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Una delle funzioni essenziali dell'ordinamento giuridico è quella di risolvere conflitti di interessi intersoggettivi. Gli interessi sono aspirazioni dei soggetti verso i beni ritenuti idonei a soddisfare bisogni.
"Situazione giuridica soggettiva" è la concreta situazione di cui è titolare un soggetto dall'ordinamento con riferimento al bene che costituisce oggetto dell'interesse.
Le situazioni sono svariate: diritto soggettivo, interesse legittimo, potere, obbligo e dovere.
Ogni soggetto del diritto costituisce sul piano dell'ordinamento giuridico un centro di riferimento di una serie di situazioni e rapporti giuridici.
I "modi di essere giuridicamente definiti di una persona, di una cosa, di un rapporto giuridico, di cui l'ordinamento giuridico faccia altrettanti presupposti per l'applicabilità di disposizioni generali o particolari alla persona, alla cosa, al rapporto" si definiscono qualità giuridiche. Si pensi alla qualità di coniugato con prole, presupposto per l'applicazione della disciplina in tema di assegni di famiglia.
Le situazioni giuridiche sono i concreti modi di essere giuridici di un soggetto in ordine a interessi protetti dall'ordinamento. La totalità delle stesse e i rapporti imputabili ai soggetti ne definiscono la soggettività e formano la sua sfera giuridica, la quale è riconducibile ad unità proprio attraverso il riferimento al suo titolare.
Gli status sono le qualità attinenti alla persona che globalmente derivano dalla sua appartenenza necessaria o volontaria ad un gruppo e rappresentano il presupposto per l'applicazione al soggetto di una serie di norme.
La riferibilità effettiva di situazioni giuridiche ad un soggetto presuppone la idoneità di questo ad esserne titolare. Tale idoneità è la capacità giuridica riconosciuta dall'ordinamento ai propri soggetti; soltanto in presenza di essa vengono dunque conferite dall'ordinamento stesso le situazioni giuridiche.
L'amministrazione ha una capacità giuridica in ordine ai poteri di diritto comune meno estesa di quella delle persone fisiche, non comprendendo ad esempio la idoneità ad essere titolari di situazioni strettamente collegate alla natura propria dell'individuo. Inoltre, numerose disposizioni di legge escludono la possibilità per alcuni enti di compiere talune attività di diritto comune, ovvero di contrattare con soggetti diversi da quelli espressamente indicati dalla legge.
L'ente pubblico ha la capacità giuridica e quindi può impiegare gli strumenti del diritto privato salva diversa disposizione di legge.
Dalla capacità giuridica si distingue la capacità d'agire, che consiste nella idoneità a gestire le vicende delle situazioni giuridiche di cui il soggetto è titolare e che si acquista con il compimento del diciottesimo anno di età, salvo che la legge non stabilisca un'età diversa (art. 2 Cod. Civ.).
Si discute se la capacità d'agire possa essere riferita direttamente all'ente, ovvero sia esclusiva della persona fisica preposta all'organo che fa agire l'ente.
In linea di principio, capacità giuridica e capacità d'agire non sorgono contemporaneamente in quanto, per le persone fisiche, la capacità di d'agire si acquista con il raggiungimento della maggiore età, e, comunque, possono non sussistere contestualmente in capo allo stesso soggetto.
Nel diritto amministrativo, tuttavia, con riferimento alle persone fisiche la capacità di agire è di norma strettamente connessa con la capacità giuridica, nel senso che si dispone della seconda in quanto si abbia l'idoneità a gestire le vicende delle situazioni giuridiche, escludendosi la possibilità che le situazioni siano esercitate da soggetti diversi dai titolari (un esempio è quello del diritto di elettorato attivo, che spetta solo ai maggiorenni che possono esercitarlo).
La capacità di agire, differisce poi dalla legittimazione ad agire, la quale si riferisce invece a situazioni specifiche e concrete (attive o passive), effettivamente sussistenti, ed ai singoli rapporti: ad esempio, il soggetto ha la capacità di agire in relazione al potere di intervento nei procedimenti amministrativi ai sensi della legge 241/90, ma ha la legittimazione ad agire soltanto se in concreto sia pendente un procedimento che coinvolga i suoi interessi.
Al fine di fornire la definizione delle situazioni giuridiche è necessario distinguere tra le situazioni che sussistono nell'ambito di concreti rapporti giuridici e le altre che collocano all'esterno di essi.
Il potere, potenzialità astratta di tenere un certo comportamento ed espressione della capacità del soggetto, è perciò da esso inseparabile: da qui l'impossibilità di un trasferimento del potere da un titolare ad un altro.
In quanto preesistente rispetto all'esercizio, il potere è collocato al di fuori dell'orbita di un rapporto concreto e consente di produrre modificazioni (vicende giuridiche) delle situazioni racchiuse in quel rapporto. Tra i poteri rientrano, ad esempio, il potere di disposizione di un bene e quello di agire in giudizio.
Il comportamento produttivo di effetti giuridici si concretizza mediante atti giuridici, i più importanti dei quali sono i provvedimenti, che rappresentano i caratteri di tipicità dei relativi poteri.
Nel diritto amministrativo una particolare rilevanza hanno i poteri che il soggetto pubblico è in grado di esercitare prescindendo dalla volontà del privato e, dunque, producendo unilateralmente una vicenda giuridica relativa alla sfera giuridica dello stesso.
Le vicende giuridiche sono normalmente rappresentate dalla costituzione, estinzione o modificazione di situazioni giuridiche.
Quando la legge attribuisce al titolare la possibilità di realizzare il proprio interesse indipendentemente dalla soddisfazione dell'interesse pubblico curato dall'amministrazione si profila la situazione giuridica di vantaggio costituita dal diritto soggettivo.
Il diritto soggettivo è tutelato in via assoluta, in quanto è garantita al suo titolare la soddisfazione piena e non mediata dell'interesse, "bene della vita" finale, protetto dalla norma.
Il diritto soggettivo può essere definito come la situazione giuridica di immunità dal potere; essa spetta al soggetto cui sia accordata dall'ordinamento protezione piena ed incondizionata di interessi da parte di una norma dell'ordinamento stesso. L'interesse risulta così sottratto alla disponibilità di qualunque soggetto diverso dal titolare, nel senso che la sua soddisfazione non dipende dell'esercizio di un potere altrui.
Potere e diritto sono termini inconciliabili: ove sussista potere non esiste diritto soggettivo e ove il privato sia titolare di un diritto non può affermarsi l'esistenza di un potere amministrativo.
Gli interessi considerati prevalenti si qualificano pubblici perché affidati dalla legge alla cura di soggetti pubblici e costituiscono la ragione dell'attribuzione del potere. Poiché l'esercizio del potere amministrativo comporta una incisione della sfera dei privati, esso deve essere tipico e cioè predeterminato dalla legge in ossequio al principio di legalità che esprime la garanzia delle situazioni dei privati stessi.
La legge, fonte dell'ordinamento generale, deve individuare tutti gli elementi del potere (in particolare il soggetto al quale esso è attribuito, l'oggetto, il contenuto, la forma con cui dovrà essere esercitato e l'interesse da perseguire).
Le norme che, attribuendo poteri, riconoscono interessi pubblici "vincenti" su quelli privati, sono norme di relazione, caratterizzate cioè dal fatto di risolvere conflitti intersoggettivi di interessi.
Il dovere è un vincolo giuridico a tenere un dato comportamento positivo (fare) o negativo (non fare): si noti che anche l'amministrazione è soggetta ai doveri propri di tutti i soggetti dell'ordinamento. In particolare essa deve osservare il dovere di buona fede e correttezza, nonché quello di rispettare i diritti altrui, presupposto dall'art. 2043 c.c.
La necessità di tenere un comportamento correlata al diritto altrui si versa nella situazione di obbligo, che è appunto il vincolo del comportamento del soggetto in vista di uno specifico interesse di chi è il titolare della situazione di vantaggio (si pensi al diritto di credito, connesso all'obbligazione del debitore).
L'amministrazione può essere soggetta ad obblighi, ad esempio nel caso di un rapporto contrattuale, o in caso di commissione di illecito, o in forza di una legge o di un atto amministrativo.
L'ordinamento generale riconosce prevalenza agli interessi che possono entrare in conflitto tra di loro attribuendo di volta in volta diritti (se prevale l'interesse del soggetto privato), ovvero poteri amministrativi (quando prevalga l'interesse pubblico), i quali ultimi consentono di produrre vicende giuridiche in ordine a situazioni dei terzi.
Nei confronti dell'esercizio del potere, il privato si trova in uno stato di soggezione.
Accanto alla disciplina che attribuisce il potere, vi è quella che regolamenta l'esercizio in concreto dello stesso (norme di azione). Il momento dell'esercizio non è infatti lasciato all'arbitrio dell'amministrazione, ma è retto da una serie di disposizioni spesso molto puntuali.
Il potere deve essere esercitato in vista dell'interesse pubblico coerentemente al principio di funzionalizzazione che informa tutta l'attività amministrativa.
La pretesa alla legittimità dell'azione amministrativa è l'interesse legittimo.
L'interesse legittimo può essere definito come la situazione soggettiva di vantaggio costituita dalla protezione giuridica di interessi finali che si attua non direttamente ed autonomamente, ma attraverso la protezione indissolubile ed immediata di un altro interesse del soggetto, meramente strumentale, alla legittimità dell'atto amministrativo e soltanto nei limiti della realizzazione di tale interesse strumentale.
L'interesse legittimo è menzionato dalla Costituzione in 3 norme: l'art. 24, ove è accostato al diritto soggettivo, garantendone la tutela giurisdizionale; l'art. 103, nell'ambito del quale è contemplato come oggetto principale dalla giurisdizione amministrativa; l'art. 113 Cost., ove si precisa che la sua tutela è sempre ammessa contro gli atti della pubblica amministrazione.
Tra i poteri riconosciuti al titolare dell'interesse legittimo si possono ricordare, in primo luogo, i tradizionali poteri di reazione: il loro esercizio si concretizza nei ricorsi amministrativi e nei ricorsi giurisdizionali, volti ad ottenere l'annullamento dell'atto amministrativo.
Accanto a quelli ora descritti possiamo poi aggiungere i poteri di partecipare al procedimento amministrativo: i documenti e le osservazioni che rappresentano il punto di vista del cittadino devono essere presi in considerazione dall'amministrazione procedente. Il titolare può così stimolare l'azione amministrativa, instaurando un dialogo che si conclude con l'emanazione del provvedimento.
Tra i poteri che sono collegati alla titolarità di un interesse legittimo vi è infine quello di accedere ai documenti della pubblica amministrazione: l'art. 22 L.241/90 ammette, infatti, siffatta possibilità per i portatori di interessi giuridicamente rilevanti, nozione questa che ricomprende sicuramente l'interesse legittimo.
Peculiare categoria è quella degli interessi procedimentali, che avrebbero la caratteristica di attenere a "fatti procedimentali". Questi hanno un campo d'azione assai più ampio di quello dell'interesse legittimo. L'interesse legittimo, in ogni caso, sorge quando la soddisfazione del suo interesse dipende dall'esercizio di un potere (e non quando un soggetto venga in qualche modo implicato dall'esercizio di un potere).
L'interesse procedimentale risulta spesso sfornito di tutela effettiva, non potendosi ricorrere al giudice per la sua violazione, a differenza di quanto invece accade nell'ipotesi di titolarità di interesse legittimo.
L'interesse legittimo è un interesse differenziato rispetto ad altri interessi e qualificato da una norma.
Il problema della differenziazione e qualificazione degli interessi emerge con riferimento agli interessi diffusi e agli interessi collettivi (c.d. interessi superindividuali).
Gli interessi diffusi si caratterizzano sotto un duplice profilo: dal punto di vista soggettivo appartengono ad una pluralità di soggetti; dal punto di vista oggettivo attengono a beni non suscettibili di fruizione differenziata. Il carattere peculiare di essi è costituito dalla non frazionabilità del loro oggetto.
Gli interessi collettivi sono gli interessi che fanno capo ad un gruppo organizzato, aventi il carattere della personalità e della differenziazione, il quale è necessario per qualificarli come legittimi e per aprire la via alla tutela davanti al giudice amministrativo.
Il problema della legittimazione ad agire è comunque superato per quanto attiene alle associazioni in materia ambientale e di tutela del consumatore: le prime, individuate dal ministero dell'ambiente, possono impugnare atti amministrativi; le seconde sono legittimate ad agire a tutela degli interessi collettivi solo se iscritte in un apposito elenco delle associazioni dei consumatori e degli utenti rappresentative a livello nazionale, istituito presso il ministero dell'industria, del commercio e dell'artigianato.
L'art.9 della legge 241/90 consente ai "portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati" di intervenire nel procedimento amministrativo.
Il principio di relatività delle situazioni giuridiche soggettive: lo stesso rapporto di un soggetto con un bene può presentarsi "a seconda dei casi e dei momenti e perfino a seconda del genere di protezione che il soggetto faccia valere . ora come un diritto soggettivo, ora come un interesse protetto solo in modo riflesso". Di conseguenza - facendo riferimento alla situazione del proprietario di un bene che sia soggetto all'esercizio del potere di espropriazione - il diritto di proprietà si conura come diritto in quanto (e fino al punto in cui) non venga in considerazione un potere dell'amministrazione di disporre dell'interesse del privato.
Non si può parlare di degradazione o affievolimento del diritto, fenomeno che, secondo un orientamento largamente seguito in dottrina e in giurisprudenza, si riferirebbe alla vicenda di un diritto il quale, venendo a congere con un potere, si trasformerebbe in interesse legittimo.
L'interesse legittimo non nasce dalla trasformazione di un diritto, ma è situazione distinta e non omogenea.
Tra diritti "non degradabili", cioè non assoggettabili ad un potere amministrativo, l'interesse del privato risulterebbe sempre vincente.
Non sussistono situazioni intermedie tra diritto soggettivo e interesse legittimo: inconsistente è la ura del diritto affievolito.
Va esclusa dal novero delle situazioni giuridiche la facoltà, che è la possibilità di tenere un certo comportamento materiale: essa costituisce una delle forme di estrinsecazione del diritto e non produce modificazioni giuridiche.
L'aspettativa è la situazione in cui versa un soggetto nelle more del completamento della fattispecie costitutiva di una situazione di vantaggio (diritto, potere). Essa, non essendo tutelata in via assoluta, non è un diritto. In alcuni casi, tuttavia, l'ordinamento protegge la possibilità del soggetto privato - che parla da una situazione di base che diritto non è - di conseguire un diritto (c.d. chance): più in particolare, la legge accorda talora la tutela risarcitoria nelle ipotesi di lesione di questa possibilità ad opera di una pubblica amministrazione.
Le situazioni giuridiche protette dall'ordinamento comunitario consistono essenzialmente in poteri: sono tali, infatti, le libertà che trascendono i limiti di concreti rapporti giuridici, preesistendo alla loro costituzione.
Il principio della libera circolazione delle persone implica l'abolizione delle discriminazioni tra i lavoratori degli Stati membri fondate sulla nazionalità, ma una deroga è ammessa per motivi di ordine pubblico, sicurezza pubblica e sanità pubblica.
Le disposizioni sulla libertà di circolazione non sono applicabili ai sensi dell'art.39 del Trattato agli impieghi presso la pubblica amministrazione (la materia è oggi disciplinata dall'art. 38 D.Lgs 165/2001).
Il Trattato disciplina anche la libertà di stabilimento, la quale comporta l'accesso alle attività non salariate ed al loro esercizio, nonché la costituzione e la gestione di imprese alle medesime condizioni fissate dall'ordinamento del paese di stabilimento per i propri cittadini.
La libera prestazione dei servizi è disciplinata dagli artt. Da 49 a 55 del Trattato. Il servizio è definito come ogni prestazione fornita dietro remunerazione da un cittadino di uno Stato membro stabilito in uno Stato membro a favore di una persona stabilita in uno Stato diverso (ma appartenente all'Unione europea). Anche in questo settore sono previste riserve per motivi di ordine pubblico, sicurezza pubblica e sanità pubblica e l'esclusione delle attività che partecipino, anche in via occasionale, all'esercizio di pubblici poteri.
La libertà di concorrenza è garantita dal controllo sui poteri amministrativi il cui esercizio potrebbe determinare effetti protezionistici, discriminatori e limitativi della concorsualità tra le imprese.
La libertà di concorrenza può infatti essere lesa a seguito della presenza di poteri amministrativi che condizionino oltre una certa misura l'attività delle imprese.
Un'importante deroga è prevista per le "imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico o generale o aventi carattere di monopolio fiscale", le quali sono sottoposte alle norme del trattato e "in particolare alle regole della concorrenza, nei limiti in cui l'applicazione di tali norme non osti all'adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata".
Il problema del rispetto del principio della concorrenza, o più in generale dell'esistenza di effetti distorsivi sul mercato, è particolarmente delicato in tema di servizi pubblici, allorché questi vengano affidati ex lege in regime di concessione ad un soggetto predeterminato, ovvero nei casi in cui il rapporto abbia durata eccessiva, tale comunque da escludere la possibilità per altri imprenditori di "entrare nel mercato", anche in ragione dell'esistenza di una situazione di monopolio.
Interessa il diritto amministrativo anche la libertà di circolazione dei beni, ed in particolare le misure amministrative che comportino indebite restrizioni delle importazioni e delle esportazioni che congono con la disciplina comunitaria.
Il diritto comunitario, nonché quello nazionale, imponendo alcuni obblighi di servizio pubblico ai gestori nelle ipotesi in cui occorra soddisfare determinati criteri di continuità, regolarità e capacità cui il privato non si atterrebbe ove seguisse soltanto il proprio interesse economico, consente di individuare i correlativi diritti dei cittadini alle prestazioni che ne costituiscono oggetto.
L'ordinamento determina direttamente o consente le vicende giuridiche (costituzione, modificazione, estinzione) relative a rapporti giuridici e situazioni giuridiche soggettive secondo modalità differenti.
Il discorso attiene in particolare ai diritti soggettivi: la capacità e i poteri sono infatti strettamente legati alla soggettività e sono acquistati a titolo originario, pur se l'esistenza o esercizio di un potere può essere subordinato al ricorrere di una particolare situazione.
Le vicende possono essere prodotte dall'ordinamento al verificarsi di alcuni fatti o al compimento di alcuni atti che hanno la funzione di semplici presupposti per la produzione dell'effetto; la "causa" di quella vicenda giuridica è però da rintracciarsi direttamente nell'ordinamento.
Questa modalità di dinamica giuridica può essere riassunta richiamando lo schema norma-fatto-effetto, nel senso che la norma disciplina direttamente il fatto e vi collega la produzione di effetti.
La legge si riferisce a tutti i rapporti che abbiano certe caratteristiche e determina l'effetto senza necessità di ulteriori interventi e svolgimenti.
Quando la legge determina la produzione dell'effetto in relazione ad un singolo rapporto, si è in presenza di una legge-provvedimento che non presenta il carattere della generalità (come l'espropriazione di un fondo mediante legge), ma che in ogni caso non richiede ulteriori interventi per la produzione dell'effetto.
La seconda modalità di dinamica giuridica è denominata schema norma-potere-effetto.
L'ordinamento attribuisce, definendo una serie di condizioni, ad un soggetto (pubblico o privato) il potere di produrre vicende giuridiche e riconosce l'efficacia dell'atto da questo posto in essere.
L'effetto non risale immediatamente alla legge, ma vi è l'intermediazione di un soggetto che pone in essere un atto, espressione di una scelta, mediante il quale si regolamenta il fatto e si produce la vicenda giuridica.
L'atto che costituisce espressione di autonomia è il negozio.
Ove il tipo di dinamica sia quello che si incentra sullo schema norma-fatto-effetto, l'amministrazione può essere "coinvolta" sia perché pone in essere un fatto (ad esempio un comportamento illecito) sia perché emana un mero atto al quale l'ordinamento direttamente collega la produzione di effetti.
Esempi di meri atti sono le iscrizioni ad alcuni albi o gli accertamenti dei presupposti al fine dell'attribuzione di indennizzi.
Nei casi in cui la dinamica giuridica sia invece inquadrabile nello schema norma-potere-effetto, l'amministrazione pone in essere atti espressione di autonomia che producono effetti giuridici a seguito dell'esercizio di un potere conferito in via generale ed astratto dalla legge.
Questo significa che l'ordinamento rimette alla scelta del soggetto pubblico la produzione e la regolamentazione dell'effetto. In quei casi, infatti, viene attribuito un potere che è appunto la possibilità di produrre effetti riconosciuti dall'ordinamento, mediante provvedimenti amministrativi.
Può trattarsi della costituzione di diritti (concessioni) o di obblighi (ordini), della modificazione di preesistenti situazioni soggettive (ad esempio le autorizzazioni), ovvero della estinzione di situazioni giuridiche (espropriazione). L'esercizio di alcuni poteri amministrativi produce invece effetti preclusivi.
In ordine alla dinamica norma-potere-effetto, deve essere osservato che la Corte costituzionale, con sentenza 13/1962, ha riconosciuto il principio del giusto procedimento, il quale richiede che per la realizzazione dell'effetto sia previamente attribuito all'amministrazione un potere il cui esercizio produce la vicenda giuridica.
La legge definisce i principali poteri amministrativi, sottolineando che i loro elementi sono trasfusi nei provvedimenti finali che ne costituiscono l'esercizio.
I principali poteri amministrativi sono costituiti da: poteri autorizzatori, poteri concessori, poteri ablatori, poteri sanzionatori, poteri di ordinanza, poteri di programmazione e di pianificazione, poteri di imposizione di vincoli e poteri di controllo.
Il potere autorizzatorio ha l'effetto di rimuovere i limiti posti dalla legge all'esercizio di una preesistente situazione di vantaggio; sotto il profilo funzionale, il suo svolgimento comporta la previa verifica della compatibilità di tale esercizio con un interesse pubblico. L'uso del potere produce l'effetto giuridico di modificare una situazione soggettiva preesistente, consentendone l'esplicazione (se potere) o l'esercizio (se diritto) in una direzione in precedenza preclusa, ma non di costituire nuovi diritti.
Un importante esempio di provvedimento permissivo è rappresentato dal permesso di costruire: tale permesso è necessario al fine di realizzare interventi di trasformazione del territorio ed è rilasciato a condizione che siano rispettati gli strumenti di pianificazione urbanistica.
L'autorizzazione spesso instaura una relazione tra soggetto pubblico e soggetto privato caratterizzata dalla presenza di poteri di controllo e di vigilanza in capo all'amministrazione, preordinati alla verifica del rispetto delle condizioni e dei limiti imposti all'esercizio dell'attività consentita mediante atto autorizzatorio.
L'ordinamento prevede oggi un esempio di autorizzazione plurima per di una serie di atti di consenso: ove il procedimento dello sportello unico delle attività produttive si concluda con provvedimento espresso costituente titolo unico per la realizzazione dell'intervento, esso "riassume" i vari atti di assenso richiesti dalla legge.
Nell'ordinamento è pure presente l'autorizzazione integrata ambientale (v. D.Lgs 372/1999 che prevede misure atte a evitare o ridurre le emissioni nell'aria, nell'acqua e nel suolo derivanti da alcune attività) la quale sostituisce a tutti gli effetti ogni visto, parere o autorizzazione in materia ambientale.
Dal ceppo comune dell'autorizzazione, la dottrina e la giurisprudenza hanno poi enunciato alcune ure specifiche: abilitazione, nullaosta, dispensa, approvazione, licenza.
Le abilitazioni sono atti il cui rilascio è subordinato all'accertamento dell'idoneità tecnica di soggetti a svolgere una certa attività (ad esempio l'iscrizione ad un albo previa il superamento di un esame). Le abilitazioni sono da ricondurre allo schema norma-fatto-effetto senza però riconoscere un potere provvedimentale.
L'omologazione è rilasciata dall'autorità a seguito dell'accertamento della sussistenza di una cosa, di norma destinata ad essere prodotta in serie, di tutte le caratteristiche fissate dall'ordinamento a fini di tutela preventiva (prodotti pericolosi) o per esigenze di uniformità dei modelli.
Il nullaosta è un atto endoprocedimentale necessario emanato da un'amministrazione diversa da quella procedente, con cui si dichiara che, in relazione ad un particolare interesse, non sussistono ostacoli all'adozione del provvedimento finale. Il diniego del nullaosta costituisce fatto impeditivo della conclusione del procedimento.
La dispensa è il provvedimento con cui l'ordinamento, pur vietando o imponendo in generale un certo comportamento, prevede però che l'amministrazione possa consentire in alcuni casi una deroga all'osservanza del relativo divieto o obbligo. Allorché la deroga ad un divieto generale avvenga in base allo schema norma-fatto-effetto si parla di esenzione.
L'approvazione è il provvedimento permissivo, avente ad oggetto non un comportamento, bensì un atto rilasciato, a seguito di una valutazione di opportunità e convenienza dell'atto stesso.
L'approvazione opera dunque come condizione di efficacia dell'atto ed è ad esso successiva.
Nell'ambito dei procedimenti di controllo è talora impiegata la ura dell'approvazione condizionata, che in realtà significa annullamento con indicazione dei correttivi necessari per conseguire l'approvazione.
La licenza (attualmente in corso di sostituzione con l'autorizzazione) era definita come il provvedimento che permette lo svolgimento di un'attività previa valutazione della sua corrispondenza ad interessi pubblici ovvero della sua convenienza in settori non rientranti nella signoria dell'amministrazione ma sui quali essa soprintende a fini di coordinamento (ad esempio la licenza commerciale, oggi sostituita con l'autorizzazione). La "licenza individuale" è da ultimo disciplinata dal d.P.R. 318/1997 in tema di telecomunicazioni ed è oggi definita come l'autorizzazione con cui vengono conferiti diritti od obblighi specifici ad un'impresa.
La legge 241/90 utilizza la nozione di "atti di consenso" per indicare tali atti nel loro complesso, prevedendo che gli stessi possano essere sostituiti dai meccanismi della denuncia di inizio attività (art. 19), ovvero risultino assoggettati alla disciplina del silenzio assenso (art.20).
La tendenza alla sostituzione degli atti di consenso con il meccanismo del silenzio assenso o della denuncia di inizio attività è comunque evidente nella legislazione recente, il cui obiettivo è anche quello di "alleggerire" il condizionamento pubblicistico relativo alle iniziative dei privati.
Uno dei principi e criteri direttivi fissati dalla legge 229/2003 è "l'eliminazione degli interventi amministrativi autorizzatori e delle misure condizionamento della libertà contrattuale, ove non vi contrastino gli interessi pubblici alla difesa nazionale, all'ordine e alla sicurezza pubblica, all'amministrazione della giustizia, alla regolazione dei mercati e alla tutela della concorrenza, alla salvaguardia del patrimonio culturale e dell'ambiente, all'ordinato assetto del territorio, alla tutela dell'igiene e della salute pubblica".
L'esercizio dei poteri concessori, a fronte dei quali il destinatario si presenta come titolare di interessi legittimi pretesivi, produce l'effetto di attribuire al destinatario medesimo status e situazioni giuridiche (diritti) che esulavano dalla sua sfera giuridica in quanto precedentemente egli non ne era titolare.
Esistono molteplici esempi di concessioni: la concessione di uso di beni, la concessione di esercizio di servizi pubblici, la concessione della cittadinanza, la concessione del sistema di riscossione, la concessione di costruzione e gestione di opere pubbliche.
In ordine alle concessioni di beni e di servizi pubblici, accanto al provvedimento con il quale si esercita il potere concessorio amministrativo, si può individuare una conone bilaterale di diritto privato (detta concessione-contratto) finalizzata a dar assetto ai rapporti patrimoniali tra concessionario e concedente. I due atti sono strettamente legati, nel senso che l'annullamento della concessione travolge il contratto, e quindi la permanenza del rapporto contrattuale è condizionata dalla vigenza del provvedimento concessorio.
La concessione è detta traslativa quando il diritto preesiste in capo all'amministrazione (si pensi alla concessione di servizi pubblici) sicché esso è "trasmesso" al privato, mentre è costitutiva nei casi in cui il diritto attribuito è totalmente nuovo, nel senso che l'amministrazione non poteva averne la titolarità (sarebbe tale la concessione di cittadinanza o di onorificenze).
Non è trasmissibile (o suscettibile di essere costituito mediante atto) il potere, quindi non è corretto affermare che l'amministrazione trasferisce un potere al privato: il soggetto pubblico può soltanto consentirne l'esercizio al concessionario.
Per quanto riguarda la concessione di opere pubbliche la legislazione, sulla scorta dell'influenza comunitaria, mira ad equipararle all'appalto, o almeno a limitare la discrezionalità di cui gode l'amministrazione chiamata a rilasciarle, al fine di evitare che l'amministrazione possa svincolarsi dalle regole poste a tutela della concorrenza. Non a caso la legislazione definisce tali concessioni come "contratti".
In passato era prevista la concessione di servizi pubblici che ricorreva quando l'ordinamento intendeva garantire alla collettività alcune prestazioni ed attività e consentiva all'amministrazione di affidarne lo svolgimento a soggetti privati mediante un provvedimento concessorio. Attualmente questo tipo di concessione è stato eliminato in relazione ai servizi pubblici locali a carattere industriale.
Nei provvedimenti concessori rientrano le sovvenzioni, che attribuiscono al destinatario vantaggi economici. La categoria è disciplinata dall'art.12 della legge 241/90, che si riferisce a "sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari", nonché, appunto, all'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati.
In generale, le sovvenzioni riguardano lo svolgimento di attività imprenditoriali, i contributi attengono ad attività colturali o sportive, mentre i sussidi sono attribuzioni rientranti nella beneficenza generale. Il vantaggio può essere diretto (erogazione di somme) o indiretto (sgravi da alcuni oneri) e non sussiste l'obbligo in capo al beneficiario di are alcun corrispettivo.
L'art.12 L.241/90 prevede che, nelle forme prescritte dai rispettivi ordinamenti, vengano predeterminati e pubblicati "criteri e modalità cui le amministrazioni devono attenersi" il cui rispetto dovrà emergere dalla motivazione del provvedimento.
I poteri ablatori incidono negativamente sulla sfera giuridica del destinatario. Essi hanno segno opposto rispetto a quelli concessori, nel senso che impongono obblighi, ovvero sottraggono situazioni favorevoli in precedenza pertinenti al privato, attribuendole di norma, ma non necessariamente, all'amministrazione (ablatori reali).
Il destinatario si presenta come titolare di interessi legittimi oppositivi.
L'effetto ablatorio può incidere su diritti reali, diritti personali o su obblighi a rilevanza patrimoniale.
Tra i provvedimenti ablatori reali vengono in evidenza le espropriazioni, le occupazioni, le requisizioni, le confische e i sequestri.
L'espropriazione è il provvedimento che ha l'effetto di costituire un diritto di proprietà o altro diritto reale in capo ad un soggetto (detto espropriante: non necessariamente si tratta dell'amministrazione che emana il provvedimento), previa estinzione del diritto in capo ad altro soggetto (espropriato) al fine di consentire la realizzazione di un'opera pubblica o per altri motivi di pubblico interesse e dietro versamento di indennizzo ai sensi dell'art. 42 comma 3 Cost. La disciplina dell'espropriazione per pubblica utilità è contenuta nel testo unico di cui al d.P.R. 327/2001 e succ. mod.
Secondo la Corte Costituzionale l'indennizzo non deve necessariamente corrispondere al valore di mercato del bene, ma deve costituire un "serio ristoro".
La legge prevede anche la possibilità di procedere all'occupazione temporanea di alcuni beni. In passato l'ipotesi più rilevante era costituita dall'occupazione d'urgenza e riguardava il possesso delle cose destinate all'espropriazione, purché fosse ato un indennizzo e l'opera da realizzare a seguito dell'espropriazione fosse dichiarata indifferibile e urgente. Nel caso in cui l'immobile venisse irreversibilmente trasformato, anche se l'amministrazione non riusciva a concludere nei termini il procedimento espropriativi si produceva comunque l'acquisto della proprietà di esso a favore dell'amministrazione, che però era tenuta a risarcire il danno, ed al privato era preclusa la possibilità di ottenere la restituzione del bene.
Attualmente il T.U. citato disciplina l'istituto dell' "occupazione anticipata" che conferma tale indirizzo.
Può inoltre verificarsi l'ipotesi di occupazione usurpativa, caratterizzata dalla realizzazione dell'opera in mancanza di dichiarazione di pubblica utilità (l'art.43 T.U. sulle espropriazioni per pubblica utilità prevede che l'autorità che utilizza senza titolo un bene per scopi di interesse pubblico "modificato in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può disporre che esso vada acquisito al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario vadano risarciti i danni").
L'art. 49 T.U. disciplina poi l'occupazione temporanea, che può essere disposta quando ciò sia "necessario per la corretta esecuzione dei lavori", prevedendo la relativa indennità.
Le requisizioni sono provvedimenti mediante i quali l'amministrazione dispone della proprietà o, comunque, utilizza un bene di un privato per soddisfare un interesse pubblico.
L'ordinamento conosce alcuni esempi di requisizioni in proprietà che riguardano soltanto le cose mobili e possono essere disposte, generalmente per esigenze militari, dietro la corresponsione di un'indennità. La requisizione in proprietà ha effetti irreversibili.
La requisizione in uso è un provvedimento che ha come presupposto l'urgente necessità: essa riguarda sia mobili sia immobili e comporta la possibilità di poter utilizzare il bene (che rimane in proprietà del titolare) per il tempo necessario e ando un'indennità.
I caratteri dell'urgenza, della temporaneità e dell'indennità valgono a differenziare la requisizione in uso sia dall'espropriazione sia dalle ordinanze di necessità e urgenza, che non aprono la via all'indennizzo.
Ai sensi dell'art.7 della Legge 2248/1865, "allorché per grave necessità pubblica l'autorità amministrativa debba senza indugio disporre della proprietà privata . , essa procederà con decreto motivato, senza però pregiudizio di diritti delle parti": tale norma è in generale ritenuta come disposizione applicabile ogni qualvolta altra prescrizione conferisca all'amministrazione il potere di disporre della proprietà del privato, imponendo di agire appunto mediante decreto motivato.
La confisca è un provvedimento ablatorio a carattere non già espropriativi, bensì sanzionatorio ed è la misura conseguente alla commissione di un illecito amministrativo: si pensi alla confisca di un immobile realizzato abusivamente.
Il sequestro è il provvedimento ablatorio di natura cautelare: esso mira in genere a salvaguardare la collettività dai rischi derivanti dalla pericolosità del bene.
Alcuni provvedimenti ablatori incidono non solo sui diritti reali, ma sulla complessa sfera giuridica del privato, privandolo di un diritto o di una facoltà.
Gli ordini hanno in particolare l'effetto di imporre un comportamento al destinatario. Essi si distinguono in comandi (ordini di fare: ad esempio l'ordine di demolire il manufatto abusivo) e divieti (ordini di non fare: ad esempio il divieto di circolazione stradale), nonché in generali e particolari (se rivolti a tutti o a persone in particolare).
Alcuni ordini si inseriscono in una relazione interorganica, dunque sono rivolti ai dipendenti, non ai privati.
Dagli ordini si distinguono le direttive, che rispetto agli ordini presentano una minore vincolatività.
La diffida consiste nel formale avvertimento ad osservare un obbligo che trova il proprio fondamento in altro provvedimento o nella legge.
Esistono poi poteri ablatori caratterizzati dal fatto che impongono obblighi a rilevanza patrimoniale che hanno come effetto la costituzione autoritativa di rapporti obbligatori: si pensi ai provvedimenti sui prezzi e a tutti i casi di prestazioni imposte.
Per sanzione si intende la conseguenza sfavorevole di un illecito applicata coattivamente dallo Stato o da altro ente pubblico, cioè la misura retributiva (inflazione di un male ritenuto maggiore rispetto al beneficio che dalla violazione possa derivare) nei confronti del trasgressore.
Per illecito si intende la violazione di un precetto compiuta da un soggetto.
La sanzione ha carattere eminentemente afflittivo ed è la conseguenza di un comportamento antigiuridico di un soggetto, di cui è diretta e immediata conseguenza.
Non è sanzione la misura, di carattere preventivo e cautelare, che non presuppone l'accertamento della violazione della legge, a meno che non sia fondata sull'accertato pericolo della violazione stessa da parte del soggetto. Non è sanzione la dichiarazione di nullità o la rimozione dell'atto invalido, perché la reazione dell'ordinamento opera qui soltanto nei confronti dell'atto, mentre il soggetto rimane estraneo alla diretta considerazione normativa. Non è sanzione la reintegrazione, in qualsiasi forma, dello stato di cose antecedente alla trasgressione, da cui esula qualsiasi finalità afflittiva.
Nella vigente legislazione non è definito il concetto di sanzione amministrativa.
Le sanzioni amministrative non hanno un contenuto loro peculiare, ma si possono individuare soltanto in modo residuale, quali misure afflittive non consistenti in sanzioni penali o in sanzioni civili.
La sanzione amministrativa può definirsi come la misura afflittiva non consistente in una pena criminale o in una sanzione civile, irrogata nell'esercizio di potestà amministrative come conseguenza di un comportamento assunto da un soggetto in violazione di una norma o di un provvedimento amministrativo.
I principi generali della sanzione amministrativa vanno ricercati nella legislazione ordinaria, costituita dalla Legge 689/1981, nella quale sono contenuti principi di tipo garantistico modellati su quelli penalistici.
Essi operano sul piano delle fonti (principio di legalità), sul piano della successione delle leggi nel tempo (principio di irretroattività), sul piano della interpretazione (principio del divieto di analogia).
La sanzione amministrativa è il risultato dell'esercizio di un potere amministrativo.
La tassatività delle sanzioni è espressamente affermata dall'art.1 della Legge 689/1981. La recente Legge Cost.3/2001 di riforma del titolo V della parte II della Costituzione non elenca le sanzioni tra le materie riservate allo Stato o alla potestà legislativa concorrente.
La cosiddette sanzioni ripristinatorie colpiscono la res e mirano a reintegrare l'interesse pubblico leso, mentre le sanzioni afflittive - le sole sanzioni in senso proprio - si rivolgono direttamente all'autore dell'illecito.
Queste ultime si distinguono ulteriormente in sanzioni pecuniarie e sanzioni interdittive (che incidono sull'attività del soggetto colpito).
Posizione a parte occupano le sanzioni disciplinari che si riferiscono ai soggetti che si trovano in un peculiare rapporto con l'amministrazione.
Con riferimento alle sanzioni disciplinari cui sono assoggettabili i dipendenti delle pubbliche amministrazioni, va ricordato che il D.Lgs 165/2001 prevede una regolamentazione specifica in tema di responsabilità disciplinare, stabilendo che ai dipendenti presso le pubbliche amministrazioni si applicano l'art. 2106 c.c. e l'art.7 commi 1,5 e 8 della Legge 300/70 e devolvendo al giudice ordinario tutte le controversie attinenti il rapporto di lavoro, comprese quelle in materia di sanzioni disciplinari. L'art. 55 D.Lgs 165/2001 prevede che le tipologie delle infrazioni e delle relative sanzioni siano definite dai contratti collettivi.
La legge contempla anche un gruppo di sanzioni amministrativa: le sanzioni accessorie: come l'art. 20 L.689/81 che prevede alcune misure interdittive consistenti nella privazione o nella sospensione di facoltà o diritti derivanti da provvedimenti della pubblica amministrazione.
La violazione del precetto dà luogo all'illecito amministrativo, per il quale la legge n.689/81 prevede una riserva di legge.
Per quanto attiene l'elemento psicologico, ai fini della sussistenza dell'illecito di richiede il dolo o la colpa (la giurisprudenza, introducendo una sorta di inversione dell'onere della prova, afferma che spetta al trasgressore la dimostrazione dell'assenza della colpa).
Infine, l'ordinamento ha previsto alcune ipotesi di sanzioni pecuniarie inflitte a persone giuridiche, riconosciute quindi direttamente responsabili.
Il potere di ordinanza, esercitabile nelle situazioni di necessità e urgenza, è caratterizzato dal fatto che la legge non predetermina in modo compiuto il contenuto della statuizione in cui il potere può concretarsi, e consente all'amministrazione stessa di esercitare un potere tipico in presenza di situazioni diverse da quelle previste in via ordinaria o seguendo procedimenti differenti.
Il potere di ordinanza, il cui esercizio dà luogo alla emanazione delle ordinanze di necessità ed urgenza, non rispetta il principio della tipicità dei poteri amministrativi che, in applicazione del principio di legalità, impone la previa individuazione degli elementi essenziali dei poteri a garanzia dei destinatari degli stessi. D'altronde le ordinanze di necessità ed urgenza sono previste proprio per far fronte a situazioni che non possono essere risolte rispettando il normale ordine delle competenze e i normali poteri.
Tra gli esempi più rilevanti ricordiamo le ordinanze contingibili e urgenti del sindaco (art.54 T.U. enti locali), le ordinanze dell'autorità di pubblica sicurezza e le ordinanze che possono essere adottate nelle situazioni di emergenze sanitarie o di igiene pubblica.
Le ordinanze vanno distinte dai provvedimenti d'urgenza, atti tipici e nominati suscettibili di essere emanati sul presupposto dell'urgenza, ma che, tuttavia, sono di contenuto predeterminato dal legislatore.
Vanno infine ricordati i poteri di pianificazione e i poteri di programmazione.
La programmazione (che comprende anche la pianificazione) indica il complesso di atti mediante i quali l'amministrazione previa valutazione di una situazione nella sua globalità, individua le misura coordinate per intervenire in un dato settore.
Al fine di conservare alcuni beni immobili che presentano peculiari caratteristiche ambientali, urbanistiche e così via, la legge attribuisce all'amministrazione il potere di sottoporre gli stessi a vincolo amministrativo.
L'amministrazione, in occasione dell'esercizio del potere, pone in essere atti strumentali ad altri poteri (pareri, proposte, atti di controllo, accertamenti, detti anche atti dichiarativi).
L'efficacia dichiarativa incide su di una situazione giuridica preesistente rafforzandola, specificandone il contenuto o affievolendola impedendo così la realizzazione della situazione in una certa direzione.
Taluni atti dichiarativi hanno invece la funzione di attribuire certezza legale ad un dato (fatto, atto, stato, qualità o rapporto). Questi atti, detti di certazione, producono certezze che valgono erga omnes. Essi sono tipici e nominati ed è da ritenere che siano espressione di un potere certificativo.
Le conoscenze acquisite dall'amministrazione sono spesso conservate e ordinate in appositi registri, albi, liste, elenchi, casellari e così via.
Anche altri atti di accertamento, rendendo possibile la conoscenza del fatto registrato, hanno un effetto di certezza: essa è però detta "notiziale", in quanto è superabile con la prova contraria.
La certezza poi può essere "messa in circolazione" mediante certificati, i quali sono atti con cui appunto si riproduce una certezza.
Il certificato è quindi il documento "tipico" (ossia previsto espressamente dalla legge) "rilasciato da un'amministrazione avente funzione di ricognizione, riproduzione e partecipazione a terzi di stati, qualità personali e fatti contenuti in albi, elenchi o registri pubblici o comunque accertati da soggetti titolari di funzioni pubbliche" (art. 1 d.P.R. 445/2000 testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, modificato dal d.P.R. 137/2003).
Detto t.u. parla anche di certificazioni, le quali, in senso proprio, sono le dichiarazioni di scienza esternate mediante certificato: tra certificazione e certificato c'è dunque lo stesso rapporto che corre tra contenuto e contenente.
La registrazione non è un certificato, perché in essa è prevalente la funzione di acquisire conoscenze rispetto a quella di esternare, propria del certificato.
Il certificato ha normalmente i caratteri dell'atto pubblico, essendo rilasciato da un pubblico ufficiale autorizzato a darvi pubblica fede, e fa piena prova, fino a querela di falso, tanto in sede amministrativa quanto in sede giurisdizionale, di ciò che in esso è dichiarato e della provenienza.
Dalle certazioni e dai certificati occorre distinguere gli attestati (esempio gli attestati di benemerenza), che sono atti amministrativi sempre tipici, ma insuscettibili di creare la medesima certezza legale creata dalle certazioni e che, a differenza dei certificati, non mettono in circolazione una certezza creata da un atto di certazione.
Ancora differenti sono le attestazioni atipiche (attestati di frequenza a corsi, attività di svolgimento di studio e ricerca, ecc . ) che sul piano dell'ordinamento generale creano, al più, una presunzione, e gli atti di notorietà, che sono atti formati, su richiesta di un soggetto, da un pubblico ufficiale (es. notaio, sindaco), in base alle dichiarazioni simultanee rese in sua presenza e sotto giuramento da alcuni testimoni (non meno di due: art. 30 L.241/90): da questi atti risulta che la notizia di determinati fatti è diventata di pubblico dominio.
Allo scopo di alleggerire il carico di lavoro dei pubblici uffici e contestualmente consentire ai privati di poter provare all'amministrazione determinati fatti, stati e qualità a prescindere dall'esibizione dei relativi certificati è nato l'istituto giuridico della dichiarazione sostitutiva, che è un atto del privato capace di sostituire una certificazione pubblica, e rispetto alla quale è alternativa.
Le dichiarazioni sostitutive si distinguono dai certificati in quanto: non provengono da un ente pubblico; sono destinate a confluire soltanto in un singolo rapporto tra cittadino e amministrazione (i certificati, invece, valgono in generale e a tutti gli effetti, anche nei rapporti tra cittadini); le dichiarazioni sostitutive hanno la stessa validità temporale degli atti che sostituiscono; non consistono in una trascrizione del contenuto di un pubblico registro.
La mancata accettazione della dichiarazione sostitutiva costituisce violazione dei doveri d'ufficio (art. 74 t.u.). La legge attribuisce alla pubblica amministrazione il compito di controllare la veridicità delle dichiarazioni sostitutive, il quale avviene mediante raffronto tra il contenuto delle stesse e quello degli atti di certazione.
La dichiarazione sostitutiva di certificazione è il documento, sottoscritto dall'interessato (anche non in presenza del funzionario amministrativo addetto) in sostituzione dei certificati (ad esempio data e luogo di nascita, residenza, cittadinanza, stato civile e di famiglia, nascita del lio, posizione reddituale, titolo di studio, qualifica professionale); in luogo della dichiarazione il cittadino può produrre il certificato o la copia autentica ovvero, esibire un documento che li attesti.
Il t.u. prevede che il cittadino possa rendere al funzionario competente dichiarazioni sostitutive dell'atto di notorietà, ossia atti con cui il privato comprova, nel proprio interesse e a titolo definitivo, tutti gli stati, fatti e qualità personali non compresi in pubblici registri, albi ed elenchi (quindi non suscettibili di attestazione con dichiarazione sostitutiva di certificazione), nonché stati, fatti e qualità personali relativi ad altri soggetti di cui egli abbia diretta conoscenza.
I certificati rilasciati dalle amministrazioni attestanti stati e fatti personali non soggetti a modificazione hanno validità illimitata; le restanti certificazioni hanno validità di sei mesi dalla data del rilascio. Gli stati, i fatti e le qualità personali contenuti in documenti di identità o di riconoscimento non più in corso di validità possono essere comprovati mediante esibizione e dichiarazione che i dati non hanno subito variazioni (art. 45 d.p.r. 445/2000).
L'art. 49 t.u. non consente che i certificati medici, sanitari, veterinari, di origine, di conformità CE, di marchi o brevetti siano sostituiti "da altro documento".
L'art. 71 t.u. specifica che il controllo sulle dichiarazioni sostitutive (di certificazione e di atto di notorietà) debba avvenire, anche a campione, e in tutti i casi in cui "sorgano fondati dubbi" sulla loro veridicità. Esso è effettuato secondo due modalità: consultando direttamente gli archivi dell'amministrazione certificante, ovvero richiedendo alla medesima conferma scritta della corrispondenza di quanto dichiarato con le risultanze dei registri.
Le dichiarazioni sostitutive possono essere anche utilizzate nei rapporti tra privati che vi consentano (art. 2 d.p.r. 445/2000): in tal caso l'amministrazione competente per il rilascio della relativa certificazione, previa definizione di appositi accordi, è tenuta a fornire, su richiesta del privato corredata dal consenso del dichiarante, conferma scritta della corrispondenza di quanto dichiarato con le risultanze dei dati custoditi.
Gli atti amministrativi sono detti generali, in quanto sono in grado di produrre effetti nei confronti di una generalità di soggetti, titolari di quei rapporti con medesime caratteristiche.
Si pensi ai bandi di concorso, alla chiamata alle armi, ecc . Tali atti sono ricollegabili allo schema norma-potere-effetto: la legge non produce direttamente l'effetto in quanto attribuisce il relativo potere all'amministrazione.
La riconduzione di un atto nella categoria degli atti amministrativi generale riveste una certa importanza giacché essi (assieme agli atti normativi, a quelli di pianificazione e di programmazione) sono sottratti alla disciplina della partecipazione procedimentale e del diritto di accesso; inoltre, gli atti amministrativi generali, come quelli normativi, non necessitano di motivazione.
Una particolare categoria di atti amministrativi generali è costituita dalle autorizzazioni generali, conosciute dalla normativa sulla liberalizzazione dei servizi, dal D.Lgs 196/2003 in materia di autorizzazione rilasciate dal Garante per la protezione dei dati personali per intere categorie di titolari o di trattamenti e dalla disciplina ambientale.
Il decorso del tempo produce la nascita o la modificazione di una serie di diritti ed è alla base degli istituti della prescrizione e della decadenza.
Il potere, in quanto attributo della soggettività non è trasmissibile, e non è neppure prescrittibile a seguito del decorso del tempo.
Il diritto soggettivo è invece soggetto a prescrizione, ove non esercitato per un certo periodo di tempo. Si pensi al diritto di percepire lo stipendio, che si prescrive in cinque anni.
Il tempo, unitamente all'esercizio di un diritto, è alla base dell'istituto dell'usucapione dei diritti reali, ma per quanto attiene il diritto amministrativo occorre ricordare che non è ammesso l'acquisto per usucapione di diritti su beni demaniali.
Tra gli atti che producono vicende estintive di diritti si annovera la rinuncia, negozio avente effetto abdicativi cui può seguire un effetto traslativo (accrescimento della sfera altrui) o estintivo.
Il potere, intrasmissibile e imprescrittibile, non può essere oggetto di un atto di rinunzia.
Sono invece normalmente rinunciabili i diritti soggettivi (come il diritto all'indennizzo in caso di espropriazione); e non sono rinunziabili le situazioni che ineriscono a interessi diversi da quelli del loro titolare(ad esempio è irrinunciabile l'ufficio di tutore) ed i diritti di libertà.
In tema di crediti dei dipendenti aventi causa nel rapporto di lavoro, si ricordi che l'amministrazione non può rinunciare alla prescrizione ed alla relativa eccezione.
Non è possibile rinunciare nemmeno agli interessi legittimi perché seguono il potere e il suo esercizio.
Allorché sia attribuito un potere, l'ordinamento sceglie di rimettere alla successiva scelta autonoma dell'amministrazione la produzione di vicende giuridiche in ordine a situazioni soggettive dei privati. L'amministrazione deve in concreto agire in vista del perseguimento dell'interesse che costituisce la ragione dell'attribuzione del potere (selezione del miglior candidato per un concorso, pubblica utilità nel caso di espropriazione, ecc . ).
Spesso l'amministrazione fissa in anticipo alcuni criteri cui si atterrà nell'esercizio concreto del potere, ma soventemente le modalità di azione sono individuate in via generale e astratta mediante norme giuridiche.
Le norme che disciplinano l'azione amministrativa non hanno i caratteri delle norme di relazione, le norme cioè che risolvono conflitti intersoggettivi sul piano dell'ordinamento generale. Le norme che caratterizzano l'azione amministrativa disciplinano le modalità attraverso le quali il potere deve essere esercitato, e tali norme sono definite norme di azione, proprio perché hanno ad oggetto l'azione dell'amministrazione e non l'individuazione di assetti intersoggettivi.
La discrezionalità amministrativa è lo spazio di scelta che residua allorché la normativa di azione non predetermini in modo completo tutti i comportamenti dell'amministrazione.
Questo tipo di discrezionalità, c.d. "pura", va distinta dalla discrezionalità tecnica, che è la possibilità di scelta che spetta alla amministrazione allorché sia chiamata a qualificare fatti suscettibili di varia valutazione, e si riduce ad un'attività di giudizio a contenuto specifico.
Molto spesso, infatti, tra i presupposti fissati dalla legge per l'esercizio del potere amministrativo vi sono fatti che non possono essere giudicati semplicemente come esistenti o inesistenti e che non sono suscettibili di un mero accertamento che non lasci spazio a valutazioni.
La scelta discrezionale c.d. "pura" può attenere a vari profili dell'azione amministrativa, quali il contenuto del provvedimento, la stessa decisione relativa al "se" ed al "quando" rilasciarlo.
La discrezionalità non è esercitata in osservanza di norme predefinite, e si riassumono nel principio di logicità-congruità: ciò significa che la scelta deve risultare logica e congrua tenendo conto dell'interesse pubblico perseguito, degli interessi secondari coinvolti e della misura del sacrificio ad essi arrecato.
L'essenza della discrezionalità risiede nella "ponderazione" ativa dei vari interessi secondari in ordine all'interesse pubblico al fine di assumere la determinazione concreta.
L'insieme delle soluzioni ipotizzabili come compatibili con il principio di congruità in un caso determinato definisce il merito amministrativo , normalmente sottratto al sindacato del giudice amministrativo ed attribuito alla scelta esclusiva dell'amministrazione, la quale, tra la pluralità di scelte così individuate, preferirà quella ritenuta più opportuna.
Le fonti giuridiche sono i fatti e gli atti produttivi di norme giuridiche. La materia costituisce oggetto del diritto costituzionale.
Molte fonti pongono norme di diritto amministrativo o sono atti soggettivamente amministrativi, nel senso che sono posti in essere da autorità amministrative.
L'atto amministrativo emanato in assenza di potere è nullo ed è sindacabile dal giudice ordinario (ad esempio un provvedimento di esproprio emanato da un'amministrazione non competente).
Il giudice ordinario ha giurisdizione nei casi in cui l'amministrazione abbia agito in carenza di potere ponendo in essere un atto nullo, cioè non produttivo di effetti.
L'interesse legittimo è anche la pretesa all'osservanza delle norme di azione.
Sotto il profilo processuale la tutela dell'interesse legittimo è affidata al giudice amministrativo.
L'azione amministrativa che non rispetti le norme di azione è sicuramente illegittima: tuttavia, ove siano rispettate le norme di relazione che attribuiscono il potere, l'atto finale non è nullo. Gli effetti così prodotti sono tuttavia precari.
L'atto è cioè emanato in una situazione in cui il potere sussiste, ma è stato esercitato in modo non corretto, pertanto la giurisdizione del giudice amministrativo si individua in base al canone del cattivo esercizio del potere amministrativo. Il giudice che accerti la violazione di norme di azione dovrà eliminare sia l'atto, sia i suoi effetti, emanando una decisione di annullamento. Il regime dell'atto posto in essere in violazione di norme di azione è dunque l'annullabilità.
L'atto può essere annullato anche in via di autotutela dalla stessa amministrazione che ha emanato l'atto.
L'atto illegittimo può essere disapplicato dal giudice ordinario, annullato dall'amministrazione in sede di decisione di ricorso amministrativo, ovvero in sede di controllo.
I trattati comunitari e le fonti di provenienza comunitaria disciplinano oggi ambiti rilevanti del diritto amministrativo e, di conseguenza, agiscono come strumenti di armonizzazione del diritto amministrativo dei vari paesi membri.
Tra tali fonti spiccano i regolamenti comunitari, atti di portata generale, obbligatori e direttamente applicabili nei rapporti c.d. "verticali" tra pubblici poteri e cittadini, e le direttive comunitarie, vincolanti per lo Stato membro in ordine al risultato da raggiungere, lasciando allo stesso la scelta dei modi e dei mezzi per raggiungerlo.
Secondo la Corte costituzionale il regolamento comunitario deve essere applicato dal giudice interno anche disapplicando la legge nazionale incompatibile.
Il potere-dovere di disapplicazione riguarda anche il giudice amministrativo, il quale è chiamato sempre più spesso ad esercitarlo.
Si è così individuata la categoria delle direttive immediatamente applicabili dalle nostre amministrazioni (con efficacia solo verticale).
Le altre direttive, invece, sono vincolanti soltanto a seguito del loro recepimento e conseguente attuazione nel nostro ordinamento.
Il dovere di disapplicare la normativa italiana confliggente con quella comunitaria è stato riconosciuto altresì in capo alla pubblica amministrazione.
Le fonti che sono atti soggettivamente amministrativi sono i regolamenti. Essi sono emanati da organi amministrativi (dello Stato, della regione e degli altri enti pubblici) titolari del potere normativo, consistente nella possibilità di emanare norme generali ed astratte.
L'attività normativa dell'amministrazione è soggetta non solo al principio di preferenza della legge, ma anche a quello di legalità, il quale, secondo l'accezione di conformità formale, impone che ogni manifestazione di attività normativa trovi il proprio fondamento in una legge generale, che indichi l'organo competente e le materie in ordine alle quali esso può esercitarla.
La categoria degli atti amministrativi generali non è facilmente differenziabile da quella degli atti normativi.
Gli atti normativi sono sottoposti ad un particolare iter procedimentale ovvero, per quanto riguarda i regolamenti emanati dal Presidente della Repubblica, essi sono caratterizzati da una peculiare formula che essi debbono recare.
L'art. 87 comma 5 Cost. riconosce espressamente il potere regolamentare del governo, attribuendo al Capo dello Stato il potere di emanare regolamenti, sicché il richiamo di detta disposizione, nel preambolo di un atto emanato dal Presidente della Repubblica, è indice sicuro del carattere normativo dell'atto stesso.
Qualora ricorra lo schema norma-potere-effetto, atti amministrativi generali e atti normativi presentano le seguenti differenze:
solo gli atti normativi sono astratti;
solo gli atti normativi sono espressione di un potere diverso da quello amministrativo, nel senso che, ponendo norme di azione, essi non costituiscono esercizio di azione dell'amministrazione, ma ne disciplinano il futuro svolgimento.
Vi sono atti, poi, che hanno natura mista, come ad esempio i piani regolatori generali.
I regolamenti si distinguono in regolamenti governativi, ministeriali e degli enti pubblici, in base al soggetto e all'organo da cui provengono.
La disciplina dei regolamenti governativi è fissata dalla legge 400/1988.
Per la loro emanazione la legge richiede la deliberazione del Consiglio dei ministri, sentito il parere del Consiglio di Stato, Emanati con decreto del Presidente della Repubblica e sottoposti al visto e alla registrazione della Corte dei conti, essi sono pubblicati nella Gazzetta ufficiale e debbono essere espressamente denominati "regolamenti".
L'art. 17 della Legge 400/1988 prevede diversi tipi di regolamenti governativi.
I regolamenti esecutivi rappresentano le fonti governative mediante le quali sono poste norme di dettaglio rispetto alla legge o al decreto legislativo da eseguire.
I regolamenti attuativi e integrativi rispetto alle leggi che pongono norme di principio, possono essere adottati al di fuori delle materie riservate alla competenza regionale.
I regolamenti indipendenti sono emanati per disciplinare le materie in cui ancora manchi la disciplina da parte di leggi o atti aventi forza di legge.
Vi sono poi i regolamenti che disciplinano l'organizzazione ed il funzionamento delle amministrazioni pubbliche secondo le disposizioni dettate dalla legge.
L'art. 17 comma 2 Legge 400/1988 disciplina i regolamenti di delegificazione (con il termine delegificazione si intende l'attribuzione al potere regolamentare del compito di disciplinare materie anche in deroga alla disciplina posta dalla legge) o "autorizzati", i quali possono essere adottati solo a seguito di una specifica previsione di legge. La norma dispone che "con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, sentito il Consiglio di Stato, sono emanati i regolamenti per la disciplina delle materie, non coperte da riserva assoluta di legge prevista dalla Costituzione, per le quali le leggi della Repubblica, autorizzando l'esercizio della potestà regolamentare del governo, determinano le norme generali regolativi della materia e dispongono l'abrogazione delle norme vigenti. Con effetto dall'entrata in vigore delle norme regolamentari".
Un massiccio impiego dei regolamenti di delegificazione è previsto per l'attuazione di direttive comunitarie ed ai fini di semplificazione dei procedimenti amministrativi.
I regolamenti di delegificazione e quelli di organizzazione rappresentano oggi atti di importanza essenziale nel quadro delle fonti.
La legge contempla poi i regolamenti ministeriali, nonché regolamenti interministeriali, adottati con decreti interministeriali in quanto attinenti a materie di competenza di più ministri.
I regolamenti ministeriali debbono autoqualificarsi come tali e non possono dettare norme contrarie ai regolamenti governativi. Essi debbono trovare il fondamento in una legge che espressamente conferisca il relativo potere al ministro ed essere attinenti alle "materie di competenza del ministro". Essi vanno comunicati al Presidente del Consiglio dei Ministri prima della loro emanazione, sono sottoposti al parere obbligatorio del Consiglio di Stato, al visto della Corte dei conti e alla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.
L'autonomia normativa è riconosciuta non solo a Stato e a regioni, ma anche ad altri enti pubblici. Essa di estrinseca mediante l'emanazione di statuti e regolamenti.
L'autonomia statutaria e regolamentare degli enti locali è stata espressamente riconosciuta dalla legge 142/90 e succ.mod. (ora t.u. enti locali) secondo un modello nel quale alla legge spetta dettare le linee fondamentali dell'organizzazione dell'ente.
La Costituzione riconosce una riserva di normazione sancendo che comuni, province e città metropolitane sono enti autonomi con propri statuti.
Il potere normativo, consistente nella potestà statutaria e in quella regolamentare, è esercitato anche dalle unioni di comuni e dalle comunità montane e isolane.
Ai sensi dell'art. 4 della legge 131/2003, lo statuto stabilisce i principi di organizzazione e funzionamento dell'ente, le forme di controllo, anche sostitutivo, nonché le garanzie delle minoranze e le forme di partecipazione popolare.
Secondo quanto dispone attualmente il T.U. enti locali, lo statuto è deliberato dal consiglio con il voto favorevole dei due terzi dei consiglieri assegnati. Qualora la maggioranza non venga raggiunta, "la votazione è ripetuta in successive sedute da tenersi entro 30 giorni e lo statuto è approvato se ottiene per due volte il voto favorevole della maggioranza assoluta dei consiglieri assegnati".
Secondo l'art. 117 Cost, comuni, province e città metropolitane hanno "potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell'organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite".
La legge 131/2003 ribadisce poi che l'organizzazione degli enti locali è disciplinata dei regolamenti nel rispetto delle norme statutarie.
Il t.u. enti locali attualmente in vigore prevede svariate materie che debbono essere disciplinate con regolamento: ricordiamo ad esempio l'accesso ai documenti, l'individuazione dei responsabili del procedimento, l'organizzazione delle circoscrizioni, i poteri, l'organizzazione e le forme di pubblicità dei lavori delle commissioni costituite in seno al consiglio.
Gli artt. 89 e 48 comma 3 T.U. enti locali, hanno disciplinato una rilevante ipotesi di regolamenti, emanati non dal consiglio ma dalla giunta, relativi all'ordinamento degli uffici e dei servizi.
Tali regolamenti debbono rispettare non solo la legge e lo statuto, ma anche i "criteri generali stabiliti dal consiglio".
Non sono invece fonti del diritto le circolari, gli atti che pongono le c.d. norme interne e la prassi.
Un cenno meritano poi i testi unici, i quali raccolgono in un unico corpo le norme che disciplinano una certa materia. Il loro fine è quello di raccogliere in un testo ufficiale le disposizioni vigenti. Questi testi unici "compilatori" (o "spontanei") sono da inquadrare tra le mere fonti di cognizione che non modificano le fonti raccolte.
Hanno invece forza novativa i testi unici emanati da soggetti dotati di competenza normativa.
L'art. 20 legge 59/1997 e succ.mod. prevede, per finalità di semplificazione, l'emanazione ogni anno di una legge per la semplificazione e il ricorso a decreti legislativi e a regolamenti governativi di delegificazione per il riassetto normativo e la codificazione.
La legge riconosce potestà normativa ad alcune autorità indipendenti (come l'autorità garante per le comunicazioni, la Consob, la Banca d'Italia ecc . ); la possibilità che le autorità indipendenti emanino atti normativi, ad esclusione dei regolamenti delegati, è stata ammessa dal Consiglio di Stato.
L'art. 13 Legge 249/1997 prevede che l'autorità garante per le comunicazioni, agendo d'intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano, adotti un regolamento per definire le materie di sua competenza che possono essere delegate ai comitati regionali per le comunicazioni.
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