è in realtà funzionale all'organizzazione istituzionale della chiesa che esiste come dato permanente e perpetuo.
Secondo tale punto di vista, il collegio apostolico esprime al vertice il legame tra sacramento e diritto: esso rappresenta la struttura portante della chiesa-istituzione e ai suoi livelli si accede attraverso un sistema dell'ordine e della missione canonica.
La concezione unitaria del potere nella chiesa è alla base anche della dottrina che sottolinea la complementarietà della p. d'ordine e di giurisdizione.
Tale complementarietà è presente in modo costante nella storia ecclesiastica, da quando si conferivano le c.d. ordinazioni assolute, con le quali al vescovo erano conferiti, insieme alla consacrazione episcopale, tutti i poteri di giurisdizione.
Una delle ragioni del divieto delle ordinazioni assolute, decretato dal concilio di Calcedonia, era evitare che vescovi, o sacerdoti, incorsi nell'eresia (contraddizione di una o più verità proposte dalla chiesa ai fedeli) potessero ancora vantare la titolarità dei poteri giurisdizionali nella chiesa.
Il concetto di missione canonica ha la sua radice, quindi, nell'esigenza di garantire un ordinato svolgimento della vita ecclesiastica, ed esprime un'insopprimibile complementarietà rispetto alla distribuzione concreta dei poteri nell'ambito della comunità.
La funzione della missione canonica, infatti, va vista:
come determinazione della liceità dell'esercizio della potestà d'ordine;
come strumentale all'accesso ai diversi gradi di giurisdizione, che hanno come presupposto la stessa consacrazione episcopale.
Al tempo stesso la funzione di cui si tratta non è necessaria per la partecipazione del vescovo al collegio episcopale e all'esercizio dei poteri che, in quanto membro del collegio, gli competono.
Una riflessione sui poteri del collegio dei vescovi, chiarisce meglio tale punto: il potere d'ordine irrevocabilmente personale è solo quello che si riferisce all'amministrazione dei sacramenti e poiché tale non può essere esercitato collegialmente; le funzioni di insegnare e governare sono, invece, separabili dalla persona singola ed esercitabili da un organo collegiale a ciò abilitato.
Da qui nasce l'esigenza di cogliere le molteplici relazioni che s'instaurano tra la sacramentalità della consacrazione episcopale e l'idoneità ad esercitare determinati uffici nella chiesa.
Condizione veramente preliminare all'esercizio di qualunque potere è la comunione gerarchica con il capo e con gli altri membri del collegio.
Oltre questa condizione, da una parte la missione canonica non è sempre necessaria, dall'altra costituisce lo strumento perché il vescovo veda attualizzati nella loro pienezza i poteri cui è stato abilitato con la consacrazione.
Lo scopo della missione, infatti, è quello di affidare concretamente "quella giurisdizione particolare che abilita il vescovo a governare una determinata comunità particolare e rappresentarla nel senso della chiesa universale e delle sue strutture, alle quali già partecipa come membro del collegio episcopale".
Il superamento del dualismo tra ordine e giurisdizione trova conferma nella dottrina conciliare della sacramentalità dell'episcopato, e nelle interpretazioni del momento di passaggio dall'acquisizione del carattere episcopale, alla titolarità piena dei poteri di governo sulla chiesa locale.
Dall'affermazione del concilio che il vescovo possiede tutti i poteri necessari per l'esercizio del suo servizio pastorale, si capisce il valore di una dichiarazione di principio con portata giuridica costituzionale, ricordando che essa non rappresenta una norma immediatamente applicabile, ma ha bisogno di essere precisata dalla legge ecclesiale.
Si è sottolineato che la missione canonica non conferisce il potere episcopale, ma rende questo esercitabile per l'aggiunta di una definizione particolare.
In senso giuridico, è stato osservato che si deve fare distinzione tra la funzione e l'esercizio di questa funzione: la consacrazione conferisce le funzioni episcopali, e quindi anche i poteri episcopali, perché siano esercitati nella comunione gerarchica.
La delega presuppone invece un mandato speciale, che determina i confini della potestà, mentre il titolare dell'ufficio continua ad esercitare le sue funzioni e sovrintende all'esercizio della delega.
Tra le facoltà connesse alla potestà esecutiva ce n'è una speciale che riguarda l'emanazione di:
I. decreti generali esecutivi, con i quali si dettano precise modalità per osservare la legge;
II. istruzioni, che rendono più chiare le disposizioni legislative e si stabiliscono le procedure necessarie perché i soggetti competenti provvedano all'applicazione e all'esecuzione della legge.
La potestà esecutiva può realizzare diversi tipi di atti anch'essi con differente denominazione e contenuto:
Il decreto singolare adotta una decisione in relazione ad una situazione particolare, ovvero provvede al conferimento di un ufficio: assume in tale modo un ruolo decisivo nel sistema organizzatorio ecclesiastico e per il funzionamento della sua struttura territoriale.
Il precetto singolare impone un determinato comportamento, attivo o di omissione, ad un soggetto specifico o a più soggetti determinati, specialmente per far osservare la legge.
Il privilegio contiene una grazia in favore di determinate persone sia fisiche e giuridiche e può essere concesso dal legislatore o dall'autorità esecutiva cui il legislatore conferisce tale potestà.
Un istituto caratteristico dell'ordinamento canonico è quello della dispensa, che consiste nella possibilità di esonerare una o più persone dall'osservanza di una legge puramente ecclesiastica in un caso particolare (can. 85).
Per l'importanza che assume, la dispensa è stata oggetto di una disciplina complessa ed era, sino al codice del 1983, compresa tra le facoltà connesse alla potestà legislativa, mentre oggi può essere considerata come un vero atto amministrativo.
Due limiti regolano la dispensa:
I. non può darsi per le leggi integranti principi o norme di diritto divino;
II. non può darsi per le leggi che definiscono gli elementi costitutivi essenziali degli istituti o degli atti giuridici.
Altri limiti sono previsti per i soggetti titolari del potere di dispensare:
I. il vescovo può dispensare dalle leggi disciplinari universali, ma non da quelle processuali o penali o la cui dispensa è riservata in modo speciale alla Santa Sede o ad altra autorità; dalle leggi diocesane e, quando lo ritiene utile per il bene dei fedeli, dalle leggi date dal concilio plenario provinciale o dalla conferenza episcopale (can. 88).
II. l'ordinario, quando per il ricorso alla Santa Sede vi siano difficoltà e insieme si prospetti il rischio di grave danno, può concedere la dispensa purchè gli risulti che in analoghe circostanze la dispensa è solitamente concessa; fa eccezione la dispensa dal celibato per gli ordinati, che spetta esclusivamente al pontefice (can. 87,291);
III. I parroci, i presbiteri o i diaconi possono dispensare validamente da una legge universale o particolare quando hanno ricevuto espressamente tale potestà (can.89).
Il codice prescrive che alla base della dispensa vi sia una giusta e ragionevole causa che va rapportata alle circostanze del caso e insieme alla gravità della legge dalla quale si esonera: in caso contrario la dispensa è illecita, e se non è data dal legislatore o da un suo superiore è anche invalida (can.90).
La potestà giudiziaria, infine, è normalmente connessa alla potestà di giurisdizione dei vescovi e del pontefice, ma è poi esercitata vicariamente dai giudici e dai collegi giudicanti e non può essere delegata, se non per eseguire gli atti preparatori di un decreto o di una sentenza (can.135).
L'organizzazione della giustizia ecclesiastica prevede tre fondamentali gradi di giurisdizione:
diocesano
metropolitano
livello concernente i tribunali della Santa Sede.
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