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PREMESSA
DUPLICE ACCEZIONE DI << DIRITTO PRIVATO >>
Le parole << diritto privato >> indicano, in primo luogo, un insieme di norme giuridiche, delimitate, secondo certi criteri, da altri gruppi di norme appartenenti al medesimo sistema. In secondo luogo, il ramo della scienza giuridica, che ha per oggetto di studio quell'insieme di norme.
Il discorso introduttivo al diritto privato deve svolgersi di necessità in due momenti: dedicato, l'uno, all'analisi dell'oggetto; l'altro, all'analisi del metodo, per cui un certo gruppo di norme diviene tema di studio e di indagine scientifica.
CARATTERE PROPEDEUTICO DELLE << ISTITUZIONI DI DIRITTO PRIVATO >>
Esso è il diritto per eccellenza; fissa i principi della proprietà privata e della libera circolazione dei beni, della successione per causa di morte e della obbligatorietà del contratto: ha, insomma, un contenuto costituzionale.
Così il sistema del diritto privato assume un valore esemplare, è il modello, che le altre discipline ( dal diritto amministrativo al diritto penale ) si sforzano di imitare e di riprodurre. Esso costituisce una vera e propria parte generale, a cui viene riconosciuto un ruolo propedeutico e introduttivo per tutti gli studi giuridici.
CAPITOLO 1
ELEMENTO GENERICO ED ELEMENTO SPECIFICO DELLA NORMA GIURIDICA PRIVATISTA
I L'ELEMENTO GENERICO
Elemento generico ed elemento specifico della norma giuridica privatistica
Oggetto del nostro studio è la norma giuridica privatistica ( o norma di diritto privato ). Si tratta di un fenomeno che risulta dalla combinazione di un elemento generico ( espresso dalle parole << norma giuridica >> ) e di un elemento specifico ( espresso dall'aggettivo << privatistica >> o
<< di diritto privato >> ). La norma giuridica privatistica si conura come sottospecie della norma giuridica. Dal punto di vista formale ( ossia della struttura interna ), la norma giuridica non è in nulla diversa dalle altre specie di norme che si lasciano ridurre allo schema ipotetico << se A, allora B >>. L'opinione più diffusa ed autorevole scorge il criterio distintivo del sistema giuridico dagli altri sistemi di norme nella particolare garanzia di cui soltanto il primo sarebbe provvisto. Le norme giuridiche, e non le altre, sarebbero accomnate dalla possibilità di essere realizzate in via coattiva. Riemerge così il criterio della sanzione, considerata come nota essenziale e indefettibile della norma giuridica. A tale criterio vengono mossi, tra molti, due penetranti rilievi:
a ) che il concetto di sanzione, << lungi dal possedere autonomia >>, si rivela << perfettamente riducibile al normale congegno della norma, intesa come giudizio su comportamenti umani >>. Applicare una sanzione significa, infatti, << constatare l'esistenza di una particolare norma, la quale, dirigendosi al soggetto chiamato a infliggere la sanzione, o fa valutare come doveroso, o quanto meno fa che cessi di essere valutato come antidoveroso, il comportamento i n cui la " sanzione " si concreta >>.
b ) che l'idea di garanzia coattiva è totalmente incompatibile con la concezione della norma come giudizio, il quale, a rigore, non può essere né obbedito da i << destinatari >> né contraddetto dalla realtà.
Queste critiche dimostrano che la nota della giuridicità viene collocata al di fuori della norma, e che la sanzione è risolubile nel consueto meccanismo del giudizio del giudizio su comportamenti umani. Esse lasciano insoddisfatta l'esigenza di delimitare, in qualche modo, il sistema delle norme giuridiche. Dobbiamo aparci di un indice empirico, che possa comunque distinguere il diritto da altri sistemi normativi e circoscrivere il nostro campo di studio; sembra soccorrere soltanto il criterio del riconoscimento sociale. Il riconoscimento della comunità non riguarda singole norme, ma le fonti di produzione normativa, a taluna delle quali si riconosce ( mentre ad altri si nega ) il carattere della giuridicità. Quest'ultimo si presenta come oggetto di ricerca storico - sociologica.
La norma giuridica come giudizio ipotetico. Intorno alla norma come giudizio valutativo
Il diritto privato italiano è composto da norme, prodotte da quelle fonti a cui la comunità riconosce il carattere della giuridicità: cioè dalle fonti previste dalle Costituzione repubblicana del 1° gennaio 1948. È positivo e statale, poiché prodotto da appositi organi dello Stato ( possibilità di un diritto privato regionale ). Affrontiamo l'analisi dell'elemento generico del fenomeno << norma giuridica privatistica >>.
La norma giuridica, al pari delle norme di altro tipo, si presenta alla nostra osservazione come un giudizio ipotetico che ricollega dati effetti all'accadere di un fatto. Lo schema logico è : se A, allora B. Essa né è accolta dalla generalità degli studiosi né è priva di aspetti problematici, ma ci sembra, comunque, la più adatta a spiegare l' intero sistema normativo:
a ) perché evita le note difficoltà della teoria della norma come << comando >> o << imperativo >>
b ) perché supera la teoria che indica, nel primo termine dello schema ( A ), un comportamento qualificato come illecito e , nel secondo ( B ), la sanzione nelle forme della pena e dell'esecuzione forzata civile:
c ) poiché offre una rappresentazione semplice e chiara di ogni tipo di norma, mentre quella sub a ) non dà ragione delle norme prive di contenuto imperativo; e quella sub b ) si trova nella necessità di stralciare dal mondo giuridico le norme non riducibili al nesso illecito - sanzione.
La teoria della norma come giudizio ipotetico si trova nei moderni scrittori di diritto, connessa o identificata con la teoria della norma come giudizio valutativo, che nella sua rappresentazione ci sembra di riscontrare quattro usi principali:
1 ) la norma valuta il fatto ( l'azione o la situazione ), a cui ricollega determinati effetti. Il fatto previsto in ipotesi è oggetto della valutazione normativa, la quale << si concreta in certi effetti giuridici >>.
2 ) la norma opera come criterio o canone di valutazione, per cui singoli fatti e contegni assumono rilevanza giuridica.
3 ) la norma, per l'ipotesi che accada un certo fatto, valuta come doveroso un comportamento umano.
4 ) la norma valuta interessi presenti nella realtà sociale, e compone possibili conflitti in ordine ai beni della vita.
Gli usi primo e quarto esprimono un dato innegabile: che la norma ricollega certi, e non altri, effetti al fatto ipotizzato, proprio in quanto prende posizione verso di esso; e non solo contempla e descrive, ma lo giudica e lo valuta. L'art. 2043 cod. civ. ( << Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno >> ) valuta il fatto, colposo o doloso, che arreca danno ad altri; in coerenza con la valutazione compiuta, statuisce l'effetto e così assegna all'autore l'obbligo di riparare il danno.
Queste considerazioni, si riferiscono alla fase nomogenetica: cioè, non alla valutazione in cui la norma consiste, ma alla valutazione da cui la norma è generata e determinata. Sono prospettabili, in breve, due distinti ed autonomi problemi: l'uno - quale è l'effetto statuito dalla norma, ed a quale fatto si ricollega? - appartiene alla scienza giuridica; l'altro, - perché la norma ha statuito certi, e non altri, effetti? - appartiene alla sociologia giuridica ed alla storia della legislazione.
Noi non rispondiamo alla domanda sul quia, sul quomodo. Il giurista studia il diritto quale esso è, non già quale può o deve essere. Soltanto dall'esatta e completa conoscenza del diritto ( quale è ) può muovere la critica ideologica o la politica legislativa. Tornando all'esame della teoria del giudizio valutativo, osserviamo che l'uso indicato al n. 2 è sicuramente compatibile con la dottrina seguita.
La norma opera anche come
criterio di valutazione: cioè, che essa permette di
attribuire a fatti ed a contegni umani una rilevanza di cui altrimenti
sarebbero privi. Così, noi possiamo qualificare un fatto dannoso
come fatto illecito, ed il risarcimento del danno come contegno dovuto
dall'autore del fatto, solo operando con il criterio valutativo offerto dalla
norma dell'art. 2043 cod. civ..
E', questo, il fenomeno che la dottrina tradizionale suole rappresentarsi nello
schema del sillogismo giudiziario ( o, in
genere, applicativo ), assegnando alla norma la funzione di premessa maggiore.
Resta, infine, il terzo dei modi o usi elencati; che coincide, con l'idea della norma come giudizio ipotetico. Si tratta di formule, che pongono alla luce aspetti diversi del fenomeno: quella del giudizio accentua il nesso logico tra effetto e fatto contemplato in ipotesi; quella della valutazione sottolinea che, all'accadere del fatto previsto in ipotesi, un comportamento è scelto tra innumerevoli altri, e reso doveroso. Oggetto di valutazione normativa non è l'esterna realtà sociale, né i conflitti d'interesse, né i fatti ipotizzati, ma proprio il contegno umano dichiarato doveroso.
C'è una valutazione nomogenetica, che sta prima della norma e che rientra nel campo d'indagine dei sociologi. C'è una valutazione normativa, che eleva i comportamenti umani al piano della doverosità, e altro non è che la stessa norma in un particolare profilo. C'è, infine, una valutazione applicativa, che sta dopo la norma e questa assume come criterio di rilevanza ( giuridica ) di fatti naturali ed eventi storici. Le ultime due appartengono alla scienza giuridica: rispettivamente, alla teoria della norma ed alla teoria dell'applicazione del diritto.
Una moderna teoria: la norma giuridica come proposizione prescrittiva
Accenno ad una moderna teoria, che considera la norma giuridica come proposizione linguistica. Si comincia col definire la proposizione << come un insieme di parole aventi un significato nel loro complesso >>; e col distinguerla dall'enunciato, che indica la forma grammaticale e linguistica in cui un significato è espresso. Così, ad una proposizione può corrispondere una pluralità di enunciati; ed un enunciato può esprimere proposizioni diverse. La funzione descrittiva, propria del linguaggio scientifico, si propone di far sapere ad altri; la funzione espressiva, propria del linguaggio poetico, mira a far partecipare; la funzione prescrittiva, propria del linguaggio normativo, che, consigliando comandando avvertendo, influisce sul comportamento altrui ed ha lo scopo di far fare. Di fronte ad esse ha senso domandarsi, non se siano vere o false, ma se siano giuste o ingiuste ( secondo la loro corrispondenza a certi valori ideali ), o se siano valide o invalide ( secondo la loro derivazione da talune fonti ).
Analisi della struttura interna della norma giuridica
La fattispecie
Il nostro compito si precisa nell'analisi della struttura interna della norma. Se questa è un giudizio ipotetico, che ricollega all'accadere di un fatto ( azione o situazione ) certi effetti giuridici, l'analisi avrà tre distinti temi: il fatto previsto in ipotesi; l'effetto statuito per l'accadere del fatto; il nesso unitivo tra l'un termine e l'altro. Nella parte ipotetica, la norma giuridica descrive un fatto, che può accadere o non accadere: dunque, non un fatto reale, ma un fatto eventuale. La descrizione normativa del fatto si chiama fattispecie.
Il contenuto della descrizione normativa è stato finora indicato con il nome, vago e generico, di << fatto>>; la norma descrive fatti che ricorrono nella comune esperienza e che sono ragionevolmente destinati a ripetersi in futuro, preferiremo parlare di fatti probabili.
La descrizione normativa non soggiace ad alcun criterio di verità o di falsità, di fedeltà o di infedeltà: essa non ha un modello esterno, a cui debba somigliare o identificarsi. La tecnica di costruzione del fatto è completamente arbitraria. L'esperienza del diritto privato permette tuttavia di individuare alcuni canoni dotati di certa costanza e generalità:
un canone selettivo, per cui la norma non accoglie il fatto naturale o l'evento storico nella ricchezza e complessità dei lineamenti, ma sceglie semplifica riduce, e crea una sintesi di note che ha indole tipica ed astratta;
un canone combinatorio, per cui la norma o aggiunge caratteri non essenziali al fatto storico ( formae ad substantiam : art. 1325, n. 4, cod. civ. ); o unisce fatti che sogliono presentarsi autonomi e disgiunti, sicché avremo fattispecie semplici composte da un solo fatto e fattispecie complesse composte da due o più fatti;
un canone classificatorio, per cui la norma colloca in categorie i fatti previsti, disponendoli in rapporto di genere a specie o di regola ad eccezione: così, il contratto di affitto è presentato come specie del contratto di locazione ( art. 1065 cod. civ. ); e la donazione di frutti non ancora separati come eccezione alla regola di nullità della donazione di beni futuri ( art. 771, 1° comma, cod. civ. ).
Il tipo di fatto è il criterio di rilevanza, che individua i fatti giuridici nel perenne divenire della natura e della storia.
L'effetto giuridico come elemento di fattispecie
I fatti giuridici vengono solitamente raggruppati in tre classi:
- fatti naturali, ossia fatti il cui accadere è indipendente dalla volontà umana ( esempio negli artt. 941 e 944 cod. civ. : alluvione ed avulsione );
- fatti umani, ossia fatti il cui accadere dipende dalla decisione dell'uomo ( si dicono, perciò, atti od azioni );
- situazioni, ossia stati di cose e posizioni della realtà, creati da un atto umano, e destinati a durare nel tempo sino al verificarsi di un atto contrario ( esempi negli artt. 935 sgg., cod. civ. ).
Occorre però far cenno ad un problema, non tanto di teoria del fatto, quanto di teoria generale della norma giuridica: cioè, se questa possa assumere nella parte ipotetica l'effetto prodotto da un fatto giuridico anteriore. L'art. 1104, 1° comma, cod. civ., stabilisce un obbligo a carico di ciascuno dei contitolari del diritto di proprietà o di altro diritto reale. Affermando che la titolarità della proprietà è contenuta in un'ipotesi normativa, noi usiamo un'espressione ellittica, che si risolve pienamente nella indicazione di tutti i possibili fatti generatori del diritto di proprietà. Il problema riguarda soltanto l'economia del linguaggio giuridico.
La funzione determinativa della c.d. fattispecie concreta
La fattispecie assolve, come è ormai chiaro, una funzione insopprimibile nel meccanismo del giudizio ipotetico. Il diritto non comanda astrattamente e categoricamente ( come segue nei precetti religiosi ed etici ); ma statuisce effetti per l'ipotesi che accada un dato fatto. L'accadere del fatto determina la produzione degli effetti: se A allora B A ; allora B.
L'effetto è previsto, di massima, non come un comportamento di un soggetto particolare, ma come tipo di comportamento riferibile alla generalità dei consociati. La norma non indica il singolo autore del comportamento dovuto ( Tizio o Caio o Sempronio ), ma una classe di soggetti, ma rientra un numero indefinito di membri: la classe, ad esempio, dei venditori ( art. 1476 cod. civ. ), dei compratori ( art. 1498 cod. civ. ), dei vettori ( art. 1678 cod. civ. ), dei mandatari ( art. 1710 cod. civ. ), ecc . ..
Il passaggio dall'effetto astratto - il venditore è tenuto a consegnare la cosa al compratore all'effetto concreto - Tizio è tenuto a consegnare la cosa a Caio - è mediato dall'accadere del fatto ( conclusione di un contratto di compravendita ), che designa soggetti particolari in luogo di soggetti generali. La norma assegna dunque al fatto non soltanto la funzione logica di realizzare l'ipotesi, ma anche quella di individuare uno o più membri all'interno della classe di soggetti astrattamente obbligati. Negli esempi recati, sarà il contratto di compravendita, di trasporto, o di mandato, a determinare il soggetto dell'obbligo: a dire, cioè, quale tra i possibili venditori, vettori, o mandatari, è tenuto ad eseguire la prestazione.
Nelle norme, che hanno per destinatario un singolo soggetto ( norme individuali ), la funzione del fatto si riduce al piano, esclusivamente logico, di realizzare l'ipotesi. Il soggetto dell'obbligo è già determinato; noi attendiamo soltanto di sapere se egli sarà o non sarà obbligato. La risposta verrà data dall'accadere o dal non accadere del fatto previsto.
Analisi della struttura interna della norma giuridica
L'effetto giuridico. La categoria dell'obbligo.
Accanto alla descrizione del fatto, la norma giuridica contiene la descrizione di un comportamento umano, a cui, nel caso che il fatto accada, è attribuita la qualifica di doverosità. Il comportamento umano non è in sé doveroso né antidoveroso: soltanto nell'ipotesi che accada il fatto previsto dalla norma, esso riceverà una valutazione di conformità al diritto. La norma dell'art. 1476, n. 1, cod. civ., troviamo la descrizione di un comportamento ( << consegna della cosa al compratore >> ), valutato come doveroso nell'ipotesi che sia concluso un contratto di compravendita. Quando l'ipotesi si realizza - quando, cioè, un contratto di compravendita viene stipulato fra Tizio e Caio -, la qualifica di doverosità riguarda un comportamento futuro: un comportamento, che il soggetto, nel tempo stabilito, potrà tenere o non tenere, ma che la norma già da adesso valuta ed approva.
Il giudizio di doverosità si riferisce ad un contegno coincidente con il contegno descritto nella norma, non a un contegno storico e reale. Il realizzarsi dell'ipotesi rompe la neutralità della storia futura, poiché il diritto attende che, in un istante o periodo di tempo avvenire, il soggetto indicato dal fatto adegui il proprio contegno ad una descrizione normativa. << Tizio è obbligato >> o << Tizio ha l'obbligo >> si riferiscono a stati in cui l'individuo si trova, o ad oggetti che l'individuo ha con sé. Sono modi di dire derivanti da false immagini del fenomeno normativo: il primo, dalla rappresentazione psicologica dell'obbligo come necessità di fare, che limita e vincola la naturale libertà dell'individuo; il secondo, dalla rappresentazione ontologica dell'obbligo come entità concreta, che si congiunge con un soggetto e rientra così nel suo patrimonio.
Esso si risolve nella posizione di un comportamento futuro, che il diritto, verificatasi l'ipotesi di fatto, valuta e giudica doveroso: comportamento individuato, tra innumerevoli altri, dalla descrizione normativa. La norma opera come criterio selettivo nell'infinito campo delle azioni umane future, poiché, già da oggi, anticipa che il contegno di Tizio coincidente con lo schema legale di contegno sarà considerato doveroso, ed il contegno opposto o diverso antidoveroso.
L'accento del discorso cade, come ognuno avverte, su due profili del giudizio di doverosità: da un lato, sulla norma e sul fatto realizzatore dell'ipotesi ( dato del presente ); dall'altro, sulla posizione e sull'attesa di un contegno coincidente con il contegno descritto dalla norma ( dato del futuro ). L'obbligo giuridico non è uno stato psicologico né una entità congiunta dall'esterno alla persona, ma invece proiezione nel futuro di uno schema normativo di contegno e qualifica di doverosità del contegno coincidente. Nel discorso finora svolto, l'effetto è stato identificato nell'obbligo o dovere giuridico, ma qui è opportuno chiarire che l'effetto consiste propriamente in una vicenda dell'obbligo, il quale all'accadere dei fatti contemplati in ipotesi, nasce, muta o cessa di essere.
Perciò, l'effetto designa a rigore la vicenda costitutiva, la vicenda modificativa, o la vicenda estintiva di un dovere giuridico.
La categoria della qualità giuridica
La concezione seguita in queste ine - per cui l'obbligo, o dovere giuridico, si presenta con carattere di assoluta priorità logica - trae con sé un duplice corollario:
che le altre ure e situazioni, relative a comportamenti dei soggetti, si svolgono intorno all'unità semplice dell'obbligo;
che gli effetti giuridici costituiscono un numero chiuso.
Restano fuori della categoria le qualità ( di fatti, cose, persone ), spesso considerate come effetti giuridici di apposite norme. ½ sarebbe una categoria di norme, che, nell'accadere di dati fatti statuirebbero l'attribuzione di una qualità ad azioni umane, cose o persone. Queste acquisterebbero così una rilevanza giuridica, di cui altrimenti sarebbero sfornite. La ura riguarda, non la categoria degli effetti giuridici, ma la composizione della fattispecie e le particolari tecniche del linguaggio legislativo. Il quale, per sua natura e per necessità di una sobria formulazione dei testi, è intimamente ellittico e riassuntivo. Le parole adoperate hanno valore di simboli, sostituibili, senza pregiudizio di chiarezza e di comprensione. Le norme procedono alla costruzione di un codice linguistico. I nomi obbediscono perciò a rigide regole d'uso, che hanno vigore nell'ambito di un dato sistema normativo e soltanto di questo garantiscono la intelligibilità. Quando l'art. 1321 cod. civ. dice che << il contratto è l'accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale >>, non vuole né descrivere una realtà esterna alla norma, né attribuire la qualifica ad una azione, ma soltanto enunciare la regola d'uso della parola << contratto >>. Regola operante in due modi diversi:
a) nel senso di risolvere la parola << contratto >> in accordo di due o più parti ecc.;
b) nel senso di riassumere l'accordo di due o più parti ecc. nella parola << contratto >>.
È chiaro che il modo sub a) soddisfa le esigenze di economia del linguaggio normativo, poiché permette al legislatore di sostituire alla descrizione del fatto la parola evocatrice. Le qualità di azioni, cose o persone non costituiscono effetti giuridici, statuiti da apposite norme, ma nomi riassuntivi di elementi di fattispecie. Siamo dinanzi a una timida e cauta forma di simbolismo giuridico, in cui la descrizione di elementi della fattispecie si riduce ad un semplice segno evocatore.
La categoria dello Stato
La teoria delle qualità giuridiche si presenta spesso confusa o combinata con la teoria degli stati, che comprenderebbe, accanto ai tradizionali status civitatis e status familiae, ogni posizione assunta dall'individuo nell'ambito di collettività organizzata. La nozione di statola attraversato due momenti; nella prima fase, essa è servita a descrivere in maniera sintetica un gruppo di diritti e di obblighi, che sembravano trovare unità nel comune riferimento a un dato fenomeno sociale ( alla famiglia od alla comunità politica ). Consideriamo lo status civitatis. Con più rigore si dovrebbe affermare che lo stato di cittadino è, da un lato, effetto di una data fattispecie ( la nascita nel territorio della Repubblica da genitori ignoti ); e, dall'altra, fattispecie di un'ulteriore serie di effetti, cioè dei diritti e degli obblighi che si ricollegano allo specifico stato. Lo stato di cittadino si mostra come effetto costante di un gruppo di fattispecie alternative: e, precisamente, di tutte le fattispecie previste dalla legge del 1912 ( art. 1, 3, 4 ). L'art. 1 della legge del 1912, aprendosi con le parole << E' cittadino per nascita . . >> ed elencando poi le diverse ipotesi di fatto in cui si riscontra l'<< esser cittadini per nascita >>, mostra chiaramente di ricorrere ad un criterio di economia linguistica, e di usare il vocabolo << cittadino >>, non come segno di un'autonoma ura giuridica, ma come indice riassuntivo di un gruppo di fattispecie. Ogni volta che, nel testo di norme costituzionali o di norme legislative ordinarie, incontriamo il vocabolo << cittadino >>, dobbiamo reputare che esso sostituisca la descrizione di tutte le fattispecie previste dalla legge del 1912. Così, quando troviamo nell'art. 54, 1° comma, della Costituzione che << tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica ecc. >>. Il dovere di fedeltà alla Repubblica non si ricollega, come parrebbe ad una prima analisi, allo stato di cittadino, ma direttamente alle fattispecie alternative della legge del 1912: il termine << cittadino >> serve soltanto ad abbreviare il testo della norma, ed a riassumere quelle fattispecie in un segno di insieme. La dottrina comune opera un processo di entificazione ( e di moltiplicazione di categorie ), poiché considera il vocabolo << cittadino >> come indice di un'autonoma posizione giuridica, nata dal realizzarsi di una delle fattispecie della legge del 1912, e fonte, a sua volta, di ulteriori effetti. Il rapporto tra quelle fattispecie e questi effetti risulta così interrotto da una ura giuridica intermedia, che si pone come effetto delle prime e come causa dei secondi. La costruzione potrebbe essere rappresentata da un grafico ( in cui il simbolo F indichi le fattispecie della legge del 1912; il simbolo S, lo stato di cittadino; ed i simboli D ed O, i diritti e gli obblighi ricollegati a tale stato ).
Ubbidendo ad una regola di simmetria concettuale, la dottrina costruisce, di fronte alla identità di effetti giuridici, una comune e identica fattispecie causativa, che viene appunto individuata nello stato di cittadino. La critica ci permette di risolvere la ura dello stato in una descrizione analitica di singole fattispecie.
L'interprete, incontrando nel discorso il simbolo prescelto o il termine convenzionalmente adottato dagli studiosi, si guarderà dallo scambiare un accorgimento di tecnica giuridica per una realtà provvista di apposita disciplina; e sarà subito pronto a scorgere, dietro il segno riassuntivo, i singoli ed autonomi effetti disposti dalla norma. Il giurista osserva che ad un certo numero di fattispecie si ricollega un insieme omogeneo di diritti e di obblighi; e che il legislatore designa quelle pluralità di ipotesi con un vocabolo riassuntivo ( cittadino, coniuge, ecc. ) . A questo punto il bisogno della riduzione ad unità sovrappone il vocabolo alla molteplicità delle fattispecie, e ne fa segno di una autonoma ura giuridica. L'<< essere cittadino >> è una realtà intermedia tra le fattispecie e gli effetti disposti dalla norma.
La categoria del diritto soggettivo
Hanno nome di << situazioni giuridiche soggettive >> i modi, diversi e molteplici, in cui il diritto, per l'accadere di certi fatti, valuta i comportamenti umani. Teoria della norma e teoria delle situazioni soggettive sono intimamente connesse; e le scelte compiute dall'una determinano le soluzioni dell'altra. Se l'obbligo - ura a cui riconosciamo un'assoluta priorità logica - consiste nella valutazione di una condotta umana, occorre subito dire che la valutazione può essere considerata in sé o nel suo riflettersi nella sfera altrui. In taluni casi, la norma enuncia la valutazione di doverosità, disinteressandosi delle attese e del sentire dei consociati; in altri, invece, la volge e indirizza ad uno o più soggetti determinati. Qui si profilano veri e propri destinatari dell'obbligo.
Tale posizione di destinatari, o destinatarietà, è ciò che si suole definire diritto soggettivo e che a rigore è soltanto il riflesso secondario ed eventuale dell'obbligo altrui. Diciamo eventuale, poiché se è vero che ogni diritto soggettivo presuppone un obbligo, non è però vero che ad ogni obbligo corrisponda un diritto soggettivo; l'analisi di un sistema storicamente determinato può ben mostrare una costante correlazione tra obblighi e diritti; ma questo non permette di considerare la destinatarietà come elemento necessario dell'obbligo, e quindi della stessa norma giuridica.
Il diritto soggettivo non può essere dunque concepito se non con riferimento ad un obbligo altrui; cioè, come destinazione dell'obbligo gravante su uno o su più soggetti diversi dal titolare del diritto. Abbiamo finora parlato di destinatario dell'obbligo, e non già di destinatario del comportamento dovuto: le due ure non coincidono. La destinazione dell'obbligo identifica il titolare del diritto soggettivo; la destinazione del comportamento dovuto identifica il soggetto a cui l'obbligato indirizza la propria condotta. Risolto nella mera destinatarietà dell'obbligo altrui, il diritto soggettivo ha soltanto il compito di identificare la persona, che, proponendo la domanda, fa sorgere nel giudice il dovere di pronunciare una sentenza sfavorevole all'obbligato.
La categoria del potere
Nella dottrina civilistica è potere, in linea di massima, la possibilità di conseguire un risultato, ossia di determinare la produzione di dati effetti giuridici: possibilità, quindi, di volere gli atti a cui la norma ricollega quegli effetti. L'esigenza di costruire la ura del potere nasce da molteplici ragioni, a ciascuna delle quali corrisponde una particolare teoria. Questa teoria muove da un esatto rilievo: talora elementi di valutazioni giuridiche ( soggetti dell'obbligo, contegni dovuti, modalità di esecuzione, ecc.) sono stabiliti in conformità del tenore degli atti, a cui la norma ricollega, come effetti, le stesse valutazioni. Si tratta di una speciale tecnica di determinazione dell'effetto, che postula il compimento di atti espressivi di dati contenuti. Il fenomeno normativo ora descritto è suscettibile di conversione in senso psicologico; sul piano giuridico, ci limitiamo a riconoscere che gli effetti e l'ipotesi di fatto sono conurati con peculiari modalità; sul piano psicologico, introduciamo la considerazione degli scopi pratici perseguiti e delle possibilità offerte al volere del singolo. La ura del potere nasce, in altro indirizzo teorico, dall'asserita insufficienza della categoria del dovere. Questa basta a descrivere - l' aspetto statico del diritto, ma risulta inadeguata ad esprimere l'aspetto dinamico: cioè, la produzione e la variazione del diritto.
È necessario collocare, accanto alle norme di valutazione giuridica che statuiscono doveri nell'accadere di dati fatti, norme sulla produzione giuridica, la cui caratteristica sta nel conferire ( estinguere o modificare ) poteri. Intendendosi per potere la condizione, nella quale taluno è in grado, con un proprio atto, di produrre dati effetti giuridici: << in altri termini, è in grado di creare, oppure modificare o estinguere, doveri o poteri >>.
Anche in questa idea c'è l'intrusione di elementi psicologici; i quali si rivelano soprattutto nella conurazione di atti giuridici come svolgimento di una generica possibilità dei singoli. Mentre i fatti naturali sono indipendenti dall'uomo, gli atti rinviano ad una decisione della volontà umana, che in essi si svolge e determina. L'esigenza di distinguersi gli uni dagli altri, e di risalire, per questi ultimi, alla volontà umana ed al suo << essere in grado >> di decidere la produzione di effetti giuridici.
Ma la logica del sistema giuridico, esige, di conurare - un'altra categoria di norme, che ricolleghino ad un'ipotesi di fatto la nascita del potere. In altri termini, la proposta di una categoria di norme strumentali, o norme sulla produzione giuridica, trae con sé due principi: che il potere è un effetto giuridico; che esistono, dunque, fattispecie generatrici di tale fatto. Questo punto suscita serie perplessità. È difficile immaginare un effetto giuridico, che consista nella mera possibilità di volere, in un'astratta << condizione >> suscettibile di svolgersi e concretarsi in singoli atti. Tale possibilità o condizione finisce per coincidere con la capacità di agire, ossia con la previsione di uno specifico elemento di fatto ( persona che abbia raggiunto la maggiore età ). Dire che il maggiore di età ha il potere di stipulare contratti, non facciamo altro che descrivere elementi e modalità di singole fattispecie.
Le teorie del potere sembrano richiamarsi, con diversità di svolgimenti e di tono, ad un comune criterio: cioè, alla risoluzione del nesso obiettivo di fattispecie ed effetto in termini di possibilità del soggetto. Dove la fattispecie consiste in un atto umano, la posizione dell'atto è riguardata come possibilità del singolo, al cui volere è infine rimesso di conseguire un certo risultato nel mondo del diritto. Le teorie in esame rifiutano l'omogeneità che la norma stabilisce tra le diverse fattispecie, tutte accomunate nella funzione di fonti di effetti giuridici, e perciò, al fine di isolare le fattispecie dipendenti dalla volontà umana, immaginano che esse costituiscano esercizio di una possibilità, energia, o forza, conferita ai soggetti.
È la volontà umana, a decidere la produzione di una categoria di effetti giuridici; da questo rilievo psicologico, nasce l'idea del potere, cioè di una possibilità di scelta delegata ai singoli. Scelta che certo si compie prima dell'atto, ma che resta al di fuori del mondo giuridico. Qui opera la logica normativa, che, in qualche misura, appiattisce le diverse fattispecie, e sta ferma al nesso elementare di ipotesi ed effetto. Ciò che conta è l'obiettiva posizione del fatto, in cui si disperdono ed annullano le possibilità offerte ai singoli.
La categoria del diritto potestativo
A questo si collega l'esame del diritto potestativo, inteso dalla generalità degli studiosi come potere di costituire, modificare o estinguere - con propria dichiarazione o mediante pronuncia del giudici - un rapporto giuridico. Al diritto potestativo corrisponde una mera soggezione: la parte, contro cui è esercitato il diritto potestativo non è tenuta a fare, od a tollerare alcunché; né è in grado di soddisfare o di violare l'interesse del titolare. Questi ha il potere di produrre da solo un dato effetto, ossia di determinare, con la propria volontà, una diversa conformazione di diritti ed obblighi altrui.
Le dottrine, che accolgono la ura si trovano subito nella difficoltà di conciliare la definizione del diritto potestativo con la definizione del diritto soggettivo, cioè di stabilire il limite di compatibilità tra le note della specie e le note del genere.
Così il diritto potestativo è incompatibile con la definizione del diritto soggettivo come potere di esigere un comportamento altrui: definizione, che implica un dovere di condotta della controparte e quindi la possibilità che l'interesse del titolare del diritto rimanga insoddisfatto.
Il diritto potestativo, al contrario, né esige un contegno altrui, né è suscettibile di violazione: dipende soltanto dalla scelta del titolare produrre o no produrre un dato effetto giuridico.
Né la ura appare compatibile con la definizione del diritto soggettivo come mera destinatarietà dell'obbligo altrui.
L'assenza del dovere significa assenza del diritto soggettivo, poiché questo è semplice punto di riferimento o luogo di indirizzo del dovere altrui.
Infine, la stessa teoria del diritto soggettivo come interesse tutelato mediante una forza della volontà è inadatta a spiegare il diritto potestativo.
La volontà si rivolge sempre ad altri, appunto al soggetto passivo del rapporto: è sempre comando destinato a soggetti diversi dal titolare; nel diritto potestativo, la volontà si risolve nel compimento dell'atto, a cui la norma ricollega dati effetti; e l'altra parte no soggiace alla volontà del titolare, ma all'obiettivo prodursi degli effetti giuridici.
Così, quando è esercitato il diritto potestativo di riscatto ( art. 1503 cod. civ. ), la volontà del venditore si esaurisce nel compimento della dichiarazione; ed al compratore non resta che soggiacere agli effetti giuridici ricollegati a quella dichiarazione.
La controparte non soggiace al potere di volontà, ma alle conseguenze della dichiarazione in cui la volontà del titolare si fissa e consuma.
Lo stato di soggezione non indica una posizione giuridica corrispondente al diritto di riscatto, ma designa piuttosto la oggettiva inevitabilità degli effetti, che la norma ricollega alla dichiarazione del venditore.
Se il diritto potestativo è potere di produrre un mutamento giuridico, allora bisogna concludere che l'altra parte non è soggetta al potere del titolare, ma al mutamento prodotto, ossia ad un certo tipo di effetti giuridici.
Si giunge così ad un ulteriore risultato critico: che la teoria del diritto potestativo appartiene, non già al modulo delle situazioni giuridiche soggettive, ma a quello dei comportamenti umani produttivi di effetti giuridici; essa nasce dalla consueta conversione psicologica dei fenomeni normativi.
Il lineare legame tra fattispecie ed effetto viene tradotto in termini psicologici, sicchè il venditore è considerato titolare dello specifico potere di produrre il mutamento giuridico; ma questo potere serve soltanto a designare una modalità della fattispecie.
Le ipotesi spiegate con la nozione del diritto potestativo si risolvono nel fenomeno dell'autonomia privata; né può obiettarsi che il diritto potestativo presuppone il riferimento ad un determinato rapporto, mentre l'autonomia privata ha contenuto generale ed astratto.
Basta precisare che un elemento della fattispecie è previsto con una certa caratteristica soggettiva.
La categoria dell'onere
Obiezioni vanno indirizzate alla ura dell'onere, che si presenta di solito connessa o combinata con la ura del poter. Il singolo, se da un lato, ha la possibilità di produrre certi effetti giuridici, si trova, dall'altro, nella necessità di adibire mezzi idonei allo scopo prescelto. Le norme strumentali attribuiscono un potere al soggetto, ma insieme enunciano le procedure di esercizio del potere conferito ed impongono al titolare di adeguare l'atto allo schema foggiato dal legislatore. Il potere trae con sé una necessità di adeguamento, che si esprime appunto nella categoria dell'onere. In proposito basterà dire che il concetto nasce dal consueto scambio tra profilo psicologico e profilo normativo. La necessità di porre l'atto nell'insieme dei suoi elementi e modalità ( così, per esempio, di adottare la forma ad substantiam ) non indica un comportamento dovuto, che sia simmetrico a quello dedotto nell'obbligo, ma riproduce il semplice nesso tra fattispecie ed effetto. Non è altro, cioè, dalla logica necessità che, per la produzione di dati effetti, si realizzi la correlativa ipotesi di fatto. Si genera una regola psicologica, che suona << se vuoi B, devi agire nel modo A >>: dove B è l'effetto perseguito , ed A è l'atto, a cui la norma ricollega quell'effetto. Regola psicologica, appunto, che resta estranea al mondo giuridico ed al nesso di fattispecie ed effetto.
La categoria della facoltà
Esaminiamo la categoria della facoltà, la cui collocazione sistematica è piuttosto oscillante: ora indicata come elemento interno del diritto soggettivo, ora contrapposta a questo, ora unita con la ura del potere o dissolta in essa. Alla storia del concetto preferiamo l'indicazione critica dei significati più consueti e diffusi. Ci riferiamo alla facoltà come elemento costitutivo del diritto reale: la conurazione delle facoltà dipende dalla conurazione del diritto reale: se diritto sulla cosa, o fascio di doveri negativi incombenti su tutti i consociati. Ma, con il nome di facoltà, si designa anche << la possibilità di ottenere un certo risultato prestabilito compiendo una data azione: per esempio di conseguire la proprietà di un res nullius impossessandosene effettivamente, o di punire l'autore di un illecito applicandogli una sanzione >>. Così la facoltà viene contrapposta al potere: l'una, possibilità di ottenere un risultato prestabilito mediante un certo contegno; l'altro, possibilità di conurare un risultato con una espressione di volontà. Nell'ipotesi dell'art. 923 cod. civ., la norma ricollega la nascita e l'acquisto del diritto di proprietà al semplice ed obiettivo elemento dell'occupazione; e che gli organi giudiziari hanno l'obbligo, nelle circostanze previste, di applicare la sanzione all'autore dell'illecito. La teoria della facoltà richiama l'esigenza di distinguere e caratterizzare le fattispecie che comprendono elementi posti dalla volontà umana. Sia nel caso di contratto di compravendita, sia di occupazione di bene mobile vacante, il singolo sceglie l'atto da compiere, e decide di conseguire o non conseguire un certo risultato giuridico.
Conclusioni sulle c.d. situazioni giuridiche soggettive
Nell'analisi svolta nei precedenti paragrafi hanno trovato applicazione due principi metodici:
la critica dello psicologismo, onde talune ure dogmatiche sono state risolte o nell'elementare nesso di fattispecie ed effetto ( così il potere, il diritto potestativo, e le facoltà ), o nell'indicazione di modalità di fattispecie ( così la qualità e l'onere );
la critica dell'ontologismo, che ha mostrato come altre ure ( gli stati ), coniate dagli studiosi per esporre ellitticamente una pluralità omogenea di fenomeni giuridici, siano poi divenute segni di autonome realtà.
Stabiliti l'obbligo e il diritto soggettivo ( l'uno, costante e primario; l'altro, eventuale e secondario ) emergono da un'analisi scientifica dei fenomeni, il vecchio problema della classificazione delle situazioni giuridiche soggettive si svela privo dell'interesse, da cui è accomnato in quadri teorici più ricchi ed articolati. Fondato sull'elemento teologico è il criterio che distingue le situazioni giuridiche soggettive in favorevoli e sfavorevoli, a seconda che siano disposte a vantaggio od a svantaggio del titolare. Alle une appartiene il diritto soggettivo; alle altre, l'obbligo giuridico. Si separano poi le situazioni attive, che comportano un fare del titolare, dalle situazioni inattive, che non comportano alcun fare dal titolare. Rientrano nella prima categoria gli obblighi giuridici positivi; nella seconda, i diritti soggettivi e gli obblighi giuridici negativi ( se l'omissione è considerata come un non fare ). L'obbligo va pertanto definito come situazione giuridica soggettiva sfavorevole - attiva; il diritto soggettivo, come situazione giuridica soggettiva favorevole - inattiva. Se l'omissione è considerata un non fare, l'obbligo negativo si risolverà in una situazione giuridica soggettiva sfavorevole - inattiva
Il rapporto giuridico
Obbligo e diritto si presentano come termini di una relazione a cui viene dato il nome di rapporto giuridico. La corrispondenza tra le due posizioni, e quindi tra i soggetti che ne sono titolari, è prevista in astratto dalla norma: così, ad esempio, l'art. 1476, n. 1, cod. civ. conura il rapporto tra venditore e destinatario dell'obbligo di consegna. Quando si realizza l'ipotesi di fatto, il rapporto astratto si specifica e determina, lo schema normativo del comportamento dovuto viene riferito a Tizio ed a Caio. Al pari dell'obbligo e del diritto soggettivo, il rapporto giuridico esprime il risultato di un calcolo logico: esiste una norma; si è realizzata l'ipotesi di fatto; comportamento futuro di Tizio, destinato a Caio, riceve la valutazione di doverosità; dunque, Tizio e Caio, come obbligato e destinatario dell'obbligo, si trovano connessi in un rapporto giuridico. Questo non è altro che lo stesso effetto, in cui acquistano particolare rilievo la identità dei soggetti e la loro specifica designazione da parte del fatto. Nasce dal rilievo che il diritto disciplina relazioni economiche tra consociati facendo corrispondere a ciascuna un particolare rapporto giuridico. Viene così soddisfatto il bisogno di stabilire un legame tra società e sistema giuridico. Si tratta di un'esigenza ideologica che non reca alcun contributo ad indagini di carattere normativo. Il rapporto giuridico non costituisce l'unità elementare del diritto, né può offrire il terreno di fondazione per una teoria generale. Esso rinvia necessariamente alla norma, che qualifica il rapporto giuridico e che serve perciò a differenziarlo dai rapporti economici ed etici; il rapporto intercede sempre tra situazioni giuridiche soggettive; e queste rimandano alla loro fonte, che è la norma.
Agire dovuto, agire lecito, agire illecito
Nell'assumere l'obbligo a criterio esclusivo di valutazione dei contegni umani, abbiamo dato una risposta anche al tradizionale problema del lecito giuridico: la teoria della norma giuridica prepara e determina la soluzione dei problemi particolari. Il problema del lecito giuridico si ricollega, nella storia delle idee, alla teoria imperativistica del diritto. Dove il legislatore non comanda ( ossia non ordina ciò che si potrebbe non fare, o non vieta ciò che si potrebbe fare ), si apre la sfera illimitata del lecito giuridico. Non comandare significa permettere, e quindi delineare, accanto all'area delle azioni doverose, l'area delle azioni lecite o giuridicamente possibili. Il lecito, nella dottrina ora accennata, non è concetto negativo - che serva ad indicare le azioni non prescritte o non vietate -, ma concetto positivo, cioè autonomo e specifico modo di valutare l'azione. Il diritto si risolve così in un insieme di comandi e di permessi, a cui soggiacciono tutti i contegni umani, i quali, appunto, quando non siano vietati né prescritti, rientrano nelle libere scelte dei singoli. Nessun atto sarebbe privo di rilevanza giuridica. La critica della teoria imperativistica ci avverte che la norma non vieta né ordina, ma soltanto descrive fatti probabili, al cui accadere ricollega una vicenda di dovere giuridico. I comportamenti umani sono presi in considerazioni dal diritto sotto duplice e diverso profilo: o come contenuto di fattispecie ( ossia come elementi della parte ipotetica della norma ), o come contenuto dell'obbligo ( ossia come contegni, rispetto ai quali nasce si modifica si estingue la qualifica di doverosità giuridica ). Le azioni, non contemplate dalle norme del sistema, sono né lecite né permesse. Al di là delle azioni, che traducono in concreta realtà le fattispecie normative, e delle altre, considerate doverose da singole norme, si allarga il campo delle azioni irrilevanti ( dal punto di vista di un sistema giuridico determinato nel tempo e nello spazio ). Esse non ricevono qualifiche, né predicati, proprio perché estranee al sistema in esame; e designarle come lecite significa dirle non giuridiche. Il rilevante per il diritto è il complesso di doveri negativi incombenti sui consociati ( doveri di non interferire nell'altrui sfera d'azione ), in cui appunto si risolve la libertà dei singoli. Le azioni libere sono tali, non già - come si crede - in quanto esercizio di libertà, ma in quanto punto di riferimento di un dovere negativo dei consociati. Ma allora le azioni doverose sono per eccellenza azioni libere, dato che rispetto ad esse sussiste un generale dovere dei consociati di non impedirne né turbarne il compimento. I concetti di azione doverosa e di azione libera non formano una coppia antitetica. Essi rispondono a due criteri eterogenei: azione doverosa è azione contemplata dalla norma come effetto di date fattispecie; azione libera è azione contemplata dalla norma come punto di riferimento di altrui doveri di astensione. È dunque possibile essere insieme libere e obbligati, poiché libertà significa, in questo caso, altrui dovere di non impedire il compimento di un'azione doverosa. Insomma, l'azione doverosa implica un obbligo mio, l'azione libera designa un obbligo altrui. Prende luce l'ulteriore concetto di azione illecita - di azione contraria al dovere e violatrice della norma. È conurabile, accanto a quella delle azioni doverose, l'autonoma categoria delle azioni illecite? È l'illiceità, al pari della doverosità, criterio di rilevanza normativa dell'agire umano? Subito va abbandonata l'idea della violazione della norma: idea che non può sopravvivere alla critica della teoria imperativistica, poiché solo un comando (ordine o divieto) è suscettibile di osservanza e di disubbidienza. Il giudizio ipotetico non attende di essere eseguito, ma conosciuto e interpretato. Un giudizio non è destinato ad orientare la volontà altrui, sicchè possa dirsi rispettato o violato, obbedito o infranto. Un giudizio, per sua intrinseca natura, non prescrive, ma descrive; non comanda ma comunica. Violazione e giudizio sono termini incompatibili. Ne appare, per altro, più persuasiva l'idea di violazione del dovere. Il dovere è posizione di un comportamento umano futuro, modalità logica che non chiede di essere osservata o violata. A ben vedere, la formula << violazione del dovere >> esprime soltanto l'assenza della condotta doverosa: Tizio ha violato il dovere indica, nel linguaggio empirico, che Tizio non ha consegnato a Caio la cosa venduta.
La nozione di illiceità nasce dal raffronto tra fattispecie di una norma ed effetto statuito da un'altra norma del sistema. Se, nella fattispecie di una norma, è descritta l'azione contraria a quella che un'altra norma del sistema considera doverosa, allora noi diremo che la prima è un'azione illecita.
Così, l'art. 1218 cod. civ. assume, nella ipotesi di fatto, l'inadempimento di un'obbligazione: termine di sintesi, che raccoglie tutti i contegni contrari a quelli considerati come doverosi da altre norme del sistema.
L'illiceità designa dunque una categoria di azioni, previste in fattispecie normative e caratterizzate dalla contrarietà ad altrettante azioni doverose. L'azione illecita non viola la norma, ma è contenuta nella fattispecie di una norma; non è contraria al dovere, ma è il contrario dell'azione doverosa.
Qui il dovere è considerato un semplice risultato conoscitivo dell'interprete, e non già una qualifica o modalità attribuita dal diritto a contegni umani futuri. L'illiceità è una nota estrinseca, derivante dal paragone o dal riferimento interpretativo ad azioni considerate come doverose.
La contrarietà, a rigore, non è un elemento strutturale del contegno, ma l'esito di un giudizio di relazione tra contegni previsti in norme diverse. Possiamo ora trarre qualche conclusione: le nozioni del lecito e dell'illecito si sono mostrate connesse con la teoria imperativistica, e non trasferibili nella teoria della norma come giudizio ipotetico.
Solo risolvendo il sistema delle norme in un insieme di imperativi e di permessi è possibile distinguere le azioni in doverose, illecite e lecite: cioè, in conformi al comando, contrarie al comando, ed estranee al comando. Assunto, invece, il dovere a categoria esclusiva della giuridicità, il lecito non è altro che assenza del dovere e quindi azione sprovvista di predicato giuridico.
Dove cessa il dovere, cessa la sfera della giuridicità. Affatto estrinseca si rileva la nota dell'illiceità, fondata sul raffronto tra fattispecie di una norma ed effetto statuito da un'altra norma del sistema.
La correlazione tra fattispecie ed effetto giuridico.
I due momenti della norma ( ipotetico e dispositivo ), (tipi e modalità dell'effetto giuridico) sono termini di una correlazione logica, che la norma stabilisce con assoluto e incontrollabile arbitrio.
La correlazione esiste perché vi è una norma che la contiene ed enuncia; ed esiste soltanto rispetto a tale norma. I caratteri ora indicati servono, da un lato, a distinguere il rapporto tra fattispecie ed effetto dalla casualità naturalistica; dall'altro, a chiarire la storica relatività del rapporto stesso.
La casualità naturale è caratterizzata dalla successione di due fatti nel tempo (nota estranea alla così detta casualità giuridica);che talvolta i sistemi giuridici ricollegano a identiche fattispecie effetti diversi ed opposti (il che è inconciliabile con la costanza della casualità naturale); infine, che fattispecie ed effetto non appartengono al medesimo ordine di fenomeni, come invece esigerebbe il principio di casualità naturale.
Si può aggiungere che il vocabolo <<legge>> - comune al mondo naturale ed al mondo giuridico - designa fenomeni assolutamente diversi. La legge naturalistica è risultato dello studio di fatti obiettivi che l'uomo rende intelleggibili mediante la categoria della casualità; la legge giuridica è oggetto di studio, e gli elementi strutturali di essa si trovano già disposti in una correlazione.
La legge naturalistica è, perciò, un'ipotesi di lavoro verificabile con il metodo sperimentale; la legge giuridica, invece, un dato incontrovertibile, di cui non è lecito né ragionevole discutere la verità o la falsità. Le leggi giuridiche non corrispondono alle leggi naturalistiche, ma piuttosto ai fenomeni di natura; mentre alle leggi naturalistiche corrispondono le scienze del diritto.
La correlazione giuridica costituisce il contenuto dello stesso fenomeno studiato; essa in quanto stabilita da una norma, è sempre relativa all'ordinamento a cui la norma appartiene.
Accade così che a identiche fattispecie sistemi giuridici diversi (diversi nello spazio e nel tempo) ricolleghino effetti del più vario ordine, o addirittura non ricolleghino alcun effetto.
Se anche due sistemi giuridici enunciano la medesima correlazione, dovremo precisare che l'identità è fortuita e che le qualifiche assegnate da essi rimangono del tutto distinte ed autonome. La relatività di tali conclusioni è una conseguenza dell'arbitrio, di cui dispone il legislatore nel trascegliere le fattispecie e nel ricollegare ad esse effetti giuridici.
II L'ELEMENTO SPECIFICO
Significato attuale del diritto privato.
Nella storia delle dottrine giuridiche, la distinzione tra diritto privato e diritto pubblico è individuato da almeno tre gruppi di teorie: il primo, fondato sulla diversa natura dell'interesse tutelato dalla norma; il secondo, sulla struttura della disciplina dettata dal legislatore; il terzo, sull'elemento soggettivo del rapporto regolato. Queste teorie hanno perduto molto del loro credito: per la parzialità del criterio di distinzione; per l'espandersi del diritto pubblico nell'economia; per l'intrecciarsi di interessi privati con interessi della collettività; infine, per l'influenza dei principi della Costituzione repubblicana. La risposta al problema deve muovere da alcune premesse:
a. Che la distinzione in esame non riguarda la struttura della norma giuridica. Sotto il profilo formale, norme privatistiche e norme pubblicistiche si riconducono ad uno schema comune: le une e le altre norme ricollegano, ad un fatto previsto in ipotesi, valutazioni di doverosità di contegni umani.
b. Che la distinzione ha un semplice valore didattico ed espositivo.
c. Che la distinzione va pertanto elaborata sul piano materiale e contenutistico, nel senso che il diritto privato si risolve in una << serie di regole dirette a disciplinare talune attività nella vita sociale, nelle quali vengono adoperati taluni strumenti giuridici >>.
d. Che il diritto privato non si identifica con la disciplina del codice civile, ma comprende anche la grande folla delle leggi speciali.
L'attenzione deve fermarsi, in particolare, su quest'ultimo punto. Il codice civile non esaurisce più il contenuto del diritto privato, i cui strumenti (dalla proprietà al contratto) vengono utilizzati, in misura sempre più ampia ed intesa, dai pubblici poteri. Mentre al codice civile resta affidata la disciplina dei rapporti più consueti ed elementari, assistiamo ad un crescente infittirsi di leggi speciali, destinate a regolare operazioni economiche, in cui i poteri pubblici svolgono il ruolo di protagonisti. Tali operazioni si articolano, di massima, secondo un paradigma, che presenta una fase interna all'ente pubblico, disciplinata dal diritto amministrativo, ed una fase esterna, dove trovano applicazione gli strumenti del diritto privato.
Il diritto privato si definisce e delimita, soltanto per lo specifico contenuto, ossia per gli strumenti che esso ha elaborato e che oggi si espandono all'azione economica dei pubblici poteri. Noi abbiamo assunto come punto di riferimento e come misura del carattere privatistico di una norma, il contenuto del codice civile, ossia l'esercizio di date attività e l'uso di dati strumenti tecnici (così, l'uso del << contratto >> in luogo della concessione).
Ma quest'uso compiuto da leggi particolari può non limitarsi, né mai si limita, alla semplice recezione dell'istituto disciplinato dal codice civile: che è, invece, adattato, modificato, convertito a nuove esigenze. Il diritto privato si trova di fronte ad una alternativa: o si definisce in base alla natura degli interessi tutelati, ed allora rischia di sopravvivere come disciplina di un'economia statica e di fenomeni produttivi elementari; o, invece, si definisce in base al contenuto, cioè alle attività svolte ed agli istituti applicati, ed allora rischia di perdere ogni nesso con il corpo delle norme codificate e di dissolversi in un nuovo diritto comune.
modulo 2
IL LINGUAGGIO DELLE NORME GIURIDCHE PRIVATISTICHE
La norma giuridica come fenomeno di linguaggio
La norma giuridica privatistica, al pari di ogni altro tipo di norma, si presenta all'osservatore come un insieme di parole. Gli elementi costitutivi della norma giuridica - fattispecie ed effetto - appartengono ai fenomeni del linguaggio umano: sono parole sulle quali, o mediante le quali, è destinata a svolgersi l'attività dell'interprete.
Questi o si limita a ricostruire il significato delle parole usate dal legislatore, o si serve di esse per classificare eventi naturali e accaduti storici. Rientrano nella prima specie di attività le proposizioni, con cui l'interprete esplicita il contenuto di una data norma, ossia ripete ed itera nel proprio linguaggio il linguaggio legislativo. Rientrano nella seconda specie di attività, che perciò suole denominarsi pratica o applicativa, le proposizioni con cui l'interprete riconduce un caso (evento naturale o episodio della storia umana) in una categoria di fatti descritti dal legislatore.
Così quando il giudice afferma che Tizio e Caio hanno stipulato un contratto di compravendita, non si limita ad iterare il contenuto dell'art. 1470, ma assegna un predicato giuridico al fatto storico
Soltanto attraverso questo processo di pensiero, i fatti - che di per sé appartengono alla sfera degli eventi naturali o alla storia umana - penetrano nel mondo del diritto, e diventano fatti giuridici.
Queste prime notazioni lasciano distinguere nell'ambito del diritto privato una pluralità di ordini o livelli di linguaggi, poiché altro è il linguaggio delle norme, altro il linguaggio dell'interprete (o iterativo), altro, infine, il linguaggio dell'interprete <<pratico>> (o applicativo).
Le posizioni dell'interprete, nelle due specie di attività ora indicate, non esprimono norme, ma piuttosto concernono e riguardano norme, che vengono o ricostruite nel loro significato o utilizzate come canoni di classificazione dell'esterna realtà.
Esse presentano perciò un grado linguistico diverso da quello delle norme a cui si riferiscono: sono un meta-linguaggio, in rapporto ad un linguaggio-oggetto.
Tra l'oggetto della scienza e le proposizioni, con cui lo scienziato parla di esso, vi è un salto logico: il primo appartiene alla sfera della natura, le seconde al linguaggio umano.
La scienza del diritto, al contrario, discorre su un altro discorso, parla di altre parole, passa da uno ad un altro linguaggio. L'oggetto della ricerca è già un fenomeno linguistico, sicchè le proposizioni della scienza si legano ad esso in un ininterrotto rapporto di omogeneità e continuità.
Il linguaggio delle norme è dunque un linguaggio-oggetto, dotato di proprie regole d'uso e di propri criteri di combinazione. Esso ha a tal segno carattere rigido e sistematico da disciplinare anche l'attività dell'interprete: cioè la lettura di sé medesimo. L'art. 12 disp. prel. cod. civ. opera appunto una norma di chiusura dell'ordinamento giuridico, sia nel senso (1° comma) di enunciare i canoni di interpretazione del linguaggio-oggetto, che (2° comma) di stabilirne le regole di trasformazione.
L'analogia è l'esclusivo strumento di trasformazione del linguaggio-oggetto, che non può allargarsi né integrarsi medianti altri metodi o fonti. La costruzione del meta-linguaggio - ossia del linguaggio con cui il giurista parla delle norme - è perciò in larga parte determinata dalla struttura del linguaggio-oggetto, che limita e talora sopprime lo stile e la capacità inventiva dello scienziato.
Linguaggio-oggetto e meta-linguaggio.
I due gradi del discorso giuridico sono designati in vario modo. Piuttosto diffusa è la distinzione tra linguaggio del diritto, ossia linguaggio nel quale sono formulate le leggi di un certo Stato, e linguaggio giuridico, ossia linguaggio nel quale i giuristi parlano delle leggi di un certo Stato.
Preferiamo designare il linguaggio delle norme come linguaggio normativo o (considerata la prevalenza della legge tra le fonti del diritto) legislativo. Il meta-linguaggio può essere distinto in:
linguaggio dottrinario, che si limita a esplicare il contenuto delle norme (la norma x ricollega alla fattispecie A l'effetto B);
linguaggio applicativo, con cui il giurista assegna predicati giuridici a eventi naturali e accaduti storici (il fatto a rientra nel tipo legislativo A: è un contratto di compravendita o di premuta ecc.).
Mediante il filtro del linguaggio i fatti assumono un nomen juris, una qualifica che li ordina e classifica nelle categorie legislative. Mentre il linguaggio dottrinario è propriamente un discorso sulle norme, il linguaggio applicativo si apre al mondo dei fatti nel senso che vengono ridotti a <<casi>> o <<esempi>> di tipi legislativi.
Il diverso grado o livello dei discorsi giuridici spiega perché soltanto il meta-linguaggio (dottrinario o applicativo) soggiaccia al controllo di verificazione e possa perciò dirsi vero o falso. La verità della norma è nella sua validità, ossia nell'appartenenza al sistema di norme dal cui punto di vista ci siamo collocati. Quando l'interprete informa che la tal norma ha un dato contenuto (la fattispecie A e l'effetto B), o che il tal fatto rientra in una data categoria legislativa (il fatto a nella categoria A), noi siamo in grado di controllare la verità della proposizione, mediante il rapporto tra meta-linguaggio e linguaggio-oggetto. Questa verifica non avrà, carattere sperimentale (nel senso di riprodurre il fenomeno descritto nella legge naturalistica), ma carattere storico-interpretativo.
Si tratterà, cioè, di vedere se il giurista ha ricostruito correttamente il significato delle parole usate dal legislatore, osservando le regole di lettura dall'art. 12, 1° comma, disp. prel. e i codici linguistici.
Il linguaggio-oggetto. Lingua comune e linguaggio legislativo.
Esaminando un sistema storicamente dato (il diritto privato vigente in Italia) osserveremo che esso costruisce il proprio vocabolario mediante tre fonti tipiche:
utilizzando parole già appartenenti alla lingua comune, e conservandone il significato originario;
utilizzando parole già appartenenti alla lingua comune, e modificandone il significato originario;
coniando nuove parole, destinate poi o a rimanere nel linguaggio del diritto o a trasferirsi nella lingua volgare
Nel secondo e nell'ultimo caso, il vocabolario legislativo si conura come un autonomo codice linguistico. Il legislatore si mostra consapevole della specificità del linguaggio normativo, e cosi impone all'interprete di preferire il <<significato proprio delle parole>> (art. 12, 1° comma, disp.prel.), ossia di scegliere il significato tecnico, e non quello volgare e profano.
La norma dell.art. 12, 1° comma, si riferisce naturalmente alle ipotesi in cui la parola sia dotata di due o più significati: l'uno nel linguaggio giuridico e l'altro nella lingua comune; o l'uno nel linguaggio giuridico e l'altro nel linguaggio tecnico di una disciplina: l'interprete dovrà sempre adottare il significato proprio al diritto.
Infine, nel caso sub 1), la parola appartiene alla lingua comune ed al linguaggio legislativo, ed esprime in ambedue le sedi il medesimo significato: cerniera, per così dire, tra autonomi codici linguistici.
In verità la scelta tra i due tipi di linguaggio legislativo non tanto precede da una diversa sensibilità al carattere scientifico degli studi giuridici, quanto da una diversa considerazione dei rapporti tra la legge ed il giudice.
La disciplina legislativa ha in questo caso un carattere nettamente analitico: fattispecie ed effetti sono descritti nei singoli elementi, e designati con appositi simboli o nomi tecnici.
Se invece la norma è espressa con parole della lingua comune, la disciplina procede di massima per clausole generali, che lasciano al giudice largo spazio nella determinazione delle fattispecie e degli effetti.
Il sistema giuridico italiano offre documenti dell'uomo o dell'altro tipo di linguaggio. Mentre le norme contenute nel codice civile sono di massima espresse il linguaggio tecnico, le norme costituzionali, relative a materie ed istituti privatistici, utilizzando parole della lingua comune o del linguaggio politico. Ne sono derivati, e tuttora ne derivano, problemi interpretativi di grande difficoltà, in quanto - alla luce di un corretto metodo sistematico e di una rigorosa considerazione della gerarchia delle fonti - le norme del codice civile possono risultare o in conflitto con i principi costituzionali o compatibili con essi. Nel primo caso, la norma verrà sottoposta al giudizio della Corte Costituzionale, e cesserà di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione (art. 136, 1° comma, Cost.).
Nel secondo caso, la norma conserverà la propria efficacia, ma il risultato sarà spesso ottenuto scegliendo, tra i diversi significati che il testo legislativo è in grado di esprimere, il significato compatibile con i principi costituzionali. Questi ultimi non operano qui come criterio del giudizio di legittimità, ma come criteri di interpretazione sistematica, cioè di scelta e di preferenza di uno tra i significati ricavabili dal testo normativo.
Lo <<stile>> legislativo. La nomenclatura giuridica
L'unità e coerenza del linguaggio adottato appartengono alle tecniche necessarie per raggiungere gli scopi prescelti dalla classe politica, sicchè una variazione di esso,o un alternarsi di tipi diversi, è
destinato a pregiudicare o impedirne il conseguimento.
Occorre perciò che l0intero sistema normativo obbedisca ad una logica unitaria, ed esprima un serrato ed organico stile linguistico.
L'arte del legiferare consiste nell'ininterrotta fedeltà alla scelta compiuta,nell'evitare che il medesimo corpo di norme sia redatto in tipi diversi di linguaggio, e così che l'identica parola venga usata ora nel significato volgare ora nel significato tecnico.
Arte difficile da esercitare soprattutto in anni di intense trasformazioni sociali, per così dire, in una pluralità di direzioni, spesso diverse e contrastanti. Allora il problema è di inserire le nuove norme nell'ordine giuridico esistente, il nuovo linguaggio nel sistema espressivo adottato per il passato.
La varietà degli interventi legislativi, il carattere sperimentale delle soluzioni, l'eccesso di norme rispetto agli scopi perseguiti, rende ardua l'opera della classe politica, che non di rado preferisce affidare all'interprete l'ufficio di rendere compatibile il linguaggio di vecchi e di nuovi testi, e, addirittura, di individuare le norme ancora in vigore ( si pensi alle tecniche dell'abrogazione <<tacita >> - art. 15 disp prel. -, e dell'abrogazione generica di tutte le leggi anteriori in contrasto con la legge successiva).
Lo stile di un codice, o di un intero sistema, si misura soprattutto nel rigore della terminologia, cioè nell'uso dei nomi impiegati per designare i fenomeni essenziali della disciplina normativa.
Né il codice civile né le norme del diritto privato,collocate in sedi diverse dal codice,prescindono dalle trame sintattiche proprie della lingua comune: il tecnicismo del .linguaggio si rileva nella denominazione dei fenomeni, dalla sintesi dei quali risulta l'elementare unità della norma.
L'esigenza del distacco del linguaggio dal terreno della lingua comune è avvertita soprattutto nel momento in cui il legislatore assegna un nome alla fattispecie (o a singoli elementi di essa) o a gruppi di norme disciplinanti materie di carattere unitario.
Il lessico tecnico è infatti composto, in grado quasi esclusivo, da: nomi di istituti giuridici (intendendo per <<istituto>> un gruppo di norme regolanti una <<materia>> - cfr. art. 12, 2° comma, disp. prel. cod. civ. -considerata unitariamente dal legislatore); nomi di fattispecie; e nomi di elementi o, frazioni di fattispecie. Appartengono alla prima categoria i nomi tecnici, collocati di massima nei titoli della legge, ossia al di fuori del testo dei singoli articoli, e destinati a riassumere l'oggetto della disciplina contenuta in un libro o capo o sezione (esempi: <<Dell'azione surrogatoria>>, <<Dell'azione revocatoria>>, <<Della funzione della società>>, ecc.).
Alla seconda ed all'ultima categoria i nomi tecnici, collocati di massima nella rubrica o nel testo dei singoli articoli, e destinati a designare o intere fattispecie o elementi e frazioni di esse.
Poiché la fattispecie determina sempre la vicenda di un obbligo, la nomenclatura, usata per designare gli effetti giuridici, risulta più semplice e povera di quella ora esaminata. Essa si risolve di regola in una proposizione descrittiva, formata con parole del lessico volgare e sorretta da un <<è tenuto>>, <<è obbligato>>, <<deve>> ecc.
I nomi tecnici , che formano il vocabolario legislativo, possono distinguersi, dal lato della struttura, in semplici e composti. I nomi semplici constano di una o di più parole.
Essi hanno la caratteristica di non esprimere alcun rapporto con fenomeni giuridici diversi: non richiamano né evocano altre discipline legislative.
Sono nomi composti quelli che constano di più nomi, combinati in un certo ordine:un nome indica il genere, a cui il fenomeno appartiene, l'altro o gli altri nomi denotano la specie. Così, se le designazioni di due fenomeni hanno il primo nome in comune, si può correttamente inferire che essi rientrano nel medesimo genere.
Il binomio di termini semplici e termini composti è una vera e propria tecnica di disciplina legislativa; l'uso del termine composto (risultante, cioè, dalla combinazione del nome di genere e del nome di specie) rende applicabile al fenomeno specifico la disciplina dettata per la categoria generica.
Il rapporto di genere a specie permette un risparmio di attività normativa, concorrendo, nello stesso tempo, alla costruzione di un linguaggio agile ed ellittico. Le rubriche degli art. 1520 e 1521 cod. civ. collocano talune fattispecie nell'ambito di una categoria generica (la <<vendita>> ),e quindi legittimano l'applicazione della disciplina di questa a quelle.
Può tuttavia accadere che il reale contenuto della disciplina del fenomeno specifico risulti incompatibile con il rapporto di genere a specie, istituito nella designazione di esso. Ci troveremo allora di fronte al conflitto tra nome tecnico e concreta disciplina del fenomeno, nel senso che il nome apparirà inesatto od erroneo, rispetto al contenuto delle norme. L'uno evoca una disciplina (quella,appunto,del fenomeno generico), che l'altro deroga e contraddice.
Spetterà al giurista di segnalare il contrasto tra nome e disciplina; in altri casi, il legislatore estende il nome semplice, già utilizzato per la designazione di una fattispecie, ad altra fattispecie a torto considerata identica.
In concreto si tratta di vedere se il legislatore italiano si è riservata questa facoltà, o se invece ha stabilito regole d'uso dei due vocaboli, dalle quali può discostarsi soltanto a rischio di entrare in conflitto con il proprio codice linguistico.
Ne nasce un conflitto, che l'interprete ha il dovere di segnalare e risolvere. Egli non impone al testo legislativo una terminologia costruita dalla dottrina, ma piuttosto chiede ad esso di serbarsi coerente con le proprie scelte semantiche, di non trasgredire le convenute regole d'uso. Si coglie qui una delle funzioni precipue della scienza giuridica, che integra, e talora corregge, il vocabolario dei testi legislativi; nel meta-linguaggio della scienza il linguaggio-oggetto delle norme si affina, si ordina, e si costruisce in sistema.
Le definizioni legislative.
Prendendo in esame l'art. 1470 cod. civ. (<<Nozione. La vendita è il contratto che ha per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa o il trasferimento di un altro diritto verso il corrispettivo di un prezzo>>), scorgiamo già la distinzione, ed il reciproco rapporto, tra nomi e definizioni normative.
Il legislatore può limitarsi ad attribuire un nome al fenomeno disciplinato, senza peraltro enunciarne la definizione: spetterà all'interprete, in base al concreto contenuto della disciplina (artt. 1571 e 1615 cod. civ.), di svolgere il nome in una definizione, così enunciando che l'affitto è il contratto col quale una parte si obbliga a far godere all'altra una cosa produttiva mobile o immobile,per un dato tempo verso un determinato corrispettivo.
Nell'art. 1470, invece, l'itinerario logico procede dalla definizione al nome, nel senso che il legislatore assegna il nome <<vendita>> all'insieme di note ed elementi costitutivi della fattispecie.
Sarebbe erroneo credere che nell'art. 1470, come in tutti gli altri in cui viene data una nozione, la norma definisca il nome, dotato di per sé di un certo significato e rivelatore di un complesso di caratteri. Si tratta, non già di definizioni di cose, ma di nomi di definizioni, ossia di nomi desunti dalla lingua comune o foggiati nel lessico giuridico, che riassumono singole fattispecie.
La definizione - che è poi descrizione degli elementi della fattispecie - si ripiega e involve in un nome, destinato a evocarne il contenuto e ad essere veicolo nelmemoria - I processi di memorizzazione dall'acquisizione al richiamo - Studi comparati" class="text">la memoria degli uomini.
L'analisi degli artt. 1470 e 1615 cod. civ. ci rivela due modi o tecniche, con i quali il nostro legislatore assegna nomi ed enuncia definizioni. Egli può limitarsi a disciplinare il fenomeno, attribuendo ad esso un nome tecnico ma non enunciandone la definizione: così, l'art. 1615 regola il contratto di affitto, la cui definizione è per altro lasciata all'opera dell'interprete. O può invece definire il fenomeno e dotarlo di apposita designazione, sicchè l'interprete trovi dinanzi a sé la definizione ed il nome (art. 1470).
In quest'ultimo caso, il linguaggio-oggetto presenta il massimo grado di completezza; nel primo, al contrario, spetterà al meta-linguaggio il compito di definire il fenomeno, di spiegare e risolvere il nome in una definizione (tecnica denominatoria e tecnica definitoria).
Il valore normativo delle definizioni
La vecchia disputa sul carattere delle definizioni legislative - se vincolanti o non vincolanti per l'interprete, se sottoposte o estranee al controllo di verità - va risolta di caso in caso, a seconda del tipo di definizione presa in esame. Le definizioni legislative, non diversamente dai nomi designati singole fattispecie, sembrano rientrare in due categorie: l'una comprende le definizioni semplici, che si limitano a descrivere, modalità ed elementi della fattispecie; l'altra, le definizioni composte, che descrivono la fattispecie mediante l'indicazione di un genere, già definito dal legislatore, e di una o più note ad essa peculiari.
La definizione composta, classificando il fenomeno come specie di un genere, rende applicabile all'una (vendita) la disciplina dell'altro (contratto), e così dispensa il legislatore dal reiterare di volta in volta le norme dettate per la categoria più ampia.
Dalle definizioni semplici o composte, che descrivono fattispecie, e spiegano una concreta efficacia normativa,vanno separate le mere definizioni dottrinarie, con cui il legislatore, arrogandosi la competenza scientifica e didattica propria della dottrina, distingue elabora classifica i fenomeni disciplinati.
Il carattere dottrinario della definizione si rileva osservando che nessuna norma può accoglierne il contenuto nella parte ipotetica o nella parte dispositiva, e che perciò essa è il risultato di un'attività teorica del legislatore, di un ripiegarsi e riflettere sopra se medesimo.
L'interprete non ne è vincolato, e può controllarne la conseguenza con la disciplina dell'istituto, e stabilirne l'esattezza o l'erroneità logica.
Definizioni ed elencazioni
Non di rado la definizione è seguita da un elenco di membri, appartenenti alla classe o categoria di cui il legislatore ha enunciato i caratteri essenziali.
L'enumerazione dei singoli casi o specie può rispondere ad una duplice esigenza di tecnica legislativa: o di offrire all'interprete esempi di applicazione del concetto generale; o di esaurirne i casi di applicazione.
Di qui il binomio di enumerazioni esemplificative ed enumerazioni limitative o esaustive. Il carattere tassativo dell'enumerazione (ancorché questa non sia contenuta in una norma eccezionale: articolo 14 disp. prel.) si risolve invece in un divieto di interpretazione analogica, nel senso che il legislatore ha esaurito con la propria indicazione di specie tutte le possibilità espressive della norma.
È appena il caso di aggiungere che il nesso tra definizione ed enumerazione non è costante; e che l'analisi registra enumerazioni senza definizione, e definizioni senza enumerazione.
Requisiti della terminologia giuridica
Ci siamo limitati, a individuare e classificare le forme del linguaggio normativo, senza peraltro esaurire l'analisi di tutte le tecniche di disciplina utilizzate dal legislatore (finzioni, presunzioni ecc.). I due profili sono astrattamente separabili, sebbene la tecnica di disciplina (l'applicazione di talune norme ad una diversa fattispecie) possa determinare la scelta di uno piuttosto che di altro modulo linguistico (di una definizione classificatoria in luogo di una semplice descrizione di elementi costitutivi).
Bisogna indicare i requisiti di una rigorosa terminologia giuridica; in primo luogo, i nomi legali debbono soddisfare il bisogno della completezza: tanti nomi quanti fenomeni normativi.
Da questo carattere discende l'altro dell'univocità, che elimina il rischio di adottare nomi identici per fenomeni diversi o nomi diversi per fenomeni identici.
Una terminologia così costruita risponderà anche al canone dell'organicità, svolgendosi in nomi composti (che indicano il genere e le proprietà comuni di tutti i fenomeni semplici; esempi nelle rubriche degli artt. 1520 e 1521 cod. civ. << Vendita con riserva di gradimento >>, << Vendita a prova >>); e nomi semplici a componente fissa (in cui il residuo di ciascun nome denota una proprietà del singolo fenomeno: esempi negli artt. 1334 e 1420 cod. civ.: << Unilaterale >>, << Pluri-lateralità >>).
<< Servo infedele, e segreto padrone del pensiero >>, il linguaggio è il nemico insidioso e sottile della legislazione e delle scienze: pregiudica e tradisce gli scopi pratici dell'una, ostacola e intorbida la strada percorsa dall'altra; è auspicabile chiedere che alle parole sia attribuito un significato costante; e che le regole d'uso, una volta poste e convenute, non siano violate per disattenzione o per capriccio.
CAPITOLO III
CLASSIFICAZIONE DELLE NORME GIURIDICHE PRIVATISTICHE
Criteri di classificazione. La classificazione secondo la fattispecie
Le norme giuridiche vengono solitamente distinte in base a taluni criteri e distribuite in un quadro, piuttosto ricco, di categorie e di gruppi minori.
A questi disegni sistematici, possono rivolgersi due rilievi:
1) che non sempre viene rispettata la coerenza tra definizione e classificazione della norma giuridica (per cui singole categorie o specie risultano incompatibili con la definizione adottata
2) che talvolta i criteri di classificazione sono, insieme, tecnici, politici, sociologici, e mancano quindi di necessaria omogeneità. Si assiste, in particolare, all'alternarsi e confondersi di criteri materiali, riguardanti il sostrato economico e la genesi storico-politica della norma, con criteri formali, che invece ne prendono in considerazione la semplice struttura logica.
La classificazione delle norme non può che obbedire a tre criteri: l'uno relativo all'ipotesi di fatto; l'altro, all'effetto giuridico; l'ultimo, infine, alla correlazione tra ipotesi di fatto ed effetto giuridico.
Questi momenti costitutivi della norma; questi, dunque, i criteri di distinzione e di collocazione delle norme nelle varie categorie.
La classificazione delle norme secondo la fattispecie si risolve integralmente nella teoria dei fatti giuridici, che studia i contegni umani, gli eventi naturali, gli stati di cose assunti nell'ipotesi normativa. La distinzione tra:
-a) norme generali e norme singolari. Le prime prevedono, come autore dell'atto completato in ipotesi, una classe di soggetti (solitamente indicati dal <<chiunque>> o da formule simili: <<se due o più parti>>ecc.): classe, in cui rientra un numero indeterminato di membri. Le altre indicano, come autore dell'atto completato in ipotesi, un soggetto determinato: Tizio, Caio, Sempronio ecc.;
-b) norme astratte e norme concrete, a seconda che il legislatore preveda, come ipotesi, una classe di fatti o un fatto determinato: il tipo della vendita o la vendita di questa cosa. Sono naturalmente conurabili tra i due binomi, che danno luogo a norme generali - astratte, norme generali - concrete, norme singolari - astratte, e norme singolari - concrete.
In applicazione del criterio della fattispecie, è stato proposto di distinguere tra norme rigide e norme elastiche: nelle une, la fattispecie è completamente determinata dal legislatore; nelle altre, la precisa valutazione del fatto è rimessa al prudente apprezzamento del giudice.
In tali ipotesi, la fattispecie, a cui si ricollegano gli effetti giuridici, sarebbe costituita anche dalla circostanze, ossia da elementi generici valutati di volta in volta dall'organo giudiziario.
Ciascuna delle norme recate ad esempio descrive una fattispecie complessa, risultante dalla combinazione di un fatto positivo e di un fatto negativo.
Verificatesi tali fattispecie, e adito il giudice, sorge a carico di quest'ultimo l'obbligo di decidere secondo le circostanze, che perciò sono, non elementi del fatto, ma canoni di valutazione e di soluzione della lite.
La classificazione secondo l'effetto giuridico.
Classificando le norme privatistiche secondo il criterio dell'effetto giuridico, possiamo enunciare la distinzione tra:
a) norme positive e norme negative. Se il comportamento dovuto consiste in un'azione, abbiamo una norma positiva; negativa, se il comportamento dovuto consiste in un'omissione;
b) norme generali e norme singolari: le une, quando il legislatore prevede, come autore del comportamento dovuto, una classe di soggetti (venditori, locatore, appaltante ecc.); le altre, quando il legislatore prevede, come autore del comportamento dovuto, un soggetto determinato;
c) norme astratte e norme concrete, se ci troviamo di fronte a norme che prescrivono classi di comportamenti (il consegnare la cosa venduta ecc.), od a norme, che invece rendono doveroso un comportamento determinato. Le norme astratte e le norme concrete possono essere, a loro volta, generali o singolari.
Sempre con riguardo alla disciplina dettata, si incontrano nei testi le categorie delle norme di comportamento e delle norme di organizzazione. Si tratta di una classificazione condotta secondo un criterio teleologico: se esse mirino a comporre un conflitto di interessi tra consociati, o ad organizzare una funzione utile alla vita del corpo sociale. Fondate sul criterio della sanzione sono le distinzioni tra norme primarie e norme secondarie, e tra norme perfette e norme imperfette.
Norme cogenti e norme relative
Non è agevole definire il criterio della distinzione, tra norme cogenti e norme relative.
Si insegna che le norme cogenti si impongono in modo assoluto ed in ogni caso, e non sono derogabili dalla volontà della parti. Le norme relative vengono distinte ulteriormente in norme dispositive o cedevoli, che entrano in applicazione soltanto nell'ipotesi in cui manchi una disciplina delle parti; e norme suppletive, che provvedono a colmare le lacune lasciate dalle parti nella disciplina da loro stesse dettata.
La norma dispositiva viene conurata come norma giuridica, la cui applicazione è subordinata all'assenza di una disciplina delle parti: ossia come norma, che contempla nell'ipotesi anche il fatto (negativo) dell'assenza dell'accordo. Si deve precisare che al concetto di norma dispositiva corrispondono, in verità, due norme: la norma, che ricollega effetti giuridici all'accordo delle parti, e la norma che ricollega effetti giuridici ad una fattispecie complessa, risultante dalla combinazione di un fatto costitutivo del rapporto e del fatto negativo << assenza dell'accordo delle parti sulla disciplina del rapporto >>.
Se siamo nel vero, cade la differenza tra norme dispositive e norme suppletive, fondata sulla mancanza o sulla lacunosità dell'accordo delle parti. Nell'uno e nell'altro tipo occorre sempre un fatto che identifichi la disciplina applicabile, sia esso un accordo delle parti o una situazione.
Norme dispositive, o cedevoli, e norme suppletive non si distinguono in base ad una particolare efficacia, per cui la volontà dei privati sia autorizzata a prevalere su di esse, ma in base alla composizione della fattispecie, che prevede, tra gli altri elementi, il fatto negativo della mancanza o dell'insufficienza dell'accordo delle parti. Più precisamente, la fattispecie della norma dispositiva risulta dalla combinazione di almeno due fatti: il fatto costitutivo del rapporto disciplinato, ed il fatto negativo dell'assenza di un accordo delle parti; mentre la fattispecie della norma suppletiva risulta dalla combinazione di almeno tre fatti: il fatto costitutivo del rapporto disciplinato, accordo delle parti (che può coincidere con il fatto costitutivo), ed il fatto negativo dell'insufficienza dell'accordo, ossia dell'assenza dell'accordo su taluni punti della disciplina.
La bipartizione di norme cogenti e di norme relative appartiene, quindi, ai gruppi ordinati secondo il criterio della fattispecie.
La classificazione secondo la correlazione tra fattispecie ed effetto giuridico.
L'attenzione della dottrina si è da tempo rivolta ad un gruppo di norme, che, pur presentando affinità con le norme relative, sembrano suscitare particolari problemi di classificazione: l'art. 1339 cod. civ.; l'art. 1932, 2° comma, cod. civ.; l'art. 1340 cod. civ.; l'art. 1374 cod. civ.; e, infine, l'art. 1375 cod. civ..
Ci limitiamo a riferire i termini elementari del problema: se tali norme (o alcune di esse) integrino il contenuto del contratto o se provvedano soltanto a determinare gli effetti giuridici.
La risposta deve inquadrarsi, in una rigorosa concezione della norma giuridica, immune da oscillazioni e da deviamenti.
Ora , se procediamo all'analisi delle norme prima elencate, ci sembra possibile distinguerle in due gruppi omogenei: il primo comprende gli artt. 1932, 2° comma. e 1340 cod. civ.; il secondo, gli art. 1374, 1375, 1339 cod. civ..
Le norme del primo gruppo hanno carattere suppletivo. L'art. 1340 cod. civ. contempla, tra gli elementi della fattispecie, il fatto (negativo) dell'assenza di un accordo delle parti, volto ad escludere l'applicabilità delle clausole d'uso. A questa fattispecie la norma ricollega effetti giuridici, determinati per rinvio alle clausole abitualmente praticate dalle parti.
La singolarità della norma - che, tuttavia, non ne pregiudica la funzione - è data da ciò: che, mentre nel tipo più comune di norma suppletiva, la fattispecie prevede l'assenza di una disciplina privata intorno a taluni punti del rapporto, nell'art. 1340 cod. civ. essa prevede l'assenza di una disciplina negativa, cioè di una decisione diretta ad escludere l'applicabilità delle clausole d'uso.
Il 2° comma dell'art. 1932 cod. civ. riproduce in altra forma il contenuto del 1° comma: <<Le disposizioni degli articoli . non possono essere derogate se non in senso più favorevole dell'assicurato>>. La fattispecie, descritta nel 1° comma, contempla il fatto (negativo) dell'assenza di clausole più favorevoli all'assicurato.
La singolarità della norma risiede nella descrizione del fatto negativo, che viene conurato attraverso un raffronto con il contenuto della disciplina legislativa (donde, appunto, le qualifiche di clausole <<più favorevoli>> e <<meno favorevoli>>.
L'art. 1374 cod. civ., da cui muove l'analisi del secondo gruppo di norme (artt. 1339,1374, e 1375 cod. civ.), contiene, in verità, due norme: l'una stabilisce che il contratto obbliga le parti a quanto è nel medesimo espresso (cfr. art. 1372, 1° cod. civ.); l'altra, che il contratto obbliga le parti <<anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, o in mancanza, secondo gli usi e l'equità>>. Nella prima norma espressione un principio generale del nostro diritto privato: cioè, il principio di corrispondenza tra contenuto dell'atto, posto in essere dalle parti,e contenuto degli effetti giuridici. Questi sono determinati mediante rinvio al contenuto della decisione privata.
Nell'altra norma, il contratto è assunto come fattispecie, a cui ricollegano effetti ulteriori, non scelti né decisi dalla volontà delle parti.
Il tenore dell'art. 1374 cod. civ. fornisce la prova più sicura dell'opinione seguita. Il contratto è, come soggetto (grammaticale e logico) del periodo, separato e contrapposto a due ordini de fenomeni: gli obblighi di compiere quanto è in esso espresso, e le conseguenze stabilite dalla legge o dagli usi e dall'equità.
Al medesimo tipo logico si riconduce l'art. 1375 cod. civ. che annette alla fattispecie una serie aperta di obblighi, determinati mediante rinvio alla buona fede. La norma è destinata ad operare in ogni specie di contratto, dato che dal contratto derivano soltanto obblighi di comportamento (l'esecuzione è perciò, non del contratto, ma della prestazione dovuta).
In nulla gli articoli, ora presi in esame, si discostano dallo schema generale della norma giuridica, se non per lo specifico nesso tra contenuto della fattispecie e contenuto degli effetti.
Questi vengono determinati per relationem allo stesso fatto, che la norma prevede e descrive nel momento ipotetico.
Se A, allora B; ma B è costruito secondo la decisione contenuta in A.
Il contratto (al pari della ura del negozio giuridico, elaborata dalla dottrina) non presenta alcuna intrinseca caratteristica, né alcuna peculiare energia, che lo isoli nell'ambito della fattispecie. La singolarità non è nel contratto, ma nella norma, che adotta il principio di corrispondenza sopra indicato, e così rinvia al contenuto del fatto per determinare il contenuto degli effetti.
Norme regolari e norme eccezionali
L'art. 14 delle << disposizioni sulla legge generale >> ( << Le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in essi considerati >> ) pone la distinzione tra la categoria delle norme regolari, suscettibili di applicazione analogica, e la categoria delle norme eccezionali, che invece ne sono escluse.
Questa distinzione non riposa su un elemento strutturale della norma giuridica, ma sul rapporto che intercede tra una norma e le altre norme del sistema.
Il compito di definire le norme eccezionali si risolve nel decidere a che cosa esse segnino eccezione. L'art. 14 cit. indica l'oggetto dell'eccezione nelle << regole generali >> e nelle << altre leggi >>: cioè, nei principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato (cfr. art. 12, 2° comma, disp. sulla legge in gen.), e nelle leggi che disciplinano organicamente date materie.
Le << regole generali >> dell'art. 14 cit. consistono in un nucleo di principi, ossia di scelte ideologiche che dettano al legislatore le soluzioni dei singoli conflitti di interessi, e tengono insieme le norme come parti di un sistema. È vecchia disputa se tali principi siano ricavati dall'insieme delle norme mediante successive generalizzazioni; o se invece le norme derivino da essi per graduale specificazione.
La conclusione va temperata con un duplice rilievo:
a) che i principi sono storicamente relativi, e mutevoli anche in un breve giro di anni. Basta modificare al disciplina di un singolo istituto (si pensi al matrimonio od al contratto di lavoro) perché un principio generale sia sostituito da un altro;
b) che la norma è eccezionale, e in suscettibile di applicazione analogica, non già per intrinseco carattere, ma in base all'art. 14 cit. Anche la norma eccezionale rinvia ad un criterio o principio ispiratore che potrebbe dettare la soluzione di casi simili; ma l'art. 14 impedisce tale applicazione, e quindi - escluso il passaggio intermedio dell'analogia legis - impone di risalire ai principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato (art. 12, 2° comma, cit.). Proprio questo spiega come il principio della norma eccezionale possa espandersi nel sistema, e improntare di sé la disciplina di uno o di più istituti: come, cioè, l'eccezione possa elevarsi a regola, e la regola degradare ad eccezione.
Accanto alle << regole generali >> l'art. 14 cit. menziona le << altre leggi >>, in cui vedremo la disciplina organica di date materie. Si tratta di norme, e non di principi; ma di norme, che disciplinano un settore pur limitato ed esiguo, della vita sociale. Esse non sono in grado di esprimere un principio generale dell'ordinamento; tuttavia costituiscono un corpo omogeneo ed unitario, rispetto al quale sono concepibili deviazioni ed eccezioni.
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