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La pena nel suo sviluppo storico
Per tutta l'antichità fu generalmente attribuita alla pena una funzione prevalentemente punitiva, di vendetta ovvero neutralizzatrice, retributiva, di sofferenza o di difesa della società ed aveva (come fine unico) carattere esclusivamente afflittivo e repressivo, in quanto l'unico scopo era quello di annullare il colpevole del reato, isolandolo dal resto della società e rinchiudendolo in edifici senza alcun rispetto della persona umana; la pena quindi, non aveva carattere rieducativo. A tal riguardo si possono ricordare i c.d. "ceppi" (Blocchi di legno per immobilizzare i piedi dei prigionieri ) ed i " terreni chiusi da muri di cinta" dei Cinesi, i luoghi di incatenazione previsti in India dalle leggi di Manu; le prigioni orribili che ebbero gli Assiri, i Babilonesi i Persiani, gli Egizi, gli Etiopi ed i Fenici. Per i Greci, generalmente significava essere "portati in ceppi". Per i Romani, era un luogo tetro e gelido dove si gettavano insieme uomini e donne in attesa di giudizio o condannati; per i germani la privazione della libertà personale avveniva mediante i ceppi.[1]
Non mancarono però eccezioni a tale comune modo di sentire la pena. Nel mondo greco, ad esempio, già Tucidide (storico greco autore dell'opera "guerra del Peloponneso") dubitava della funzione intimidatrice della pena osservando che "è assurdo ed è molto ingenuo pensare che, quando la natura umana è sotto un impulso che prepotentemente la spinge ad agire, si possa trattenerla o con la costrizione delle leggi o con altra minaccia".[2] Fin dalla seconda metà del V secolo a.C., in particolare con i Sofisti, il concetto di pena si fa strada con un suo preciso significato e con una sua determinata funzione anticipando quei concetti propri del periodo illuministico. La pena per i sofisti ha fondamentalmente una duplice funzione: intimidire e migliorare l'uomo delinquente.
Nella filosofia platonico-aristotelica la stessa nozione di legge è quello strumento che ha una duplice finalità precipuamente di carattere morale: "persuadere e istruire"[3], ed in tale prospettiva la pena è considerata una terapia che ha come fine "una integrale rieducazione" che può "dischiudere l'animo dell'uomo al bene".
Per Protagora il concetto della pena è intimamente legato ad un valore sociale: "si punisce per distogliere dal commettere nuove colpe", il valore sociale della pena viene elevato al rango di tema fondamentale del dibattito etico - politico e comincia ad emergere l'esigenza che la società civile si confronta seriamente con questo problema, ponendo attenzione alla personalità del reo, concetto che diventerà uno dei punti fondamentali della celebrata opera di Cesare Beccaria "Dei delitti e delle pene". Nel mondo romano anche Seneca affermerà che nessuno è punito perché ha sbagliato, ma perché non sbagli più.
Costantino il Grande imperatore romano, cercando di umanizzare il trattamento dei ristretti dispose con un'ordinanza dell'anno 320 "la separazione dei sessi, l'alleggerimento delle catene, la possibilità di prendere aria e moto nei cortili"[4]. In seguito, la barbaria mediovale riporto generalmente il concetto di carcere alla concezione della pena come mezzo punitivo, vendicativo e di difesa sociale; per molti secoli i detenuti furono addirittura usati nel campo delle ricerche mediche.
Anche nei sistemi penali dell'<<Ancien règime>> il carcere è inteso come tortura, mutilazione, morte[5]: il carcere, analogamente al concetto di pena, ha solo una funzione punitiva e neutralizzante.
Con l'illuminismo, si volta ina: il concetto di pena in genere e quello di carcere in particolare assumono nuovi connotati. Notevole, in merito, il contributo di Cesare Beccaria e di John Howard. Beccaria con la sua opera "Dei delitti e delle pene" esercitò senza dubbio una forte influenza nel campo del diritto penale, essa rappresenta la più nota espressione della concezione liberale del diritto penale, secondo la quale:
a) La pena deve avere un significato retributivo e non più di intimidazione e di vendetta;
b) Il delinquente è visto come un individuo libero nelle sue scelte, indipendente da condizionamenti socio ambientali o patologico individuali.
John Howard, con i suoi due libri "Lo Stato delle prigioni" e "La storia dei Lazzaretti" pose, certamente, i principi basilari ai quali tutte le moderne democrazie si sono ispirate nei loro ordinamenti penitenziari. Infatti, i principi affermati da Howard - secondo cui la pena detentiva deve essere intesa come emenda del reo e a religione ed il lavoro sono gli strumenti per la realizzazione di tale emenda - oggi caratterizzano il diritto penitenziario della maggior parte degli Stati europei, tra cui quello italiano.
Caratteristica fondamentale dell'ideologia illuministica della pena privativa della libertà è che essa è "la pena democratica ed egualitaria per eccellenza: la misura del carcere consente di commisurare la pena alla gravità del crimine consentendo la massima protezione della società con il minimo prezzo in termini di sofferenza per il condannato".[6]
In verità, per quanto concerne
la pena della privazione della libertà, il concetto della sua funzione
emendativa è certamente già sentito nella pubblica opinione molto
tempo prima: di ciò sono tangibili l'istituzione del reclusorio di
Amsterdam nel 595, la creazione di istituti analoghi in Brema nel
Il superamento dei principi succitati inizia dai paesi di diritto anglosassone ove si fanno strada le misure alternative alla privazione della libertà, che, da una parte, segnano la fine del monopolio della pena del carcere e, dall'altra, imprimo alla pena in genere ed a quella detentiva in particolare una funzione segnatamente rieducativa e risocializzante, concetto, oggi, diventato Jus receptum negli ordinamenti penali degli Stati moderni.[7]
Nel secolo XIX si verifica un rapido mutare degli strumenti punitivi. In primo luogo, per l'influenza delle dee illuministiche e in particolare del Beccaria, si generalizza in Europa la redazione di codici penali e di procura penale la cui osservanza è imposta come principio fondamentale e la cui validità è universale, nel senso che non risente più dei privilegi di casta. Vengono poi abbandonate la tortura e le pene corporali; la detenzione in carcere diviene lo strumento fondamentale di punizione, introducendosi il principio della proporzionalità fra gravità del reato e durata della reclusione, il carcere diviene fino alla metà circa del nostro secolo, la chiave di volta del sistema penale.
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