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TROPPI AVVOCATI - Abolizione dell’albo dei procuratori - LITIGIOSITA RICCHEZZA E COMPETENZA - LA CHIAMATA IN CASSAZIONE PER MERITI INSIGNI

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TROPPI AVVOCATI?


Abolizione dell’albo dei procuratori.

La l. 27/1997 ha soppresso l’albo dei procuratori disponendo l’iscrizione dei procuratori legali nell’albo degli avvocati. Tale riforma era stata auspicata già nel 1919 dall’allora guardasigilli Mortasa e sostenuta dalla dottrina più autorevole rappresentata da Chiovenda. La riforma ha interessato più di 3000 professionisti e secondo una parte dell’avvocatura è stata fuori luogo perché ha peggiorato la situazione dell’avvocatura italiana immettendo nel “mercato del lavoro” avvocati troppo giovani e con poca esperienza processuale.


100.000 avvocati italiani.

Questa è la cifra che risulta oggi dagli albi professionali. Il problema secondo il quale gli avvocati sono troppi in Italia si è presentato già agli inizi del secolo. Nel 1913 gli avvocati erano circa 21.500, ossia uno ogni 1.600 abitanti. Nel 1923 superarono i 25.000. Nel 1966 erano diventati 38.000 e solo 20 anni dopo, nel 1987, fu superato il tetto dei 50.000. dal ’23 all’87 gli avvocati sono raddoppiati.

Negli ultimi 10 anni la popolazione degli avvocati è cresciuta in maniera esponenziale toccando quota 100.000 (ma anche la popolazione è cresciuta).



Riflessioni

circa 50.000 avv. sono giovanissimi (chiara conseguenza della scolarizzazione di massa);

conseguenza di quanto detto sopra molti giovanissimi iscritti all’albo di fatto non esercitano (basti pensare che gli avvocati iscritti alla “cassa” sono circa 60.000)

considerando poi il numero dei procedimenti civili notiamo come per ogni avv. vi siano circa 100 procedimenti ogni anno. Ma questa è pura statistica e vale poco.


Gli avvocati negli ordinamenti stranieri

FRANCIA: ha lo stesso numero di abitanti dell’Italia e ha circa 32.000 avvocati di cui solo 12.000 nel Bareau de Paris, a questi vanno aggiunti gli avvocati d’appello e quelli di cassazione che però fanno storia a sé perché costituiscono una casta chiusa (hanno una disciplina particolare: sostanzialmente ereditaria).


SPAGNA: totalmente diversa è la situazione snola, dove per poter esercitare la professione di avvocato è sufficiente la laurea ciò ha comportato un vero esubero di avvocati: tra Madrid e Barcellona ci sono circa 68.000 avvocati, considerando che questi sono solo una parte degli avvocati snoli e che la popolazione in Sna non supera i 40 milioni di abitanti allora possiamo notare come nella penisola iberica la situazione dell’avvocatura sia peggiore che in Italia.


GERMANIA: 68.000 legali su una popolazione di 81 milioni d’abitanti.


USA: qui dopo la II Guerra Mondiale il numero degli avvocati è cresciuto in maniera spaventosa e nonostante la difficoltà che si riscontrano nel conseguire il titolo di studio presso le Law School (basti pensare che negli usa la laurea in legge prevede un corso di studi difficoltoso e lungo come la laurea in medicina), attualmente gli avvocati superano il milione mentre la popolazione è di 260 milioni di abitanti. In realtà tali numeri non tengono conto della singolarità dell’ordinamento statunitense dove gli avvocati (penalisti) ricoprono, elettivamente, cariche che in Italia sono attribuite alla magistratura (il procuratore distrettuale e tutti coloro che svolgono funzioni di pubblica accusa nei processi penali sono avvocati regolarmente iscritti all’albo).


Conclusioni

Quindi il problema dell’eccessivo numero degli avvocati è fatuo in quanto se lo sono posti, forse anche a ragione, solo gli avvocati. Ci sono Stati in cui il numero di avvocati è alto, ma ciò non influisce sul funzionamento della giustizia. In Italia, il problema è un altro, cioè il basso numero di magistrati. Il vero male della giustizia italiana è la carenza d’organico della magistratura, carenza che non può essere colmata facilmente visto gli alti costi che la macchina giustizia comporta.










LA PROCURA SU FOGLIO AUTONOMO TRA LA CERTIFICAZIONE E GLI SPILLI DEL DIFENSORE.


Una sentenza della cassazione ha sollevato alcune questioni sull’art.83 c.p.c. che solo apparentemente sono formali, ma di fatto nascondono un dilemma ben più grave che riguarda l’obbligo della procura di cui deve essere fornito l’avvocato per patrocinare una causa.

La sentenza in esame ha ad oggetto l’invalidità della procura conferita su foglio autonomo e solo materialmente “spillato” all’atto. Il c.p.c. stabilisce che la procura deve essere scritta in calce all’atto cui si riferisce. Partendo da questo presupposto, è chiaro che la procura su foglio autonomo, ma spillato all’atto, deve essere considerata in calce qualora lo spazio sul foglio su cui è redatto l’atto è insufficiente.  Il problema si pone nell’ipotesi in cui la stessa procura sia stata compilata precedentemente alla compilazione dell’atto e solo successivamente unita all’atto stesso (cosa difficilmente provabile se l’eccezione non viene sollevata dal cliente, ma nella maggior parte dei casi le eccezioni sulla validità della procura sono sollevate dalla controparte o rilevate ex officio). Ciò farebbe presupporre una procura generica (già in possesso dell’avv.) diventata speciale forse anche ad insaputa del cliente, il quale potrebbe trovarsi nella condizione di essere assistito da un falso procuratore. La motivazione data dalla cassazione appare insufficiente, dato che il c.p.c. prevede la possibilità che la procura, in caso lo spazio sul foglio sia terminato, venga rilasciata “a margine”. Anche in tal caso si potrebbe porre il problema di una procura conferita prima ancora della stesura dell’atto (non è difficile che nella realtà ciò accada), ma al riguardo la cassazione non si è mai pronunciata sull’invalidità di tale forma di conferimento. Proprio per questo motivo, la procura su foglio autonomo ma spillato all’atto, è molto più simile alla procura a margine che non a quella in calce e come tale non si comprende perché la cassazione si sia pronunciata sulla sua invalidità. Il problema che sorge è quello secondo il quale l’atto deve contenere sempre la procura per evitare che gli avvocati si occupino di cause senza il consenso degli aventi diritto. L’agire senza mandato è cosa più unica che rara che rende di fatto il problema inesistente. Qualcuno ha eccepito che l’obbligo di procura serve a tutelare la controparte, ma non si capisce in che modo, poiché la procura poco ha a che fare con la controparte. L’unico interessato a eccepire il vizio della procura è il cliente, che però è dotato di appositi strumenti per contrastare il falso procuratore (basti pensare che anche nel caso in cui la procura è stata legittimamente conferita questa può essere liberamente revocata ed attribuita ad altro difensore). Perciò la procura potrebbe benissimo essere conferita oralmente o nelle forme diverse da quelle prescritte e funzionare lo stesso poiché la forma attualmente richiesta non è prevista a pena di nullità, in tal caso la forma scritta sarebbe esclusivamente una cautela in più soprattutto nell’interesse dell’avvocato.

In realtà la cassazione, non si sa se per caso o appositamente, ha evitato di dire come di fatto la procura era stata formulata e, in particolare se facesse o no univoco riferimento al processo cui si riferiva il ricorso cui afferiva. È molto probabile che fosse genericissima, ma sta di fatto che la cassazione, sul punto ha preferito sorvolare lasciandoci nel dubbio: la procura su foglio autonomo e meramente spillato all’atto è a suo avviso nulla solo quando tra i due atti vi è soluzione di continuità ed è generica o anche quando fa univoco o esplicito riferimento al processo cui si riferisce l’atto? Prima o poi la cassazione sarà chiamata nuovamente a esprimersi al riguardo e allora il nodo verrà sciolto o con una sentenza sulla scia di quella precedente ma comunque più chiarificatrice o con un auspicabile cambio di giurisprudenza che attribuisca validità alla procura conferita non solo su foglio spillato, ma anche su foglio totalmente autonomo e non autenticato dal notaio, ma redatto e sottoscritto dal cliente, purché sia chiara l’indicazione del difensore designato perché solo questo la possa utilizzare.





















LITIGIOSITA’ RICCHEZZA E COMPETENZA


Dall’analisi delle cause iniziate dai primi anni del novecento fino alla metà degli anni ’50 si nota una riduzione della litigiosità. Ciò si è potuto notare soprattutto negli anni ’50, cioè nel periodo del boom economico. Ascarelli ritenne che le due cose (diminuzione della litigiosità e boom economico) fossero connesse. Spiegazione che fu confermata dalla ssa della piccola litigiosità. Quanto è più ricco l’individuo tanto meno è disposto a litigare  soprattutto per piccole somme. Tale assunto ha una sua logica, ma non trova riscontro nella pratica. Al di fuori del contesto storico a cui si è riferito Ascarelli non abbiamo oggi alcun riscontro pratico che potrebbe farci solo intuire che vi sia un legame tra aumento della ricchezza e diminuzione delle cause. Oggi siamo senza dubbio più ricchi di cinquanta anni fa ma si è notato tutt’altro che una diminuzione delle cause civili, anzi, dati statistici alla mano, l’eccessiva litigiosità ha comportato un intasamento delle aule giudiziarie senza precedenti. Detto questo l’analisi di Ascarelli può risultare errata, ma rilevante era l’osservazione sulla diminuzione delle cause. Perciò è necessario spiegare il perché di tale diminuzione e perché proprio negli anni ’50.


Innanzi tutti è da fare un appunto sull’errata valutazione compiuta da Ascarelli. Questi paragonò i dati del 1955 con quelli del 1901, dati che non potevano essere paragonati perché non omogenei. L’autore fa riferimento alle cause promosse innanzi al conciliatore, senza tenere conto che a cavallo tra l’800 e il ‘900 dinnanzi al conciliatore si andava prevalentemente non per le cause, bensì per i procedimenti di conciliazione ante causam: anziché stipulare i contratti innanzi ai notai i privati cittadini trovavano comodo, per motivi prevalentemente fiscali, rivolgersi al conciliatore. Quando tale stratagemma fu scoperto, ed eliminato, i procedimenti innanzi al conciliatore si ridussero drasticamente. Quindi per un’analisi più corretta del problema il paragone andava fatto con gli anni successivi alla conclusione di quel fenomeno e cioè gli anni ’30.

Da tale paragone si nota come le cose non stavano affatto come diceva Ascarelli. Paragonando il numero delle cause degli anni ’50 con quelle degli anni ’30 si nota che le prime erano 1/3 delle seconde; se il paragone veniva fatto con gli anni ‘40 si nota che quelle del ‘50 erano i 2/3 di quelle dei ’40. La riduzione c’era, ma non nel rapporto di 5 a 1 calcolata da Ascarelli partendo dal 1901.

Altra cosa che falsificò i dati di Ascarelli è il vecchio sistema processuale civile italiano che prevedeva che la medesima causa fosse iscritta a ruolo con un nuovo numero ogni volta che veniva riassunta, cosicché gran parte delle cause degli anni precedenti i ’50 erano di fatto dei doppioni. La cassazione in base a ciò stabilì che il numero delle cause relative agli anni trenta andava di fatto decurtato per lo meno di 1/4.

Non venne nemmeno considerato lo spostamento delle cause nei tribunali e nelle preture, spostamento determinato dal mutato valore d’acquisto della lira non corrisposto dal mutamento di competenza per valore degli organi giudiziari. Cosicché risultava chiaro che la piccola litigiosità  era tutt’altro che diminuita, bensì era diventata di competenza dei tribunali e delle preture. Quindi nel 2° dopoguerra non sve la piccola litigiosità ma svero le cause d’innanzi al conciliatore per una dimenticanza (?) del legislatore. Da qui l’errore di valutazione di Ascarelli che riteneva il numero delle piccole cause come indice di povertà.

























IL PATROCINIO DEI NON ABBIENTI IN ITALIA


L’art. 24 c.3 della Cost. sancisce il diritto dei non abbienti a vedersi concessi i mezzi necessari per difendersi innanzi a ogni giurisdizione. Fino a venticinque anni fa il legislatore aveva creduto di dare attuazione al dettato costituzionale con un unico istituto: il gratuito patrocinio. Nel ’73 nacque l’istituto del patrocinio a spese dello Stato, prima valido solo per le cause di lavoro, di previdenza e per quelle assistenziali, poi esteso dall’83 ai procedimenti di adozione e affidamento dei minori e dal ’90 esteso anche al processo penale e a quello civile per il risarcimento del danno derivante da reato.

La mancata estensione del nuovo istituto al processo civile fa supporre che si debba ritenere ancora sussistente il vecchio istituto del gratuito patrocinio anche se scarsamente applicato e soprattutto considerato da più parti obsoleto e inadeguato. Oggi, a seguito del fallimento del nuovo istituto nell’ambito del processo del lavoro ci si chiede se non vi debba essere una rivalutazione del gratuito patrocino che tanto stava a cuore all’illustre Mortara.


Innanzi tutto dobbiamo soffermarci sul concetto di non abbiente. Secondo la cassazione non abbienza significa difficoltà nel sostenere le spese del giudizio.

Tale tesi per parte della dottrina è risultata riduttiva in quanto l’abbienza va valutata non in relazione ad un bisogno specifico, ma ad un’insufficienza generale dei mezzi per poter vivere decorosamente.

Secondo Pizzorusso non abbienti sono tutti coloro che non anno mezzi di fortuna al di fuori del reddito di lavoro.

Tale impostazione del problema è errata perché, se pure costituisce di fatto un tentativo di demarcazione tra abbienti e non abbienti di fatto no risolve il problema. Un pensionato che possiede una casa e una pensione di 300 € al mese, pur essendo dotato di mezzi di fortuna al di fuori del reddito da lavoro (o della pensione) in realtà è senza dubbio molto meno abbiente di un magistrato che non possiede casa; un contrabbandiere è ufficialmente nullatenente ma di fatto può possedere miliardi.

Altra tesi, questa volta più rilevante, ritiene che la non abbienza è frutto di un rapporto tra capacità economica di un soggetto e il costo necessario per poter usufruire del servizio legale.

Detto ciò notiamo il carattere relativo del concetto di non abbienza che dipende dalle possibilità economiche e dal costo del giudizio, constatazione che di fatto da ragione alla cassazione. Il problema è che si rischia così di considerare non abbienti anche persone ricchissime.


Altro fattore da considerare è il costo del processo. Nel processo civile bisogna distinguere le spese per gli atti processuali da quelle per ricompensare il difensore.

Le prime sono tenui se raffrontate a quelle di altri paesi ed è facilmente calcolabile. Le cause di lavoro e quelle di divorzio non comportano alcuna spesa.

Per gli onorari del difensore si pone il problema: salvo alcuni casi le parti devono essere assistite in giudizio da un avv. che essendo un libero professionista richiede un onorario lungi dall’essere fisso. Seppure è prevista una variazione degli onorari da un minimo a un massimo, il minimo è inderogabile, mentre il massimo può essere abbondantemente sorpassato. ½ è poi la regola che stabilisce che nel corso del procedimento ciascuna parte sostenga la propria parte di spese  fino alla sentenza. Infatti il soccombente è poi tenuto a rimborsare le spese e gli onorari al vincitore. Ciò avviene nel caso in cui il giudice non ritenga di dover compensare le spese tra le parti. Vi è poi la distrazione che si ha nel caso in cui il difensore abbia sostenuto le spese in vece della parte in tal caso questo può chiedere al giudice che nella sentenza la condanna della controparte alle spese sia fatta in suo favore.


Il problema si pone più nel processo penale che in quello civile poiché è raro che un non abbiente si trovi ad essere parte di una causa  e se pure ciò accade può benissimo non costituirsi in giudizio e non difendersi visto che non ha nulla da perdere. Il problema si potrebbe porre se il potenziale attore fosse un povero ma essendo tale avrebbe pochi diritti patrimoniali da far valere in giudizio, se poi si considera che le cause in cui potrebbe avere interesse sono soprattutto quelle previdenziali, assistenziali e di lavoro e se si considera che tali cause sono prevalentemente gratuite allora notiamo come il problema nel civile è quasi irrilevante.

Il problema è concreto nel penale per vari motivi:

quanto si è più poveri più si rischia di trovarsi sul banco degli imputati;

il difensore dell’imputato non ha alcuna speranza di vedersi retribuita la propria opera dalla controparte;

in terzo luogo nel processo penale la difesa tecnica è obbligatoria, e non sono ammesse deroghe a tale norma.

Di qui la necessità di garantire di fatto un accurato sistema di difesa dei non abbienti.


Il gratuito patrocinio era considerato dalla legge un ufficio onorifico e obbligatorio della classe degli avv.

La parte che vuole essere ammessa la gratuito patrocinio deve farne domanda con ricorso in carta da bollo ad un’apposita commissione o come accadeva in sede penale al capo della magistratura innanzi ala quale si svolgeva il processo.

Le commissioni di gratuito patrocinio sono istituite presso i tribunali le corti d’appello e la corte di cassazione. Esse sono composte da un giudice, un pm e un avvocato.

In civile le condizioni, che devono essere accuratamente dimostrate ad opera dell’istante, per essere ammessi al gratuito patrocinio sono:

lo stato di povertà

la probabilità dell’esito favorevole della causa.

Non è ammesso però che entrambe le parti siano ammesse al gratuito patrocinio. Dell’istanza ne viene data comunicazione alla controparte che può ire innanzi alla commissione per contestare la presunta povertà dell’istante.in qualunque stato e grado del procedimento il gratuito patrocinio può essere revocato qualora venga ritenuto insussistente lo stato di povertà.

Lo stato di povertà veniva valutato perciò caso per caso e se ciò da un lato consentiva di evitare che venisse concesso a finti non abbienti, dall’altro non consentiva ancora di individuare una categoria di non abbienti tale da poter ridurre al minimo la discrezionalità delle valutazioni delle commissioni. Un non abbiente per una commissione poteva essere considerato abbiente per un’altra.


Il problema è stato risolto in penale con la legge 217/90 che ha istituito il procedimento a spese dello stato; per il civile si è dovuto aspettare altri 11 anni. È infatti del 2001 la legge 134 che ha esteso l’applicabilità del patrocinio a spese dello stato anche al processo civile fissando il limite per accedervi a 18 milioni annui di reddito. Gli interessati possono ricorrere anche ad un difensore di fiducia e a propri consulenti tecnici e investigatori privati sempre spesati dallo stato. A norma dell’art. 23 della legge 314/2001 il RD 3282/1923 è abrogato a partire dal 1° luglio 2002.




LA CHIAMATA IN CASSAZIONE PER MERITI INSIGNI


L’art. 106 c.3 Cost. Stabilisce che possano entrare a far parte in cassazione in veste di consigliere e su designazione del CSM anche laici quali prof. universitari in materie giuridiche e avv. che abbiano almeno 15 aa. di esercizio della professione alle spalle.

Seppure tale norma ha origine antiche, addirittura pre-unitarie, non ha mai trovato applicazione al punto che gran parte della dottrina la ritiene una norma fantasma.


Nella legislazione pre-unitaria, l’inserimento di laici nei ranghi della magistratura aveva lo scopo di sottoporre questa ad un controllo dell’esecutivo, i membri laici della magistratura era la longa manus dell’esecutivo in quanto da questi nominati. La legislazione sarda prevedeva che la magistratura fosse comunque sotto il controllo dell’esecutivo (non esistendo l’organo di autogoverno), pur tuttavia prevedeva che gli uffici dell’alta magistratura fossero comunque rivestiti da magistrati togati. La legge Rattizzi consentiva al guardasigilli di colmare i vuoti della magistratura con i membri laici.

L’ingresso dei laici si ebbe in maggior misura subito dopo l’unificazione e fu necessitato dal dover sostituire gran parte della magistratura del sud ancora legata ai Borboni con nuovi magistrati. Si arrivò al punto che il governo italiano assunse un neolaureato in legge ogni 4. Tra questi neo assunti vi erano sia giovani laureati che stimati professori universitari o famosi avvocati.

Fatta l’Italia il terremoto giudiziario fu arrestato e con l’introduzione del nuovo ordinamento giudiziario si impostò la nuova disciplina per il reclutamento dei magistrati. La nuova disciplina, pur prevedendo il concorso, lasciò immutato il potere dell’esecutivo in relazione alle promozioni nonché quello in relazione alla nomina di membri laici. Di tale potere però si fece un uso limitato, basti pensare che tra il 1866 e il 1890 furono nominati come membri laici solo 40 avv. e 4 prof..

Di tutti questi solo i 4 prof. vennero nominati nei massimi ranghi di consiglieri di cass. se poi si pensa che la cassazione all’epoca non era unica allora possiamo dire che le nomine dell’esecutivo furono veramente esigue.

Con la riforma Zanardelli le cose mutarono ulteriormente, poiché elevando il grado al quale i laici potevano essere ammessi in magistratura la nomina si rese praticamente impossibile per gli avvocati e di scarsissima applicazione per i prof. universitari. Dopo la riforma Zanardelli i laici chiamati in magistratura furono 2, uno più autorevole dell’altro ed entrambi nominati per meriti così insigni da essere considerati quasi irripetibili. Questi furono Luigi Lucchini già artefice del cod. pen. Zanardelli e l’altro fu Ludovico Mortara che in realtà pregò il suo amico, allora guardasigilli Cocco-Ortu , di consentirgli il passaggio perché stanco della vita accademica. (meriti insigni? Sembra piuttosto una chiara espressione di nepotismo, caratteristica propria dei governanti italiani.). Dopo il 1902 non vi sono più state nomine di magistrati senza concorso.


Nell’Italia repubblicana, la nomina dell’esecutivo sopravvisse e fu sancita dalla cost. ma non con la funzione di colmare i vuoti della magistratura e per altre esigenze giudiziarie, sembra piuttosto che la nomina dei laici costituisca un premio per meriti insigni.

La norma costituzionale ebbe successo per due motivi:

il potere di nomina era sottratto all’esecutivo e attribuito alla stessa magistratura (in particolare al CSM);

la nomina dei laici, costituendo un premio per meriti insigni riguardava la carica più alta della magistratura e cioè il grado di consigliere di cassazione.

La discussione in sede costituente si pose sulla necessità della sussistenza per meriti insigni. Una parte della commissione ritenne che si poteva prescindere dai meriti insigni, altri ritennero che non vi era alcun motivo o necessità che i laici entrassero in magistratura, mentre su insistenza dell’on. Leone, che assicurò che le nomine dei laici sarebbero state eccezionalissime la norma passò. Ma il carattere di eccezionalità della nomina doveva essere giustificato da qualcosa e questo qualcosa erano “i meriti insigni”.

Ci si chiede che necessità vi fosse nel recupero di questo istituto che era ormai un relitto storico. Per evitare di esporre il governo a critiche feroci la scelta dovrebbe ricadere su persone autorevolissime, che in quanto tali sicuramente non avrebbero alcun interesse alla nomina. E la concessione del potere di nomina al CSM non avrebbe mutato le cose in quanto tale organo è composto prevalentemente da magistrati e i quali sicuramente non vedevano e non vedono di buon occhio i membri laici in magistratura.

Perciò l’art. 106 c.3 rimase solo sulla carta.

Col passare degli anni si avvertì la necessità di dare attuazione al dettato cost., necessità avvertita soprattutto dall’ordine forense ma anche dallo stesso CSM accusato di voler escludere i laici dalla magistratura per garantire la carriera dei magistrati togati. Il CSM tra gli anni ’80 e i ’90 si pose più volte il problema chiedendo l’intervento del legislatore al fine di stabilire un criterio univoco di nomina dei laici a consiglieri di cassazione. La questione si ripresentò con la richiesta fatta al CSM di un’avvocatessa genovese che chiese di essere ammessa in magistratura in esecuzione del dettato cost. ex art.106 c.3 cost.

Il CSM rigettò la richiesta adducendo, come motivazione, che non vi può essere auto-candidatura alla nomina (anche se non vi è una norma che lo esclude), ma soprattutto che è necessario addurre i meriti insigni richiesti dal dettato cost..

Sicuramente la richiesta dell’avvocatessa non era diretta all’assunzione in magistratura, ma perlopiù a smuovere le acque che in seno al CSM erano diventate più che stagnanti nonostante i buoni propositi. Il CSM si appellò nuovamente al parlamento per addivenire a una soluzione legislativa del problema. Tra il ’91 e il ’96 furono presentati 3 disegni di legge in materia:

uno fu presentato dal guardasigilli Martelli nel 1991;

il 2° fu presentato dal guardasigilli Biondi nel 1995;

il 3° fu presentato dal guardasigilli Flick nel 1996.

I 3 d.d.l. avevano posto alcune regole:

che i laici chiamati in cass. non potevano essere di numero superiore a 1/10 dei posti previsti;

che la designazione ricada su soggetti che possano apportare alla giurisdizione un contributo di elevata qualificazione professionale;

che il magistrato nominato ex art. 106 debba essere esclusivamente destinato alle funzioni giudicanti e che possa essere valutato per la nomina alle funzioni superiori dopo 8 anni dalla nomina.


Vediamo ora perché l’art. 106 non ha trovato attuazione:

l’incompatibilità tra l’istituto e il principio del concorso e della carriera;

il fatto che i costituenti non avvertirono già al tempo di Mortara che il passaggio in magistratura non era propriamente conveniente per un prof.; considerando che con l’avvento della Cost. il cursus honorum dei prof. di diritto è il più ambito posto nella Consulta;

altro limite all’applicazione sono “i meriti insigni”, che per gli avvocati rappresentano una condizione impossibile;

un limite costituì l’attribuzione del potere di nomina al CSM che essendo composto per 2/3 da magistrati non avrebbe avuto interesse a nominare laici.

Perciò l’istituto non ha funzionato per vari motivi: perché i prof. non hanno interesse alla nomina, perché gli avvocati non hanno meriti insigni e perché i laici non sono visti di buon occhio dal CSM.

La situazione allo stato attuale offre questa alternativa per uscire da tale impasse:

o si la norma viene abrogata

o si ridisciplina ex novo la materia disciplinando sia la chiamata in cassazione che quella negli altri organi giudiziari collegiali.


































L’IMPUGNAZIONE DEI PROVVEDIMENTI “NELL’INTERESSE DELLA PROLE E DEI CONIUGI”


Una disputa dottrinale è sorta in passato in relazione alla valutazione della natura di quei provvedimenti che il giudice è tenuto a prendere nel corso della c.d. fase presidenziale del procedimento di separazione personale fra coniugi, sia essa giudiziale o consensuale.

La disciplina sulla separazione è contemplata dal codice insieme ai procedimenti di volontaria giurisdizione, nonostante di fronte alla separazione giudiziale vengono meno alcuni requisiti essenziali della volontaria giurisdizione quali l’assenza di contenzioso.

In entrambe le situazioni, dopo il vano tentativo di conciliazione il giudice, prima ancora di rimettere le parti d’innanzi all’organo deliberante, emette tutti quei provvedimenti che ritiene opportuni per l’interesse dei coniugi e dei li. La questione è sorta in relazione al regime di inoppugnabilità di tali provvedimenti. Mentre la dottrina più autorevole considera tali provvedimenti come provvedimenti cautelari, la giurisprudenza riteneva che, trattandosi di provvedimenti presi in sede di volontaria giurisdizione, fossero anch’essi provvedimenti di volontaria giurisdizione e come tali e perciò ne era vietata l’impugnazione.

La tesi per cui ci si trova dinnanzi a provv. cautelari è sostenuta dal fatto che tali provvedimenti sono posti a cautela di alcuni soggetti e che perciò sono dettati da motivi d’urgenza e, in quanto tali, sono momentanei e revocabili. Tali provvedimenti sono presi ex officio è ciò contrastava con la disciplina generale dei provvedimenti cautelari ex artt. 669 bis e ss. Che prevede che i provvedimenti cautelari debbano essere richiesti con ricorso al giudice competente, dato però che tali provvedimenti sono posti nell’interesse delle parti e soprattutto della prole che è terza rispetto al rapporto processuale la cassazione ritiene che si può prescindere dal principio della domanda.

La giurisprudenza della cassazione ha abbracciato la teoria della dottrina ritenendo i c.d. provvedimenti presidenziali come provv. cautelari, pur tuttavia non ha ne ammesso la reclamabilità a norma dell’art. 669 terdecies c.p.c., il che rappresenta una contraddizione.







LA RIBELLIONE DEGLI AVV. AL CODICE DEL 1942 E IL SILENZIO DEL CNF.


Come tutti sanno il codice del ’42 ebbe la duplice sfortuna di entrare in vigore durante la guerra e di dover essere riformato nel 1950 per tacitare in qualche modo le richieste della classe forense.

Le prime accuse che vennero mosse al c.p.c. riguardarono il carattere “fascista” accuse sollevate nell’immediato dopoguerra e che caddero naturalmente proprio per il rispetto che l’opinione pubblica in generale e quella della classe forense in particolare nutriva per il suo massimo artefice: Pietro Calamandrei. Fu lo stesso Calamandrei a scendere in campo contro le accuse di fascismo che erano rivolte verso il “suo” codice e di conseguenza si fece sostenitore anche delle altre accuse di carattere tecnico che di fatto determinarono l’aspra protesta degli avv. italiani. La domanda che ci si pone oggi è: come mai il CNF che era ed è composto da avv. non si affiancò nella protesta alla maggioranza degli avv. italiani? La risposta è semplice: perché era presieduto proprio da Calamandrei. Ma come mai il Presidente non fu messo in minoranza? Come mai non lo si costrinse a dimettersi?

La risposta è altrettanto semplice ed è desumibile dai verbali delle sedute del CNF di quel tempo: Calamandrei  seppe escogitarle tutte per prendere tempo e vincere: essendo consapevole dell’impopolarità della sua causa puntò sui rinvii e sul difetto di legittimazione e di competenza, ma alla fine ottenne quel che gli premeva e cioè che il CNF non si pronunciasse sul suo codice.


Ma su cosa si concentrò la protesta degli avv.?

Il cod. del ’40 tendeva contrastare in maniera esplicita i poteri degli avv. che erano considerati i maggiori artefici delle lungaggini processuali. Proprio per questo il cod. previde non poche norme dirette a sottrarre i tempi processuali alle parti ed ad attribuire al giudice una miriade di poteri per lo più discrezionali. L’impostazione del codice era chiaramente autoritaria e si fondava su due equivoci della dottrina:

che gli avvocati tendessero ad allungare i processi; cosa infondata considerando poi che quando difendono la parte che ha ragione hanno molta fretta;

il secondo equivoco riguarda il giudice. Si dava per scontato che il giudice utilizza al meglio i poteri che gli sono attribuiti, opinione senza dubbio idilliaca della realtà.

Un legislatore avveduto avrebbe dovuto ridurre al minimo i poteri discrezionali consentendo che vi fosse una selezione naturale tra le cause. Il legislatore del ’40 pose invece tutte le cause sullo stesso piano e pretese che queste fossero decise o conciliate tutte al + presto, e lo pretese soprattutto senza tener conto che la magistratura soffriva di una carenza d’organico tale da non assicurare l’immediata decisione di tutte le cause pendenti.

Si aggiunga poi che il nuovo processo era costruito sulla nuova ura del giudice istruttore che avrebbe dovuto evitare che il processo subisse pause ingiustificate ma che si rivelò un antidoto peggiore del male che andava a curare. Il G.I. si presentava all’udienza più agguerrito delle parti e proprio per questo poteva far tutto fuorché giudicare. Mentre il vecchio codice consentiva ad ogni parte di concludere in ogni momento del processo e di costringere l’altra parte a fare altrettanto, il nuovo subordinava la precisazione delle conclusioni alla volontà dell’istruttore.

Era chiaro qual’era dunque il malumore degli avv. italiani, il processo era stato loro tolto ed attribuito al giudice. Un male che la novella del 1950 ridusse ma non eliminò e altrettanto può dirsi della riforma apportata dalla l. 353/90.
























GLI AVVOCATI ITALIANI E L’ESPERIENZA FALLITA


Il cod. del 1865 prevedeva un processo garantista e senza fronzoli costruito dal punto di vista delle parti. Si citava ad udienza fissa e con termini a ire brevissimi la prima udienza constava di 2 fasi: una presidenziale e una collegiale che dovevano svolgersi necessariamente nello stesso giorno.

Con l’introduzione del codice del ’40 il sistema venne stravolto: il processo da garantista si trasformò in autoritario. Alle parti venne sottratto il diritto di citare in udienza fissa e perciò l’udienza era fissata dal giudice perché si riteneva che il giudice dovesse arrivare preparato. Le conseguenza più naturale, visti i carichi di lavoro della magistratura italiana, fu che le prime udienze cominciarono a slittare. Una volta arrivati alla prima udienza, poi non ci si trovava davanti ad un organo giudicante ma innanzi all’istruttore  che aveva il compito di preparare e istruire la causa. Il processo era così costretto ad attraversare la fase istruttoria anche nel caso in cui la causa era già pronta per la decisione, considerando poi che le decisioni del giudice in sede istruttoria non erano neppure vincolanti si nota allora l’inutilità di tale fase nella maggior parte dei casi. Nonostante numerose proteste sollevate dall’avvocatura il sistema rimase sostanzialmente immutato anche alla luce della novella del 1950 e da alcuni ritenuto peggiorato dalla riforma del ’90 con la quale si costringe le parti a vuotare il sacco subito e grazie alla quale si è prospettato un ampliamento dei poteri discrezionali del giudice.


L’avv. Molinari in un saggio del 1946 espose quelle che, a suo parere, erano state le ragioni che avevano indotto l’avvocatura a considerare il cod. del ’40 un’esperienza destinata al fallimento.


a) innanzitutto fu grave l’eliminazione della citazione in udienza fissa. Sia l’attore che il convenuto in tale fase hanno interesse a che la prima udienza si svolga al + presto. L’attore a interesse a che l’intero processo si svolga in maniera celere per potersi vedere riconosciuto il diritto di cui reclama la titolarità; ma anche il convenuto ha interesse a che la prima udienza si svolga in breve tempo perché gli consente di capire subito di cosa si tratta e perciò di regolarsi di conseguenza.

b)    Fu altrettanto grave l’inoppugnabilità dei provvedimenti dell’istruttore perché comportava la necessità di subire il processo. Né il riesame ad opera del collegio costituiva una garanzia dato che del collegio faceva parte lo stesso G.I.. inoltre col vecchio codice non era possibile ammettere prove senza aver rigettato prima le eccezioni del convenuto, nel nuovo cod. invece se esistevano questioni pregiudiziali o preliminari, esse venivano rinviate al collegio e cioè praticamente eliminate. In realtà il legislatore non osa negare l’impugnazione dei provvedimenti del G.I., ma la ammette alla fine, quando il + delle volte è inutile impugnare.

c) Si punta il dito anche contro il vano tentativo di conciliazione in sede giudiziale. Questa allunga il procedimento e basta, infatti il numero delle cause conciliate e ridottissimo, se poi si pensa che i tentativi di conciliazione stragiudiziali sono innumerevoli e tentati dalle persone + varie (familiari, preti, ecc.) sembra inutile oltre che ingiusto attribuire la litigiosità delle parti agli avv.

d)    Altra causa del fallimento è il bilanciamento dei rapporti tra parti e giudice e lo si ravvisa dalla natura pubblicistica del processo civile il quale non s’instaura tra le parti innanzi ad un giudice ma tra ciascuna parte e il giudice.
























SULL’ABROGAZIONE DEL RECLAMO AL COLLEGIO


L’art. 178 prevedeva il reclamo immediato al collegio contro le ordinanze del g.i. sull’ammissibilità o la rilevanza delle prove. Tale istituto fu introdotto nel ’50 a seguito della famosa ribellione degli avvocati al sistema del c.p.c. del ’42.

In particolare gli avv. italiani trovarono inammissibile che i provvedimenti sulle prove non fossero emanati dal collegio ma dal g.i. e che per di + fossero inoppugnabili. Il legislatore del ’50 pensò bene di risolvere il problema con il reclamo al collegio, ma evidentemente si trattò di un contentino per far tacere la classe degli avv..

Il vecchi cod. prevedeva che sulle prove si provvedesse con sentenza, le famose sentenze interlocutorie, tutte immediatamente impugnabili. Per il vecchi cod. mentre le sentenze erano appellabili le ordinanze non erano in alcun modo impugnabili. Quindi la differenza fondamentale tra sentenza e ordinanza non stava negli aspetti formali, ma nei rimedi che le parti avevano contro di esse.

Il sistema delle sentenze interlocutorie però appariva eccessivamente rigido così che si mosse la + autorevole dottrina per riformare il sistema:

Chiovenda propose che sulle prove si provvedesse con sentenza immediatamente esecutiva ma non immediatamente impugnabile.

Mortara, pur  condividendo la teoria di Chiovenda ritenne di poter andare oltre: nel suo progetto propose che il collegio provvedesse, sulle prove, con ordinanza impugnabile solo con la sentenza definitiva. L’ordinanza era però irrevocabile.

Carnelutti previde il provvedimento ordinatorio, ossia l’ordinanza sempre revocabile e modificabile. Carnelutti però non previde il giudice istruttore, sicché ad ammettere le prove doveva essere pur sempre il collegio.


Col cod. del ’40 si arrivo ad un sistema senza precedenti storici: sulle prove si giudicava con ordinanza modificabile e revocabile, ma non immediatamente impugnabile; per di + a giudicare, almeno in prima battuta era il g.i. che aveva il solo compito di istruire e preparare il processo ma che tuttavia era il vero dominus del processo, fermo restando che i suoi provvedimenti non erano vincolanti per il collegio.

Fu così che gli avvocati scesero in piazza per chiedere, tra le altre cose, che i provvedimenti sulle prove divenissero immediatamente impugnabili. Ma per fare ciò o si sarebbe dovuto sopprimere il g.i. o si sarebbe dovuto scavalcare il collegio. La novella del ’50 introdusse allora il reclamo al collegio.

Negli anni ’60 il reclamo, + che un mezzo d’impugnazione divenne un espediente per allungare il processo, ma questa sua funzione durò poco: è certo, infatti che nel 1990 i reclami a fini dilatori non esistevano +. Infatti se si pensa che il reclamo era esaminato se non proprio deciso dal g.i. e che perciò bisognava pensarci due volte primo di proporlo e se si decideva di proporlo bisognava stare molto attenti a come lo si proponeva, certamente non poteva essere usato a fini puramente dilatori.

Nel 1990 il reclamo venne soppresso e il perché di tale scelta ci è dato dallo stesso Proto Pisani, il massimo ispiratore della novella del ’90: il sistema del reclamo non poteva sopravvivere nei procedimenti dinnanzi al collegio perché era congenitamente incongruente con il procedimento dinnanzi al giudice monocratico. Lo scopo dell’accelerazione del processo era quindi solo secondario e ravvisato solo da una parte della dottrina; in realtà la novella del ’90 ha soppresso una mini-garanzia che serviva a poco solo perché in sede di reclamo a giudicare era lo stesso g.i..

Il problema dell’impugnabilità immediata delle prove sussiste ancora.

La realtà processuale ci mostra come è più facile che siano ammesse prove inammissibili che non che siano rigettate prove ammissibili. Se si procede all’ammissione di prove inammissibili queste vengono ignorate, ma difficilmente si stigmatizza l’operato del g.i..

Per i procedimenti dinnanzi al collegio il problema è duplice: innanzitutto bisognerebbe sopprimere l’istruttore e poi bisognerebbe prevedere l’impugnabilità immediata dei provvedimenti del collegio sulle prove.

Dinnanzi al tribunale monocratico il problema è solo in parte diverso. Se è vero che quando il collegio non c’è non ha senso prevedere il reclamo al collegio pure vero è che, se il giudice è l’istruttore, non si capisce perché debba provvedere sulle prove con ordinanza revocabile e modificabile e non con un provvedimento irrevocabile e impugnabile immediatamente. Fino a quando il g.i. poteva solo preparare e istruire si poteva eccepire il fatto che non potesse pronunciare sentenza di alcun tipo perché di competenza del collegio, ma oggi che il collegio non c’è più e che le sentenze devono essere emesse dall’istruttore, perché mai il g.i. deve poter provvedere sulle prove con ordinanza e non con sentenza?


TROPPI AVVOCATI? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .1

LA PROCURA SU FOGLIO AUTONOMO TRA LA CERTIFICAZIONE E GLI SPILLI DEL DIFENSORE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3

LITIGIOSITA’ RICCHEZZA E COMPETENZA . . . . . . . . . . . 5

IL PATROCINIO DEI NON ABBIENTI IN ITALIA . . . . . . . . . . ..7

LA CHIAMATA IN CASSAZIONE PER MERITI INSIGNI . . . . . . .10

L’IMPUGNAZIONE DEI PROVVEDIMENTI “NELL’INTERESSE DELLA PROLE E DEI CONIUGI” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 14

LA RIBELLIONE DEGLI AVV. AL CODICE DEL 1942 E IL SILENZIO DEL CNF . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15

GLI AVVOCATI ITALIANI E L’ESPERIENZA FALLITA . . . . . . ..17

SULL’ABROGAZIONE DEL RECLAMO AL COLLEGIO . . . . . . . 19





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