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In questi ultimi anni, nella società italiana, la riflessione delle donne, in uno stretto intreccio con il dibattito politico generale, ha posto in discussione alcuni nodi a partire dalle lotte degli anni settanta intorno al divorzio (il referendum e' del '74), alle questioni della parità e a quella che continua a essere il terreno di possibili e gravi conflitti, la questione dell'aborto.
Il primo nodo è il rapporto tra uguaglianza e differenza. La battaglia che le donne hanno condotto nel dopoguerra per i loro diritti e per la democrazia le ha emancipate da una condizione di discriminazione che le escludeva da diritti 'universali', i quali anche sul piano normativo erano riservati in realtà ai soggetti maschili: il risultato di questo lungo percorso, in particolare dopo le riforme degli anni settanta, è un diritto più egualitario, per cui, sul piano formale e dei principi, si può sostenere che uomini e donne godono oggi degli stessi diritti fondamentali.
Tra i contenuti di quella nuova cultura femminile, in parte ripresi dai movimenti studenteschi del '68 ma rielaborati con tratti di forte originalità, i più rilevanti, erano quelli che disegnavano i lineamenti di una soggettività femminile che non si riconosceva più nel modello emancipativo. Qui avvenne quella frattura già ricordata con la generazione del dopoguerra, ebbe luogo quel non riconoscimento di esperienze di cui oggi si comincia a ritessere la storia e a recuperare il valore. Al costo di quella recisione delle proprie radici, le donne si inoltravano su un nuovo terreno, superando i confini e i limiti del dibattito sulla parità e ponendo la questione oggi più rilevante sul piano delle relazioni intraumane, dei diritti, e sul piano etico: quella della libertà e dell'autodeterminazione femminile.
Il principio dell'autodeterminazione in materia di maternità (e conseguentemente di aborto) è fin dall'inizio degli anni settanta l'obiettivo centrale del movimento delle donne, che dette vita, tra il 1975 e il 1976, a grandi manifestazioni pubbliche. Nel dibattito che portò, nel 1978, all' approvazione della legge 194 che legalizzava l'interruzione di gravidanza entro i primi 90 giorni dal concepimento, le considerazioni erano di ordine sociale: la legge intendeva scongere la piaga sociale dell'aborto clandestino e proteggere le donne che più ne erano colpite, cioè quelle più svantaggiate, socialmente e culturalmente; d'altra parte la legge poteva servire a prevenire il ricorso all'aborto, e quindi poteva essere tollerata.
Ben presto le considerazioni 'sociali' che avevano fatto da sfondo, nel 1978, alla legalizzazione dell'aborto hanno peraltro lasciato il posto a nuove preoccupazioni di ordine morale.
L'introduzione del divorzio nell'ordinamento giudiziario italiano dovette aspettare infatti il 1970: grazie alla tenace battaglia tenutasi fin dal 1965 in parlamento, quando fu proposta una legge, volta ad introdurre lo scioglimento del matrimonio.
La legge 898 fu approvata in via definitiva dalla Camera il primo dicembre 1970, con 319 voti favorevoli e 286 contrari: curiosamente, nel testo la parola 'divorzio' non e mai, sostituita dal più neutro 'scioglimento del matrimonio'.
Contro questa legge il Vaticano impose un referendum, convinto di stravincerlo. Nel maggio 1974, 33 milioni di italiani dovettero recarsi alle urne, e diedero alle gerarchie cattoliche un sonoro schiaffo: quasi il 60 per cento della popolazione votò contro l'abrogazione della legge.
Successivamente, la normativa fu modificata, ampliata e migliorata dalle leggi 436/1978 e 74/1987. In particolare, con quest'ultima si snellirono i tempi e si diede al giudice la facoltà di pronunciare la sentenza di divorzio separatamente dalla discussione sulle condizioni accessorie (assegni, li, etc).
LA NORMATIVA
Le cause di scioglimento del matrimonio possono essere diverse e sono definite dalla legge. Nella stragrande maggioranza dei casi, però, il divorzio segue la separazione personale dei coniugi: questa può essere consensuale o giudiziale. Nel primo caso è un semplice accordo tra i coniugi omologato dal giudice, nel secondo invece il giudice deve intervenire in una situazione di conflitto non sanabile.
Trascorsi tre anni (inizialmente erano cinque) dalla izione delle parti in tribunale, può partire la richiesta di divorzio.
Nel caso di matrimonio cattolico il vincolo resta indissolubile per la Chiesa, mentre per lo Stato cessano tutti gli effetti prodotti dall'unione concordataria e si applica la stessa normativa prevista per i matrimoni civili o di altre confessioni religiose.
STATISTICHE
Nel 1998 in Italia le separazioni sono aumentate del 4,1% rispetto all' anno precedente (62.737 in totale), mentre i divorzi dello 0,5% (33.510). Alcune proiezioni sul 1999 parlano di un ulteriore aumento del 12%.
Le coppie maggiormente in crisi vivono in Val d' Aosta (7,9 separazioni e 5,9 divorzi ogni mille coppie), Friuli Venezia Giulia (5,9 separazioni e 3,5 divorzi) ed Emilia Romagna (5,6 separazioni e 3,2 divorzi), mentre in Basilicata vi sono solo 1,8 separazioni e 0,8 divorzi.
Una sondaggio USA del 1999 sul rapporto tra religiosità e divorzio ha evidenziato dati sorprendenti: i soggetti maggiormente a rischio sono i fondamentalisti cristiani (il 34% di essi ha un divorzio alle spalle), seguiti da ebrei, battisti, protestanti, mormoni, cattolici, luterani. Gli atei e gli agnostici arrivano per ultimi con il 21% di casi.
CHI LOTTA PER L'ABROGAZIONE DEL DIVORZIO
La Chiesa cattolica non si arrende all'evidenza e continua a pontificare sulla necessità di rivedere legislazioni ritenute troppo permissive. Durante la presentazione del Giubileo delle famiglie (13/15 ottobre 2000) il cardinale Alfonso Lopez Trujillo ha ribadito che gli elettori cattolici devono votare chi si impegna a difendere le tesi cattoliche su aborto e famiglia.
Fortunatamente per noi italiani la gran parte dei leader politici nazionali è divorziata (Berlusconi, Fini, D'Alema, Di Pietro) o separata: un pericolo di modifica o abrogazione della legge è pertanto da ritenersi improbabile.
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