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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI FIRENZE
FACOLTA’ DI ECONOMIA
Corso di laurea in Economia e commercio
Tesi di laurea in MARKETING (Imprese industriali e commerciali)
“Strategie di posizionamento e immagine di marca: aspetti teorici e casi empirici nel largo consumo”
INDICE
PREMESSA
modulo 1
DALLA VISIONE AL POSIZIONAMENTO
1.1 – Le ragioni del posizionamento
1.1.1 – Il rapporto strategico impresa-mercato tra presente e visione: una prospettiva.
1.1.2 – Nuove sfide e nuove spinte per il posizionamento.
1.2 – La strategia di posizionamento
1.2.1 – Struttura di mercato e posizionamento.
1.2.2 – Definizione di posizionamento.
1.2.3 – I requisiti del posizionamento.
1.2.4 – Il rapporto tra strategia e posizionamento.
1.3 – Origine e natura del posizionamento
1.3.1 – Vantaggio competitivo e posizionamento.
1.3.2 – Differenziazione e posizionamento.
1.4 – Concetto, identità ed immagine di marca come decisioni strategiche
1.4.1 – La relazione tra prodotto e cliente.
1.4.3 – Ideazione e gestione dell’identità di marca.
modulo 2
STRUTTURA E DINAMICA DEGLI SPAZI MENTALI: IL RAPPORTO CONSUMATORE-MARCA
2.1 – I processi mentali che sovrintendono alla percezione e alla scelta della marca
2.1.1 – Dallo stimolo al comportamento. Un modello esplicativo del processo di percezione, elaborazione, valutazione.
2.1.2 – Il legame tra memoria e comportamento.
2.1.3 – Il processo di categorizzazione delle percezioni
2.2 – Il consumatore e la marca
2.2.1 – Le diverse tipologie di processi decisionali del consumatore.
2.2.2 – Il ruolo socio-psicologico della marca.
2.2.3 – L’interazione sociale come vettore comunicativo dell’immagine di marca.
2.2.4 – L’auto-concetto.
2.3 – Le associazioni cognitive come basi per il posizionamento
2.3.1 – Le associazioni.
modulo 3
IL POSIZIONAMENTO E LE STRATEGIE COMPETITIVE
3.1 – Il sistema di attività dell’impresa
3.1.1 – Strategia ed efficacia operazionale.
3.1.2 – La sostenibilità delle posizioni strategiche: i trade-off.
3.1.3 – Identificazione e sviluppo delle associazioni e delle reti di attività.
3.2 – L’approccio strategico alla competizione per le posizioni
3.2.1 – Strategia difensiva.
3.2.2 – Strategia offensiva.
3.2.3 – L’attacco ai fianchi.
3.2.4 – La competizione basata sulla “guerriglia”.
3.3 – La marca e le diverse fasi della competizione
3.3.1 – La gestione del ciclo di vita della marca.
3.3.2 – L’entrata nel mercato.
3.3.3 – Il riposizionamento.
3.4.1 – Le ragioni dell’estensione di marca.
3.4.2 – Aspetti problematici delle estensioni di marca.
3.4.3 – L’approccio multimarche.
3.4.4 – Le estensioni di marca verticali.
modulo 4
LA COMUNICAZIONE DEL POSIZIONAMENTO
4.1 – Il ruolo della comunicazione nel governo del posizionamento
4.1.1 – La funzione comunicativa degli elementi del marketing mix.
4.1.2 – Posizionamento e modelli comunicativi.
4.1.3 – Lo stimolo delle percezioni.
4.2 – Il messaggio: nome, simbolo, slogan
4.2.1 – Il primato della parola.
4.2.2 – La scelta del nome.
4.2.3 – I simboli.
4.2.4 – Lo slogan.
4.3 – Posizionamento e persuasione
4.3.1 – Persuasione, potere e comunicazione.
4.3.2 – Tecniche di persuasione.
4.3.3 – Dinamicità delle posizioni strategiche: la marca tra cambiamento di prospettiva e adattamento.
modulo 5
IL POSIZIONAMENTO DEI PRODOTTI ALIMENTARI DI LARGO CONSUMO: ALCUNE EVIDENZE EMPIRICHE
5.1 – Presentazione
5.1.1 – Il mercato dei pasti destrutturati.
5.1.2 – Il mercato dei prodotti a supporto del pasto.
5.1.3 – Il mercato del cioccolato.
5.1.4 – Il mercato del caffè.
5.2 – Il posizionamento e la capacità della marca di generare nuove categorie
5.2.1 – Ambiente concorrenziale e generazione di significati come determinanti della posizione competitiva.
5.2.2 – Market-creators.
5.2.3 – Category-innovators.
5.2.4 – Alcune evidenze empiriche per l’interpretazione della relazione tra market creation capability e posizionamento della marca.
5.3 – Analisi del trend e prospettive di sviluppo per il posizionamento
5.3.1 – Il rapporto tra i trend e la strategia.
5.3.2 – Dinamica del posizionamento e trend di fondo.
CONCLUSIONI
Alla mia famiglia
L’interesse per i concetti che ruotano attorno alla nozione di posizionamento è cresciuto notevolmente negli ultimi anni, sia da parte degli studiosi, che di coloro i quali, nelle imprese, traggono da esso utili indicazioni – a livello strategico ed operativo – per affrontare la multiforme e dinamica realtà del mercato. I primi trovano nel posizionamento una formidabile ed inesauribile fonte alla quale attingere e da cui prendere spunto per conferire nuove connotazioni a temi che, altrimenti, risulterebbero per molti aspetti sviscerati, ponendosi in una differente prospettiva rispetto ad essi in modo da integrarne e svilupparne i contenuti ormai acquisiti. Gli operatori d’impresa beneficiano, invece, di una sintesi rappresentativa della competizione che, ponendo le basi per l’avanzamento dall’orientamento al mercato conseguito, ha, in particolare, il merito di rendere più diretta e immediata la relazione con esso.
Una prima definizione che deriviamo da Valdani esprime il posizionamento come «lo spazio che un prodotto o una marca occupano in un dato mercato in relazione al modo in cui sono percepiti da un gruppo “rilevante di consumatori” rispetto ai prodotti con i quali sono in concorrenza»[1]. A ciò Kotler aggiunge un più spiccato riferimento agli aspetti percettivi del rapporto con il consumatore affermando che per posizionamento si intende «l’insieme di iniziative volte a definire le caratteristiche del prodotto dell’impresa e ad impostare il marketing mix più adatto per attribuire una certa posizione al prodotto nella mente del consumatore» . Tuttavia, soprattutto da parte del management d’impresa, il termine viene spesso travisato rispetto al suo messaggio originale, mancando ancora una piena consapevolezza e conoscenza di ciò che il posizionamento strategico significhi e comporti per il nuovo rapporto impresa-mercato che tale concetto va a conurare.
L’argomento in questione è quanto di più vasto ed eterogeneo si possa trovare sebbene sia riscontrabile un senso comune alle sue articolazioni. Confluiscono, infatti, nel posizionamento concetti e significati appartenenti un po’ a tutte le aree del marketing. Nella sua più significativa accezione, quella per cui rappresenta, come sottolineano Guatri e Vicari, «la collocazione del prodotto in un sistema di percezioni, riguardanti l’offerta complessiva al consumatore» esso si lega a doppio filo con la differenziazione. In proposito, proseguono gli autori: «Ciò è possibile in quanto ogni prodotto ha un complesso di caratteristiche che lo differenziano più o meno dai prodotti concorrenti e che lo qualificano in un certo modo nelle considerazioni del consumatore, consentendogli di occupare una certa posizione relativamente ad altri prodotti»[3].
Valdani si spinge oltre affermando: «Il concetto di posizionamento è il frutto dell’applicazione dei principi e della politica di differenziazione dei prodotti e delle marche in uno specifico segmento di mercato»[4]. L’autore coglie, inoltre, l’inscindibile relazione tra posizionamento e immagine evidenziando che «Il concetto di posizionamento è supportato dal profilo simbolico dell’immagine del prodotto che rafforza la realtà fisica di una marca in termini di significati, motivi, atteggiamenti, e reazioni espresse dal consumatore». Infatti, descrivendo il processo di posizionamento, Valdani sottolinea come «il prodotto e, più in generale, l’offerta dell’impresa ha valore per i benefici che promette/assicura al consumatore. Tali benefici hanno natura tangibile e intangibile e sono percepiti dal consumatore attraverso simboli e segni. L’impresa deve perciò costruire un’offerta il più possibile rispondente alle attese della clientela/obiettivo, distinta da quella dei concorrenti e fare in modo che l’immagine e il valore che ne risultano vengano percepiti e memorizzati, così da fidelizzare il consumatore».
Il posizionamento ha una valenza strategica che prescinde dalle possibilità che le imprese hanno di applicarne i principi a livello operativo. Se, cioè, taluni degli strumenti utilizzati per la generazione di una strategia di posizionamento possono essere appannaggio solamente di quelle imprese che dispongono di adeguate competenze e potenzialità (anche finanziarie), ciò non implica, tuttavia, che le altre non possano seguire, seppure in maniera più approssimativa ed intuitiva, le principali indicazioni offerte da questo concetto il cui valore non risulta, solo per questo, inficiato. Al contrario, cimentarsi con lo studio e l’analisi del proprio posizionamento costituisce, di per sé, un utile esercizio in grado di sviluppare la capacitò strategica dell’impresa.
L’evidente impronta strategica del posizionamento connota i diversi suoi aspetti che andremo ad analizzare e la relazione tra strategia e posizionamento è al centro del primo modulo dal quale emergerà, inoltre, il fondamentale ruolo di sviluppo svolto dall’immagine di marca nel conferire valore alla particolare posizione che essa assume nel mercato. Se in passato il successo di un prodotto dipendeva soprattutto da tre fattori – qualità, marca, distribuzione –, oggi, con il raggiungimento di un livello di qualità accettabile da parte della maggioranza dei concorrenti, è soprattutto la conoscenza che il consumatore ha della marca, assieme al grado di aderenza di questa alle attese del primo, a costituire l’elemento discriminante tra il successo ed il fallimento dell’impresa nell’arena competitiva.
Strettamente legata alle problematiche dell’immagine di marca è la comprensione dei meccanismi percettivi e interpretativi che sono alla base delle scelte del consumatore, oggetto di studio del secondo modulo. Una marca diviene tanto più forte e affermata, quanto più rispecchia la personalità di chi acquista, consentendone una identificazione ideale e gratificante: è attraverso il posizionamento strategico della marca e l’immagine ad essa associata che l’impresa può riuscire ad orientare la scelta del potenziale acquirente tra le diverse offerte presenti sul mercato. A tal fine, occorre riuscire a comprendere quali siano i meccanismi attraverso i quali avvengono i processi mentali di percezione, interpretazione ed assegnazione di significati dei messaggi comunicativi da parte della mente, nonché le ragioni che sono alla base del mutare degli atteggiamenti del mercato verso una data marca[5].
Una volta completata l’analisi della marca e della sua relazione con le associazioni indotte nella mente dei potenziali acquirenti, si pone per l’impresa il problema di tradurre ciò in una condotta idonea a realizzarne gli obiettivi. Nel terzo modulo, quindi, l’attenzione è rivolta alla determinazione della strategia competitiva che meglio si accorda con il posizionamento perseguito e con la situazione concorrenziale in cui l’impresa è inserita, con un particolare riguardo per le problematiche connesse ai diversi aspetti del riposizionamento.
Nel quarto modulo, vedremo come una particolare attenzione vada posta alla comunicazione nelle diverse forme in cui essa può esplicitarsi nella realtà, nel tentativo di determinare la generazione e la successiva accettazione di un’idonea identità ed immagine di marca. Il concetto di posizionamento strategico comporta una nuova e diversa attitudine di pensiero in grado di ribaltare i canoni tradizionali del sistema comunicativo d’impresa, ponendo al centro dell’attenzione non il prodotto, ma la mente del potenziale consumatore.. Se è vero che tutto comunica e che non si può non comunicare, allora diviene subito manifesta tutta l’importanza che riveste per le imprese un simile concetto che, andando oltre la pura e semplice strategia pubblicitaria, investe i diversi aspetti nei quali si esprime la loro offerta.
L’analisi empirica di alcuni casi aziendali relativi a brand operanti nel largo consumo permette, infine, di comporre in un quadro d’insieme gli aspetti teorici sviluppati nei quattro moduli precedenti. In particolare viene messa in risalto la relazione che sussiste tra la capacità dell’impresa di dare origine, attraverso una sagace strategia di posizionamento, ad una nuova categoria concettuale e la possibilità che da essa derivi un duraturo vantaggio competitivo differenziale e la leadership del relativo mercato.
Le strategie di posizionamento sono di natura tipicamente relativa e circostanziale, da ciò derivando i principali problemi che le imprese incontrano nel delinearle. Lungi dal costituire un riferimento costante per la competizione delle imprese tali strategie si sviluppano in itinere secondo le indicazioni offerte dai concetti che, di volta in volta, sono presi a riferimento dal potenziale acquirente nell’assegnare un valore alla marca e, più in generale, alla categoria cui essa viene ricondotta.
È con la consapevolezza della rilevanza delle problematiche che queste prime considerazioni aprono che ci accingiamo ad affrontare un tema, quello della relazione tra strategie di posizionamento ed immagine di marca, il quale si erge tra gli altri affrontati dal marketing come uno dei più attuali, interessanti e ricchi di spunti, cercando di offrirne una prospettiva che, per certi aspetti diversa, cerca di mantenere un approccio il più possibile aderente con la realtà dei fatti.
1.1 – Le ragioni del posizionamento
Lo studio e l’applicazione del concetto di posizionamento, lungi dal costituire e delineare un modello definitivo di comportamento per le imprese, rappresentano in realtà, almeno in prima battuta, un approccio mentale al problema della loro collocazione nel mercato, ma soprattutto nella mente dei consumatori.
In altre parole, il posizionamento è, prima di tutto, posizionamento nella mente dei clienti e, più in generale, delle persone. Occorre lasciare un’impronta (quella voluta) non solamente sugli acquirenti, ma anche sugli altri pubblici aziendali. Così, diventa senz’altro utile e prioritario generare e proiettare un’adeguata immagine di sé sui concorrenti, sui fornitori, e sugli altri pubblici aziendali (sindacati, mondo politico, media…). Come vedremo questa immagine è l’espressione dell’identità dell’impresa, e appare fondamentale, ai fini di un suo rafforzamento attraverso la leva della credibilità, riuscire a mantenere una certa coerenza di fondo, anche nell’evolversi e dispiegarsi nel tempo delle particolari strategie adottate.
Nondimeno, risulta molto importante creare un’immagine ed un’identità forti e nitide all’interno dell’impresa e provvedere alla loro implementazione nell’organizzazione e in chi al suo interno opera. Ciò consente di avere una linea direttrice chiara e definita verso cui far convergere gli sforzi aziendali, un importante punto di riferimento che contribuisce a consolidare la stessa proiezione all’esterno della visione desiderata.
Non si tratta, questa, di una rappresentazione mentale destinata ad un’applicazione limitata alla realtà d’impresa. La sua valenza è assai più estesa, venendo a toccare ogni situazione nella quale sia presente un soggetto che emana segnali e un altro che tali segnali riceve e interpreta. Poco importa che i messaggi siano o meno il frutto di una volontarietà da parte di chi li pone in essere: ognuno emette continuamente segnali, anche inavvertitamente, e di questo occorre tenere conto. Così, è possibile procedere al posizionamento non solo di un’impresa, di un prodotto o servizio, ma anche di un politico, uno spettacolo, una particolare decisione presa, ecc.… Con riferimento alle situazioni più svariate sorge, infatti, la necessità di portare l’attenzione su un aspetto o su un altro e fare in modo che si formi e si mantenga nell’interlocutore un’immagine ad esso coerente.
1.1.1 – Il rapporto strategico impresa-mercato tra presente e visione: una prospettiva.
L’azione portata avanti dalle imprese operanti nel mercato è andata affrontando nel tempo situazioni ambientali che, lungi dal farsi riconoscere in stereotipi assimilabili attraverso lo studio e l’analisi di fatti esperenziali e funzioni e modelli incontrovertibili, sono diventate sempre più complesse e sfuggenti a qualsiasi tentativo di ricavarne, sia da parte del mondo accademico che di quello imprenditoriale ad esso parallelo, una sistemazione paradigmatica e finalmente definitiva. L’affidamento troppo speranzoso di chi, negli anni Sessanta, vedeva nella pianificazione strategica la chiave che avrebbe portato le imprese nel cuore della competizione si è successivamente sfaldato fino ad infrangersi contro le turbolenze di un ambiente competitivo diventato sempre più caotico ed imprevedibile, ostile e refrattario ad ogni tentativo di inquadramento attraverso la lente della razionalità estrapolativa.
Quello che è seguito è stato un tentativo di reazione al mutamento attraverso una logica che, portata ad un’estrema sintesi, si è presentata come affatto differente rispetto alla precedente: l’impresa, sostenuta da un attento monitoraggio delle variabili in gioco, avrebbe dovuto essere stata in grado di agire in anticipo rispetto al cambiamento, agendo essa stessa sull’ambiente esterno in modo da determinarne, in maniera per essa favorevole, la direzione di movimento. Tale nuova impostazione del rapporto impresa/ambiente concorrenziale appare quindi solamente come una diversa forma di quella stessa velleità di controllo del mercato che avrebbe inteso eliminare. In effetti, le singole imprese, specialmente nel lungo periodo, non possono incidere nel mercato se non in maniera marginale ed in ogni caso comunque discutibile, dal momento che è molto difficile stabilire se l’azione delle imprese sia stata la causa o l’effetto di un determinato movimento di mercato.
Verso la fine degli anni Settanta, i sistemi di posizionamento anticipatorio hanno iniziato a mettere in mostra tutti i propri limiti nell’affrontare le crescenti turbolenze di un ambiente caratterizzato dal succedersi di eventi sempre più imprevedibili nel sorgere e nello svilupparsi. Le risposte non potevano più essere tempestive e incidevano perciò sulla realtà in maniera tardiva e inefficace. Il tempo ha così reso giustizia ad un mercato che, esso sì, è sovrano, pur nelle sue numerosissime e all’apparenza inspiegabili contraddizioni. Se contraddizioni vi sono, infatti, ciò non può essere che all’apparenza, posto che non si voglia ritenere invalido il principio di causalità intercorrente tra qualsivoglia date situazioni. Probabile appare, semmai, l’individuazione a posteriori di un errore di valutazione o di interpretazione di fenomeni peraltro niente affatto facili – ma non per questo impossibili – da comprendere già nelle loro linee essenziali. Quella che invece è possibile riconoscere e senz’altro va riconosciuta alle imprese è l’appartenenza a un ecosistema relazionale di cui esse stesse sono elementi vitali e del quale, però, non è ammissibile violare le norme di funzionamento, esistenza ed evoluzione. In tale sistema di relazioni – per sua natura aperto – gli organismi-impresa nascono, si sviluppano, muoiono e operano ciascuno portando il suo particolare contributo di conoscenza e di azione che va a modificare lo status quo del sistema stesso. Ma un’analisi che si basi esclusivamente sull’osservazione di variabili ritenute oggettive, per quanto numerose e definite con precisione nel loro dettaglio, poco ha da offrire alla comprensione dei complessi e sfuggenti fenomeni che caratterizzano quel magma di sommovimenti che è il mercato.
Nasce da qui l’esigenza di un ripensamento con una prospettiva e visione potremmo dire dal dentro e dal basso del rapporto tra l’impresa e il suo ambiente di riferimento, alla quale se ne dovrebbe affiancare una dall’esterno e dall’alto il più possibile autonoma, disincantata e obiettivamente critica verso il variegato e pluridimensionale oggetto del proprio giudizio.
Il primo modo di guardare alla dinamica dei rapporti di mercato esprime tutta la rilevanza della partecipazione sistemica e organica da parte dell’impresa: solo chi è completamente immerso in una situazione può comprenderne appieno significati, evoluzione nei comportamenti e risvolti[6]. Il mercato deve permeare di sé l’impresa. Il contatto diretto e ravvicinato con la realtà non deve essere perciò quello di un corpo estraneo: dobbiamo fonderci il più possibile sia idealmente che materialmente con il vissuto, il vivendo ed il vivente in una simbiosi talmente spinta da giungere idealmente in una situazione di aspazialità e atemporalità nella quale non abbiamo bisogno alcuno di sforzarci per comprendere i cambiamenti che avvengono in un ambiente che ormai non è più esterno, dal momento che quegli stessi cambiamenti avvengono in noi. In questo modo è certo che ci stiamo muovendo nella direzione del mercato. Spostarsi con il mercato significa essere in grado di distinguerne ogni singolo movimento scorgendo fino le più minute onde e increspature all’interno della corrente poiché siamo parte integrante di essa. Quella che in questo modo abbiamo raggiunto non è una rappresentazione in scala del mercato, bensì l’essenza stessa di esso: dobbiamo essere noi stessi il mercato. Quest’impostazione presenta poi il notevole pregio di permettere e agevolare, all’occorrenza, un rapido riposizionamento, mettendo in evidenza quella qualità principe dell’evoluzionismo che è la reattività, intesa come la capacità di un adattamento rapido ed efficace alle mutate condizioni ambientali.
Non è più reale la questione se sia il consumatore a ruotare attorno alle imprese o semmai queste ad orbitargli intorno nel continuo cercare di coglierne la luce oscurando quella ricevuta emanata dalle altre. La questione si pone invece nella logica di un continuo avvicinamento da perseguire fino a che le due identità diventino una sola e unica, termine ultimo di un vicendevole implementarsi che, solo, può portare ad un vantaggio competitivo duraturo, valido sino a quando non avvenga un rigetto o prevalga una diversa forza attrattiva (la cui capacità di inserimento dipende dalle possibilità offerte dalla nostra incapacità di vivere e gestire tale connubio).
Per far sì che questo modo di vivere il rapporto impresa-ambiente sia effettivamente realizzato, l’intera organizzazione deve possedere determinati attributi ed essere pervasa da una mentalità in sintonia con l’ideale di fusione sopra delineato. Ogni sua parte costituente deve riuscire ad intuire – e, ancor meglio, a comprendere – quale sia la direzione intrapresa e per quali motivi la si è intrapresa. L’assenza di chiarezza in proposito inevitabilmente porta a problemi di messa a fuoco di ruolo e missione nella e dell’impresa con inevitabili conseguenze negative nel portare avanti l’azione strategica. Occorre, in particolar modo da parte di chi detiene la leadership decisionale, una spiccata propensione alla flessibilità soprattutto mentale consentendo il divenire viva creta nelle mani di eventi che siamo in grado di avvertire già e in parte di indirizzare. Sebbene la diffusione iniziale di un tale nuovo, coinvolgente modo di intendere il reale debba inizialmente seguire un andamento top-down, in seguito, l’organizzazione tutta, come fosse un organismo segnato in ogni sua parte da una medesima impronta genetica, deve rendersi capace di respirare in un moto unico e nutrirsi di valori condivisi in modo da potersi inserire senza alcuna remora nelle turbolenti correnti del mercato.
Riuscire a vivere emotivamente la frammentarietà e la precarietà dei diversi moti del mercato come un progresso desiderato costituisce la chiave per la soluzione di ogni problema di posizionamento. Possiamo dire con Gerken che «Solo mediante la pratica della partecipazione è possibile fluire con gli avvenimenti e accordarsi con le discontinuità dell’ambiente»[8]. Ed è sempre la partecipazione a sottrarre l’impresa dall’anonimato, conferendole quella credibilità che è tipica di chi è tecipe di un evento o processo e si pone a fianco di chi – come il consumatore – è coinvolto in prima persona nell’affrontare il cambiamento. Quest’ultimo aspetto risulta decisivo nel conquistare la fiducia del mercato che, alla lunga, sempre premia chi mostra la capacità di mettersi in discussione insieme alle posizioni acquisite nel tentativo costante di raggiungere qualcosa di superiore. «Tramite l’apertura e la disponibilità ad identificarsi con gli scenari, i temi e le opinioni e la disponibilità a integrare la propria personalità nel flusso dei mutamenti e a lasciarsi formare – prosegue Gerken – si ha che tutti apprendono da tutti». In assenza di ciò vengono a determinarsi situazioni di dissonanza e contrasto col mercato che, oltre a non arrecare alcun vantaggio in termini di competitività, rischiano di minare il futuro dell’impresa aggredendone la struttura strategica.
Ai fini di un reale apprendimento occorre, a tutti i livelli, la mobilitazione dell’intelligenza dell’impresa, insieme al mantenimento dell’armonia tra cultura e strategia. L’idea che il campo di applicazione della strategia sia anche e in primis l’interno dell’azienda non deve rimanere un enunciato fine a se stesso: apertura e mobilitazione devono essere le parole d’ordine, fondamenta sulle quali costruire la competitività d’impresa. La capacità di azione deve divenire il più immediata possibile riducendo al minimo il rischio di paralisi derivante da una troppo lunga fase di analisi preliminare che spesso produce solo un ulteriore incremento del carico informativo. L’impresa sa già, nell’ottica della fusione, quello che deve fare: la volizione è già in itinere, deve solo esplicitarsi. L’intera organizzazione deve essere votata all’azione e a un sentire diffuso (dove per sentire va intesa l’accezione più incline alla percezione, alla sensibilità partecipe).
Tale visione, tuttavia, pure se vissuta e portata fino ai suoi termini estremi, non può essere sufficiente in quanto persiste, dal dentro, un angolo cieco. Se, nel contempo, riuscissimo ad avere una visione dall’esterno e dall’alto della situazione nella quale siamo immersi potremmo determinare dov’è che ci stiamo portando e giungere da subito laddove il mercato arriverà nel futuro, arrivando addirittura noi stessi ad “educare”, attraverso l’applicazione di una volontà creativa, il mercato, in modo che raggiunga quella posizione più rapidamente oppure che non ne raggiunga un’altra altrettanto plausibile e a noi invisa (questo potrebbe succedere perché nella sua instabilità, a volte, esso si rende suscettibile di prendere questa o quella via influenzato da minime e imprevedibili oscillazioni del momento). L’impresa deve cioè essere in grado di seguire nell’ambito del mercato una propria rotta, di sapere dove esattamente si trova, dove sta andando e perché. Non deve comunque essere dimenticato il limite derivante da un’inevitabile miopia a causa del quale più lontano guardiamo e più è facile incorrere in valutazioni errate.
Secondo l’intensità con cui sono perseguite e del risultato ottenuto nel raggiungere queste visioni, l’impresa inserita in un ambiente caratterizzato da turbolenze e incertezza è esposta a rischi diversi quanto a natura e portata. Possiamo dare una rappresentazione di ciò attraverso la matrice esposta nella ura 1.1.
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ura .1 – Relazione tra prospettiva dell’impresa e situazione competitiva
Ponendo sulla dimensione orizzontale la forza con cui l’impresa si sforza di penetrare l’intimo del mercato divenendone essenza (visione da dentro) e su quella verticale il modo con cui essa cerca di darsi una più imparziale e spassionata visione dal di fuori, possiamo dividere la matrice che ne risulta in quattro quadranti corrispondenti a quattro diverse situazioni.
Un’impresa che non sia dentro appieno ai flussi del mercato, ma che abbia la pretesa di conoscere, attraverso una visione distaccata e oggettiva, non partecipe, la direzione da esso seguita, rischia di ritrovarsi, disorientata, da tutt’altra parte, per giunta con l’aggravio di un peso costituito da una cultura e un’organizzazione poco duttile e dinamica, sclerotizzata nel suo incedere alla deriva. Il pericolo è quello di non riuscire a rimettersi in rotta rimanendo esclusi dalla competizione o quantomeno ai suoi margini. Lo sforzo da compiere è dunque quello di immergersi appieno nelle correnti concorrenziali e recuperare una completa e cosciente fusione con l’ambiente competitivo.
Se in aggiunta ad una poco sensibile visione dal dentro non si riesce neppure a compiere uno sforzo di inquadramento delle varie forze che sommuovono l’ambiente di riferimento, la situazione diviene altamente critica e le possibilità di risollevarsi e non uscire dal mercato dipendono ora, oltre che dalla capacità di cambiare rapidamente e decisamente rotta (esigua, vista l’assenza di flessibilità e di perspicacia), dal fatto che la situazione di mercato non si allontani troppo dalle nostre attuali posizioni consentendoci il rientro. L’impresa, in alte parole, è in piena deriva strategica e, se anche dimostrasse una certa capacità ad operare, a lungo andare soffrirà le conseguenze delle carenze a livello di visione venendosi a restringere il tempo che essa ha a disposizione per riorientarsi alle condizioni di mercato in essere.
Nel caso in cui l’impresa abbia una completa visione dall’interno, ma manchi di proiezioni riguardo quella dall’esterno, essa si muoverà sì assieme al suo mercato, tuttavia non ne conoscerà il movimento complessivo e non saprà o non riuscirà ad intendere dove esso stia in realtà andando a parare. Se ad esempio la direzione presa portasse verso un globale suo restringimento a causa e in favore di altri mercati spinti da più potenti elementi, staremmo, in effetti, andando verso la dissoluzione assieme ad esso. La miopia, in questo caso, può portare all’impatto con scogli e vortici concorrenziali che, giungendo inaspettati e cogliendo l’impresa impreparata, ne mettono seriamente a repentaglio le prospettive future. Occorre pertanto cercare di mettere la testa fuori dell’ordinario e sapersi muovere attraverso le visioni.
Essere al contempo coscientemente visionari e parte attiva della fusione con il mercato è la caratteristica vincente che contraddistingue le imprese che realizzano una simbiosi perfetta tra moti e realtà del presente e del futuro, con la cultura, sempre aperta a nuovi contributi e foriera di adattamenti di tipo olistico, a fare da cerniera tra presente e visione.
Se la fusione tra impresa e ambiente di riferimento (visione dal dentro) e l’aspetto puramente prospettico-visionario (visione dall’alto) costituiscono un elemento fondamentale per affrontare la competizione, le condizioni imposte per il loro conseguimento risultano essere tuttavia sì necessarie, ma non sufficienti. L’impresa deve in realtà disporre, come sopra enunciato, di risorse idonee per percorrere questa strada e soprattutto di un’adeguata cultura, promotrice del nuovo e del cambiamento, che pervada l’intera organizzazione.
1.1.2 – Nuove sfide e nuove spinte per il posizionamento.
In passato, sapersi posizionare era importante, ma non determinante. Le imprese e chi le dirigeva dovevano confrontarsi con una mutevolezza dell’ordinario relativamente bassa. Una vera e propria necessità di ripensare la propria posizione strategica emergeva solo al verificarsi di eventi di rottura[9]. Fino ad alcuni decenni fa esisteva un numero inferiore di marche che potevano competere sulla base di reali differenze nelle rispettive offerte. Le imprese, di solito, potevano trovare qualcosa che fosse allora effettivamente superiore ai concorrenti e cercare una particolare e più appetibile posizione sull’arena competitiva. Tuttavia, ancora non si può parlare correttamente di vere e proprie strategie di posizionamento, mancando la coscienza di tutte le implicazioni che il in tali termini comporta.
Quella che oggi sta emergendo è invece l’incombente esigenza di pensare alla propria collocazione sul mercato o su un suo segmento e tenere sempre ben saldo il controllo della propria posizione, l’importanza del quale va continuamente aumentando. Si è costantemente esposti al pericolo che venga a mancare il terreno da sotto i piedi, magari quello stesso terreno che abbiamo sempre considerato come saldo e ormai una certezza acquisita. Tutto traballa, ma il rischio maggiore è quello di non avvertire o di sottovalutare le scosse.
Numerosi sono gli elementi che stanno determinando la nuova realtà con la quale si devono confrontare le imprese, tutti comunque riconducibili a quella globalizzazione che, come un titanico sistema di vasi comunicanti è potenzialmente in grado di livellare le posizioni competitive ad oggi raggiunte. Una notevole spinta in questo senso è data dalla sempre più diffusa e rilevante presenza delle nuove tecnologie le quali, annullando d’un colpo tutte le principali certezze spazio-temporali, costituiscono il vero condotto di collegamento di codesti vasi comunicanti attraverso il funzionamento del cui sistema si vengono a determinare equilibri e squilibri.
L’intero globo, poi, sta assorbendo a grossi sorsi una mentalità e un modo di pensare ed agire di matrice occidentale e liberista orientata dagli assetti sociali ed economici tipici dei paesi anglosassoni (in particolare degli Stati Uniti). Gli effetti di questo mutato paradigma socio-psicologico dovranno naturalmente fare i conti con le particolarità locali di tradizioni ed esperienze già radicate e con le resistenze dei diversi orgogli nazionali. I freni saranno più potenti laddove prevale ancora la coscienza del vissuto e delle proprie radici. Il percorso, tuttavia, salvo improvvisi e inattesi sconvolgimenti che mettano in discussione la stessa struttura economica (prima ancora che sociale) statunitense, subirà soltanto delle ulteriori articolazioni ed arricchimenti, rimanendo però segnato quanto alla direzione principale.
La convergenza circolare di questi fenomeni accresce ulteriormente la dinamicità che caratterizza ormai i più diversi settori nel loro divenire. Se la globalizzazione, alimentandosi dell’apporto delle nuove tecnologie che svolgono il ruolo di un fermento, dà la spinta alla crescente liberalizzazione dei mercati, quest’ultima, da parte sua, esprime nell’espandersi tutte quelle premesse che sono alla base della forza della prima. Il risultato di questo continuo rincorrersi e mordersi la coda è che i settori diventano realtà instabili e sempre meno definite, con confini labili e variabili che ne mutano aspetto e significato ad ogni istante. L’arena competitiva diventa un’entità quasi astratta, tanto evanescenti sono i suoi contorni. ½ confluiscono players della più diversa origine e natura attratti, a volte si direbbe, dalla sua stessa confusione e marasma. La leva del prezzo, inoltre, sta diventando un elemento essenziale di competizione in molti settori rappresentando allo stesso tempo una possibilità e un limite per le strategie d’impresa.
Ci stiamo progressivamente avviando verso un mondo del provvisorio, in cui tutto – pensieri e azioni, imprese, sentimenti, … – nasce dal niente come una bolla di sapone e nel niente può altrettanto facilmente tornare senza dare troppe spiegazioni né suscitare grossa indignazione o recriminazioni tanto da parte di chi tali eventi promuove, quanto da parte di chi li subisce. La velocità sarà sempre più la regina incontrastata del tempo futuro, vera rafurazione e personificazione del nuovo spirito, nell’attesa che nuovi modelli comportamentali riescano a ridurne la portata o a dominarla occupandone il posto. I pericoli derivanti dalla velocità sono palesi. Se la mente non riesce a stare al passo con gli eventi, rimarrà in sua balia, venendole a mancare quell’importante freno stabilizzatore che è la ponderazione.
Nel mondo delle imprese le conseguenze avranno, e in parte stanno iniziando ad avere sin da adesso, una portata epocale. Quelle fra esse che oggi si sentono al sicuro, se non verranno prontamente erette barriere tanto imponenti, quanto forse a volte solo utili a ritardare il corso degli eventi, vedranno sgretolarsi o sparire sotto gli occhi la propria posizione competitiva. Diventa, infatti, quasi inimmaginabile concepire un mercato in cui si sia coperti dal rischio che arrivi qualcun altro, magari proveniente da qualche altra parte del globo, il quale, anche pur mancando di una rilevante tradizione, sappia fare quello che facciamo noi, probabilmente con risultati migliori e a costi inferiori. Sarebbe pura utopia pretendere che il mondo segua le nostre (cieche) presunzioni.
La libera concorrenza, se non opportunamente contrastata dalle imprese con azioni volte a renderle diverse e appetibili da un mercato che consente la floridezza soltanto a pochi eletti, condurrà alla riduzione dei margini di profitto nella maggior parte dei settori (a loro volta caratterizzati da un’elevata mutevolezza e sfuggenti ad una precisa definizione), fino a porre i più piccoli e deboli ai margini della competizione, in attesa di essere traghettati fuori dal mercato. Allora, distinguere fra politiche di differenziazione o di leadership dei costi non avrà più un senso dal momento che serviranno entrambe, e potrebbero non essere neppure sufficienti, ad assecondare i fini di sopravvivenza e continuo sviluppo delle imprese. La regola aurea diverrà l’elevazione e l’evidenziazione, con ogni mezzo disponibile, rispetto al gruppo di concorrenti, più o meno diretti, con i quali l’impresa si trova a competere per la conquista di una posizione di rilievo nella mente del consumatore.
1.2 – La strategia di posizionamento
1.2.1 – Struttura di mercato e posizionamento.
Il risultato cui sta conducendo la crescente tendenza all’apertura dei mercati alla concorrenza è, come visto, quello di appiattire i significati e le percezioni delle imprese e dei prodotti in competizione, con la susseguente difficoltà ad emergere dalla densa e caotica massa informativa la quale riduce la capacità percettiva ed interpretativa del potenziale cliente.
Il rischio maggiore che incontrano le imprese diventa, allora, quello della banalizzazione dei concetti, dei valori e dei simboli che le rappresentano. Il pericolo è cioè quello di vedere scivolare la propria immagine da una condizione di marca con una propria definita identità a quella di commodity.
I commodity market sono, appunto, quelli che si caratterizzano per l’assenza di una differenziazione fra i competitori percepita da parte degli acquirenti. I prodotti assumono agli occhi di chi li compra più o meno la medesima veste e rilevanza, e, sebbene possano in realtà sussistere delle differenze qualitative anche ragguardevoli, esse non vengono rilevate dal consumatore – e, perciò stesso, potremmo affermare ed assumere che non esistano[10] – il quale non fa distinzioni tra questo o quel prodotto. In situazioni come queste le decisioni di acquisto sono prese in conseguenza del prezzo, della disponibilità, o comunque di fattori sempre contraddistinti da un certo pragmatismo, piuttosto che in base all’immagine di marca o alla reputazione del produttore. Appare evidente come in questi mercati i margini di manovra per orientare le preferenze verso di sé si facciano ristretti. L’impresa scivola verso l’anonimato e il suo futuro si fa più incerto, diventando sempre più difficile risalire la china. Non bisogna, pertanto, permettere alle marche, anche quelle che appaiono ad una prima osservazione forti e solide nella propria posizione, di diventare commodity. A volte ciò accade per eccesso di sicurezza e troppa sufficienza da parte dei detentori della visione d’impresa (in queste situazioni vengono a mancare soprattutto il contatto e la visione dal dentro del mercato) i quali conducono ad una erosione del valore di marca tanto inavvertita quanto infine repentina nel manifestarsi in tutta la sua forza.
Esistono, tuttavia, casi in cui vengono seguite traiettorie opposte con il passaggio dallo status di commodity a quello di marca ben definita e di successo. Il modo con il quale avvengono queste mutazioni è sempre riconducibile all’adozione di adeguate strategie di affermazione della propria immagine che trovano nell’evidenziazione della propria diversità la leva principale.
Quello che differenzia la marca dalla commodity è costituito dal valore supplementare che l’acquirente riconosce – e nel riconoscere conferisce – all’oggetto della sua scelta o anche solo del suo desiderio. Il valore della marca va oltre la mera somma dei pesi degli attributi oggettivamente presenti nel prodotto o servizio, incorporando tutti quegli elementi che, pure apparentemente intangibili, vengono resi reali proprio in virtù del fatto che sono stati riconosciuti come valori dal cliente.
1.2.2 – Definizione di posizionamento.
Il posizionamento costituisce un concetto chiave per l’intera strategia d’impresa ed è riconducibile, in prima istanza, al problema della differenziazione dei propri prodotti e della propria immagine da quelli della concorrenza. Come già espresso, la sua importanza è accresciuta decisamente a causa del sovraffollamento di marche che caratterizza la competizione in molte categorie di prodotti e di servizi e che conduce ad un eccesso informativo con un sovraccarico non più gestibile da parte dei consumatori. In una società contraddistinta da una marcata e sempre crescente sproporzione tra l’informazione emessa e quella in grado di essere percepita e trattenuta e in mercati nei quali i prodotti sono sempre più uguali agli occhi dei consumatori – con la tendenza a divenire commodity – il principale problema è quello di riuscire a creare una differenza tra i prodotti. Il posizionamento costituisce, allora, un mezzo per uscire dalla condizione di confusione del mercato o almeno per cercare di gestirla nel modo migliore. Nel momento in cui il posizionamento diviene fattore particolarmente critico per il successo, esso, tuttavia, diviene anche, se possibile, maggiormente complicato e problematico da affrontare.
Il termine posizionamento fu coniato e utilizzato per la prima volta nel 1972 ad opera di due pubblicitari, Al Ries e Jack Trout, in una serie di articoli pubblicati sotto il titolo di “The Positioning Era” dalla rivista Advertising age. In essi venivano posti i primi principi di base della nuova nozione introdotta. Il contributo offerto dagli autori, proseguito attraverso successive pubblicazioni, è quello che più si inoltra sul terreno della mente e del posizionamento, pur mancando ancora di un’adeguata e strutturata sistemazione teorica.
Possiamo definire il posizionamento come il punto strategico, lo spazio-momento ideale, che una qualsiasi entità (un’impresa, una marca, una qualsiasi persona, o creazione od organizzazione di persone) occupa o cerca di occupare nella mente di un’altra entità allo scopo di indirizzarne il pensiero e l’azione[11].
Nell’originale definizione data da Ries e Trout il posizionamento è «La concezione di un prodotto e della sua immagine allo scopo di dargli, nel giudizio del consumatore, un posto favorevole e diverso da quello occupato dai prodotti concorrenti»[12]. Il suo ruolo è, quindi, quello di definire il modo con cui la marca o l’impresa vogliono essere percepite dagli acquirenti potenziali. Infatti, il posizionamento non concerne tanto quello che viene e può essere fatto al prodotto, quanto quello che viene fatto alla mente del potenziale cliente. Il prodotto viene cioè posizionato nella mente del cliente. Il problema consiste, allora, nel trovare un varco, una finestra, attraverso cui accedere alla mente, e il posizionamento, basato sulla convinzione che solo la comunicazione possa farlo al momento giusto e sotto le giuste circostanze, è un sistema organizzato in vista di tale finalità. La posizione deve essere chiara e facilmente riconoscibile dal pensiero dei consumatori. Nell’era del posizionamento inventare o scoprire qualcosa non solo è importante, ma diventa necessario e prioritario. Di più: il riuscire a penetrare per primi la mente del potenziale acquirente diventa elemento fondamentale, pena il dover affrontare seri problemi di posizionamento. Per aprirsi un varco bisogna avere l’abilità e la forza di sviluppare e portare avanti un pensiero capace di invertire, rovesciare, capovolgere l’ordinario rompendo le cristallizzazioni e sedimentazioni delle convenzioni. Altre volte, invece, è preferibile appoggiarsi in maniera sapiente ad esse per cercare di incanalarne il potenziale espressivo nella direzione voluta.
L’importanza che l’immagine ricopre nell’ambito delle strategie di posizionamento è rimarcata anche da Aaker, il quale, anch’egli proveniente dall’ambiente pubblicitario e che all’ambito pubblicitario tale concetto riconduce (rappresentando quest’ultimo aspetto limitativo forse il maggiore appunto che possa essere rivolto al pensiero dell’autore), quasi identifica immagine e posizionamento, distinguendo il secondo dalla prima in virtù del fatto che quello viene contestualizzato nella concorrenza[13].
Il posizionamento sfugge per sua natura a qualsiasi tentativo di inquadramento e riconduzione ad una stretta logica di pianificazione. Le critiche che alcuni autori muovono al posizionamento circa una sua presunta rigidità paiono non comprenderne la vera essenza e non tenere conto della sua multiformità, confondendola con le più tradizionali tecniche delle matrici a sostegno della teoria delle scelte di portafoglio. In effetti, non siamo di fronte a un modello nel quale occorra e sia sufficiente inserire gli input per ottenere delle indicazioni (peraltro solamente orientative). Il processo che conduce alla realizzazione di un posizionamento prende il via da concetti quali la visione, la cultura, la percezione, l’apprendimento, i quali, sintetizzati attraverso la fusione, guidano l’impresa verso la posizione competitiva e ne rappresentano gli essenziali requisiti.
1.2.3 – I requisiti del posizionamento.
Posizionare un prodotto o un’impresa non significa solo e semplicemente allestire una camna pubblicitaria in grado di “parlare e farsi ascoltare” dal consumatore: anche se il trucco consiste nel trovare il varco giusto al momento giusto credere e affidarsi solamente a questo sarebbe pericolosamente fuorviante e riduttivo. Proprio per riuscire ad aprire una finestra praticabile nella mente del consumatore occorre tenere presente che, affinché un posizionamento risulti valido, esso deve presentare alcune caratteristiche basilari. Myers individua nell’unicità, nell’importanza/desiderabilità e nella credibilità – alla quale possiamo affiancare la coerenza – i tre requisiti indispensabili per una strategia di posizionamento efficace[14].
Unicità – L’unicità, discendente per linea diretta del carattere e dell’identità di marca, è il principio cardine di tutto quanto attiene alle strategie di posizionamento, e non potrebbe essere diversamente, dal momento che esso trova la sua ragion d’essere proprio nella ricerca della differenziazione dai concorrenti. In mezzo a tanti segnali fra i quali il consumatore rischia di trovarsi disorientato, occorre trovare almeno un punto su cui insistere per portare alla sua attenzione la nostra diversità, la quale deve poi riferirsi a quegli argomenti che sono veramente importanti ai suoi occhi, cogliendolo nel vivo per ottenere l’accesso alla sua mente. L’importante è, comunque, riuscire ad attraversare la confusione e il disordine in modo da essere notati tra i tanti e ricevere l’attenzione e l’interesse del nostro target.
Una volta ottenuto il riconoscimento della nostra unicità occorre dare ulteriore forza e rilievo all’identità e alla personalità di marca, in modo da rendere palpabile e partecipe la nostra presenza nel vissuto del consumatore divenendo parte essenziale di esso.
Naturalmente si tratta di un’impresa ardua, specialmente nei mercati maturi dove a contendersi l’attenzione e il consenso dei potenziali acquirenti sono numerosi competitors, ciascuno con le proprie peculiarità. Qui, trovare un lato distintivo e sostenibile diventa fattore decisivo per il successo; raggiungere uno stato di fusione con il mercato, nei termini che abbiamo visto, può risultare decisivo.
Sebbene la comunicazione svolga un ruolo di primissimo piano, essa non riesce tuttavia ad essere una panacea. Non è sufficiente, infatti, dire al consumatore che siamo diversi e migliori della concorrenza, ma occorre dargli l’occasione e il modo di appurarlo e crederlo con convinzione.
Importanza/desiderabilità – Attribuire una eccessiva importanza all’essere unici e ricercare con ogni sforzo la diversità a volte può essere fuorviante e deleterio. Questo accade se si dimentica che l’unicità non è fine a se stessa. Offrire qualcosa che altri non offrono, per lo meno nei medesimi termini, ma che non risulta conforme ai desideri e alle aspettative del potenziale cliente ci riporta al punto di partenza, con l’aggravante che abbiamo gettato via tempo e risorse in una direzione che avremmo potuto facilmente riconoscere come un miraggio strategico. Anzi, potremmo trovarci ora nella necessità di doverci riposizionare, dal momento che il consumatore ormai potrebbe averci associato ad un’immagine sbagliata, quando non propriamente negativa ed estranea alle sue esigenze. Lasciare libero il passo alla creatività, elemento pur determinante, può perciò significare perdere terreno riguardo alla focalizzazione sulle effettive condizioni ed esigenze del mercato (questo non dovrebbe accadere se avessimo un adeguato orientamento alla visione dal dentro della relazione tra impresa e ambiente competitivo). Emerge, in questo modo la necessità di mantenere un certo realismo e pragmatismo nell’applicare una qualsivoglia strategia di posizionamento.
Occorre riuscire ad essere differenti in termini di qualcosa che sia rilevante e importante agli occhi dell’acquirente, divenire oggetto di desiderio per i potenziali consumatori, dei quali dobbiamo estrinsecare e fare emergere l’esigenza di ottenere quello che noi offriamo, e alimentare tale desiderio e stato di bisogno attraverso i mezzi che a ciò più si rivelino idonei secondo i casi e le circostanze.
Coerenza e credibilità – Attraverso la coerenza viene a stabilirsi e a compiersi una intima connessione tra il pensiero strategico e l’azione strategica dell’impresa di modo che l’una non contraddica l’altro, ma ne vada a rafforzare la portata e rinsaldare la direzione[15]. Se la coerenza costa a causa delle più proficue opportunità che impone di trascurare, essa trova anche un suo premio costituito dalla credibilità, virtù che, una volta riconosciuta dal mercato, si fa portatrice di un valore aggiunto supplementare ogni volta che poniamo in essere un’azione. La credibilità è un riconoscimento di merito che ci viene conferito, in seguito alla continuità e linearità della nostra condotta, anticipatamente rispetto al momento della reale valutazione
Al di là di un naturale margine di manovra concesso dalla riluttanza della persona a rinunciare a una infatuazione mentale o illusione (per non riconoscere in essa una propria sconfitta), prima o poi l’incongruenza tra quanto comunicato e quello che in realtà si è capaci di esprimere viene alla luce. Sostenere creduti, almeno in un primo momento, la propria unicità e diversità senza che esse siano effettive (mentre in realtà poggiano su basi poco consistenti, quando addirittura inesistenti e senza alcun serio fondamento) può condurre rapidamente a crisi di immagine che spesso si rivelano irreversibili. Di qui, l’importanza del mantenersi coerenti con quanto è effettivamente nelle nostre possibilità e non eccedere nel proiettare un’immagine poco sostenibile in quanto mancante di credibilità. Sono minori le possibilità di successo per un’impresa che occupa una posizione di per sé favorevole, ma senza avere le sectiune in regola per farlo, di quelle di un’impresa che sceglie una posizione magari meno attraente o anche distante da quella ideale, ma che lo fa sulle più solide basi della coerenza.
La particolare visione che caratterizza le strategie d’impresa, le peculiarità dei prodotti o servizi offerti, i punti di forza e di debolezza dell’organizzazione e della cultura di cui l’oggetto da posizionare è portatore costituiscono dei vincoli di cui tenere conto nello stabilire se un determinato spazio, il quali risulti occupabile ed astrattamente appetibile, risponda alle inevitabili esigenze dettate dalla coerenza.
In verità è possibile adottare una strategia che preveda, per l’immediato, di lanciare messaggi che sembrano, almeno in apparenza, non considerare il peso di questi elementi nella futura verifica da parte dell’acquirente della rispondenza ai valori promessi, proponendosi nel contempo di sviluppare in seguito quegli aspetti di cui è più forte la mancanza. Si tratta, però, di una scelta assai discutibile e rischiosa, da prendere con la consapevolezza che prima o poi il re i reali elementi di giudizio emergeranno e, allora, la situazione potrebbe risultare ormai insostenibile e difficilmente sanabile.
1.2.4 – Il rapporto tra strategia e posizionamento.
Una strategia consiste nel generare e nel dar corso, in maniera più o meno consapevole, a un comportamento atto a consentire il raggiungimento di un obiettivo. Questo non implica, tuttavia, che la valutazione degli esiti di una strategia si riferisca banalmente alla verifica di quanto degli obiettivi fissati in origine sia stato realizzato, potendo, tali esiti, venire a dipendere non soltanto dal modo in cui sono perseguiti, ma anche dal verificarsi o meno di eventi imprevisti e nuove circostanze generatrici di diversi scenari. La valutazione circa l’esito positivo o negativo della strategia adottata dall’impresa deve, infatti, essere misurata con il metro dettato dal giudizio di convenienza contingente del momento in cui gli effetti dell’azione si realizzano. Questo perché è evidente che alcuni degli esiti auspicabili in partenza possano non esserlo più in seguito al manifestarsi di una nuova scala valoriale e al verificarsi di diverse circostanze che gettano nuova luce e nuove ombre sul cammino della strategia, rendendo invece desiderabili esiti che in precedenza non lo sarebbero stati. Magari, il successo dell’azione intrapresa, pur conseguito tenendo conto degli iniziali criteri di giudizio, può derivare proprio dal mancato o diverso raggiungimento di quanto inizialmente desiderato, senza poi considerare il fatto che possono essere intervenuti in suo soccorso fatti meramente aleatori e assolutamente al di fuori della volizione strategica.
Ma la strategia deve essere anche uno strumento di riflessione e non soltanto un mezzo per portare avanti l’azione d’impresa. Attraverso essa, sia nella sua fase generativa che in quella attuativa, vengono infatti ad enuclearsi nuovi scenari ciascuno portatore di una diversa prospettiva attraverso la quale osservare le relazioni e le interdipendenze tra impresa e mercato. Il valore di questi momenti di introspezione circa l’evolversi della dinamica del rapporto impresa/mercato sta nel fatto che essi consentono di mantenere viva la sensibilità della rotta in cui ci muoviamo, mettendo in evidenza le necessarie correzioni da apportare. Affinché ciò possa avvenire non bisogna rimanere troppo legati a quanto si è precedentemente valutato e deciso. È vero, il darsi una strategia comporta sforzi così grandi che spesso l’impresa si può attaccare ad essa in quanto frutto di enormi sacrifici il senso dei quali potrebbe sembrare andare perduto nel distaccarsene, ma l’innamorarsi di un’idea e il lasciarsi affidati ciecamente ad essa diviene oltremodo pericoloso in un ambiente competitivo così turbolento e in evoluzione.
Non bisogna dare alla strategia un’eccessiva fumosità la quale potrebbe facilmente trasformarsi in evanescenza. Essa deve sempre essere orientata all’azione, al vivere, alla pratica[16]. L’enfasi posta sull’aspetto strategico del comportamento d’impresa deve essere controbilanciata da un utilitarismo opportunistico e dal pragmatismo strategico.
A ben osservare una qualsiasi definizione riservata al concetto di strategia, non si può fare a meno di riconoscere in essa almeno un elemento che riconduca all’idea di posizionamento[17].
Spesso, infatti, viene sottolineato come la strategia inerisca l’andare verso una direzione prestabilita e il perseguire il raggiungimento di un obiettivo di medio-lungo periodo verso il quale fare convergere tutte le linee guida aziendali. Allo stesso modo il posizionamento prevede il perseguimento di una posizione – nel mercato e, soprattutto, nella mente del consumatore – qui, però, solamente indicativa e urativa: siamo ad un livello di mèta-volizione, inferiore come taglio, ma forse più adeguata e aderente ai processi ed alle dinamiche che si sviluppano nel reale.
Il rapporto tra questi due concetti va ad ogni modo oltre la mera e semplice relazione di continuità. In effetti, preso nella sua accezione più estesa e con un orizzonte di ampio respiro, si potrebbe affermare che il posizionamento sia, in ultima analisi, sinonimo di strategia costituendone il nucleo primordiale dal quale si generano per gemmazione tutte le articolazioni di questa e nelle cui sfumature sono già visibili le varie caratterizzazioni da essa assunte. Stabilire un posizionamento ideale che funga da costante riferimento e obiettivo per tutta la futura attività d’impresa viene così a significare imprimere a tale attività un determinato codice genetico riscontrabile in ogni sua successiva decisione ed espressione di volontà, pure se ancora in fieri.
Il posizionamento strategico necessita di un adeguato arco temporale per far sentire i suoi effetti sui sistemi valoriali ed interpretativi delle persone. L’orizzonte temporale di riferimento per lo sviluppo della marca è, quindi, quello medio-lungo, abbisognando, essa, di un esteso periodo di tempo lungo il quale costruire e proiettare la propria immagine. Conseguentemente, uno dei principali ostacoli alla creazione di valore da parte della marca è costituito dalla tendenza che molte imprese denotano ad avere maggiore attenzioni per il conseguimento di risultati nel breve termine evidenziando l’assenza o la scarsa rilevanza di disegni strategici di più ampio respiro sui quali costruire la propria competitività a venire.
Seppure ponendo l’accento sui problemi tattici sia possibile produrre risultati positivi, talvolta anche nel lungo periodo, tuttavia, esiste il reale pericolo che tali risultati siano conseguiti sfruttando e spremendo la marca, determinandone in tal modo un indebolimento. Quella che viene a mancare, in simili situazioni, è proprio la consapevolezza che la marca è una vera e propria risorsa – la più preziosa, in quanto riassume in sé tutte le considerazioni e gli elementi valutativi con cui un certo prodotto o servizio viene giudicato dal mercato – e come tale deva essere gestita, al pari di ogni altro asset d’impresa. Del resto, non basta riuscire ad evitare di danneggiare una marca, ma occorre alimentarla continuamente incrementandone il valore percepito, dal momento che il suo mancato sviluppo costituisce un serio pregiudizio per la capacità competitiva dell’impresa[18].
Altrettanto sbagliato sarebbe sminuire a tal punto le problematiche tattiche rispetto a quelle strategiche da non accreditarle – andando oltre un inevitabile bisticcio di parole – di un proprio ruolo “strategico”. Del resto, attribuendo alla strategia un potere indipendente dai risultati tattici cadiamo in un errore di impostazione delle problematiche da affrontare che potrebbe esserci fatale. In realtà, la strategie dovrebbe seguire la tattica seguendo un approccio ed uno sviluppo bottom-up e, viceversa, il conseguimento di apprezzabili risultati tattici è lo scopo unico e finale di una strategia, dal momento che se così non avvenisse essa risulterebbe essere sbagliata indipendentemente dall’arguzia, dall’ingegnosità e dalla correttezza e ricercatezza formale con cui viene concepita e sviluppata. Una strategia, per quanto elaborata e teoricamente ineccepibile, non ha, cioè, alcun valore se non riesce a far conquistare alla marca quelle posizioni che, ponendola nel posto giusto al momento giusto e, soprattutto, sotto la prospettiva ideale (con riferimento alla relatività del contesto ambientale nel quale essa si trova ad operare), effettivamente servono per la sua affermazione nel sistema valoriale dei consumatori[19]. In definitiva, non si tratta di preparare piani per poi attendere gli eventi o cercare di far piegare ad essi le circostanza, ma, al contrario, di fare piani che, in sintonia con il concetto di mimesi e fusione profonda e ispirata tra impresa e mercato, si adattino alle circostanze.
Non esistono, aprioristicamente intendendo, strategie buone o cattive, discendendone la validità esclusivamente dai risultati conseguiti sul campo[20] e, poiché questi ultimi esprimono il modo con cui vengono raggiunti gli obiettivi tattici nell’arena competitiva, ne consegue che un adeguato livello conseguito di fusione con il mercato rappresenta un fondamentale prerequisito per conquistare una determinata posizione negli spazi mentali del consumatore (che costituiscono il naturale campo di battaglia della competizione tra le imprese). Solo una conoscenza intima e profonda di come funziona la dinamica degli spazi mentali con riferimento a un dato mercato ed ai potenziali acquirenti che ad esso fanno riferimento, infatti, consente ai decisori d’impresa di sviluppare una strategia appropriata ed efficace.
Paradossalmente, mentre la strategia si evolve partendo da una profonda comprensione della tattica, una buona strategia deve dimostrare di saper prescindere da tattiche superlative. In altre parole, se per conseguire una posizione di rilievo sul mercato è necessario affidarsi a delle tattiche straordinarie, ciò indica, di per sé, che la strategia di fondo non è affatto solida. La strategia, quindi, deve essere tale da mettere l’impresa nelle condizioni di seguire una tattica sufficientemente “facile” per conseguire gli obiettivi prefissati e si dimostrerà tanto migliore, quanto più riuscirà in questo intento.
Se da una parte la strategia di posizionamento deve seguire, attraverso il perseguimento di una simbiosi con il mercato, l’aspetto tattico e se, dall’altra, deve saper dimostrare di poter prescindere da tattiche eccellenti, qual è, allora, il vero ruolo della strategia? Una volta assunta una determinata posizione, se ciò non avviene in seguito ad un’approfondita analisi tattica della situazione, l’impresa, venendosi a trovare nella condizione di dover prendere decisioni immersa in mezzo ai flussi concorrenziali, potrebbe ritrovarsi a cambiare spesso idea e ad essere troppo sensibile alla tattica attenendosi ad una stretta visione “dal dentro” mancando, invece, di un’adeguata visione prospettica “dall’alto”. Viceversa, se la strategia dell’impresa è bene impostata sulla base di fondate considerazioni tattiche, una volta in posizione nell’arena competitiva, dovrebbe essere la strategia a orientare e guidare la tattica informandola sugli obiettivi di pari grado che sono stati alla base della sua generazione e facendo prevalere una prospettiva “dall’alto” in grado di indirizzare quella “dal dentro”. A volte, infatti, può rendersi necessario saper trascurare le necessità tattiche per potersi dedicare al raggiungimento degli obiettivi strategici, dopodiché seguiranno, a corollario, gli effetti tattici ricercati.
Un problema che spesso pesa sulla strategia di posizionamento dell’impresa è costituito dall’assenza di una comunità d’intenti nel perseguirla. A monte della questione troviamo l’inadeguatezza della comunicazione interna e dell’organizzazione di ruoli e competenze, con il proliferare di centri periferici cui vengono demandate scelte strategiche anche rilevanti e che, sebbene possano offrire risultati incoraggianti nel breve periodo, a lungo andare sono fonte di incomprensioni e distorsioni rispetto a quell’unitarietà della direzione strategica che sempre deve fungere da riferimento per le diverse attività aziendali.
La strategia non è, in altre parole, qualcosa che posa essere esteso, tirato, contratto e mutato a piacimento senza intaccarne il significato: muovere un suo elemento dall’alveo concettuale di riferimento, aggiungerne di nuovi od eliminarne altri ha come conseguenza inevitabile alterarne le connotazioni e la natura, conducendo a qualcosa che è diverso rispetto alle originarie intenzioni. Di qui, la necessità di pensare in modo unitario e concorde rispetto al sentire del mercato, onde non incorrere in riposizionamenti che portino l’impresa fuori dal cuore della competizione, affievolendo o addirittura distorcendo il senso ed il valore dell’identità e dell’immagine di marca. Il governo di una strategia da parte dell’impresa dovrebbe essere sempre dominato da un solo obiettivo il quale, pur articolato in sotto-obiettivi, dovrebbe avere la priorità assoluta rispetto ad ogni altro possibile intendimento, informando di sé tutte le attività poste in essere dall’impresa (non seguire questa strada significa, in sostanza, andare contro il più basilare ed elementare dei principi: quello della concentrazione della forza).
Altro fattore determinante nel valutare le possibilità di successo di una strategia è dato dalla considerazione o meno della naturale norma derivata dalla fisica secondo cui ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. In caso ciò non avvenga, a dimostrazione dell’esistenza di una situazione di disorientamento miopico[21], le possibilità che la strategia segua la strada tracciata ex ante sono minime, andando incontro a mutamenti del contesto concorrenziale non inclusi nell’analisi delle forze dalla quale deriva la sua determinazione. Una buona strategia di posizionamento, quindi, è quella che, oltre ad orientare la marca verso una posizione idonea ad affrontare la competizione, non trascura di anticipare le mosse reattive della concorrenza. Ad esempio, l’impresa che si trovi in una posizione di leadership e, pertanto, debba temere un attacco che si concentri sull’elemento di gracilità che inevitabilmente risiede nella sua stessa forza (risultando, anzi, amplificata tale debolezza all’aumentare della forza che la marca manifesta) , si troverà a dove prendere, in anticipo, la difficoltosa decisione di indebolire (relativamente) la sua stessa posizione di forza per minimizzare l’efficacia potenziale di un’offensiva su quel fronte da parte dei competitori .
Sintetizzando, vale la considerazione che qualunque azione un’impresa voglia intraprendere, tale azione non può mai essere separata dalla strategia che essa implica: l’azione è la strategia. La continuità tra azione, strategia e tattica, secondo cui la tattica aiuta a elaborare la strategia la quale, a sua volta, permette all’impresa un certo corso d’azione, costituisce un punto di riferimento fondamentale per quanto riguarda la competitività espressa dall’impresa stessa. Una volta decisa l’azione, poi, entra in gioco la strategia per dirigere la tattica: una barriera rigida tra strategia e tattica servirebbe solo a frustrare l’intero processo. Come evidenziano Ciappei e Poggi, azione e governo strategico vanno a comporre, in un processo ricorsivo basato sulla loro complementarietà (dove la prima è orientata e ordinata dal pensiero strategico ed il secondo cerca di compiersi attraverso essa), l’agire strategico, il quale «non si esaurisce nella sola azione, ma, quale compimento ed espressione di una strategia, comprende un vero e proprio sistema di governo che la ordina e la orienta»[24].
1.3 – Origine e natura del posizionamento
Il concetto di posizionamento ha diretta attinenza con quello di differenziazione, ed in verità è nell’attuazione di tale linea direttrice che esso manifesta appieno la sua valenza e il suo potere.
Occorre, tuttavia, risalendo a monte alle origini del vantaggio competitivo, liberare il campo da ogni possibile equivoco circa la natura del rapporto intercorrente tra strategie di posizionamento e, appunto, vantaggio competitivo.
1.3.1 – Vantaggio competitivo e posizionamento.
Porter afferma che il vantaggio competitivo può essere conseguito attraverso due strategie alternative: offrendo al consumatore un prodotto o servizio ad un costo più basso rispetto ai concorrenti, oppure offrendone uno che sia differenziato contando sul fatto che i potenziali acquirenti siano disposti, in virtù di tale differenziazione, a are per esso un prezzo superiore (naturalmente entro certi limiti)[25]. Quindi, inserendo il vantaggio competitivo (distinto nelle due origini che può avere) come prima dimensione di una matrice e ponendo nell’altra l’ambito competitivo scelto dall’impresa (l’intero settore o un suo particolare segmento), Porter individua tre possibili strategie di base: la leadership dei costi, la differenziazione e la focalizzazione .
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ura 1.3 – Le strategie di base di Porter
Le imprese che intendono praticare una strategia di costi bassi vengono nettamente distinte da quelle che puntano ad una competizione basata sulla differenziazione. Secondo Porter, infatti, le due tipologie di strategia si escludono vicendevolmente e le imprese che non sanno o non riescono a darsi un’impronta decisa rimanendo «a metà del guado» ne risentono le conseguenze negative. L’autore individua il centro del problema asserendo che «L’impresa che si blocca in mezzo al guado ha probabilmente una cultura di impresa poco definita e opera in una situazione organizzativa e motivazionale conflittuale»[27].
Il fatto che una simile situazione di stallo possa venire a determinarsi anche frequentemente non deve però implicare – ed in realtà non implica – che i decisori si trovino di fronte ad un bivio riguardo alla strategia di base da seguire. Nel mondo reale le possibilità offerte agli occhi di chi concepisce le strategie sono ben più fluide di quanto sostenuto da Porter, ed il fatto che sia pur sempre difficile comporre una forte differenziazione con bassi costi non deve portare ad una immediata conclusione circa la loro inconciliabilità. Il concetto stesso di posizionamento mostra come esistano delle alternative praticabili e spesso auspicabili, circostanze nelle quali l’optare per la strategia di differenziazione o per quella di leadership dei costi non significa tralasciare l’aspetto posto in secondo piano. Occorre, invece, riuscire a miscelare entrambi i punti focali in modo da ottenere l’integrazione più congrua per affrontare l’arena competitiva. Ad esempio, chi potrebbe affermare che McDonald’s, offrendo un prodotto essenziale e a basso costo, non persegua una decisa differenziazione della propria immagine e una chiara collocazione sul mercato?
Se è vero che il vantaggio competitivo si basa sulla creazione di valore per il consumatore (sia perché la nostra offerta costa meno di quella dei concorrenti e presenta analoghi benefici, sia perché presenta benefici unici che consentono di rendere accettabili prezzi superiori), è altrettanto vero che il posizionamento risulta essere il prodotto finale degli sforzi e dei contributi sinergici e coerenti di tutte le aree aziendali. Ridurre i costi non significa necessariamente abbassare la qualità del prodotto, dal momento che, pur tralasciando la non banale considerazione che i minori costi possono essere il risultato di economie di scala, di apprendimento, o dell’utilizzo di nuove tecnologie, può essere lo stesso mercato di riferimento a richiedere la non presenza di attributi ridondanti in favore di risparmi di costo.
Possiamo esprimere la posizione della marca nell’arena competitiva attraverso le combinazioni che scaturiscono dall’adozione di strategie incentrate sulla creazione di un valore per il cliente o sul vantaggio di costo. Ponendo le prime sulla dimensione verticale di una matrice[28] e le seconde su quella orizzontale otteniamo per risultato la determinazione di quattro tipizzazioni che corrispondono a quattro situazioni fondamentali in cui la marca può venirsi a trovare: commodity brand, benefit brand, productivity brand, power brand.
BENFITBRAND |
POWER BRAND |
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COMMODITY BRAND |
PRODUCTIVITY BRAND |
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ura 1.4 – Classificazione delle marche su una base strategica
Una commodity brand non offre particolari vantaggi rispetto alle altre marche, né quanto alla differenziazione e ai bisogni soddisfatti, né quanto ai risparmi di prezzo. Essa presenta una scarsa caratterizzazione che, insieme ad elevati costi relativi, pone la marca stessa in una situazione difficile e pericolosa. La mancanza di una spiccata identità e di elementi che forniscano valore al cliente comportano la percezione della marca come qualcosa che offre una utilità relativa assai bassa; la sua collocazione sul mercato non le offre la possibilità di trovare uno spazio di azione adeguato e praticabile e neppure le conferisce una rilevante visibilità in mezzo al gruppo dei competitori. Il fatto poi che la marca non possa vantare bassi costi relativi impedisce che possa essere posizionata come una (v.) productivity brand. Il futuro della marca risulta perciò minato su due fronti: da una parte essa offre un valore inferiore (o nella migliore delle ipotesi pari) ai concorrenti che si differenziano; dall’altra, a parità di valore percepito, le verranno preferiti altri prodotti o servizi più a buon mercato.
Una benefit brand è tipicamente una marca che non offre particolari risparmi di costo, ma può vantare un buon servizio. Si tratta spesso di imprese che si focalizzano, per scelta o per necessità, su un determinato segmento, cercando di soddisfarne appieno le particolari esigenze trascurate dai competitori che operano su un più ampio fronte[29].In questa situazione, soprattutto al fine di erigere barriere all’entrata su un mercato che potrebbe farsi molto appetibile, è fondamentale riuscire ad accrescere ulteriormente la propria differenziazione incrementando continuamente il livello di soddisfazione arrecato al segmento di riferimento. Nel contempo resta importante, quand’anche non impellente, cercare di ridurre il gap dai migliori concorrenti riguardo ai costi relativi, a meno che la riduzione di prezzo abbia un impatto negativo sulla percezione della qualità della marca, nel qual caso va assolutamente ed accuratamente evitata.
Una productivity brand è una marca che fa del basso costo il suo punto di forza e la sua sopravvivenza non è per questo necessariamente a repentaglio. In effetti, esistono numerose imprese che prosperano incentrando i propri sforzi nel soddisfare le esigenze di chi ha come principio guida per le sue scelte l’economicità. Su un più lungo orizzonte temporale, comunque, l’insorgere di problemi derivanti dall’ingresso sul mercato di concorrenti che offrono analoghi prodotti o servizi più a buon mercato e magari dotati di una certa caratterizzazione pare ineludibile. Il controllo dei costi in ogni punto in cui viene esplicata la sua attività deve costituire per l’impresa un obiettivo totalizzante e chi la dirige deve ignorare ed evitare di rispondere alle possibili sirene di segmenti che siano al di sotto di una soglia critica.
Le power brand sono marche che offrono ai clienti molti ed importanti benefici in più rispetto agli altri competitori presenti sul mercato. Le imprese che godono di simili vantaggi hanno saputo instaurare un circolo virtuoso basato sulla loro capacità di affermare e sostenere la propria unicità. Grazie all’alto livello di soddisfazione dell’acquirente che raggiungono, esse possono, infatti, vantare elevate quote di mercato, le quali, portatrici di vantaggi riguardo alla scala e all’esperienza, consentono di trasferire parte di tali vantaggi ai clienti sotto forma di risparmi di prezzo. Quando la marca si trova in questa condizione la priorità è quella di accrescere continuamente il senso di soddisfazione dell’acquirente in modo da poter alimentare il ciclo di produzione del valore della marca; deve inoltre essere mantenuto uno stretto controllo dei processi all’interno dell’organizzazione di modo che detto circuito non subisca interruzioni dovute alle nuove complicazioni insite nel suo stesso accrescimento.
Una marca sviluppa valore attraverso il posizionamento se riesce a capitalizzare le sue caratteristiche uniche che altri trovano difficile emulare. La posizione raggiunta, insieme al terreno conquistato nella mente del consumatore, è il vero nucleo del vantaggio competitivo, non importa se conseguito spostandoci più sul lato dei costi o su quello della differenziazione. Il saper creare posizioni che costerebbero troppo ai concorrenti in termini di trade-off e di coerenza con la propria immagine fino ad allora sedimentata costituisce poi l’arma più potente a disposizione delle imprese per difendere posizione e vantaggio competitivo.
1.3.2 – Differenziazione e posizionamento.
Nonostante il posizionamento comporti la mobilitazione di tutte le possibili energie e strategie a disposizione dei decisori, il suo centro naturale è costituito dalla differenziazione.
La ragione che sta alla base di ciò è costituita dal crescente livello di rumorosità riscontrabile nel mercato. Il consumatore, bombardato da flussi informativi divenuti ormai esasperanti, non riesce più a distinguere i singoli messaggi emessi dalle imprese, i quali si confondono e perdono tra i rumori di fondo. Egli, ormai disorientato e frastornato, si dirige verso la sirena del momento, quella che, per prima o con un impatto maggiore, in qualche maniera è riuscita ad attirarne l’attenzione. Oppure, se deve procedere all’acquisto di prodotti tradizionali e di uso comune, si affida a quei pochi nomi che gli offrono una sensazione di stabilità e sicurezza, approdi affidabili in mezzo a improbabili novità. Altre volte, invece, se prevale il lato pragmatico dell’acquisto con la sola considerazione della mera funzionalità da soddisfare, si orienta verso una scelta guidata dalla convenienza: in fondo il denaro risparmiato, essendo misurabile e tangibile, rappresenta una concreta e affidabile certezza.
I rischi che si corrono nell’apparire uguali agli altri competitori sono evidenti. L’impresa che non possa godere di una diversità agli occhi del mercato non potrà naturalmente pretendere di essere oggetto di scelta da parte degli acquirenti, i quali la preferiranno solamente se altri non cattureranno la loro immaginazione o se i vantaggi da essi offerti in termini di acquisto differenziato risultassero inferiori rispetto ai costi per esso percepiti. Rimanendo indistinte nel branco le imprese sarebbero cioè preferite solo se, venendo a mancare più forti criteri di scelta, potessero portare un senso di sicurezza derivante dalla conferma degli abiti comportamentali di cui si riveste il consumatore oppure se gli arrecassero una palpabile economicità. Ad ogni modo l’impresa non differenziata non potrà certamente praticare prezzi ingiustificabilmente superiori a quelli dei concorrenti nella ricerca di margini più alti.
Nel momento in cui la competizione non porta nessuna impresa a prevalere perché qualunque mossa si faccia essa viene rapidamente imitata dai rivali, occorre spezzare il gioco della libera concorrenza sfruttando le imperfezioni del mercato e cercando di conquistare quello che è il campo di battaglia decisivo: la mente del consumatore. Il fatto che i mercati stiano tutti progressivamente tendendo ad avvicinarsi a una condizione di libera concorrenza è il principale fattore di spinta delle imprese verso l’adozione di una differenziazione. Per sopravvivere bisogna creare le condizioni per uscire dall’anonimato e cercare di evitare la concorrenza pura. Grande rilievo assume, ora, l’immagine di marca insieme ad una politica di fidelizzazione della clientela che opponga alla sostituibilità l’onerosità materiale (elevando barriere di costo) e immateriale (elevando barriere di immagine) di trade-off derivanti da una scelta diversa.
Ancora, in favore dell’adozione di una strategia di differenziazione, gioca l’importante constatazione di una più agevole difendibilità di un vantaggio competitivo che si basi su di essa rispetto ad uno che poggi sulla leadership dei costi.
Il conseguimento di un’appropriata differenziazione viene così a rappresentare un obiettivo prioritario per l’impresa. Il problema è che sul mercato non può esserci spazio a sufficienza per tutti i players. Vero è che i confini e le dimensioni dello spazio competitivo sono in continuo mutamento e permettono, a chi li sappia interpretare, sempre nuove, inesplorate, opportunità di differenziazione. Ciononostante, la compressione esercitata dalla concorrenza limita notevolmente la libertà di movimento e di strategia. Con margini di manovra ridotti al minimo, si rischia di cadere in una guerra di posizione che potrebbe condurre al logoramento e allo sfaldamento delle strategie, oltreché delle strutture dell’organizzazione e del mercato.
E’ per rompere questa situazione o, muovendosi d’anticipo, per mettersi in posizione di superiorità, che le imprese si stanno rivolgendo sempre con maggior frequenza e impegno (soprattutto finanziario) a logiche espansive attuate attraverso strade alternative quali fusioni e acquisizioni. Divenire grandi consente di strozzare la concorrenza e guidare il mercato in virtù dei nuovi rapporti di forza instaurati. Spesso, anzi, pare che le imprese adottino simili aggressive strategie espansive per battere la concorrenza proprio perché riluttanti a seguirne altre, come quelle di riposizionamento, ritenute più aleatorie e rischiose e richiedenti comunque anch’esse ingenti risorse finanziarie. Di fronte a situazioni competitive contorte e ardue da affrontare attraverso le consuete armi del marketing la tentazione è, cioè, quella di risolvere la complessità facendone un nodo gordiano. In mancanza di una strategia vincente e decisiva per guadagnare quote di mercato e sopraffare le imprese rivali, un numero sempre più elevato di imprese dei più vari settori ricorre così alla fusione con i concorrenti o alla loro acquisizione.
Al di là dei vincoli intrinseci che possono derivare dall’estrema semplicità e stringatezza delle caratteristiche di un prodotto, non esiste altro limite alla differenziazione che quello della sensibilità e immaginazione umana. Tutto quello che rende i nostri prodotti o servizi migliori, o quantomeno differenti dagli altri, agli occhi degli acquirenti inducendoli ad esprimere una preferenza nei nostri confronti, può essere assunto come una base di lavoro per sviluppare una differenziazione di successo. Laddove si apre una nuova possibilità di differenziazione se ne apre poi una più grande per il posizionamento.
Nella realtà lo scontro che si genera tra marche concorrenti si sviluppa sul delicato terreno della mente del consumatore. Le scelte operate sulla considerazione di basi oggettive ed elementi e prestazioni misurabili, e quindi ponderabili attraverso la razionalità non sono molto frequenti. Le possibilità che si aprono alla differenziazione diventano viceversa tanto maggiori, quanto minore è la valutabilità obiettiva delle caratteristiche del prodotto o servizio. Si presenta, in quest’ultimo caso, l’opportunità di aprirsi un varco attraverso l’immaginario dei potenziali acquirenti.
La scelta, in effetti, è il frutto dell’influenza di fattori sociali, emozionali, psicologici ed estetici[30], come appare in ura 3.1. E questi sono i fianchi da colpire con ogni mezzo per riuscire ad accedere alla mente. Conquistare e difendere questi punti strategici significa costruire un guscio valoriale attorno al vantaggio competitivo. Diventa, allora, fondamentale riuscire a comprendere la natura e gli effetti prodotti da tali fattori nella loro reciproca interazione e nel sistema percettivo e decisionale della mente.
La differenziazione tuttavia non può più solamente avvalersi dei classici criteri di segmentazione per stili di vita, reddito, ecc. Accanto alla segmentazione per benefici apportati, che mantiene intatta la sua rilevanza e consente di attuare strategie di posizionamento incentrate sulle attività svolte e sulla loro relazione con i bisogni soddisfatti, irrompe un nuovo criterio per la segmentazione legato alla particolare condizione di fascinabilità che sembra esprimere il consumatore dei nostri giorni. Possiamo riferirci ad essa definendola segmentazione per immaginari collettivi. Gli immaginari collettivi, a volte simili a miraggi di gruppo, altre a ondeggiamenti dell’idem sentire di ampi strati della società (quand’anche non tutta, presa nel suo complesso) che si muovono in modo coordinato o concatenato, paiono essere i veri vincitori di questo tempo di disorientamento e intima insicurezza nel quale le menti cercano una comune lenizione del disordine nell’identificazione di punti comuni su cui ritrovarsi. L’immaginario collettivo si nutre del luogo comune e nel luogo comune ritorna, ma proprio questa, non a caso, sembra essere la sua forza, essendo, esso, divenuto il centro della socialità. Lo stesso significato letterale di “luogo comune” esprime la constatazione che si tratti di un posto dove ritrovarsi, ognuno con le proprie problematiche (vere o presunte, comunque avvertite), per esorcizzare le rispettive debolezze di fronte alle sempre nuove avversità da affrontare. L’immaginario collettivo viene ad essere allora un sicuro approdo in mezzo al caos ipercomunicativo, e poco importa che per definizione abbia vita breve: dopo di esso ne seguirà un altro e poi un altro ancora. Nel momento in cui l’immaginario inevitabilmente va a sfumare, esso viene, infatti, sostituito da uno che meglio si adatta alla mutata visione del reale. La temporaneità è ormai divenuta parte del nostro vivere e l’illusione, pur consapevole di esserlo, di aver trovato anche solo per poco il senso di una qualsiasi cosa pare avere sulla mente un effetto catartico.
Gli immaginari collettivi si sviluppano lungo un orizzonte temporale più lungo rispetto al semplice trend[31], che ha portata più limitata, spesso limitata a un anno o a una stagione, e l’impresa deve riuscire a far evolvere i significati e i valori della marca insieme all’evoluzione degli immaginari collettivi e dei mondi di riferimento, comunque nel rispetto della propria identità .
Tra i concetti di differenziazione e di posizionamento non esiste, però, una corrispondenza biunivoca. Mentre una scelta di differenziazione implica il perseguimento di un posizionamento, non è vero il contrario: possiamo posizionarci sul mercato o su un suo segmento anche senza adottare una politica che metta in risalto la nostra diversità e unicità. Sarà questo un posizionamento “periferico” che tuttavia, in alcuni contesti, può portare a risultati soddisfacenti soprattutto in assenza si risorse interne che possano rivelarsi risolutive, o quantomeno all’altezza dei maggiori concorrenti. Si pensi ad esempio a situazioni che ci vedono come piccoli players in un business dall’evoluzione ancora non ben definita e con una limitata visione dall’interno e dall’alto. In questo caso la priorità è quella di sopravvivere per cercare poi di cambiare i connotati all’impresa e al prodotti, incrementando i segni di distinzione e la distanza dai diretti competitori.
1.4 – Concetto, identità ed immagine di marca come decisioni strategiche
Le strategie che basano il posizionamento sull’aumento del valore dell’offerta non possono, tuttavia, costruire il proprio successo esclusivamente sulle funzionalità soddisfatte dal particolare prodotto o servizio. L’immagine viene allora ad essere l’asse portante per la conquista del vantaggio competitivo.
Possiamo definire l’immagine di marca come l’espressione che sintetizza in sé il prodotto o servizio così come viene percepita dal ricevente il messaggio, la quale assume forma e significato attraverso la rappresentazione che questi pone in essere nella sua mente. Essa deve essere forte, chiara e definita. La forza dell’immagine è strettamente connessa alla personalità di cui essa è portatrice. Pertanto, l’immagine deve possedere una propria personalità: non deve sembrare un qualcosa messo lì e attaccato al prodotto per caso, ma apparire evidente, inequivocabile e naturale (anzi, esserlo, in quanto espressione della fusione tra impresa e mercato), quasi non ci fosse nemmeno il bisogno di indagarne e comprenderne natura ed origine. Il risultato ideale sarà ottenuto quando l’acquirente potenziale, avvertendo un qualsiasi stato di bisogno rientrante tra quelli cui intendiamo rivolgerci, identificherà assieme ad esso, in un unico e inscindibile processo, la sua naturale ed ovvia soluzione nella scelta della nostra marca.
La definizione e la chiarezza dei concetti espressi dall’immagine di marca attengono alla sua identificabilità ed all’impossibilità percepita dal cliente di compiere errori di valutazione circa la scelta del problem-solver più adatto alla sua particolare esigenza, e sono inscindibilmente legate al requisito di forza.
1.4.1 – La relazione tra prodotto e cliente.
La comprensione del reale ruolo svolto dall’immagine di marca nella relazione tra impresa e mercato deve confrontarsi con la confusione generata dalla sovrapposizione di concetti spesso fraintesi.
Dare una definizione del prodotto può, quindi, varcando la soglia dell’ovvietà, riportare le cose nella giusta prospettiva. Il prodotto, in estrema sintesi, altro non è che un problem-solver, nel senso che possiamo concepirlo come un mezzo atto a risolvere le problematiche avvertite, più o meno consapevolmente, dal consumatore, di qualunque derivazione e natura – funzionale, simbolica, ecc.… – esse siano. Di più: il prodotto è quello che il consumatore compra, indipendentemente da ciò che l’impresa offerente ritiene che esso sia o rappresenti. È il consumatore, in altre parole, ad attribuire il significato al prodotto, e il comprenderlo significa per le imprese fare un notevole passo in avanti verso l’orientamento alla fusione con il mercato, evitando di incorrere nell’assai frequente peccato di presunzione (frutto probabilmente di un disorientamento miopico) che da quell’orientamento invece allontana. La conseguenza che ne traiamo è che, se ad esempio viene a prodursi la decadenza e il fallimento di un prodotto, non sono i potenziali acquirenti a non avere capito il messaggio, ma è l’esatto contrario. La responsabilità della mancato convergenza tra l’immagine della marca e le aspettative del mercato viene ad essere imputabile alla carenza di sensibilità da parte dell’impresa.
ura 1.5 – Relazione tra prodotto e cliente.
Osserviamo la ura 1.4. Questa pur semplicistica rappresentazione del rapporto che intercorre tra chi esprime una domanda e chi a quella domanda vuole dare una interpretazione e una risposta, pone in evidenza il ruolo del prodotto quale elemento che deve muoversi e convergere verso il bisogno percepito. Anche nel caso in cui si voglia prospettare un movimento in senso contrario per il quale, a volte, sarebbe il cliente a muoversi verso il prodotto, si tratta, in realtà, del medesimo rapporto, che è, e permane, invariabile; tale diverso senso è soltanto apparente e deriva dal fatto che i bisogni, pur non essendosi manifestati apertamente, sono stati in qualche modo (più o meno inconsapevole) ugualmente avvertiti dall’impresa e raggiunti dall’azione strategica espressa nel prodotto. Il cliente sta solo seguendo una strada che era già esistente, ma non ancora visibile agli occhi suoi e dei più.
Da parte sua, il mercato emette continuamente segnali, che sì, possono risultare estremamente difficile da percepire da parte dell’impresa, ma non per questo devono portare a dubitare circa la loro esistenza. Sono del resto la complessità e l’apparente contraddittorietà dei modi con cui il mercato esprime i suoi bisogni ad accrescere il valore delle informazioni in essi contenute. Interpretarli in un senso e non in un altro può tuttavia condurre lontano dal cuore della competizione.
Può risultare conveniente, a questo punto, indagare il modo con cui il prodotto, proponendosi come problem-solver, riesce a fare breccia nella mente del consumatore. A tale fine rappresentiamo il prodotto come il risultato dell’aggregazione dei diversi elementi di soddisfazione dei bisogni. Secondo l’intensità e le peculiarità con cui tali elementi sono presenti possiamo osservare risposte diverse al medesimo bisogno.
Gli elementi di base che caratterizzano il core product – il nucleo dell’offerta – sono quelli che esprimono la ragione per cui l’impresa è sul mercato e rispondono alle primarie esigenze funzionali, estetiche, di prezzo delle quali l’azione dell’impresa vuole essere la risposta. Con l’espressione lateral product intendiamo tutte quelle attività di contorno che servono a dare una particolare caratterizzazione e attenzione ai bisogni secondari (per ordine, non necessariamente per importanza) dei potenziali acquirenti. Il terzo livello del prodotto – image – è costituito da tutte quelle attività che sono riconducibili all’affermazione dell’immagine del prodotto o, più in generale, della marca.
ura 1.6 – Livelli di efficacia del prodotto
I tre livelli di espressione del prodotto hanno un diverso impatto sul rapporto che l’impresa intrattiene con il mercato. A livello di core product la concorrenza porta spesso a situazioni nelle quali le differenze tra i vari competitor sono poco evidenti; qui i margini per la differenziazione sono quelli che derivano dalle attività o il riflesso delle scelte operate a un altro livello del prodotto (pensiamo, per esempio, allo stretto legame tra immagine da una parte e design e packaging dall’altra). Inoltre è questo livello che assorbe le maggiori energie dell’organizzazione e comporta i maggiori costi. Se l’azione strategica dell’impresa si arresta a questo livello incorre, come denota l’arrestarsi al primo stadio del vettore in ura 1.6, in una minore efficacia e nel rischio di trovarsi a competere in un ambiente dove i prodotti si avvicinano sempre più ad essere delle commodity con le
ura 1.7 – I livelli del prodotto in una visione concentrica
A livello di lateral product, che contribuisce principalmente a una più marcata caratterizzazione e, soprattutto, a livello di image, troviamo, invece, le attività che maggiormente contribuiscono ad arrecare valore e incisività al prodotto. È qui che prende spessore e vigore la forza di impatto della marca.
Ricollegandoci all’impostazione di De Chernatony e McDonald (ura 1.7) possiamo rappresentare il prodotto come un’insieme concentrico di circonferenze il cui nucleo è costituito dal core product e dove le circonferenze più esterne, rispettivamente riconducibili al lateral product e alla image, formano quello che gli autori chiamano product surround, la dimensione del prodotto che in maggiore misura contribuisce alla creazione del valore[33].
La classificazione proposta non vuole comunque essere intesa come normativa, limitandosi a consentire un inquadramento meno nebuloso e più razionale e sistemico delle caratteristiche del prodotto. In realtà core product, lateral product ed image non sono distinguibili e riconoscibili facilmente, dal momento che ogni elemento costituente un determinato livello è intimamente legato a tutti gli altri. Il senso proprio di ogni prodotto deriva proprio dalla forma e intensità che assumono le relazioni che sussistono tra i suoi diversi elementi e tra questi ed i potenziali clienti.
Per concetto di marca intendiamo un significato attribuibile alla marca derivante dai bisogni di base dei clienti (funzionali, simbolici, esperenziali) e scelto dall’impresa. La gestione del concetto di marca rappresenta il mezzo per mantenere il controllo, attraverso la definizione dell’identità di marca, sull’immagine di marca.
I passi logici della creazione e governo del concetto di marca, così come individuati da Park, Jaworski e MacInnis[34], sono sintetizzabili come di seguito:
· selezione di un concetto di marca;
· gestione nel tempo del concetto di marca attraverso le fasi di:
introduzione;
elaborazione;
fortificazione.
La selezione di un concetto di marca deve opportunamente basarsi su un’attenta considerazione dei bisogni dei clienti, mettendo in atto, in questo modo, un posizionamento che tenga conto delle ragioni d’uso e delle attività dell’impresa. I bisogni possono essere ricondotti a tre fondamentali categorie: funzionali, simbolici, esperenziali.
I primi sono individuabili in quelli che spingono alla ricerca di soluzioni per problemi relativi al consumo, in grado, cioè, di risolvere un problema corrente, prevenire un problema potenziale, risolvere un conflitto o intervenire su una situazione divenuta frustrante per riformarla. Un prodotto in grado di offrire un beneficio funzionale è quindi un problem-solver orientato a dare risposta ad esigenze riguardanti il consumo e generate esternamente al sistema valoriale della persona.
I bisogni simbolici sono definibili come desideri di acquisto che nascono in funzione della soddisfazione di esigenze di auto-stima o di differenziazione della propria personalità, oppure in relazione alla posizione relativa riguardo ai ruoli assunti in un determinato contesto o alla partecipazione e appartenenza a gruppi sociali. Una marca il cui concetto risponda a un bisogno simbolico – che appare all’esterno, ma viene avvertito e imposto all’interno – svolge, infatti, il ruolo di dare evidenza a un ruolo, una posizione, un’immagine di sé.
I bisogni esperenziali esprimono il desiderio verso quei prodotti che arrecano piacere per i sensi e per la mente, offrendo stimoli per la cognizione dovuti spesso ad un’esigenza di varietà[35]. Una marca che si orienti alla soddisfazione di questo genere di necessità, siano esse di stimolo o di varietà, sta rispondendo ad esigenze generate internamente.
Ogni marca può essere posizionata in base a ciascuno di questi bisogni e proiettare perciò un’immagine funzionale, simbolica o esperenziale. Risulta possibile, tuttavia, anche un posizionamento fondato su una loro combinazione. In questo caso aumentano però i problemi, dovendo la marca fronteggiare una minore definizione del proprio focus (rischiando di incorrere in vere e proprie crisi di identità da parte sua e di identificazione da parte del cliente). Aumenta inoltre il numero di avversari che creiamo con la nostra scelta di porci su più terreni di battaglia[36]. È indubbio, per concludere, che una siffatta scelta aumenti i costi di gestione della strategia di marca sia nella fase di introduzione, che in quelle di elaborazione e fortificazione.
Una volta stabilito, il concetto di marca viene utilizzato per guidare le decisioni relative al posizionamento. Il concetto deve rimanere il più stabile possibile per tutta la vita della marca incrementando così il livello di coerenza e credibilità della stessa. Questo ovviamente non significa che la particolare posizione assunta debba restare invariabilmente la stessa. Al contrario, il perseguimento dell’affermazione della marca impone che la specifica posizione da essa perseguita vari con le mutate condizioni del mercato.
Appare opportuno specificare che il concetto di marca non va a sostituire la nozione di posizionamento. Il suo ruolo è piuttosto quello di coadiuvarlo e conferirgli, allo stesso tempo, una maggiore flessibilità.
La relazione tra concetto ed immagine di marca deve essere gestita nel tempo in modo da consentire l’adozione di strategie di posizionamento che permettano alla marca di svolgere appieno il suo ruolo di tramite tra impresa e cliente.
Nella fase di introduzione l’obiettivo principale è quello di insediare l’immagine di marca in una posizione nel mercato in modo da darle già una prima connotazione che deve però permettere tutti quegli aggiustamenti (anche rilevanti) che si possono rendere necessari e che sono ancora particolarmente numerosi in questo passaggio e nei successivi. Gli sforzi di posizionamento nell’introduzione del concetto di marca dovrebbero, cioè, essere mirati a facilitare quelli nell’elaborazione e nella fortificazione. Le leve strategiche da attivare sono quella comunicativa e quella legata al porre in essere attività orientate alla interazione e transazione con il mercato (in verità una enucleazione e specificazione della prima). La prima vede coinvolto tutto il marketing mix nella prima proiezione e affermazione dell’immagine di marca oltre che nella differenziazione dai concorrenti. La seconda tende a favorire la familiarizzazione con la nuova marca e mette in campo una disponibilità a trecentosessanta gradi a farsi conoscere e a mettersi a disposizione, abbattendo le barriere e le resistenze che si possono frapporre fra impresa e cliente.
Il posizionamento di una marca con un concetto di funzionalità dovrebbe orientare il marketing mix a mettere in rilievo la particolare capacità e performance della marca nel risolvere gli specifici problemi connessi al consumo (l’originaria natura di problem-solver del prodotto viene qui fuori in tutta la sua portata). La performance della marca dovrebbe essere, qui, differenziata da quella delle marche concorrenti.
Le marche basate su concetti simbolici dovrebbero porre i maggiori sforzi nell’avvicinare e attirare l’attenzione dell’uditorio che ne costituisce il target per poi imporsi come oggetto di desiderio riguardo alla risposta alle specifiche esigenze di cui esso è portatore. Adottare un prezzo elevato e riuscire ad entrare nel ristretto ed esclusivo circuito distributivo dal cliente riconosciuto come naturale sbocco del particolare tipo di marca che va ricercando, potrebbe costituire un buon primo passo. L’importante, comunque, è che si metta implicitamente o esplicitamente in evidenza che la marca è qualcosa che distingue i clienti che rientrano nel target da quelli che non vi rientrano, invitando così i primi a fare parte di un qualcosa di speciale, un mondo a parte dove le proprie esigenze troveranno apamento.
Le strategie adottate da marche che si appellano a bisogni esperenziali dovrebbero essere impostate in modo da porre in risalto la capacità della marca di esprimere quella stimolazione cognitiva e soddisfazione sensoria che sono alla base del concetto di marca.
Nella fase di elaborazione lo sforzo delle strategie di posizionamento, guidate dal concetto elaborato, va rivolto e focalizzato all’incremento del valore dell’identità di marca di cui l’immagine è espressione, in modo da stabilire e sostenere la percezione della sua superiorità su quella dei concorrenti. Per ottenere l’effetto desiderato, la strada da percorrere può essere quella di rivolgerci a un più specifico bisogno oppure migliorare uno o più attributi del prodotto tra quelli avvertiti come particolarmente importanti. Qualora si renda necessario procedere ad un aggiustamento riguardo alla posizione assunta nella prima fase, ciò non deve comunque coinvolgere il concetto di marca.
Sebbene tutti i concorrenti abbiano gli stessi obiettivi di rafforzamento e differenziazione, i risultati che essi conseguono, oltre che dalle diverse capacità e risorse a disposizione e dai conseguenti diversi livelli di fusione con il mercato raggiunti, sono determinati anche dai diversi concetti di marca che rappresentano le rispettive basi per la competizione. Rilevante è poi la constatazione che la strategia adottata in questo stadio si presenta come l’estensione di quella seguita nell’introduzione.
Una marca imperniata sul concetto della funzionalità ha la facoltà di scegliere tra una ulteriore specializzazione[37] nel proporsi come problem-solver di una determinata esigenza (scelta che diventa particolarmente utile, se non necessaria, quando i prodotti diventano sempre più complessi e sofisticati, i bisogni specifici, il mercato frammentato), oppure una strategia di generalizzazione con l’obiettivo di rendere la marca utile in tutta una serie di occasioni di uso per le quali in precedenza non lo era. Nel primo caso, l’impresa goderà, a corollario, del beneficio legato alla restrizione del numero di concorrenti presenti sulla sua stessa arena competitiva. Nel secondo, andrà incontro allo scenario opposto, anche se potrà disporre di un prodotto dalle caratteristiche più versatili. L’optare per l’una o per l’altra di queste strategie dipenderà allora dalla particolare struttura e dalle specifiche connotazioni del mercato preso in considerazione.
Una marca con un concetto simbolico ha per obiettivo, nella fase di elaborazione, il mantenimento dell’associazione e del legame con il gruppo che ne rappresenta il target di riferimento. La strategia di posizionamento adottata in tal senso e volta al mantenimento dell’esclusività della marca viene definita “market shielding strategy”. Si tratta di erigere barriere a ché il consumo della marca risulti difficoltoso a chi non appartiene al target magari agendo in modo tale da far nascere poi in questi ultimi il desiderio di entrare a far parte dello stesso mondo – di riferimento – cui si rivolge la marca allargando così su essi la propria sfera di influenza. Mantenere l’immagine è molto difficile, date le crescenti pressioni concorrenziali, tuttavia può rappresentare l’unica via per estendere la vita di una marca.
Le marche esperenziali, enfatizzando l’aspetto sensoriale/cognitivo, promuovono per propria vocazione e natura l’uso frequente. Il rischio è che questa frequenza arrivi a determinare una sensazione di sazietà o addirittura una situazione di overdose con un’inevitabile riflusso ed il seguente indebolimento dell’immagine di marca[38]. Si rende perciò necessario il mantenimento di un certo livello di controllo degli stimoli e del consumo. Per evitare di vedere ridurre il grado di stimolazione sotto livelli critici le marche il cui concetto si basa sui bisogni esperenziali possono seguire due diverse strategie principali. Da una parte possono allargare l’offerta attraverso il rendere disponibili prodotti o servizi accessori da usare congiuntamente alla marca. Oppure può essere creata una rete di marche ciascuna portatrice di qualcosa di diverso garantendo in questo modo una pluralità di stimoli differenti.
Nel terzo (eventuale) stadio, la fase di fortificazione, l’obiettivo è quello di procedere al collegamento dell’immagine di marca elaborata con altri prodotti della stessa impresa appartenenti a differenti classi di prodotto. I prodotti multipli, almeno nelle intenzioni, si rafforzano vicendevolmente e conferiscono alla aggregazione di marca un senso di unità e coesione aumentandone il valore. Questo, tuttavia, non significa un’interruzione per la fase di elaborazione, la quale, al contrario, continua per tutta la vita della marca. L’adozione si una strategia di fortificazione presenta, inoltre, ulteriori vantaggi: i costi si comunicazione verrebbero ripartiti su una più ampia base; la presenza di immagini simili potrebbe aiutare a creare la percezione di una complementarità dei prodotti inducendo ad un utilizzo congiunto; le singole immagini potrebbero concorrere all’incremento del valore dell’immagine di impresa. I rischi sono quelli che derivano dal non costituire dei timenti stagni: una eventuale perdita di immagine di una marca potrebbe, per un’inevitabile associazione questa volta negativa, trasmettersi rapidamente alle altre, rendendo estremamente arduo qualsiasi tentativo di ripristinare l’originario valore di marca.
In questa fase le strategie di posizionamento dovrebbero enfatizzare il collegamento all’originale concetto e immagine di marca (“bundling strategies”) e l’impresa dovrebbe riuscire ad avere, se possibile, una ampiezza di visione ancora maggiore. Le marche basate su un concetto funzionale devono fare risaltare il collegamento con altri prodotti orientati alla performance. Un processo analogo vale per quelle che rispondono a problemi esperenziali dando una particolare enfasi alla complementarità tra i prodotti.
Maggiori appaiono le potenzialità di una bundling strategy se essa viene applicata a prodotti che rispondono ad esigenze simboliche. In questo caso, diventa possibile giocare con i collegamenti in modo tale da creare veri e propri stili di vita dei quali i singoli prodotti sono ognuno parte.
1.4.3 – Ideazione e gestione dell’identità di marca
L’approccio al concetto di marca, inserito nel contesto del posizionamento, viene sempre più riconosciuto come passaggio obbligato da affrontare da parte della strategia ai fini della generazione e dell’accrescimento del valore d’impresa e per il conseguimento del successo della marca nel mercato, andando a ribaltare, in questo modo, i rapporti di forza con la nozione di prodotto a lei simmetrica. La marca ha, cioè, conquistato quel ruolo di primo piano che prima non le era riconosciuto, distaccandosi ed elevandosi sopra la passata inclinazione a fare del prodotto la leva strategica principale e di riferimento per l’azione strategica.
Nel concetto di marca vengono così a convergere sia gli attributi tangibili dell’offerta dell’impresa (quelli che ineriscono al core product) che quelli intangibili e riconducibili al surround product, fra i quali spicca senz’altro l’identità di marca assieme all’immagine di marca, la sua proiezione nella mente del cliente così come viene da questi percepita.
Identità di marca ed immagine di marca non sono comunque sinonimi e perciò non vanno confuse. La prima attiene al momento della proiezione della visione della quale siamo portatori e della personalità che ci caratterizza. In primo luogo, questa proiezione avviene verso l’ambiente esterno nelle forme del target cui ci rivolgiamo, del comune sentire della realtà sociale, economica, culturale, di potere propria del contesto di riferimento. Ma importante è anche la proiezione che ne facciamo all’interno dell’impresa, nel tentativo di informare l’intera organizzazione secondo un codice genetico idoneo a farla pensare e muovere coerentemente con la visione proposta.
L’immagine di marca è, invece, un concetto che attiene al momento in cui l’identità proiettata dall’impresa giunge, attraverso un percorso in cui i significati originari di questa possono essere alterati in seguito ai condizionamenti della concorrenza, delle barriere percettive e delle circostanze, alla mente del ricevente il segnale. Questi, alla fine del processo appena descritto, implementerà un’immagine che non sarà necessariamente coincidente con il sistema valoriale e simbolico contenuto nel concetto di identità che è stato emesso.
La relazione tra identità ed immagine di marca è illustrata in
ura 1.8. Come sappiamo, core product e surround product sono tipicamente
portatori, rispettivamente, di attributi tangibili ed intangibili che
esprimono, confluendovi, il concetto di marca cui essa farà costante riferimento
e che assumerà le connotazioni di una vera e propria identità di marca.
Quest’ultima, ben definita, costituisce il modo di essere della marca e va ad
esprimere tutti i valori ed i significati che ne costituiscono il codice
genetico tanto nei rapporti che l’impresa intrattiene con il mercato, quanto
nei rapporti che si sviluppano al suo interno. L’immagine di marca, infine, è
la risultante della proiezione dell’identità nella mente dei potenziali
acquirenti operata dall’impresa nel suo sforzo comunicativo ed espressivo
generalmente inteso.
L’identità fa riferimento al particolare mondo di significati della marca ed in ciò si distingue dalle identità delle marche concorrenti. Con il tempo, attraverso la condivisione partecipata degli eventi che determinano il sentire dell’acquirente e il prendere parte al particolare immaginario cui egli si richiama, l’identità di marca viene a definire un’area di possibilità legittimate.
Sarebbe tuttavia pericolosamente riduttivo e fuorviante intendere la costruzione dell’identità di marca come circoscritta allo stabilire quale sia l’architettura giusta per gli attributi di cui sono portatori i prodotti e a quale prezzo questi vadano portati sul mercato. Il ruolo dell’identità è in realtà molto più importante, dovendo essa rendersi promotrice di un mondo che il cliente deve riconoscere come possibile e auspicabile attraverso il disegno dei contesti comunicativi, di quelli nei quali il prodotto vive e attraverso le storie che esso racconta.
L’identità di marca, in ogni caso, non trova solitamente modo, nell’immediato, di sviluppare e manifestare la propria forza ed esprimere appieno la capacità di generare tutto il valore di cui è potenzialmente portatrice. Essa si sviluppa nel tempo secondo un processo evolutivo che vede la marca attraversare tre fasi attraverso le quali diventerà sintesi dei nuclei ideali in cui è suddivisibile il prodotto[39]:
Marca come sintesi di attributi di prodotto In una prima fase il potere di cui dispone la marca è indirizzato (e solo sufficiente) a consentire la distinzione del prodotto di un’impresa da quelli della concorrenza attraverso l’adozione di un sistema di segni di riconoscimento. All’inizio sono perciò i prodotti a dare un senso alla marca.
Marca come sistema di valori Se all’inizio i prodotti contengono in sé elementi di differenziazione, successivamente, in seguito all’operare dell’azione strategica da parte dell’impresa, essa riesce a dispiegarsi attraverso l’affermazione di attributi intangibili quali ad esempio valori evocati, forme, prezzo. È questa la fase centrale dell’evoluzione della marca, nella quale essa acquista una propria personalità e organicità e viene associata a un insieme di elementi tangibili e intangibili. Sono appunto codesti elementi – ed in particolare quelli intangibili – a innescare un processo che ha come risultato ultimo (anche se non definitivo e da sviluppare senza soluzione di continuità) quello di creare sia per l’impresa sia per il cliente un valore che va oltre la mera somma degli attributi di prodotto. Il concetto di marca si fa, in questa fase, corposo, superando l’iniziale sua astrattezza e inconsistenza.
Marca come vettore di sviluppo Il risultato ultimo dell’evoluzione dell’identità di marca è quello in cui la marca si distacca completamente dal prodotto che le è sottostante per giungere a godere di vita autonoma, Non sempre le imprese raggiungono questo stadio di sviluppo della propria identità di marca, vedendo invece arrestata la sua evoluzione a una delle fasi precedenti.
La sequenza con cui una marca si muove da una fase all’altra non ha una valenza determinata in partenza, essendo il limite fra esse assai sfumato e valendo come fattore determinante la struttura e le caratteristiche proprie del settore o segmento in considerazione. Così, in alcuni settori si può verificare l’accesso diretto all’accezione valoriale della marca saltando il primo momento in cui essa rappresenta solamente il segno nel quale riconoscere un insieme di attributi. Ciò può valere, per esempio, nel settore moda, dove da subito riveste un’importanza primaria una comunicazione incentrata sull’espressione di mondi di riferimento capaci di essere riconosciuti come effettivamente desiderabili dal consumatore (invece che fondata sull’evidenziazione del complesso di attributi presenti nel prodotto).
Il passaggio alla seconda e alla terza fase diviene ancora più opportuno e auspicabile nei marcati maturi, dove ormai il livello di rumorosità è molto elevato e il consumatore si trova a dover scegliere tra prodotti che ai suoi occhi risultano essere sullo stesso piano, e dove l’affermazione di una forte personalità di marca può essere risolutiva nel determinare la scelta. Ad ogni modo, è in quei settori dove sono dominanti gli aspetti evocativi e quelli simbolici che l’identità di marca ha i maggiori margini di sviluppo e può apportare i più elevati incrementi di valore.
L’importanza del creare una personalità di marca forte e definita appare in tutta la sua evidenza se consideriamo i livelli di complessità che la mente si trova ad affrontare, esposta come è ad un eccesso di informazione sempre crescente. La mente, in genere, ama la semplicità e poco tollera un bombardamento di segnali che alla fine produce soltanto disorientamento[40]. Così, per ogni categoria di prodotti riusciamo a trattenere e ad associare al bisogno sottostante solamente un numero limitato di immagini corrispondenti ad altrettante marche. Compito dell’identità di marca diventa allora quello di far rientrare il nostro prodotto tra la ristretta schiera di eletti che hanno accesso alla mente del cliente attraverso il riconoscimento della loro funzione di adeguati problen-solver riguardo al bisogno che è alla base della scelta . Per ogni segmento/mercato, il consumatore assegna la leadership soltanto a poche imprese. Questo non deve però sorprendere, essendo la caratteristica di qualsiasi rapporto di interlocuzione. Nessuno ha la capacità di esprimere un numero elevato di preferenze pariteticamente sopra tutte le altre, qualsiasi sia l’argomento della scelta da operare. Perciò, dobbiamo tenere in considerazione, per esempio, che anche i nostri distributori, nel caso non siano legati a noi da un rapporto di esclusiva, manifestano delle preferenze e tra esse dobbiamo cercare di ricadere .
Il processo che porta all’ideazione e allo sviluppo dell’identità di marca si articola in momenti che, al fine della loro comprensione, possiamo distinguere, ma che in realtà si intersecano in una vicendevole convergenza verso il saper essere e il saper rappresentare.
Per la costruzione o il riposizionamento di una identità di marca, è innanzitutto fondamentale riuscire ad interpretare il contesto socioculturale e gli immaginari collettivi di riferimento, trovando, attraverso una fusione, la sintonia tra impresa e mercato, in modo da prospettare per l’identità un ampio potenziale di sviluppo.
La visione si pone, allora, come il risultato strategico di questa interpretazione svolgendo allo stesso tempo una funzione di informazione dell’azione strategica e di riferimento per tutta l’organizzazione. Dalla visione scaturisce direttamente la concezione di identità di marca, la quale, una volta progettata nei suoi aspetti tangibili[43], viene proiettata verso il mercato esprimendo in tal modo il senso compiuto dell’idea cui siamo pervenuti. La progettazione dell’identità di marca si matura in tre momenti:
Diagnosi dell’identità di marca attuale
Questa prima attività, necessaria se il problema è quello di procedere a un riposizionamento, è volta a comprendere, attraverso un’analisi obiettiva, quale sia al momento l’essenza dell’offerta dell’impresa intendendo con ciò la sua ragion d’essere, i simboli e i codici comunicativi utilizzati per lasciare la propria impronta nella mente del target e se essi siano riconoscibili e condivisi. In questa prima fase, occorre verificare, inoltre, se l’identità di marca concorda o meno con gli attributi tangibili del prodotto, potendo ben verificarsi l’eventualità che la visione non abbia trovato in essa una consona espressione.
Visione prospettica del posizionamento
Può costituire la prima attività da portare a compimento nel caso in cui il problema sia quella di creare ex novo un posizionamento. Il passo logico che deve necessariamente precedere l'indagine della migliore posizione assumibile è rappresentato dal chiedersi a che punto stiano le visioni dal dentro e dall’esterno. Questa valutazione risulta spesso difficile per la mancanza di obiettività di chi la esegue e per le stesse cause che sono alla base degli effetti di disorientamento descritti in precedenza. I limiti in cui incorre, viceversa, ne aumentano ulteriormente l’importanza e la decisività.
Domandarsi quale siano la visione e la missione che intendiamo portare avanti e quale sia il traguardo che, raggiunto, possiamo ritenere soddisfacente serve poi ad orientare la marca in una precisa direzione. È la visione a dettare i punti salienti, tangibili e intangibili, che debbono ritrovarsi nel prodotto. Occorre identificare quale sia il gruppo di clienti cui intendiamo rivolgerci, quali siano le occasioni d’uso (magari con possibilità di essere ampliate) su cui basare la nostra azione, e, soprattutto, quali siano le reali posizioni, attuali e potenziali, dei nostri concorrenti.
Con la definizione e la creazione di una identità di marca coerente con la visione emergono le tematiche relative a come, operativamente, manifestarla in modo da ricrearla nell’immagine percepita.
Sviluppo e alimentazione iterativa del concetto di marca
La conquista di una posizione di rilievo non deve far ritenere acquisito tale risultato. Essa deve essere continuamente alimentata e riorientata. Assumono, allora, rilevanza le esperienze vissute dalla marca e l’implementazione della riflessione circa quanto esse ci possono insegnare. Il ruolo della cultura e dell’apprendimento d’impresa risultano fondamentali nel cercare di ricostruire i terminali e i collegamenti delle relazioni causa-effetto e nello scoprire nuovi sentieri di sviluppo per l’identità e per l’immagine di marca. Una valutazione del genere non può, naturalmente, prescindere da una considerazione circa l’adeguatezza delle competenze aziendali e da una loro ridefinizione nel caso in cui ciò appaia necessario. Inoltre, se da una parte la marca deve rendersi partecipe del processo di innovazioni dei valori del proprio contesto di riferimento, dall’altra deve mantenersi ancorata ad un gruppo di valori stabili, capaci di informare l’azione strategica in qualunque situazione l’impresa si venga a trovare, e attorno ai quali viene fatto ruotare il “senso profondo” dell’identità di marca[44].
2.1 – I processi mentali che sovrintendono alla percezione e alla scelta della marca
Ogni strategia richiede, al fine della sua generazione ed attuazione, l’analisi del terreno di battaglia, l’ambito nel quale andrà ad inserirsi. Abbiamo già rimarcato come il particolare obiettivo per le strategie di posizionamento è dato dalla conquista degli spazi della mente. Ne consegue la necessità, da parte degli strateghi d’impresa, di conoscere in maniera profonda quali siano i principali meccanismi che presiedono al suo funzionamento e che sono alla base del comportamento delle persone (e, in particolar modo, degli acquirenti potenziali).
Evitiamo, in questo contesto, di spingerci sul terreno dell’elucubrazione del significato da attribuire al concetto di mente, per spostare la nostra attenzione sul suo funzionamento. Innumerevoli sono, infatti, le teorie filosofiche, psicologiche ecc.… che affrontano la questione dell’attribuzione di una determinazione alla mente. Nessuna di esse, tuttavia, pare pervenire ad una soluzione finalmente definitiva. Meglio, allora, impegnarsi nella più concreta e proficua comprensione di ciò che la mente fa e di come essa funzioni, con l’avvertenza che neppure qui possiamo affidarci senza alcun tema di smentita a questa o a quella interpretazione dei meccanismi che la muovono. Il punto di partenza di un simile percorso di analisi non può non essere costituito da quel fondamentale mattone della conoscenza e fattore stimolativo del suo sviluppo che è la percezione. Le leggi dell’associazione e le altre leggi empiriche del mondo psichico che approfondiremo in questo modulo, non possono, in ogni caso, mai essere trasformate in equazioni causali. Esse non sono mai in grado di farci comprendere perché da una particolare causa antecedente debba assolutamente risultare l’effetto che di fatto risulta, pur conservando un importante valore indicativo[45].
2.1.1 – Dallo stimolo al comportamento. Un modello esplicativo del processo di percezione, elaborazione, valutazione.
Tutte le scelte che una persona effettua delle scelte, anche quelle che sembrano immediate e operate per riflesso sono, in realtà, il frutto dell’interazione di informazioni contenute in macrosistemi mentali aperti e dinamici i quali contengono già in se stessi tutto quanto occorre a che una decisione sia presa. In ogni individuo coesistono, cioè, un sistema percettivo, un sistema interpretativo e un sistema valutativo. Lungi dal costituire timenti stagni inseriti in un circuito logico sempre uguale a se stesso, essi si sovrappongono ed intersecano ad ogni istante, promuovendo tra i propri elementi combinazioni sempre particolari e diverse (pur nell’ambito di una ricorsività che, comunque, tende a prevalere).
Il sistema percettivo presidia l’accesso ai circuiti elaborativi della mente stabilendo di volta in volta se un determinato stimolo debba o meno raggiungere tale livello e, nel caso in cui più stimoli si prospettino contemporaneamente all’attenzione del soggetto, assegna le priorità e determina la rilevanza relativa. La percezione, quindi, può essere resa non attiva o rigettata, oltre che in funzione dei peculiari limiti fisiologici degli organi preposti ad essa, per l’intervento di filtri che ne impediscono il passaggio al sistema interpretativo, permettendo a quest’ultimo di evitare inutili dispendi di energie[46]. È su questo sistema che il posizionamento deve, in prima istanza, intervenire: riuscire ad ottenere l’attenzione dell’acquirente è una condizione necessaria, ancorché non sufficiente, per conseguire una posizione di preminenza nella sua mente e divenire poi l’oggetto della scelta. Ma il superamento delle barriere percettive, come vedremo, si presenta impresa tutt’altro che agevole, dovendoci confrontare da una parte con una elevata numerosità ed intensità di segnali che perseguono il medesimo obiettivo, e dall’altra con le limitate possibilità che esprime il sistema percettivo delle persone.
Il sistema interpretativo è il centro del pensiero dell’individuo. Qui, avviene l’attribuzione ai segnali ricevuti di un significato, contestualizzato rispetto al patrimonio di esperienze della persona ed al sistema di valori che da questo deriva e di cui essa si fa portatrice nel muoversi e confrontarsi con le situazioni che le vengono a pararsi davanti. Non sempre l’interpretazione che un soggetto dà di un segnale è il frutto di un ragionamento puramente razionale, potendosi anzi sostenere che ciò costituisca un’eccezione alla regola. Più spesso, le conclusioni cui giunge il processo elaborativo sono originate da commistioni tra elementi razionali ed altri caotici e apparentemente illogici, difficilmente prevedibili a priori. Certe decisioni sono poi il frutto di ragionamenti “di comodo” attraverso i quali l’individuo semplifica a proprio arbitrio e attribuisce sensi non propri ai segnali ricevuti e ai processi che razionalmente dovrebbe seguire, in modo da porsi in condizione di non avvertire il peso delle conseguenze che il ragionare in quei diversi termini potrebbe fare emergere. E qui sta il nucleo del posizionamento: nell’abilità di individuare – attraverso la fusione – il particolare percorso seguito dall’individuo e nella capacità di inserirsi nel punto giusto del processo interpretativo in modo da procedere con esso verso la scelta.
Il sistema valutativo sovrintende al momento della verifica dei risultati conseguiti attraverso la decisione presa. Risulta tutt’altro che banale evidenziare come la reiterazione di un qualsiasi comportamento derivi dalla presa in considerazione del grado di successo conseguito attraverso le analoghe precedenti scelte. La soddisfazione e l’apamento di un individuo, in altre parole, sono direttamente collegati alla percezione della giustezza delle scelte operate. È, questo, uno dei più potenti criteri di comprensione delle ragioni alla base del comportamento, anche se spesso si tende a dimenticarlo. Rimarcare quest’aspetto, sottolineando la relazione intercorrente tra il prodotto e la scelta portatrice di soddisfazione, costituisce, perciò, la condotta di base da tenere nella costruzione di una forte immagine di marca.
Un semplice modello che illustra i meccanismi attraverso i quali la mente, ricevuto uno stimolo, giunge a determinare un corso per l’azione dell’individuo, è espresso in ura 2.1[47]. Essa, in sintonia con la fondamentale dicotomia soggettività-oggettività, prevede due principali linee direttrici seguite a partire dalla ricezione di un segnale. Ciascuna di queste linee è governata dall’intervento di uno specifico aspetto ricollegabile alla parte più marcatamente emozionale/soggettiva della persona, oppure a quella razionale/oggettiva.
ura .1 – Modello di funzionamento della mente
Il processo che conduce il soggetto a prendere una determinata decisione e porre in essere un’azione prende avvio invariabilmente dalla ricezione di stimoli che, una volta decodificati e interpretati secondo il proprio personale sistema valoriale, vanno ad originare il comportamento dell’individuo. Tra gli stimoli prevalgono quelli di origine esterna: anche quando l’acquisto pare dettato da stimoli interni alla persona, è sempre possibile rintracciare un’influenza esterna che guida comunque la scelta, sia che agisca in maniera diretta, sia che lo faccia in modo mediato e indiretto[48]. L’influenza degli stimoli sul comportamento deriva, quindi, dall’interazione della struttura dei bisogni dell’individuo con l’ambiente, il quale offre incentivi a seguire una certa condotta e resistenze a seguirne altre. E poco importa che gli stimoli recepiti siano non concordi con la realtà, poiché quello che viene percepito diviene, per ciò stesso, realtà.
Non tutti gli stimoli che entrano in contatto con il sistema percettivo della persona raggiungono tuttavia il momento dell’elaborazione e dell’interpretazione. Di fronte ad una massa così imponente di informazioni in entrata, infatti, viene posto in essere un meccanismo difensivo basato sulla selezione e che impedisce l’accesso alla mente alle informazioni che, per qualsiasi ragione, siano ritenute indesiderate[49]. Il nostro sistema di selezione è strutturato in almeno quattro anelli di difesa:
Esposizione selettiva. In forza di questo primo diaframma le informazioni non desiderate o indesiderabili vengono deviate non esponendosi ad esse. Si tratta di una difesa che avviene a monte del processo comunicativo, prima ancora, cioè, che il segnale entri in contatto con il macrosistema percettivo.
Attenzione selettiva. Impattando questa seconda barriera le informazioni non desiderate sono deviate non venendo prese in considerazione e non prestandovi attenzione, nonostante si resti esposti ad esse. In questo stadio le informazioni sono filtrate in modo da costruire o rinsaldare un supporto per le esistenti credenze e opinioni riguardo una marca, evitando i significati in contraddizione con esse in quanto costringerebbero a porre in essere un nuovo, più complesso e impegnativo processo di interpretazione, il quale potrebbe, alla fine, condurre ad una situazione di dissonanza cognitiva.
Comprensione selettiva. È una caratterizzazione del momento elaborativo per la quale, superate le barriere dell’esposizione e dell’attenzione, il consumatore inizierebbe a interpretare il messaggio, ma, trovando che parte delle informazioni non si adattano e concordano bene con i suoi precedenti valori e credenze, distorcerebbe il messaggio iniziale fino a che esso non sia allineato più strettamente a tali diverse vedute.
Ritenzione selettiva. Con il trascorrere del tempo ed il continuo reiterarsi dei processi interpretativi, la memoria inizia a farsi più confusa e nebulosa riguardo alla mole di significati che le si viene imposto di trattenere. In virtù della ritenzione elaborativa, allora, le informazioni che meno si adattano agli atteggiamenti esistenti, analogamente a quanto accade per la comprensione selettiva, possono filtrare (soprattutto attraverso l’esposizione e l’attenzione), ma poi non vengono ritenute.
Passando ognuno di questi anelli di difesa ci avviciniamo al momento in cui gli stimoli giungeranno alla mente e verranno elaborati, ma di per sé ciò non significa necessariamente che essi non incontrino una definitiva resistenza nell’anello successivo.
In seguito alle considerazioni appena espresse possiamo ritenere che, attraverso la selettività, il consumatore si ponga come scopo quello di ottenere informazioni sufficienti, e soprattutto rilevanti e non ridondanti, perché una decisione possa essere presa. Questa si chiama vigilanza percettiva.
Un ulteriore obiettivo che la persona si pone è dato dal mantenimento delle precedenti attitudini e credenze, e viene indicato come difesa percettiva. Come evidenziano Trout e Rivkin[50], in seguito all’azione operata dagli anelli di difesa, vengono generalmente recepiti quei segnali che si accordano ai nostri interessi e attitudini preesistenti, in modo da sostenerli o rifiutarli. In pratica il ricevente tende ad ascoltare solo il proprio messaggio. Compito del posizionamento è allora quello di elevare le aspettative che gli acquirenti già hanno, non quello di crearne di diverse. Si badi bene: questo non implica che venga sminuita l’attività di sviluppo delle aspettative, ma evidenzia come spesso si compiano azioni che, per il fatto di proporre interpretazioni opposte rispetto a quelle effettivamente sentite, finiscono per produrre conseguenze disastrose per chi le mette in atto causando gravi problemi di riposizionamento.
La percezione dei segnali non ha sempre la stessa portata e lo stesso impatto, essendo influenzata da una pluralità di fattori determinanti che sono analizzati da Aaker[51]:
Esigenza – Lo stato di esigenza avvertita incrementa il peso del segnale e la probabilità che esso penetri gli anelli di difesa: è l’esigenza percepita stessa ad amplificare la forza del segnale inteso a darle soluzione.
Valori – I riferimenti utilizzati dal posizionamento che rispecchiano i valori profondi di una persona vengono recepiti prima e più facilmente degli altri, poiché offrono una gratificante convalida delle proprie strutture concettuali di riferimento.
Preferenze – Un segnale noto e già accettato in passato ha, inoltre, una velocità di percezione e una probabilità di superare i filtri superiori rispetto ad uno stimolo del tutto nuovo la cui esposizione deve invece essere prolungata.
Preferenze del gruppo – L’appartenenza a un gruppo sociale, o comunque l’identificazione con un gruppo di riferimento, induce l’individuo ad una pressione autoindotta che può influenzare la percezione. L’identificazione con il gruppo sarebbe, per la persona la quale ritenga che esso percepirebbe il segnale in una certa maniera, una motivazione sufficiente a spingerla a percepirlo allo stesso modo[52].
Il processo interpretativo degli stimoli può, una volta che essi sono pervenuti alla mente superando le barriere percettive, seguire due percorsi che, almeno in partenza, si presentano come distinti e alternativi. Da una parte i segnali possono essere incanalati dall’analisi razionale nella sfera oggettiva della persona, dove ha inizio il processo di interpretazione il quale mantiene una relazione di stretta causalità tra gli anelli della catena logica. Dall’altra parte i segnali provenienti dall’esterno possono stimolare maggiormente il lato emotivo/fascinabile dell’individuo, venendo così ad essere posti all’attenzione del particolare mondo soggettivo che lo contraddistingue. Qui, l’elaborazione si fa molto meno lineare seguendo, invece, le pulsioni e i salti che sono tipici della soggettività.
Come accennato, questi due percorsi non sono sempre nettamente distinguibili, potendosi avere delle commistioni e influenze reciproche. Così, una volta che gli stimoli entrano, attraverso la ragione o l’emozione/fascinazione rispettivamente nel mondo oggettivo o in quello soggettivo (che sono, vale la pena di insistere, compresenti nella persona), il fatto che seguano o meno un procedimento lineare (all’interno del particolare mondo di riferimento) dipende dal prevalere di due attributi distinti che possono caratterizzarlo e che sono riconducibili alla coerenza e alla convenienza.
La coerenza è definibile come la capacità (o il limite, secondo i casi) di mantenere una continuità tra quanto ci si propone e quanto si persegue in ognuno dei momenti in cui suddividiamo la volizione e la sua attuazione. Non sempre, tuttavia, la coerenza pare essere l’approccio mentale preferibile, dovendo il soggetto confrontarsi con problematiche che esulano da un orientamento lineare. Consideriamo e ci riferiamo, allora, alla convenienza come a quel fattore che, in considerazione dei vantaggi offerti relativi ad una maggiore gestibilità del bilancio psicologico del soggetto, fa prevalere l’interesse a vedere da un diverso punto di osservazione gli elementi oggetto dell’interpretazione originaria.
Venendo a prevalere la coerenza, il percorso seguito dall’elaborazione attraverso il particolare mondo interpretativo vissuto, sia quello oggettivo che quello soggettivo, è diretto come indicato dalla linea tratteggiata, ideale prolungamento dell’iniziale indicazione dei due filtri che portano gli stimoli alla mente. L’atteggiamento e poi il comportamento tenuti dal soggetto sono in questo caso l’esito ultimo di un tragitto che, pur nell’ambito delle differenti peculiarità riscontrabili nell’uno e nell’altro caso, discende per linea diretta da tali filtri. Ogniqualvolta, per esempio, un fattore emotivo spinge l’elaborazione oggettiva a trasferirsi nel mondo soggettivo la prevalenza dell’attributo coerenza opera una spinta in direzione opposta in modo da riprendere il percorso originario.
Quando invece a prevalere è la convenienza (avvertita) a riformulare le proprie idee e convinzioni cambiando prospettiva ed allontanandosi da quanto originariamente indicato per i segnali in entrata, allora i percorsi si incrociano dando luogo ad un circuito che attraversa e si muove, ora indistintamente, tra il mondo soggettivo ed il mondo oggettivo dell’individuo, secondo le opportunità interpretative che ad ogni momento si presentano più favorevoli (nella ura questo intersecarsi è rappresentato dalle frecce che conducono, con moto circolare, da una parte all’altra della sfera elaborativa).
È perciò all’interno del mondo oggettivo e di quello soggettivo che si forma l’interpretazione del segnale, la quale costituisce, poi, la base per la determinazione dell’atteggiamento seguito dal soggetto e del comportamento che egli si appresta a tenere.
L’atteggiamento derivante dal processo elaborativo e il relativo comportamento conducono ad una decisione che viene infine espressa nell’azione posta in essere. In questo modo l’azione è portatrice dell’intero sistema di percezione e di elaborazione dell’individuo. Attraverso l’azione, qualunque ne sia l’origine, vengono a prodursi degli effetti che, tramite il vaglio del sistema valutativo, producono informazioni di ritorno le quali vanno a modificare il senso dei nuovi segnali in arrivo, consentendo una più mirata selezione del filtro interpretativo e del particolare circuito da attivare nei mondi di riferimento dell’individuo.
2.1.2 – Il legame tra memoria e comportamento.
Ogni atteggiamento e comportamento espresso da una persona trae le sue origini dalle esperienze sensoriali che essa ha accumulato lungo la sua esistenza. Di più: non viene mantenuta una traccia dell’esperienza pura e semplice, ma ad essa restano associate, invece, le sensazioni ed impressioni generatesi nella persona stessa. Se in passato, cioè, in risposta ad uno stimolo è stato fatto seguire un determinato comportamento che ha dimostrato di essere valido sia come solutore della situazione venutasi a creare, sia in relazione al senso di soddisfazione ed apamento dell’individuo, con tutta probabilità al futuro manifestarsi di uno stimolo analogo, il soggetto reitererà quel comportamento[53].
A volte, poi, il timore nei confronti di una strada mai esplorata comporta la messa in atto di una condotta che, pur nella consapevolezza della sua assai probabile inadeguatezza e del fatto che essa rappresenta solamente un palliativo, offre il conforto dell’abitualità. All’insicurezza e al mettere in discussione i propri abiti comportamentali si preferisce in sostanza l’adozione di un modo di agire per certi versi fatalistico, ma che possiede la virtù di tranquillizzare la persona riducendone la dissonanza cognitiva per il fatto stesso di consentirle di nascondere la testa sotto il guscio protettivo del consueto.
Altre volte, invece, accade l’opposto: la nuova e differente situazione non viene affrontata mediante modelli del passato i quali, pur non offrendo una completa sicurezza, parrebbero essere per lo meno sufficientemente ragionevoli da suffragare la scelta. Si preferisce, al contrario, adottare d’impulso un comportamento del tutto nuovo la cui affidabilità, peraltro tutta da dimostrare, potrebbe venire screditata in partenza se solo si mettesse in atto un processo più razionale di valutazione. E proprio questo è il punto: nel bilancio psicologico il peso costituito dallo sforzo elaborativo appare, in questi casi, superiore al beneficio che si ritiene potrebbe da esso derivare. Intraprendere un processo di valutazione più approfondito potrebbe condurci ad una condizione di incertezza e, ciò che è peggio e ancora più temuto, mettere in discussione la stessa validità, ormai data per assodata, dei nostri comportamenti passati.
Nell’uno e nell’altro caso, il riferimento è al principio per il quale il livello di soddisfazione è strettamente legato alla conferma della validità delle scelte effettuate intesa come manifestazione di successo (che avrà poi bisogno di essere esternata per ottenerne una proiezione sugli altri assieme ad una loro confortante approvazione).
Le esperienze effettuate e la relazione con i comportamenti tenuti nelle diverse circostanze sono immagazzinate nella memoria, vero e proprio archivio da utilizzare e al quale attingere nell’affrontare le situazioni mano a mano che si presentano.
Stretta appare la correlazione tra apprendimento e memoria. Se il primo concerne l’acquisizione di nuove informazioni e la modificazione di quelle esistenti, la seconda è data dal sistema in cui quelle informazioni vanno ad innestarsi e nel quale sono conservate nel tempo. Il legame tra apprendimento e memoria è costituito dall’appercezione, ovvero il processo di comprensione che presiede all’inserimento delle percezioni umane nel complesso delle precedenti esperienze. L’esperienza passata, così come ci è consegnata dalla memoria, funge cioè da alveo nel quale l’apprendimento fa confluire le percezioni: si tratta, in sostanza, dell’associazione di vecchie idee con nuove idee. Afferma Nietzsche che «un uomo non ha orecchie per ciò a cui l’esperienza non gli ha dato accesso». In altre parole, impariamo qualcosa di nuovo in relazione a quello che già comprendiamo.
Non bisogna comunque credere che la funzione svolta dalla memoria consista semplicemente nel riportare all’occorrenza alla luce pezzi di informazione precedentemente immagazzinati. In realtà, essa si presenta come un sistema dinamico governato dal meccanismo dell’associazione, che interessa qualsiasi aspetto dell’elaborazione del pensiero. È proprio sfruttando il modo di funzionamento della memoria, l’associazione, che chi si occupa di posizionamento cerca di ottenere l’acceso alla mente del potenziale cliente e di trovarvi un punto strategico di appoggio che offra un vantaggio rispetto ai concorrenti.
La memoria non è un tutto unico, ma si struttura in una parte a breve ed una a lungo termine, diverse per capienza e tempi di ritenzione delle informazioni. Se lo stimolo contenente l’informazione (ovvero il messaggio) riesce a superare il buffer costituito dagli anelli di difesa, allora esso va ad insediarsi nella memoria a breve termine (detta anche “working memory[54]”) le cui capacità contenitive sono piuttosto limitate sia riguardo al volume di informazioni che è possibile immettervi, sia riguardo al tempo che è possibile trattenerle.
Le limitazioni riguardanti la capacità della memoria a breve termine determinano la quantità di informazioni che può essere processata in ogni momento, ed influenzano, inoltre, il modo in cui le informazioni stesse vengono processate. Le limitazioni relative al tempo di decadimento implicano che le informazioni contenute nella working memory declinino come la loro energia venga dissipata o persa. Si presume che il tempo di permanenza dei pezzi di informazione nella memoria a breve termine si riduca ad un poco elevato numero di secondi (qualche decina)[55].
La capacità limitata a pochi pezzi di informazione[56] ha notevoli implicazioni per chi, nell’impresa, si occupa di studiare il modo di occupare una posizione nella mente di una persona, venendosi ad accrescere l’importanza del rientrare fra quei pochi nomi che vengono ricordati per la particolare categoria cui appartiene, per i potenziali acquirenti, il nostro mercato di riferimento . Appare allora in tutta la sua evidenza il vantaggio che potrebbe essere conseguito dall’occupazione di una posizione fino allora inesistente, legato all’iniziale identificazione tra categoria e prodotto ed allo spiazzamento dei concorrenti . L’immagine più potente che la marca può ingenerare in una persona si ha, infatti, quando questa utilizza il riferimento al nome del prodotto per indicare una categoria (per esempio, “Coca Cola” è divenuta nel tempo l’espressione generica per indicare una bevanda alla cola). In questo modo, la marca assume le connotazioni di leader, potendo beneficiare di tutte le potenzialità che l’essere parte dell’immaginario del cliente comporta . Una volta stabilita la leadership del mercato e una volta impressa la sua immagine e rinsaldate le associazioni che vanno a sostenerne la struttura, diventerà ben difficile per i concorrenti scalzare la marca dalla posizione conquistata, potendo questa godere dei vantaggi connessi al “giocare in difesa”.
La memoria a lungo termine contiene una quantità notevolmente superiore di informazioni che restano trattenute stabilmente al suo interno per un più esteso periodo di tempo. Ma tutto ciò che transita nella memoria a breve termine non si deposita necessariamente in quella a lungo. Le nozioni immagazzinate nella memoria a breve rischiano perciò di andare perdute se non interviene qualcosa a trasferirle a quella a lungo (e questo è quanto solitamente accade: si ritiene che oltre l’ottanta per cento delle informazioni contenute nella memoria a breve termine non vengano trasferite). La linearità e la velocità di trasferimento dalla memoria a breve a quella a lungo termine possono sopperire ai limiti di capacità della prima attraverso l’elevato grado di svuotamento e rinnovo che vanno a determinare.
Memoria a breve termine e memoria a lungo termine differiscono anche qualitativamente. La prima, infatti, pare essere prevalentemente di tipo uditivo, mentre la seconda associa ad esso l’elemento visivo. Questo significa, in altre parole, che la memoria a breve lavora più efficacemente con dati espressi sotto forma di parole – sia udite che scritte[59] – piuttosto che di immagini. La constatazione e presa in considerazione della diversità di comportamento dei due tipi di memoria sarà molto importante nell’impostazione del messaggio con cui si intende comunicare l’identità di marca ed occupare una posizione.
La memoria a lungo termine pare, inoltre, contenere due distinte tipologie di memorie: le memorie episodiche e le memorie semantiche. Le prime riflettono il modo in cui ci ricordiamo di eventi o episodi della nostre passata esperienza personale e sono espresse in forma iconica, quasi fossero delle istantanee o dei filmati ripresi nel passato e pronti a riaffiorare. Le memorie semantiche riflettono fatti e altre informazioni cui ci riferiamo dicendo di avere imparato qualcosa, e ci forniscono una base per accrescere l’abilità ad usare il linguaggio[60].
Una importante caratteristica della memoria a lungo termine è data dal fatto che può essere rappresentata come un’organizzazione a rete. In questa trama ogni nodo indica una parola, un’idea, un concetto, ed i collegamenti tra essi sono governati dal meccanismo dell’associazione di idee (ad esempio, se stiamo esaminando come viene percepita una bevanda analcolica, dovremo tenere presente che l’idea di “ acqua ” non è collegata a quella di “ zucchero ”, mentre lo è il concetto di “dolce”).
L’organizzazione a rete entra in gioco nel momento in cui la working memory richiama certe informazioni da quella a lungo termine per poterle processare nel momento un cui si deve prendere una decisione della quale quest’ultima può fornire le basi di valutazione. Dal momento che alcuni nodi avranno la preminenza sugli altri, essi saranno quelli attivati per primi. Una volta attivato il primo nodo, saranno attivati anche gli altri ad esso connessi fintanto che il processo continua.
Il processo di memorizzazione avviene continuamente senza che ce ne accorgiamo. Le informazioni arrivano al cervello per restarvi il tempo necessario perché esso stabilisca una condotta coerente, ed a volte, come detto, passano alla memoria a lungo termine in funzione di una particolare rilevanza loro attribuita. Tuttavia, è possibile identificare alcuni fattori che paiono essere determinanti nell’attivazione della memoria e di cui tenere conto.
La semplicità è il carattere che maggiormente favorisce la memorizzazione, e la sua importanza aumenta di pari passo con l’eccesso di informazione e rumorosità ambientale, i quali non provocano altro che un disorientamento e un appiattimento in senso qualunquistico delle posizioni su luoghi comuni[61]. La mente non ama, in genere, inutili complicazioni che conducono unicamente a problemi di gestione della massa di informazioni che le giungono e dai quali cerca di difendersi attraverso l’opera di filtro degli anelli di difesa. La strada che conduce un concetto complesso al diventare confuso (e per questo indesiderato) è assai breve. Così, i concetti espressi nella posizione della marca e nella sua comunicazione al target di riferimento devono essere il più possibile chiari e lineari, senza richiedere l’intervento di complicate e inutili elucubrazioni da parte sua. Quando appaia utile si può poi procedere a ridurre i concetti in più minuti e gestibili pezzi informazione, aumentandone in questo modo l’intelligibilità.
Nella ricerca della semplicità non sono, comunque, i fatti a dover essere cambiati, trattandosi, invece, di spostare il nostro punto di vista, in piena sintonia con il concetto di fusione.
Il livello di interesse che le persone mostrano nei confronti dello stimolo può costituire o meno l’elemento discriminante tra quanto è destinato a rimanere impresso nella loro memoria e ciò che invece verrà cancellato da essa in quanto percepito come superfluo. In effetti, si tende spontaneamente a ricordare quello che più ci interessa. Dal momento che ogni persona è portatrice di un proprio sistema di valori e di idee, uno stesso pezzo di informazione può attivare livelli di interesse diversi secondo i casi e le circostanze. Il punto principale da tenere in considerazione riguardo all’interesse inteso come attivatore della memorizzazione è che le associazioni tra stimolo ed interesse sono fortemente sedimentate nella mente ancora prima che gli stimoli stessi si manifestino. Questi non hanno la capacità di creare interesse dal niente, ma devono necessariamente rifarsi a nessi già presenti che per loro tramite vengono richiamati.
Semplicità ed interesse sono strettamente correlati. Se il concetto di noia è usualmente ricondotto ad una situazione di assenza di stimoli, una situazione analoga – e forse peggiorata dall’insorgenza nel consumatore di apatia e insofferenza – si crea nel caso opposto di un’eccessiva stimolazione e di un sovraccarico informativo. L’informazione tende, nell’aumentare, a divenire nient’altro che rumore, ridondanza, banalità, andando a compromettere i propri contenuti e significati, ormai irriconoscibili.
Le emozioni, attraverso la contestualizzazione, costituiscono un altro importante fattore di attivazione della memoria. Le informazioni apprese nell’ambito di un determinato contesto emotivo, cioè, riemergono più facilmente quando vengono a ricrearsi le condizioni che caratterizzavano tale contesto. Semplificando la casistica più tipica, possiamo osservare come, per esempio, quanto appreso quando si è contenti venga ricordato meglio quando siamo nuovamente contenti, e quanto appreso quando siamo tristi venga ricordato meglio quando siamo tristi.
L’impatto emotivo della circostanza nella quale va ad inserirsi il segnale può essere così coinvolgente per l’intelletto che una cosa può essere udita o percepita anche solo una volta e poi rimanere nella nostra memoria per tutta la vita. Anzi, spesso il ricordo è più potente e completo della cosciente osservazione iniziale, e vengono immagazzinate in memoria maggiori e diverse informazioni rispetto a quanto era nelle nostre intenzioni. Così, anche a distanza di molto tempo, è possibile rimanere meravigliati nel constatare l’enorme e dettagliata mole di informazioni che siamo in grado ricollegare a un particolare evento della nostra memoria ed alle quali non avevamo allora prestato attenzione. Ad esempio, in caso di esperienze traumatiche viene registrato un numero molto più elevato di circostanze che connotavano quell’informazione.
Nell’ambito del posizionamento, tuttavia, occorre sgomberare il campo da ogni possibile equivoco ed evitare che il fare appello all’emozione porti il destinatario del nostro messaggio fuori strada. L’emozione deve essere aderente e confacente al senso pratico mai travalicandolo, mettendo invece in risalto il particolare vantaggio di cui il prodotto è portatore, vero fulcro dell’azione comunicativa. Emozioni e vendite possono essere in relazione tra loro, ma suscitare le prime in assenza delle seconde non può essere di alcun conforto per l’impresa.
2.1.3 – Il processo di categorizzazione delle percezioni
Una volta che i segnali hanno superato gli anelli difensivi della selezione, esiste un ulteriore livello di schermo verso l’eccesso di informazioni: l’organizzazione selettiva o categorizzazione delle percezioni. Essa consente al consumatore di prendere una decisione di acquisto tra una pluralità di marche concorrenti sulla base della similarità che queste hanno con le categorie mentali concepite precedentemente e sedimentate, attraverso l’esperienza, nella mente dell’individuo. La categorizzazione delle percezioni consiste, in altre parole, nel processo mediante il quale la mente riconduce i continui, variabili e confusi stimoli che riceve in categorie discrete e distinte, gli elementi di ognuna delle quali si rassomigliano fra loro più di quanto non accada rispetto a quelli delle altre categorie. Valutando a quale categoria la marca sotto osservazione sia più simile, il consumatore può facilmente e rapidamente inserirla in uno dei gruppi che compongono la propria struttura cognitiva, godendo, a corollario, della possibilità di delineare inferenze evitando una ricerca approfondita e richiedente il dispendio di tempo ed energia.
La categorizzazione della marca si aggiusta nel tempo ad opera dell'esperienza e dell'apprendimento da essa originato. Una volta inserita in una categoria mentale, il consumatore, anche se manca di precise informazioni e ha scarsa esperienza della nuova marca categorizzata, può, avvalendosi di questo processo percettivo, tentare di predire quali saranno certe caratteristiche della marca stessa. Il naturale prerequisito perché il soggetto possa procedere alla formazione di categorie mentali valide per il sostenimento del momento elaborativo e interpretativo è proprio costituito dall’accumulazione di esperienza circa i prodotti e le marche. Via, via che impara a conoscere l’oggetto della propria attenzione e ne relaziona gli attributi chiave con le indicazioni dell’esperienza, l’individuo pone in essere un processo di apprendimento, che, attraverso uno sviluppo circolare e ricorsivo, andrà a modificare lo schema interpretativo di partenza riguardo a tali attributi affinandone la collocazione categoriale. Allora, la ricerca di informazioni verrà riorientata e gli anelli di difesa si attiveranno in una nuova forma.
Naturalmente, non tutti gli aspetti della categorizzazione coinvolgono la sistemazione dei significati originati dall’apprendimento. Esistono, cioè, oltre a quelle acquisite, delle categorie per così dire innate.
La ricerca sulla categorizzazione abituale di oggetti concreti e astratti si è incentrata sulla velocità e facilità con cui un segnale viene giudicato come facente parte di una categoria, e sulla natura della percezione sottostante il processo verificato distinguendo tra percorsi puramente sensoriali ed altri in cui a prevalere sono gli elementi cognitivi[62].
Medin e Barsalou[63] distinguono le categorie che vengono a formarsi nella mente in sensory perception categories e general knowledge categories . Le prime sono riconducibili ai processi sensori e percettivi e comprendono categorie come i suoni del parlato, i suoni non parlati, i colori e così via. Le seconde ineriscono all’analisi semantica, all’organizzazione della memoria ed al pensiero astratto, e tengono in considerazione generi naturali (per esempio gli uccelli), artefatti (esempio: automobili), eventi (esempio: andare al ristorante).
Un modo nel quale le sensory perception categories differiscono dalle general knowledge categories riflette l’astrattezza degli attributi che le definiscono, assai elevata nelle seconde, molto bassa nelle prime. Viene così a delinearsi una distinzione tra categorie sensoriali e categorie che possiamo invece chiamare concettuali.
Possiamo distinguere due diversi tipi di categorie: categorie all-in-one e categorie graduate. All’interno delle prime troviamo due sottotipi: nelle categorie 'ben definite' tutti i membri condividono un comune set d caratteristiche ed un ruolo corrispondente indica quali condizioni siano necessarie e sufficienti per l’appartenenza alla categoria. Nelle categorie “definite” – ma non “ben definite” – le caratteristiche non sono necessariamente condivise da tutti i membri ed il ruolo non è cruciale.
La natura della rappresentazione delle categorie sensorie e di quelle concettuali e il processo di categorizzazione dipendono dal fatto che si tratti di una categoria all-in-one o di una graduata.
La classificazione di una categoria è strettamente dipendente dalle connotazioni della sua struttura.
Riguardo alle categorie concettuali, Medin e Barsalou individuano tre fondamentali criteri di classificazione:
Classificazione per ruoli. Una volta che viene riconosciuto ed assegnato un ruolo tipico per la categoria, l’appartenenza di un elemento ad essa viene testata attraverso un confronto con il ruolo stesso.
Classificazione per prototipi. Il prototipo di una categoria contiene gli attributi caratteristici degli esemplari della categoria, senza però che questi ultimi siano conseguentemente ed inevitabilmente necessari né sufficienti per l’appartenenza alla categoria. Il nucleo centrale di questo modo di categorizzare le percezioni sta nel fatto che spesso le persone le confrontano sulla base della similarità riconducendole al prototipo che hanno idealizzato nella propria mente per quella categoria. Capita, anzi, che a volte si proceda ad una categorizzazione per prototipi a causa dell’assenza di più forti criteri di ordinamento – per esempio quello basato sui ruoli – a disposizione della persona, sia perché effettivamente non ne esistono di chiari e definiti, sia perché essa può non dispone di adeguate capacità di discernimento e comprensione delle informazioni di cui sono portatori i segnali[65]. La facilità con cui si procede alla classificazione è molto variabile secondo la somiglianza del segnale percepito con gli attributi propri del prototipo. Si presentano anche situazioni nelle quali è facile cadere in errore a causa della vaghezza di tale somiglianza. La tipicità, riferita al prototipo, viene perciò qui ad essere il principale fattore di inclusione od esclusione nella categoria.
Classificazione per esemplari. Simile alla classificazione per prototipi, quella per esemplari avviene, tuttavia, sulla base della similarità rispetto alla memoria che si ha di elementi dei quali si ha una precedente esperienza. Non si effettua un confronto con un ruolo od un prototipo che è stato astratto dall’esperienza con un insieme di elementi che conosciamo, bensì con la memoria di uno specifico elemento di una categoria. Gli stimoli sono assegnati a quella categoria che presenta l’esemplare o gli esemplari più simili.
Le categorie sensorie possono invece venire classificate in base ai seguenti criteri:
Classificazione per ideali. La conoscenza che le persone hanno di una categoria sensoria deriva dagli specifici attributi che esse ritengano dover essere idealmente presenti nei rappresentanti di quella categoria. La verifica della loro appartenenza alla categoria pare caratterizzarsi per il fatto che, ove non siano presenti tutti gli attributi ideali, allora l’elemento oggetto della percezione non entra a far parte di essa. La classificazione per ideali è analoga a quella per ruoli riguardo alle categorie concettuali.
Classificazione per prototipi. A differenza degli attributi ideali, che devono essere tutti posseduti negli elementi della categoria, i valori ideali di una categoria rappresentano solamente l’esempio prototipo, e gli esemplari che ad essa appartengono possono variare ampiamente nel modo in cui approcciano l’ideale. Anche qui, gli attributi dei prototipi possono essere ideali oppure riflettere la tendenza centrale dell’esempio.
Classificazione per limiti. Le persone determinano l’appartenenza alla categoria in base ai limiti di questa, e non alle caratteristiche o agli attributi ideali
Occorre precisare in che rapporto stiano le diverse categorie rispetto all’uso che ne facciamo. Così, ad esempio, è evidente che le categorie sensorie non siano fini a loro stesse, ma debbano essere intese nella prospettiva di una classificazione di ordine più elevato coinvolgente le categorie concettuali.
Le informazioni ed i significati che possono essere ricavate per inferenza dalla classificazione di uno stimolo in una categoria concettuale sono molto superiori rispetto a quanto può essere dedotto, sempre per inferenza, da quelle sensorie. Per esempio, classificare qualcosa come un auto ci consente di classificarne il particolar uso, il genere di produttore, come (secondo quali criteri) può essere venduta, ecc.…
A volte, soprattutto per quanto riguarda le categorie concettuali, è possibile assistere all’inverso procedimento della generazione. Mentre con la classificazione si passa dagli esemplari alle categorie, con la generazione si va, invece, dalle categorie agli esemplari. Quando per esempio progettiamo un viaggio, gli elementi che costituiscono il particolare concetto di viaggio che abbiamo in mente sono funzione di esso e da esso vengono generati.
Entrambi i tipi di categorie possono poi essere usati nella costruzione di categorie di livello più elevato. In questo modo i fonemi, tipicamente appartenenti alle categorie sensorie, possono essere utilizzati nella ideazione di nuove parole. Analogamente una categoria concettuale può dare inizio al processo con cui nasce un concetto di più alto livello.
Nell’acquisizione di una ricorsività nella categorizzazione delle percezioni intervengono diversi fattori determinanti sia riguardo alla sua velocità e spontaneità, sia riguardo alla costituzione di circuiti preferenziali che tendono a formarsi nel corso del tempo, dando anche origine a meccanismi di difesa e consolidamento dei circuiti medesimi.
Gli individui paiono avere una innata predisposizione verso certe strade e non altre seguite nell’apprendimento. A ciò va aggiunta l’influenza del particolare contesto socioculturale nel quale essi sono inseriti, dove l’affermarsi nel tempo, da parte della maggioranza delle persone, di determinati modi di comporre gli stimoli in entrata derivandone le relative conseguenze, tendono a diventare carattere comune a tutti, anche se sviluppati in gradi e forme differenti.
L’enfasi sulle inclinazioni innate ed ambientali deve essere comunque temperata dalla considerazione dell’importante ruolo svolto dall’esperienza nel processo di categorizzazione. Nel momento stesso in cui le persone assumono la consapevolezza dell’esistenza di una categoria, vengono a determinarsi, sulla base dell’esperienza e dell’osservazione di come ci si comporta nel contesto di riferimento, i primi schemi di categorizzazione che, sulla base dell’adeguatezza dimostrata nell’interpretare le percezioni, tenderanno a consolidarsi e divenire più stabili.
Per propria natura le categorie sensoriali sono meno flessibili di quelle cognitive, le quali vengono prontamente adeguate dalle persone in seguito al mutare degli obiettivi che si propongono e, superando gli scogli della sedimentazione, del contesto di riferimento.
Engel, Blackwell e Miniard[66] evidenziano come sia possibile riscontrare tre principi generali che intervengono nell’organizzazione degli stimoli.
Così, per esempio, l’individuo cui venga chiesto di unire con un tratto i punti in A della ura 2.2 ben difficilmente lo farà nel modo complesso di cui in C, mentre invece, assai più verosimilmente, traccerà un cerchio come in B. L’attenersi a schemi interpretativi semplici consente alla persona di attivare un circuito logico meno dispendioso e problematico da gestire. Le posizioni che si vengono a determinare nella mente del potenziale acquirente tendono, perciò, ad essere articolate in modo più elementare di quanto generalmente vogliano intendere gli ideatori della strategia di posizionamento. Un errore che viene spesso compiuto, venendo a mancare la visione dal dentro da parte dell’impresa, è proprio quello di credere in posizionamenti che prima o poi si dimostrano essere eccessivamente sofisticati rispetto a quanto effettivamente i consumatori percepiscono e inquadrano.
Il secondo principio che interviene nella sistemazione degli stimoli è riscontrabile nei due principali elementi nei quali le persone tendono a organizzare le proprie percezioni: la ura (intesa in senso ampio), e lo sfondo. La prima rappresenta quegli elementi che, entro il campo percettivo, ricevono l’attenzione principale. Il secondo è dato dagli elementi rimanenti e meno significanti, i quali restano, per questo, nel background. L’esperienza ha un ruolo molto importante nel determinare la categorizzazione di un segnale fra quelli in primo piano o fra quelli di contorno: la familiarità dell’oggetto dell’attivazione percettiva – nel caso che ci interessa la marca[67] – tende ad aumentarne la distinzione .
Nella strutturazione dei segnali interviene poi il principio di chiusura, il quale si riferisce alla tendenza a sviluppare una completa percezione anche quando nel campo percettivo vengono a mancare alcuni elementi. La ricostruzione dello stimolo viene fatta dalla mente nel momento in cui l’informazione viene processata in base ad un modello in precedenza acquisito che funge da riferimento. Quando una marca è riuscita a costruire ed incrementare una relazione stabile e rispettata con i consumatori, allora il concetto di chiusura può essere utilizzato con successo nella comunicazione pubblicitaria.
A differenza di quanto si possa in un primo momento ipotizzare, nella formazione dei gruppi mentali i consumatori usano per ogni marca un set di diversi attributi – e non uno solamente – che poi confrontano con quelli posseduti dalle marche concorrenti per procedere alla loro categorizzazione. I diversi attributi oggetto dell’attenzione vengono inoltre pesati in base all’importanza relativa che rivestono per il soggetto. Chi, nell’ambito del posizionamento, proceda all’identificazione delle categorie mentali prevalenti negli acquirenti potenziali, deve quindi, in prima istanza, individuare gli attributi chiave per la categorizzazione della marca e poi assicurarsi che, in relazione ad essi, questa sia percepita nella maniera desiderata.
Secondo gli studiosi di gestalt psychology, le persone vedono gli oggetti come un tutto unico, indistinto e integrato, anziché come un’insieme di specifici elementi. Ciò significa, con le parole di De Chernatony e McDonald[69], che esse “Sentono e riconoscono un’armonia, piuttosto che una successione di singole note”.
Di questi principi che servono da guida per l’elaborazione di una struttura delle percezioni occorre tenere conto nel momento in cui si procede all’identificazione sia dei luoghi mentali strategici attualmente ricoperti dalle imprese che competono su un certo mercato, sia della posizione che, in considerazione di ciò, più conviene assumere.
La rappresentazione dell’insieme delle categorie risultanti dal processo di interpretazione dei segnali è urata da Trout e Ries[70] attraverso l’analogia con la cartografia. Si tratta, naturalmente, di un concetto prettamente simbolico che, tuttavia, presenta il pregio di illustrare efficacemente l’importanza dell’occupare una ben definita posizione.
Nel marketing come in guerra, seguendo gli autori, diventa prioritario occupare o conquistare una posizione strategica. In questo contesto, le categorie vengono ad essere indicate mediante il riferimento alle montagne. Così esisterà una “montagna” ideale corrispondente ad ogni categoria ed il conflitto concorrenziale deriva appunto dalla contesa di quella montagna, postazione ottimale per attuare la difesa da parte di chi la occupa e, di riflesso, arduo obiettivo da raggiungere per lo sfidante[71]. In sostanza ogni persona si costruisce, per ogni categoria riconosciuta, una scala valoriale i cui gradini possono essere occupati e scalati dalle marche, ma solo a condizione di scalzare chi già li occupa. Di qui l’importanza di essere i primi a scalare la categoria: riuscire in quest’impresa, o addirittura individuare la presenza di una scala fino ad allora trascurata e farla propria, diviene una premessa indispensabile per conquistare la leadership di un nuovo settore che verrà, a quel punto, identificato con noi.
2.2 – Il consumatore e la marca
Dopo avere analizzato i principali meccanismi che presiedono al funzionamento della mente ed il processo per mezzo del quale, partendo da input quali sono le percezioni, l’individuo perviene alla determinazione di un corso per l’azione – nel caso che più ci interessa, il comportamento d’acquisto – si rende opportuno, a questo punto, approfondire il fenomeno del consumo nelle sue linee essenziali.
L’approccio seguito esula da una trattazione sistematica delle numerose varianti alla base del comportamento del consumatore, per incentrarsi su alcuni punti che contribuiscono, a monte del processo percettivo e interpretativo, alla determinazione della condotta delle persone nel momento in cui si trovano a dover compiere una scelta riguardo alle marche. In particolare, ci interesseremo di quali siano i probabili processi decisionali d’acquisto seguiti dagli individui e del momento in cui, entrando in contatto con il contesto sociale, la personalità del soggetto va a derivarne, per inferenza, delle conclusioni che ne influenzano il giudizio.
Non bisogna comunque mai scordarsi che è l’acquirente ad avere la “giusta” visione mentale della marca. Bisogna, dunque, cercare di pensare con la sua testa, fondersi idealmente con lui in modo da comprenderne e condividerne appieno le aspettative.
2.2.1 – Le diverse tipologie di processi decisionali del consumatore.
La scelta che la persona compie con l’acquisto è il risultato della ricerca e dell’analisi di un numero limitato di pezzi di informazione e non di tutti quelli potenzialmente disponibili. In effetti, gli acquirenti si devono confrontare con la limitatezza delle risorse economiche a loro disposizione e delle propria capacità di ricerca, di memorizzazione e di processo dei dati concernenti le marche presenti sul mercato. Di fronte agli ostacoli che si frappongono alla completezza e alla consapevolezza delle basi utilizzate per la scelta della marca, il consumatore si appella a quelle poche selezionate informazioni per le quali nutre fiducia e affidamento. Un’ulteriore spinta in tal senso è data dal naturale disinteresse alla ricerca insito in quegli acquisti che sono avvertiti come meno importanti e meno coinvolgenti dal punto di vista emotivo.
Le determinanti del processo mentale che conduce le persone all’acquisto sono assai numerose e variegate, spaziando lungo tutto l’arco delle manifestazioni comportamentali. Due, tuttavia, sembrano essere i motivi conduttori comuni a tutte questi fattori, uno costituito dal livello di coinvolgimento espresso da parte del consumatore nell’acquisto della marca, l’altro dalla percezione che egli ha delle differenze tra le marche in competizione.
Ponendo questi aspetti di fondo sulle due dimensioni di una matrice, come in ura 2.3, è possibile addivenire ad una categorizzazione dei differenti processi di decisione che si possono effettivamente verificare.
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ura 2. – I processi decisori del consumatore
Problem solving esteso – Questo processo viene seguito quando i consumatori presentano un elevato coinvolgimento nell’acquisto e nel contempo percepiscono sostanziali e significative differenze tra le marche che competono nella categoria cui appartiene il prodotto sotto osservazione. Appartengono a questo quadrante i prodotti e le marche ad elevato prezzo e quelli che sono percepiti ad alto rischio effettivo (a causa della loro complessità), o psicologico (poiché, ad esempio, mettono in discussione l’immagine che l’acquirente ha di sé o quella che comunque intende comunicare).
Il processo si caratterizza per la ricerca attiva, da parte del consumatore, di informazioni che consentano un confronto tra le marche. Una volta avvertita ed affermatasi un’esigenza, la persona avvia una ricerca di informazioni delle quali sente di avere bisogno per procedere alla scelta, portando avanti, più o meno consciamente, uno screening a livello della propria memoria. In seguito a questo primo vaglio, se riterrà di avere a propria disposizione un livello sufficiente di informazione, procederà alla valutazione delle opzioni disponibili, altrimenti, molto più di frequente, inizierà uno scanning dell’ambiente esterno (porrà una maggiore attenzione a certe comunicazioni pubblicitarie, visiterà negozi, parlerà con i suoi amici…). In seguito all’accumulazione di nuove informazioni, il consumatore inizierà anche un processo di apprendimento circa la loro interpretazione, dando maggior rilievo ad alcune e non ad altre, in modo da rendere più focalizzata e meno dispersiva l’ulteriore ricerca.
Tuttavia, sarebbe troppo ottimistico aspettarsi che un simile processo avvenga così linearmente. In realtà, anche operando una scrematura delle informazioni che più sembrano interessarlo, l’acquirente che segue la linea del problem solving esteso, resta ugualmente esposto a un notevole fuoco di fila comunicativo, probabilmente finendo col perdere la cognizione del preciso punto dal quale è partito. Così, capita che le informazioni che riescono a coglierne l’attenzione e ad essere elaborate, non siano tutte conformi alle sue precedenti aspettative, mentre vengono invece filtrate grazie a meccanismi inferenziali e magari, ironia della sorte, all’erezione di barriere nei confronti del rumore ambientale.
Qui, in particolare, emerge la necessità di una visione aderente al sentire del proprio target, evitando i vari effetti di disorientamento. Sapere cosa il potenziale cliente veramente cerca aiuta l’impresa a superare la rumorosità ambientale per arrivare, rapidamente e per primi, ad occuparne gli spazi mentali. Occorre identificare quali siano gli attributi veramente importanti per il consumatore e focalizzarsi sulla loro comunicazione nella maniera più potente possibile attraverso un approccio multimediale estensivo (dal momento che varie e diverse saranno, per esso, le fonti dalle quali attingere informazioni). Il messaggio trasmesso deve avere talmente forza e deve essere così ben mirato da fungere da attrattore della persona verso la marca. Per quanto possibile, non deve essere palesato lo sforzo – peraltro notevole – che l’impresa compie nel conquistarsi la giusta finestra nella mente della persona, in modo da non rischiare di perdere la sua potenzialità fascinatrice. La persuasione, anche nel messaggio più aggressivo, deve cioè essere il più possibile celata.
Naturalmente, non è sufficiente riuscire a persuadere le persone ad acquistare il nostro prodotto. Soprattutto per i processi ricollegabili al problem solving esteso vale il concetto che vede il momento del post-acquisto come decisivo nella formazione e nel rafforzamento dell’immagine di marca. Se l’acquirente constaterà che i caratteri presenti nel prodotto o servizio rispondono alle aspettative che lo hanno condotto ad operare quella scelta, allora si potenzieranno le credenze e le aspettative collegate alla marca, cosa auspicabile sia riguardo ai futuri acquisti dello stesso consumatore, sia alla rete di relazioni attivata, intorno a lui, attraverso la soddisfazione. Nel caso in cui l’acquirente sia soddisfatto e deva procedere nuovamente al medesimo tipo di scelta, è assai probabile che il processo di ricerca si faccia molto più breve, ritrovando già nella memoria gli elementi che lo indirizzano verso una scelta dimostratasi adeguata e apante già in precedenza[72]. Il processo di problem solving assumerà, in altre parole, una connotazione più di routine perdendo parte della sua iniziale rilevanza.
Jones e Earl Sasser Jr.[73] riconoscono una sostanziale differenza tra i clienti soddisfatti e quelli completamente soddisfatti attribuendo solamente a questa seconda condizione la possibilità di assicurare una fedeltà duratura e, assieme ad essa, elevate performance di lungo periodo. Esisterebbe, cioè, una relazione diretta tra livello di soddisfazione del cliente e grado di fedeltà che questi manifesta, determinandosi, tuttavia, un notevole gap per livelli di soddisfazione che si discostino in alto da quelli ritenuti accettabili. Tale rapporto, inoltre, si acuisce con il livello di competizione caratterizzante il particolare mercato di riferimento, cosicché, in presenza di un’elevata concorrenza tra le offerte, diviene prioritario spingere il livello di soddisfazione del consumatore il più in alto possibile al fine di ridurre le potenziali defezioni ad un livello accettabile.
Gli autori individuano due generi di fedeltà – la fedeltà vera, di lungo termine e quella che possiamo chiamare una fedeltà falsa – l’orientamento verso l’uno o l’altro dei quali viene a dipendere essenzialmente dal fatto che si pervenga ad un livello di completa o ad uno di mera soddisfazione (evidentemente, i consumatori manifesteranno una solida e duratura fedeltà solamente se saranno completamente soddisfatti). Tra i fattori generanti falsa fedeltà, i principali sarebbero: limiti normativi posti alla competizione, alti costi di cambiamento da un’offerta all’altra, differenziale riguardo alle tecnologie proprietarie che limita le alternative, forti e persistenti programmi promozionali. Altre volte, inoltre, la fedeltà non può essere raggiunta a causa, oltre che della povertà del prodotto o servizio offerto, del fatto che l’impresa ha attratto i consumatori “sbagliati” o non ha saputo gestire il rapporto con quei clienti che sono andati incontro ad un’esperienza negativa.
Differenti livelli di soddisfazione riflettono differenti problemi e, perciò, richiedono differenti azioni da parte dell’impresa. Il livello di soddisfazione tra i clienti che costituiscono il target dell’impresa costituisce, in questo modo, un buon indicatore del livello di qualità percepita (effettiva) dell’offerta. Quattro sono i fattori che vanno ad influenzare la soddisfazione del cliente: gli elementi di base del prodotto o servizio (quelli che i consumatori ritengono debbano essere presenti nell’offerta di ogni competitore), i servizi elementari di supporto (in grado di conferire al prodotto o servizio principale una maggiore efficienza e facilità d’uso), un processo di recupero per fronteggiare il verificarsi di cattive esperienze, servizi e attributi straordinari al fine di meglio aderire alle particolari preferenze del cliente. Il livello di soddisfazione o insoddisfazione riscontrato nella maggioranza dei clienti dell’impresa è di aiuto nel determinare su quali di questi elementi andrebbe focalizzata l’attenzione[74].
Venendo a mancare il positivo supporto dell’apamento delle aspettative riposte nell’acquisto iniziano i problemi per l’immagine di marca. Tale mancato apamento può essere così frustrante da attivare sensazioni assimilabili addirittura al tradimento: vedere un grande sforzo – come quello prodotto dal consumatore nella ricerca di informazioni – non ricompensato, può originare, per reazione, una spinta in senso contrario di portata uguale o anche superiore.
Riduzione della dissonanza – Questo tipo di comportamento di acquisto della marca è caratterizzato da un elevato coinvolgimento e da una minore capacità di distinzione delle diversità esistenti tra i competitori. I consumatori paiono disorientati di fronte alla mancanza di evidenti differenze di marca e, conseguentemente, la scelta ricadrà su altri fattori come, per esempio, il consiglio del venditore o l’informazione passata da un amico.
Nel caso in cui la persona che segue questo processo riceva informazioni contrastanti con le proprie ragioni d’acquisto, soprattutto in un momento successivo, essa viene a trovarsi in una situazione di conflitto e sconforto: la dissonanza. La propensione, allora, sarà quella di ridurre questo stato di incertezza mentale ignorando l’informazione dissonante. Quest’obiettivo recondito può essere raggiunto evitando il confronto con persone o fonti di informazione portatrici di una diversa veduta, oppure cercando in maniera selettiva messaggi in grado di dare una conferma alle primitive credenze.
In questo tipo di processo di acquisto, il consumatore opera delle scelte senza avere salde convinzioni sulla marca, per poi mutare atteggiamento in seguito all’esperienza che trae dall’interazione con il bene o servizio. Successivamente, l’apprendimento si svolge, nella persona, ponendosi a supporto dell’originale scelta di marca, stando attenta a recepire l’informazione positiva ed ignorando quella negativa.
Una particolare attenzione deve essere riposta nell’elaborazione della comunicazione, la quale, quando il consumatore non riesce a percepire significative differenze tra le marche sul mercato od è carente per quanto riguarda la capacità di giudizio, deve ridurre la dissonanza rassicurando l’acquirente circa il momento del dopo acquisto che vedrà confermata la bontà della scelta effettuata.
Problem solving limitato – Questo particolare processo decisorio è caratterizzato dal fatto che ad una scarsa capacità di cogliere le differenze tra le marche, si aggiunge un basso livello di coinvolgimento nell’acquisto, cui viene data limitata rilevanza. Le persone, specialmente per quanto concerne acquisti che non comportano grosse ripercussioni su di esse e sui loro stati psicologici, avvertono lo sforzo derivante dalla ricerca di informazioni come eccedente rispetto ai vantaggi che il ricevere quelle informazioni fornisce. Il bilancio psicologico è, in altre parole, a netto sfavore dello sforzo cognitivo, e quanto arriva ad essere percepito ed elaborato dalla mente si presenta semmai, come il frutto di un’assimilazione passiva da parte del soggetto.
Gli atteggiamenti e le valutazioni, in questo caso, avvengono dopo e non prima l’acquisto, essendone l’effetto e non la causa. Poiché il consumatore recepisce e processa i messaggi in maniera eminentemente passiva, questi non vanno ad incidere in maniera rilevante sulla sua struttura valoriale e comportamentale. È solamente dopo che l’acquisto che può darsi luogo ad una valutazione sulla marca e sulla soddisfazione derivante dalla scelta, potendo anche formarsi delle credenze, quantunque in una forma debole, che potrebbero condurre alla ripetizione dell’acquisto, soprattutto in quanto portatrici, se accettate, di una riduzione dello sforzo decisionale. La debolezza si esprime nella maggiore possibilità che, indotto ad esempio da azioni promozionali, il consumatore si allontani da una marca la quale non riesca ad avere una posizione centrale nella sua mente per provarne un’altra, rompendo così il tenue legame instauratosi.
Per le marche la cui scelta è caratterizzata da un basso livello di coinvolgimento, inoltre, il rischio percepito connesso al cambiamento è avvertito in misura molto minore. Come conseguenza, in seguito alla noia e all’apatia che inevitabilmente si ingenerano con il reiterarsi della solita scelta, l’acquirente non trova sostenibili barriere al suo bisogno di varietà.
Il messaggio, per le marche che si trovino in questa posizione, deve mantenersi semplice in modo da non aumentare la refrattarietà all’assimilazione di informazioni che presentano i potenziali acquirenti. Devono invece essere privilegiate la frequente ripetizione del messaggio e la creatività (incentrata su uno o più – in ogni caso pochi – punti focali, legati comunque alla particolare funzione per cui è nato il prodotto), in quanto, per questo tipo di processo decisionale, viene ricercata l’accettabilità della marca piuttosto che l’ottimalità della scelta. Importanti sono anche le prove del prodotto che il consumatore fa, da cui l’esigenza di una marcata attività promozionale.
La distribuzione deve essere attentamente curata garantendo un’ampia disponibilità del prodotto, dal momento che, a causa del basso coinvolgimento, il consumatore difficilmente si porrà alla ricerca di ciò che non ha trovato sul punto di vendita, rivolgendosi invece ad un’altra marca. All’interno del punto di vendita, poi, assume una notevole importanza la “presenza” del prodotto, che deve essere ideata in modo da incontrare nel modo più semplice e naturale i sensi del potenziale acquirente, sollecitandone l’attenzione.
Tendenza al problem solving limitato – Questa diversa situazione decisionale si viene a manifestare quando la persona, pur presentando la capacità di distinguere le differenze esistenti tra le marche, esprime un basso livello di coinvolgimento nel processo di scelta. Anche qui, evidentemente, la scarsa motivazione ben difficilmente consentirà l’intrapresa di un’estesa ricerca di informazioni a supporto della decisione. In conseguenza di ciò appare evidente come le pur sostanziali differenze tra le marche debbano essere valutate con estrema cautela nell’allestimento dell’attività comunicativa.
La selezione della marca avviene in modo analogo a quanto osservato per il problem solving limitato e le indicazioni per l’azione di marketing allora espresse possono essere estese al caso corrente.
2.2.2 – Il ruolo socio-psicologico della marca.
Abbiamo già rilevato[75] come la costruzione di una personalità attorno al prodotto estensivamente inteso contribuisca ad ingenerare nelle persone una maggiore confidenza nei confronti della marca via, via che essa incrementa la propria notorietà. Nostro compito è ora quello di comprenderne a fondo i motivi, in modo da operare strategie di posizionamento il più possibile coerenti con l’identità di marca.
L’immagine che circonda la marca consente al consumatore di formare una visione mentale di ciò che il suo acquisto significa e comporta in termini di bisogni soddisfatti, valori apportati, stili di vita di riferimento reali ed ideali. Del resto, dall’osservazione della marche sulle quali ricade la scelta di una persona si possono desumere molte cose sul suo essere, sulle ragioni del suo comportamento, e sulla sua particolare gerarchia valoriale[76].
L’immagine di marca, per sua natura, risulta essere più efficacemente sviluppabile in riferimento a quei settori e a quegli acquirenti per i quali è predominante l’aspetto emozionale rispetto a quello funzionale, essendo allora che il valore di marca risulta, proprio in forza di tale ragione, maggiormente sostenibile, godendo di un più ampio spazio di manovra consentito dal fatto che, in quel caso, le differenze si fanno più sentite ed evidenti agli occhi delle persone.
Le marche cospicuamente consumate si prestano particolarmente ad un posizionamento basato sui bisogni emozionali delle persone. Il procedimento associativo che prende origine a partire dall’immagine di marca, così come recepita dall’individuo, viene a basarsi sull’appropriatezza dell’immagine stessa rispetto alla situazione di consumo nella quale va ad innestarsi. I consumatori valutano i significati delle diverse marche e prendono una decisione di acquisto in funzione di quale tra esse risulta maggiormente coerente con l’identità loro e del proprio gruppo di riferimento.
Viene così, ancora una volta, a delinearsi la validità dell’ipotesi della primarietà dell’importanza della conferma del sistema valoriale della persona e degli abiti comportamentali di cui essa si riveste. Una marca che risulti essere non in linea con quanto fino ad ora sostenuto, rischia, per ciò stesso, di essere respinta, se non altro a causa di un innato meccanismo di difesa che l’individuo pone in essere nel contrastare l’incongruenza, avvertita come un potenziale pericolo per la propria stabilità valoriale ed emotiva. Muovendosi all’interno di circoli sociali, gli individui recepiscono con favore quelle marche che meglio rappresentano e interpretano, attraverso i simboli di cui si fanno portatrici, la personalità e lo stile di vita propri del contesto socioculturale di riferimento. La situazione ideale è quella in cui la marca riesce, per mezzo della fusione, ad esprimere i movimenti in corso di determinazione prima ancora che il target ne acquisti consapevolezza, in modo da porsi come punto di riferimento e di attrazione (senza che questa funzione di traino possa essere messa in discussione).
Come evidenziato da De Chernatony e McDonald[77], le marche sono parte della cultura di una società, e dal momento che la cultura cambia evolvendosi continuamente anche esse devono essere oggetto di un attento e pronto aggiornamento (è questo il motivo conduttore dal quale prende origine il concetto di fusione). Il ruolo ricoperto da una marca in un certo momento non deve pertanto essere considerato un punto di arrivo, ma soltanto un punto di transito tanto instabile quanto affidabile se ben interpretato.
2.2.3 – L’interazione sociale come vettore comunicativo dell’immagine di marca.
La percezione che i consumatori hanno dei prodotti e delle marche che tali prodotti sintetizzano ed esprimono ha una valenza che trascende l’approccio di marketing nella sua accezione più ristretta, per andare a coinvolgere, in senso più ampio, gli aspetti più tipicamente sociologici e psicologici.
La tendenza che va sempre più diffondendosi negli individui posti di fronte al problema della scelta della marca è quella secondo cui i prodotti o servizi non sono visti solamente nell’ottica di cosa possono fare, ma in quella più intensa e pervasiva di cosa essi significhino. La scintilla che dà inizio a questo più astruso meccanismo interpretativo e di attribuzione di significati è costituita dall’interazione portata avanti da processi comunicativi che, sempre più veloci e consistenti, permettono a chi si trova alle estremità della fitta rete attraverso cui circola il messaggio di apprendere quali siano i significati che gli altri terminali della rete attribuiscono ai prodotti ed alle marche stesse. L’acquisto ed il consumo di una determinata marca e non di un’altra, se portato a conoscenza degli altri individui con i quali ci relazionamo, assume pertanto un ruolo rivelatore che nello stesso tempo ricerca l’accondiscendenza dell’interlocutore, diventando per ciò stesso comunicazione nel senso più puro del termine. La pubblicità insieme agli altri tipi di comunicazione di marketing sostiene, facendo da volano, la creazione ed il rafforzamento dei significati simbolici di cui si ricoprono le marche.
Il senso simbolico delle marche è fortemente influenzato dalle persone con le quali il consumatore interagisce. Attraverso le reciproche relazioni che si instaurano tra le persone, infatti, vengono a crearsi dei contenitori comuni di valori, concetti e significati i quali vengono condivisi e restano a disposizione di tutti coloro che operano all’interno della rete interpersonale così venuta a determinarsi. Seguendo questa logica, chi si trovi ad entrare in un gruppo sociale va a confrontare le proprie idee circa il senso da attribuire ai simboli di cui sono portatrici le marche con quelle che sono già presenti all’interno del gruppo. Nel caso vi siano delle discrepanze, fino a riscontrare delle contraddizioni nei confronti delle credenze personali di cui è portatore, il soggetto tenderà a riformulare queste ultime in modo da renderle conformi alle attese del gruppo. Per sentirsi parte di un gruppo, la persona non soltanto deve aderire alle credenze ed agli atteggiamenti di tale gruppo, ma anche rispecchiare questi atteggiamenti e credenze attraverso il dispiegamento dei giusti tipi di marche prescelte.
Pertanto, la profonda conoscenza del funzionamento dei gruppi è, oggi più che mai, basilare per la comprensione dei modelli di comportamento dei consumatori, necessità tanto maggiore se consideriamo la crescente tendenza delle persone a muoversi nell’ambito di una pluralità di individui che siano accomunati da medesime derivazioni, interessi, contatti, modi di approcciare la realtà, ma soprattutto dalla pressante esigenza di autodifesa da un ambiente esterno ritenuto sempre più ostile[78].
La tendenza all’acquisto originata da una influenza normativa di ordine sociale è sempre più diffusa. Le persone cercano con insistenza sempre maggiore di ottenere l’approvazione sociale o quanto meno di evitare la disapprovazione, soprattutto a livello del particolare e relativamente ristretto gruppo “socio-tribale” nel quale i trovano a vivere ed interagire[79]. La crescente tendenza all’instabilità e precarietà del vivere, in un’epoca che pratica e sostiene la frammentazione della temporalità affermando l’elevazione sull’altro come principale pietra di paragone del valore della persona, è la causa che sta a monte di questo processo. Gli individui si affidano a simboli e meccanismi in grado di produrre approvazione sociale al fine intrinseco di acquisire sicurezza, quella stessa sicurezza che è minata dai meccanismi relazionali che ci si propone di mascherare.
La paura dell’esclusione e del rimanere soli di fronti a se stessi, come riemergesse l’atavica paura del buio e dell’ignoto, è il sentimento che fa da potentissimo propellente a tali meccanismi.
Tutti quanti dipendiamo da qualcosa e cerchiamo l’approvazione sociale. Quello che cambia è l’intensità con cui la ricerchiamo e la direzione verso la quale volgiamo il nostro interesse e i nostri sforzi; ci differenziamo, poi, nel fatto di essere consapevoli o meno di questi elementi che sono alla base del nostro agire e del nostro comportamento.
Dobbiamo distinguere, inoltre, la rappresentazione visuale della marca dall’espressione verbale con cui essa viene proiettata, soprattutto ad opera della pubblicità. Infatti, mentre la prima appare diretta e scevra da complicazioni lessicali, per la seconda vale il discorso contrario: l’espressione verbale, che comunque prevale e fa da sfondo anche alla comunicazione visiva[80], è più scomoda per le credenze sedimentate e soggetta ad un più attento esame della logica tendendo, perciò, ad essere meno accettata.
Il simbolismo è utilizzato da tutte le persone come un valido strumento per la comprensione della complessità ambientale e, costituendo il vero linguaggio comune al gruppo sociale di riferimento, viene conseguentemente usato come strumento comunicativo di sé verso gli altri, nonché verso se stressi. Le marche, intese come simboli, possono cioè convogliare i messaggi degli individui circa se stessi e facilitarne l’espressività. Un ruolo fondamentale nel consentire l’emissione e la ricezione di un messaggio basato su un simbolo è svolto dagli immaginari collettivi e dai luoghi comuni, veri codici comunicativi universalmente riconosciuti ed accettati per validi. A volte, poi, la connotazione simbolica assunta da certe marche viene utilizzata come elemento rituale dedicato ad uno specifico momento della vita sociale (la ritualità costituisce uno schema comune alle società di tutte le epoche e di tutte le latitudini).
L’elemento comune a tutte le funzioni che vengono attribuite ai significati simbolici delle marche pare essere dato dalla sicurezza di conformità rispetto al gruppo sociale di riferimento[81] che essi conferiscono. L’esprimersi attraverso un codice comunicativo generalmente accettato, per di più, non solo si pone a conferma di un’approvazione conseguita per il solo fatto di non essere deviante rispetto al modello di riferimento, ma conferisce anche a chi mette tale meccanismo un incremento di quella che potremmo chiamare auto-confidenza, ponendolo in una situazione di benessere psicologico sia di origine interiore, sia relativizzato alla propria posizione nel gruppo.
Così, in molti mercati, i consumatori guardano alle marche come a strumenti per comunicare qualcosa riguardo a se stessi o per meglio comprendere i propri gruppi di riferimento e decodificare i messaggi simbolici dell’ambiente nel quale si muovono. Dal momento che i simboli acquistano un significato secondo il diverso contesto sociale e culturale dal quale si alimentano e nel quale si sviluppano, occorre comprendere a fondo questi ultimi per addivenire alla loro corretta codifica e decodifica. Di più: bisogna riuscire, attraverso la fusione con esso, ad essere parte integrante del contesto di riferimento, in modo da essere adeguati, in ogni momento, alle diverse circostanze che si presentano con l’evolversi degli eventi e dei concetti che li determinano. Il contatto con l’ambiente nel quale l’impresa è inserita viene a costituire, in quest’ottica, un’esigenza ineludibile.
Perché una marca venga utilizzata come strumento comunicativo, essa deve soddisfare certe esigenze di visibilità collegate al fatto di essere frequente oggetto di scelta o di uso. È l’osservazione della reiterazione di una decisione a generare la convinzione che essa poggi sulla realtà di vantaggi e caratteristiche inconfutabilmente presenti nella marca. Il successo reitera il successo rafforzando i simboli che emergono dal prodotto e dei quali esso si può nel tempo arricchire. Se poi la ripetizione dell’acquisto o dell’uso è fatta ad opera di un gruppo dai tratti chiaramente distinti, i significati della marca verranno assimilati ed accordati a quelli del gruppo attraverso il meccanismo dell’associazione simbolica, fino a condurre alla nascita dello stereotipo. Questo processo di omogeneizzazione dei significati dei simboli raggiunge il suo apice allorquando si perviene alla determinazione del luogo comune, potendosi, allora, dare seguito con maggiori possibilità di successo ad una segmentazione per immaginari collettivi[82].
Nell’affrontare la trattazione del rapporto tra consumatore e marca, occorre rilevare come ed in quali termini egli abbia coscienza di sé e della posizione che ricopre all’interno del suo mondo di riferimento. Il momento del confronto è fondamentale nella formazione e nell’arricchimento della struttura comportamentale della persona. La relatività dei concetti di spazio e di tempo si conferma anche all’interno della mente creando tuttavia un effetto di disorientamento. L’individuo necessita di pervenire alla consapevolezza della posizione e del ruolo che ricopre, qualunque sia la loro natura, all’interno della trama sociale[83].
In questo contesto, le marche svolgono un importante compito relativizzatore fungendo da pietra di paragone che, attraverso la sintetizzazione di concetti, valori e distanze in simboli di chiara ed immediata lettura, consenta al consumatore di determinare la propria posizione relativa. È nelle marche, più che in tanti altri fenomeni socioeconomici, che possiamo rintracciare i segni dell’evoluzione della società, e il saper riconoscere ed interpretare tali segni permette a chi si occupa di posizionamento di conoscere quale sia la direzione e la portata dei movimenti di mercato.
I consumatori preferiscono le marche che avvertono essere più strettamente vicine alla loro immagine così come percepita o desiderata. In effetti, ognuno è portatore di una concezione di sé ed acquista o usa una particolare marca solo se l’immagine di cui essa è depositaria risulta coerente e in armonia con la propria auto-immagine. Viene considerata, cioè, la questione se la marca comunichi il tipo di immagine giusto per incrementare il proprio auto-concetto o se, comunque, essa si mostri coerente rispetto ad esso, appartenendo allo stesso mondo di contenuti.
L’auto-concetto, che è il modo con cui il soggetto percepisce il proprio carattere e la propria identità, si forma a partire dall’osservazione e dall’analisi (spontanea ed automatica) delle reazioni prodotte dalle interrelazioni sociali. È attraverso l’esperienza e la coscienza delle relazioni intrattenute con il mondo esterno che le persone prendono coscienza del proprio auto-concetto attuale. Frutto dei processi di valutazione della posizione ricoperta e di quella ambita è il desiderio di muoversi dall’auto-concetto attuale ad un auto-concetto “ideale”[84]. Il mantenimento ed il rafforzamento della propria identità e immagine rappresentano importanti propositi nella scelta di una determinata marca. Se in seguito all’acquisto o all’uso di una marca il soggetto avverte una reazione positiva da parte del gruppo di riferimento, diventa assai probabile una sua reiterazione della scelta, un modo da dare conferma al riconoscimento del successo del proprio operato.
Il comportamento degli individui varia, inoltre, in considerazione della particolare situazione di cui essi sono parte e nella quale deve essere contestualizzato il processo di scelta. In particolare, la scelta sarà suscettibile di seguire diversi orientamenti secondo quali sono gli occhi ad osservarci. Le persone vogliono offrire una immagine differente di sé al variare della situazione attraverso l’utilizzo di diverse maschere, ognuna costituita dalla marca appropriata per le aspettative presunte attribuite al particolare gruppo che in quella situazione funge da interlocutore.
Esiste, evidentemente, una stretta relazione tra il simbolismo della marca usata e l’auto-concetto dell’individuo, nel senso che il primo influenza il secondo creando le premesse per una scelta finalizzata all’elevazione di quest’ultimo.
2.3 – Le associazioni cognitive come basi per il posizionamento
L’associazione cognitiva è definibile come il processo analogico di concatenazione delle idee attraverso cui è possibile, da un significato originario, derivare una serie di significati che presentano con esso una qualche attinenza più o meno esplicita. Sulla base dell’associazione cognitiva la mente sviluppa incessantemente pensieri che, a causa della complessità della sua architettura e della velocità con cui gli impulsi si trasmettono tra i neuroni, vanno a organizzarsi secondo strutture concettuali sempre nuove e diverse.
Il posizionamento di una marca nella mente delle persone deve così necessariamente essere anch’esso impostato ed imperniato sul meccanismo dell’associazione, per il quale è associato alla marca tutto ciò che nella mente della persona vi è collegato[85]. Il posizionamento concerne il modo con cui la marca viene percepita dal cliente, anche se spesso l’ottica viene rovesciata andando ad indicare il modo in cui l’impresa intende farsi percepire: è quanto avviene nella mente del consumatore ad essere importante e non tanto quelle che possono rimanere solamente delle mere intenzioni da parte dei competitori. L’immagine di marca viene ad essere il risultato dell’organizzazione in sistema delle associazioni e costituisce l’estrema sintesi delle informazioni, più o meno elaborate, di cui il potenziale acquirente si avvale nell’operare le proprie scelte. A parere di Keller, l’immagine di marca può essere considerata «un insieme di percezioni relative alla marca così come riflesse dalle associazioni connesse alla marca stessa detenute nella memoria del consumatore» . Secondo l’autore, pertanto, le associazioni non sono altro che il contenuto di quella rete di nodi cognitivi la quale rappresenta tutto ciò che è conosciuto a proposito di un determinato oggetto. Il legame tra consumatore e marca diviene tanto più forte quanto più numerose e robuste sono le associazioni . Di qui la necessità, per chi gestisce l’immagine di marca, di arricchire e rinsaldare continuamente la trama dei collegamenti tra i significati ed i valori di cui essa è portatrice e quelli riconosciutile dal mercato.
Il valore aggiunto della marca è, in ultima analisi, determinato dalle associazioni che essa è in grado di generare e gestire, le quali esprimono ciò che rappresenta per i potenziali clienti. Nel produrre valore, le associazioni intervengono sotto molteplici aspetti svolgendo diverse funzioni.
Innanzitutto, le associazioni costituiscono il meccanismo con il quale vengono riassemblati i pezzi di informazione sedimentati nella memoria. Il modificarsi delle associazioni e della struttura concettuale in cui vengono poste può portare a interpretazioni e ricordi parzialmente o del tutto diversi da quelli originari.
Le associazioni possono, poi, essere prese come base per un posizionamento che, attraverso la differenziazione, può alfine offrire un vantaggio competitivo decisivo. È, anzi, il ricorso allo studio dei collegamenti tra i valori di cui è portatrice la marca e quelli percepiti dal consumatore ad offrire i più preziosi spunti per conseguire un posizionamento efficace. Il raggiungimento di una posizione privilegiata sulla particolare 'collina” categoriale percepita dal consumatore rappresenta un passaggio decisivo nella conquista di una leadership potenzialmente duratura. Infatti, chi detiene una posizione di vantaggio può adottare strategie di copertura che, se attuate intelligentemente, rendono arduo il compito degli sfidanti per il conseguimento del predominio del mercato solo per il fatto che prima devono riuscire a scalzare l’impresa leader dalla prima posizione.
Non tutte le relazioni rintracciabili hanno in realtà la medesima importanza. Le associazioni riconducibili all’immagine di una marca sono spesso relative a caratteristiche del prodotto che costituiscono un particolare motivo per l’acquisto della marca da parte del consumatore, diventando talmente importanti da lasciare quasi senza rilevanza le altre che finiscono per confondersi e perdersi nello sfondo rimanendo in secondo piano. Mandato[88], sottolinea come, al fine di meglio comprendere la natura dell’immagine di marca, sia opportuno approfondire le forme che essa può assumere, soprattutto con riferimento al loro grado di astrazione In particolare, l’autore, seguendo la dottrina economica, riconosce per le associazioni di marca tre macro-livelli. Il primo livello, quello che presenta il livello di astrazione più basso, è quello definito dagli attributi, ossia le caratteristiche tecniche dell’offerta. Il secondo livello è dato dai benefici, ossia l’insieme delle utilità connesse alla marca – di qualunque natura esse siano – e riconosciute dal mercato. Il livello nel quale il grado di astrazione è maggiore è quello degli atteggiamenti verso la marca, i quali costituiscono la base dell’immagine di marca .
Le associazioni, infine, possono essere utilizzate come basi di appoggio per una estensione di gamma. In questo caso, si approfitta di una relazione nota ed affermata tra un valore della marca ed il cliente, per riproporre quel valore sull’estensione, godendo dei benefici di un’associazione già affermata e collaudata (anche se occorre guardarsi bene, come vedremo[91], dalle trappole insite nelle estensioni di gamma).
I tratti comuni delle relazioni importanti per la marca sono rintracciabili nella forza del legame e nel fatto di essere condivise da molti, risultando altrimenti non praticabile l’analisi degli immaginari collettivi per l’individuazione dei punti focali della posizione-obiettivo. Esistono innumerevoli possibili associazioni[92], ma l’impresa deve interessarsi a quelle che assumono il rilievo maggiore per i potenziali clienti, nonché a quelle che potenzialmente sono sviluppabili in seguito al mutare delle credenze e degli atteggiamenti che li caratterizzano. Appare comunque utile una disamina delle principali tipologie di associazioni che è possibile incontrare nella realtà .
Basare la strategia di posizionamento sulle caratteristiche del prodotto costituisce la più naturale opzione per i decisori d’impresa. Non tutte le caratteristiche individuabili sono però sullo stesso piano quanto a importanza ed efficacia. Determinante è, in sostanza, il fatto che si tratti di un elemento significativo e non banale, in modo tale da riuscire ad accrescere, mediante il suo rafforzamento, il valore di marca.
La caratteristica di prodotto intorno alla quale costruire la propria posizione non deve essere necessariamente la stessa per le diverse marche presenti nella stessa categoria di prodotti. Spesso, anzi, è vero il contrario: risultando difficile, quasi improponibile, cercare di spodestare l’impresa leader usando il suo medesimo concetto critico, per trovare uno varco e un proprio spazio nella mente del cliente, occorre allora ricercare un approccio che segua una diversa prospettiva trascurata dai concorrenti, ma che sia in grado di offrire delle potenzialità di sviluppo. A causa dell’approccio generalista che spesso contraddistingue la strategia dell’impresa capofila, capita di frequente che le imprese cerchino spazio nell’estremità superiore o in quella inferiore del mercato di riferimento e, se tale spazio non risulta già occupato da qualcun altro, il progetto ha buone possibilità di andare in porto. Le più importanti opportunità si presentano qualora sia verificata l’esistenza di una consistente porzione di pubblico non adeguatamente soddisfatta dai concorrenti riguardo a un particolare attributo dell’offerta.
Onde evitare il frequente errore di impostare la propria strategia di posizionamento su un numero troppo elevato di caratteristiche del prodotto (scelta che, a causa delle limitate possibilità dell’individuo di processare le informazioni, conduce invariabilmente ad un’immagine sfocata e attaccabile dai concorrenti anche in presenza di buoni concetti di fondo), occorre, invece, concentrarsi su un nucleo ristretto di associazioni che inoltre non trascurino alcun aspetto o segmento potenzialmente sviluppabile. Una pluralità di caratteristiche, entro certi limiti, può essere assunta come sostegno per l’immagine d’impresa solamente se ciascuna risulta legata alle altre e si sostengono vicendevolmente.
Un posizionamento basato su caratteristiche tangibili appare più vulnerabile di uno che si fonda su concetti astratti. Questo è tanto più vero quanto minore è il numero di associazioni tangibili basate sulle caratteristiche del prodotto, e in particolar modo quando tale numero si riduce ad uno. In quest’ultimo caso, il rischio derivante dall’effetto di spiazzamento generato da un’innovazione nei confronti della specializzazione dell’impresa è assai elevato. Si può inoltre incorrere nel rischio che i consumatori, non riuscendo a percepire il valore e la diversità di quell’unica caratteristica, non trovino motivo per preferirci ad altri offerenti.
Le componenti intangibili e astratte offrono maggiori possibilità di costruire associazioni forti ed arrivare ad occupare uno spazio nella mente del potenziale cliente. La caratteristica degli attributi intangibili è la generalità, che però non deve essere eccessiva per non cadere nel rischio opposto della banalità. Questo in quanto un vantaggio costruito sulla percezione e sul ruolo emozionale della marca è più difficile da contrastare. Una volta che la marca si è impossessata di un valore nella mente delle persone, quella specifica posizione non può essere conquistata da qualcun altro se prima non viene da lì scalzato il leader, il quale ha saputo evidentemente approfittare di un maggiore tempismo per imporre per primo la giusta associazione.
Solitamente le associazioni che si incentrano sui vantaggi arrecati al consumatore corrispondono a quelle relative a caratteristiche del prodotto in quanto le seconde vengono studiate in modo che implichino le prime (e non potrebbe, del resto, essere diversamente). Nondimeno, può risultare rilevante la constatazione che a prevalere sia l’uno o l’altro tipo di associazione. Infatti, mentre le associazioni legate alle caratteristiche di prodotto si riferiscono all’aspetto razionale della decisione d’acquisto, quelle incentrate sui vantaggi per il consumatore fanno invece leva sulla parte psicologica ed emotiva dell’acquisto andando ad incidere su credenze ed atteggiamenti ed ottenendo, per questo, una risposta superiore.
Il vantaggio psicologico si presta, possiamo infine notare, non soltanto per i prodotti che soddisfano bisogni simbolici ed esperenziali, ma anche per quelli tipicamente funzionali.
Sono approssimativamente individuabili cinque categorie di prezzo nelle quali per la marca è possibile posizionarsi sui vari mercati: la categoria premium price, la categoria superiore, la categoria media, la categoria economica, la categoria minima.
Secondo la regola generale, una marca dovrebbe essere posizionata rispetto ad una sola categoria di prezzo per non rendere sfocata la propria immagine peculiare. Una volta stabilita la categoria di prezzo di riferimento, il problema sarà quello di riuscire a differenziarsi dalle altre marche presenti in quella fascia trovando un’associazione di interesse per il potenziale acquirente in una posizione difendibile.
Le possibilità di posizionamento rispetto al rapporto qualità/prezzo che più frequentemente si presentano sono quelle legate alle categorie estreme, perché generalmente il leader di mercato non trova conveniente scendere in forze su un segmento ristretto rischiando di disperdere le energie nel terreno dove invece è più forte e dove ritiene si giochi il suo futuro. L’importante è riuscire ad arrivare per primi su quelle estremità in modo da occupare la relativa posizione ed essere riconosciuti come il riferimento della categoria. Se poi chi detiene la maggiore quota di mercato commette l’errore di spostarsi dalla sua posizione per guerreggiare un conflitto in un territorio che non è il suo disperdendo, in questo modo, le proprie energie su un fronte troppo ampio, allora si presenta l’occasione per coglierlo di sorpresa sul suo stesso campo.
Preferibile è l’attacco sul segmento alto, in modo da poter disporre dei vantaggi concessi dai margini superiori e dal forte sviluppo che spesso lo caratterizza, ottima risorsa di riserva per rispondere alla successiva reazione della concorrenza. Per posizionare una marca nella categoria premium price occorre valorizzare associazioni che elevino l’immagine di marca sulle concorrenti conferendole una connotazione superiore soprattutto riguardo agli attributi intangibili.
Come vedremo in seguito[94], la stessa scelta del nome può essere, di per sé, indicativa di una particolare categoria di prezzo nella quale la marca si troverà ad essere collocata più per effetto dell’aspetto evocativo del nome stesso, che delle azioni a quello scopo appositamente mirate. Spesso, un nome adeguato riesce a conferire alla posizione una sostenibilità ben maggiore di quanto riesca a fare una qualsivoglia qualità del prodotto.
L’associazione della marca a una particolare modalità d’uso costituisce un’ulteriore opzione per il posizionamento. Questa particolare possibilità che si apre all’impresa, solitamente viene seguita in sede di riposizionamento per bloccare od imitare le mosse di un avversario e non come iniziale scelta di fondo, a causa della convinzione che spesso si ha circa la superiorità complessiva del proprio prodotto (il che porta a voler sfidare il campione sul campo aperto o, nel caso opposto, ad aspettare con eccessiva fiducia il primo colpo dello sfidante), o per il timore di una prima scelta all’apparenza azzardata e rischiosa. In realtà non si tratta di una scelta marginale o di ripiego: se esiste una possibilità inesplorata legata ad un diverso utilizzo del prodotto o allo stesso utilizzo rivisitato in una chiave originale, allora potrebbe valere la pena di entrare per primi in quel varco occupando la relativa posizione.
Occorre, infine, rilevare come, spesso, l’associazione rispetto alla modalità d’uso rappresenti un ulteriore e secondario livello della strategia di posizionamento adottata dall’impresa, venendo in subordine rispetto ad altri criteri ritenuti più incisivi. Lo scopo specifico di questa ulteriore articolazione della strategia primaria è l’espansione incrementale del mercato della marca. A volte si trascurano, però, i pericoli che derivano dall’adozione di una molteplicità di basi per il posizionamento. Potrebbe divenire difficilmente gestibile la coesistenza di criteri diversi per natura e implicazioni. Si rischia, in primis, di creare solamente confusione nella mente del consumatore, il quale, non riuscendo a collocarci in una categoria mentale ben definita, ci porrebbe in una sorta di limbo dal quale sarebbe poi veramente difficile riemergere anche con una riconquistata ben definita identità. Inoltre, aumentando il numero di criteri di posizionamento potremmo ritrovarci a competere in mercati diversi da quelli inizialmente preventivati, con avversari più forti e che godono del vantaggio della nostra sorpresa nel ritrovarceli di fronte. Non occorre infatti dimenticare come, attraverso il posizionamento, sia l’impresa stessa a scegliersi i concorrenti.
Un’altra classica possibile base adottabile per la definizione di un posizionamento si incentra sull’associazione con un determinato tipo di utente o di consumatore. Se sussistono i requisiti per una sua valida applicazione, la scelta di questo criterio comporta il vantaggio di permettere una combinazione tra il posizionamento e la segmentazione. Come evidenzia Aaker[95], “Identificare una marca con un segmento del target è spesso un modo efficace per rivolgersi a questo segmento”.
L’inconveniente connesso all’adozione di una strategia del genere è collegato strettamente ai vantaggi da essa offerti. Infatti, ciò che questo tipo di posizionamento da una parte concede, se lo riprende dall’altra sotto diversa forma. Occorre mettere molta attenzione nel seguire l’associazione nei confronti dell’utente/consumatore evitando di incorrere in eccessivi vincoli oltre a quelli insiti in una scelta del genere: creando una forte associazione, la marca pone essa stessa dei limiti alla propria espansione. Così, può succedere che da quella che sembra essere la forza di una marca, ovvero il suo legame con un particolare segmento, nasca una debolezza costituita dallo steccato che viene di fatto eretto dall’impresa stesa nel momento in cui decide di dedicare la propria attenzione a certi soggetti escludendone altri. Un successivo tentativo di allargamento della propria base o di spostamento completo della marca dovrà pertanto fare i conti con i limiti dettati dall’originaria scelta.
Convinzioni e credenze si sviluppano intorno a persone od eventi oltre che attorno a marche ed imprese. Può capitare che ci si accorga che quei caratteri dei quali la nostra immagine è deficitaria siano in realtà presenti in una persona posta sotto i riflettori del pubblico, o siano ricavabili da un particolare evento. In tutti questi casi le imprese cercano, attraverso la realizzazione di un’associazione con essi, di appropriarsi del potere e dei valori insiti in questi individui o avvenimenti trasferendoli alla marca, per accedere, attraverso una corsia preferenziale, alla mente delle persone.
Parliamo di personaggi in genere, oltre che di celebrità, in quanto non è sempre necessario ricorrere a questi ultimi per ottenere l’attenzione del pubblico orientandone a proprio favore la risposta. Tutto quello che, per un motivo o per l’altro, costituisce un simbolo di qualcosa ed occupa un posto nella mente delle persone – potendosi anche trattare di un personaggio di pura fantasia – può costituire un valido appiglio e punto di riferimento per accedere ad essa con buone possibilità di rimanervi. Si tratta, in estrema sintesi, di sfruttare in proprio favore quanto da altri già realizzato.
Per il consumatore valutare l’aderenza di ognuna delle marche concorrenti ai propri valori individuali può diventare un compito molto lungo e impegnativo. Per questo motivo un più facile approccio è rappresentato dalla personificazione della marca, dal momento che molti caratteri presenti negli individui sono riscontrabili anche in essa. Una marca, come una persona, può essere associata ad una determinata personalità e ad un proprio stile di vita. Gli sforzi di chi si occupa della gestione della marca devono essere allora concentrati nell’integrare tutti i punti di interazione tra il consumatore e la marca, in modo da conferire a quest’ultima una personalità di tipo olistico.
Quando una marca presenta una personalità ben definita, i consumatori iniziano ad interagire con essa e sviluppano una relazione, proprio come avviene fra le persone. La marca che presenta una più spiccata personalità è, allora, quella che presenta le maggiori probabilità di attirare l’interesse dei propri interlocutori, rivestendo, quando essa è particolarmente forte, il ruolo di centro catalizzatore e di riferimento per quanto attiene ai valori che le vengono attribuiti e riconosciuti.
Alcune offerte, per loro natura caratterizzate da connotazioni sfumate che potrebbero farle ricadere in più categorie di prodotto, necessitano di un punto fermo in una di queste categorie cui fare riferimento e al quale collegare i propri attributi. La scelta migliore circa la posizione da perseguire per le marche che si trovino a cavallo di due o più categorie, in altre parole, consiste nel riferirsi soltanto a quella che consente alla propria immagine di assumere caratteri il più possibile riconoscibili, semplificando, in questa maniera, il processo di categorizzazione che avviene nella mente del potenziale acquirente.
Occorre, tuttavia, porre estrema cautela nello scegliere lo spazio nel quale intendiamo collocarci perché, coma abbiamo visto, nel fare questo andiamo a determinare i concorrenti con i quali ci confronteremo e che godono già di una loro posizione, probabilmente maggiormente definita rispetto alla nostra.
Una particolare strada che può essere seguita è quella della negazione. Contrapponendoci al concetto di una marca affermata che presenta un qualche attributo diverso dal nostro, possiamo posizionarci come la marca da scegliere per andare realmente controtendenza in quanto portatrice di un concetto di fondo totalmente diverso, potendo ottenere maggiori risultati rispetto ad una più tradizionale strategia incentrata sul confronto con le marche simili alla nostra.
Per le marche che non occupano la posizione di leader di una categoria di prodotto può risultare utile, oltreché comodo, basare il proprio posizionamento sul riferimento ad uno o più concorrenti più affermati. L’obiettivo è sfruttare un’immagine già presente e sedimentata nella mente del consumatore per costruire alla sua ombra una propria posizione ad essa collegata, presentandosi inoltre l’opportunità di sfruttarla come ponte per il raggiungimento di una nuova e in parte diversa posizione. L’associazione logica e la chiusura sono i meccanismi che vengono utilizzati nel fare questo. Un’altra ragione per utilizzare associazioni con la concorrenza sta nella maggiore semplicità e linearità del riferirsi a quanto il consumatore già conosce rispetto al proporgli una serie di caratteristiche da valutare ex novo, superando in un colpo numerosi passaggi che, a causa della loro molteplicità, comporterebbero un allungamento del processo ed il rischio di distorsione del messaggio iniziale.
Il posizionamento basato sul riferimento alla concorrenza può risultare particolarmente vantaggioso se l’associazione concerne una caratteristica del prodotto, in special modo il rapporto qualità/prezzo. Data la difficoltà che le persone incontrano a valutare e categorizzare un prodotto quando siamo nella sua fase di lancio, usando il legame con una marca affermata, è possibile facilitare questo compito.
Una modalità di realizzazione di un posizionamento che sfrutti l’associazione con la concorrenza è data dalla pubblicità ativa, laddove esiste questa possibilità[96].
All’interno dell’immaginario degli individui, anche un paese o, più in generale, un qualsiasi luogo geografico, può essere depositario di un insieme di contenuti e simboli che gli vengono attribuiti e che, per analogia, ritroviamo proiettati e presenti in tutti gli elementi che evocano quel particolare luogo. Ancora una volta è il meccanismo del luogo comune e della conformizzazione verso esso a guidare le percezioni delle persone su strade preordinate: si vede ciò che si vuole vedere.
Da queste considerazione segue l’opportunità per la marca di sfruttare, facendoli propri, tutti quegli elementi che sono in grado di evocare simboli già affermati ed abbastanza generali e lontani da garantire una certa stabilità nel tempo e nei contenuti[97].
3.1 – Il sistema di attività dell’impresa
3.1.1 – Strategia ed efficacia operazionale.
Una critica posta al posizionamento sostiene che esso sia troppo statico per i moderni mercati e per i cambiamenti tecnologici che si susseguono nel mondo odierno, poiché le imprese rivali sono in grado di emulare rapidamente qualsiasi posizione e vantaggio competitivo, con la conseguenza che le strategie incentrate su di esso sarebbero svuotate di ogni significato.
Quest’approccio alle problematiche della competizione è, in verità, troppo semplicistico e fuorviante. Esso non tiene conto, infatti, delle ragioni profonde che stanno dietro al concetto di posizionamento e che ne costituiscono la ragion d’essere. In primo luogo, la critica riferita alla sua presunta staticità viene a cadere non appena prendiamo in considerazione il ruolo svolto dalla fusione, la quale, per propria natura, conferisce al rapporto tra impresa e cliente quella caratteristica di aderenza e simbiosi tra l’essenza della domanda e quella dell’offerta che rappresenta la sintesi ultima di ogni congetturabile dinamismo. È in virtù della fusione, conquistata quotidianamente sul terreno della mente, che viene garantito il mantenimento partecipato di una posizione esclusiva nel mondo concettuale di riferimento della persona. Si tratterà, semmai, di giungere in una posizione prima di chiunque altro, o, nel caso la categoria mentale sia già appannaggio di un concorrente, di raggiungere un grado di fusione più spinto, in modo da riuscire a prenderne il posto.
Secondariamente, ma non meno importante, si confonde nel posizionamento la strategia intesa nel senso più puro con quella che Porter chiama efficacia operazionale[98]. In virtù della ricerca di un continuo miglioramento della performance competitiva, si è assistito ad un notevole proliferare di strumenti manageriali a livello operativo che, nonostante abbiano comportato perfezionamenti riguardo le diverse operazioni investite, si sono spesso rivelati deludenti per chi confidava di avere trovato in essi l’arma finalmente risolutiva nella conquista di un vantaggio sostenibile nei confronti della concorrenza. Il problema risiede evidentemente da altra parte: perdendo di vista l’acquirente potenziale come punto di riferimento invece effettivo, passo dopo passo gli strumenti manageriali hanno preso il posto della strategia creando confusione circa l’orientamento seguito e conducendo le imprese su posizioni sfocate e non in linea con le reali attese del mercato. Nel tentativo di conseguire avanzamenti in tutte le direzioni si è avuto, in altre parole, uno sviamento dalle posizioni vitali per l’impresa e per la marca.
I vantaggi o gli svantaggi competitivi che presenta una marca sono il risultato dell’insieme delle sue attività e non di una parte solamente di esse. Mentre le diversità tra i costi derivano dallo svolgere attività più efficientemente rispetto ai competitori, la differenziazione è generata dalla scelta delle attività e dal modo in cui queste sono realizzate.
Al fine del perseguimento della competitività, l’efficacia operazionale e la strategia sono entrambe elementi imprescindibili, pure se, a causa della loro differente natura, presentano comportamenti diversi. Per efficacia operazionale intendiamo lo svolgimento di attività simili, ma in modo migliore, rispetto ai concorrenti. In questo processo tutto ruota intorno al perseguimento dell’efficienza, che tuttavia non assume carattere totalizzante: ad essa si affiancano tutti quanti quegli strumenti che mostrano di essere in grado di migliorare l’utilizzo delle risorse a disposizione. All’opposto, il posizionamento strategico comporta il porre in essere attività differenti rispetto ai nostri competitori, oppure attività simili realizzate però in maniera differente.
Se il conseguimento di un continuo miglioramento dell’efficacia operazionale costituisce un’esigenza ineludibile sulla strada della competitività, esso, tuttavia, non dimostra di essere sufficiente. Una prima ragione risiede nella rapida diffusione e imitazione delle migliori pratiche e tecniche manageriali/gestionali, in forza delle quali i differenziali competitivi conquistati vengono inesorabilmente erosi dai concorrenti che si accorgono, presto o tardi, della loro validità. In effetti, l’aspetto più permeante della competizione è costituito dalla relatività delle posizioni: un incremento assoluto in termini di efficacia operazionale può risultare vano in termini relativi comportando benefici inconsistenti per ognuno.
In sostanza, muovendosi i competitori presenti in un mercato nella stessa direzione e secondo le medesime modalità, le distanze relative restano le stesse. Va da sé che l’efficacia operazionale vada comunque perseguita per non lasciare vantaggiosi margini in mano ai rivali, ma, se essa rimane fine a se stessa, gli sforzi compiuti non conducono ad altro se non ad una guerra di posizione dove nessuna delle parti le quali seguono identiche traiettorie, ha possibilità di vincere.
Di qui, la propensione sempre più diffusa, da parte di imprese che non trovano una strategia migliore, a rompere il gioco competitivo attraverso il ricorso a fusioni ed acquisizioni, cercando di ottenere dalle alchimie finanziarie quello che non sono state capaci di trovare nella strategia. Quest’opzione, accanto agli indiscutibili vantaggi conseguibili in termini di posizionamento, presenta, nondimeno, rilevanti problematiche inerenti soprattutto il processo di integrazione tra le entità aziendali coinvolte arrischiando di generare, per il tramite di attività e culture diverse e incoerenti, strategie casuali e frammentate (in queste situazioni, al fine di favorire la trasformazione della complessità e delle difficoltà incontrate in un’opportunità di sviluppo unitario e coeso dell’impresa, diventa fondamentale un’opportuna gestione della comunicazione sia a livello interno che esterno[99]).
Al centro del sistema competitivo stanno invece le strategie di posizionamento, le quali concernono l’essere differenti e si concretizzano nella scelta, deliberatamente operata, di un set di attività diverso dagli altri, in modo da offrire un valore integrato unico. Le problematiche principali che occorre risolvere per addivenire ad un posizionamento di successo sono sintetizzabili nei seguenti punti:
Individuazione nella mente dei potenziali acquirenti dello spazio mentale da occupare. Esso può consistere in un nuovo spazio da noi identificato ancora vergine e non occupato da altri, oppure in una categoria già presente e dalle connotazioni sufficientemente definite che vede, però, proprio per questo, le posizioni della scala valoriale occupate da altre imprese.
Specificazione delle caratteristiche della categoria di riferimento e delle posizioni che in essa sono riscontrabili. Dopo avere identificato il luogo mentale sul quale andremo ad operare occorre ora comprenderne a fondo la natura e le fattezze, in maniera tale da poterci muovere agevolmente al suo interno. In questa fase si procede alla selezioni delle particolari associazioni cui farà riferimento la marca.
Traduzione delle risultanze relative ai punti precedenti – e concepite in termini del target di riferimento – in un sistema integrato e coerente di attività. Il collegamento tra il momento investigativo degli spazi mentali e quello ideativo della rete di attività è costituito dall’individuazione e dallo sviluppo delle associazioni più idonee a comunicare l’identità di marca.
Le circostanze che originano la categorizzazione mentale e la loro natura sono state trattate nel secondo modulo. Nostro compito è, adesso, quello di procedere alla determinazione dell’insieme di attività che definiscono una posizione strategica e all’utilizzo delle associazioni nel conferire un valore a tale posizione.
L’essenza della strategia risiede nelle attività: occorre scegliere e realizzare attività che siano differenti da quelle dei rivali o che, pur essendo ad esse riconducibili, siano portate avanti in modo differente.
Porter enuclea tre possibili origini per una posizione strategica. Secondo l’autore[100], possiamo, in altre parole, avere tre diversi tipi di posizionamento: il posizionamento basato sulla varietà, quello basato sui bisogni, quello basato sull’accesso.
Il primo si ha quando l’impresa si orienta verso la produzione di un sottoinsieme di prodotti o servizi di un’industria. La scelta si basa su varietà del prodotto o servizio, piuttosto che su segmenti riferiti ai clienti. Questo tipo di posizionamento comporta effetti positivi ricollegabili all’utilizzo di set di attività distintivi. Un’impresa che segua questa linea strategica potrà coprire un ampio schieramento di potenziali acquirenti, ma, per lo più, incontrerà soltanto un sottoinsieme dei loro bisogni.
Il posizionamento basato sui bisogni si avvicina al tradizionale modo di approcciare e indirizzarsi a un determinato segmento di consumatori. Questa diversa impostazione può essere seguita con successo quando esistono gruppi di persone con bisogni differenti [101] e quando questi bisogni sono raggiungibili attraverso il ricorso a un adeguato sistema di attività. Una variante del posizionamento basato sui bisogni si può avere allorché lo stesso cliente presenta diversi bisogni in differenti occasioni o per differenti tipi di transazioni. Requisito essenziale di questo tipo di posizionamento è l’elaborazione del set di attività più adeguato per soddisfare i diversi bisogni delle persone, il quale, per poter tradurre le differenze nei bisogni in posizioni significative, deve esso stesso differire in modo evidente e sostanziale da quelli dei concorrenti.
Il posizionamento basato sull’accesso si incentra sulla segmentazione di consumatori che sono accessibili in modi differenti. Sebbene i loro bisogni siano similari a quelli di altri consumatori, è differente la migliore conurazione delle attività per raggiungerli; se i bisogni sono simili, esistono, cioè, dei gruppi distinti sulle cui differenze occorre concentrarsi. Il particolare tipo di accesso può essere funzione di qualunque variabile (come, ad esempio, la collocazione geografica, l’addensamento, una minore scala dimensionale, ecc.) che renda possibile l’esistenza di un approccio al cliente, tramite un sistema di attività ad hoc, migliore degli altri. Questo tipo di posizionamento appare meno frequente degli altri, non tanto per le minori potenzialità, quanto perché forse meno compreso.
Occorre rimarcare come il posizionamento non sia affatto sinonimo di ricerca di una nicchia, pur essendo, essa, una delle possibili soluzioni cui si possa addivenire. In effetti, qualunque ne sia l’origine, possono emergere sia posizioni ampie ed estese che posizioni ristrette sulle quali disegnare le proprie attività. Riemerge il concetto di focalizzazione[102] così come espresso dall’approccio di Porter alle strategie di base. Le imprese che si focalizzano sono orientate a sottoinsiemi di consumatori che presentano bisogni particolari e che risultano essere sovraserviti da altre imprese che operano con strategie più ampie (quindi sopportando un aggravio di prezzo) o sottoserviti (lasciando non adeguatamente sfruttato un margine di prezzo che essi sarebbero disposti a sostenere). Un competitore operante su una più ampia base orienta, invece, le proprie attività verso i bisogni più comuni del target, ignorando quelli di cui sono portatori particolari gruppi di potenziali clienti. Le strategie di base – differenziazione, leadership di costo, focalizzazione – restano comunque utili per caratterizzare le posizioni strategiche al livello più semplice ed ampio. Sono poi le basi per il posizionamento – varietà, bisogni, accesso – a conferire un maggiore livello di specificità a queste generiche strategie.
Seguendo questo ragionamento, la strategia si pone come “la creazione di un’unica e rilevante posizione che richiede un differente set di attività[103]”. L’essenza del posizionamento è data dal fatto che esiste una pluralità di posizioni più o meno visibili e praticabili, le quali si caratterizzano, poi, per la dinamicità con cui mutano e si evolvono, in seguito ai cambiamenti che intervengono nell’ambiente esterno e, in particolar modo, nella mente dei potenziali acquirenti. Ognuna di queste posizioni si differenzia dalle altre per i diversi disegni di attività che vengono impiegati. Anzi, affinché si pervenga ad una differenziazione effettiva, occorre scegliere attività che siano realmente diverse da quelle dei rivali. Se esistesse un set di attività che consentisse di soddisfare tutti i bisogni e di accedere a tutti i consumatori, allora sarebbe l’efficacia operazionale a costituire il principale motore della competitività.
3.1.2 – La sostenibilità delle posizioni strategiche: i trade-off.
La scelta di una posizione unica che costituisca un valore per il cliente non è di per sé sufficiente a garantire la sostenibilità del vantaggio conseguito: gli imitatori, infatti, si muoveranno rapidamente nel mercato nel tentativo di approfittare, penetrandovi, del varco da altri aperto. Nel fare questo, l’imitatore segue tipicamente due strade tra loro distinte, tuttavia accomunate da quella che Ries e Trout chiamano, nel loro caratteristico linguaggio urativo, la logica della risposta “anch’io, anch’io[104]”. Un competitore può riposizionarsi completamente creando un sistema di attività ad hoc in modo da andare ad incontrare la collocazione del concorrente di riferimento, oppure, molto più frequentemente, estendersi (in modo spesso caotico, disorganico e scomposto) dalla posizione correntemente ricoperta, pur mantenendola, nel tentativo di appropriarsi dei benefici connessi alla posizione di un rivale di successo (ed è quanto tipicamente avviene, attraverso l’innesto di nuovi contenuti, servizi e tecnologie nelle attività già in essere) .
Chi sia riuscito ad occupare una posizione strategica di superiorità si trova, allora, nella necessità di rinsaldare tale condizione attraverso l’erezione di adeguate barriere e l’attuazione di una difesa che avrà tanto maggiori possibilità di successo, quanto più elevato è il margine sulla concorrenza, in questo trovando conforto nel fatto che i concorrenti non sono in grado di copiare tutte le posizioni assumibili nel mercato senza esporsi al rischio, tutt’altro che irrilevante, di una perdita di focalizzazione circa le attività che attualmente svolgono, con una conseguente distorsione e indebolimento della propria identità ed immagine. Questo accade a causa della presenza di trade-off che legano indissolubilmente ogni particolare posizione a tutte le altre, in moda tale da rappresentare un peso da sopportare qualora si decida di procedere ad un riposizionamento. I trade-off prendono origine dal fatto che spesso le attività sono tra di loro incompatibili e l’orientarsi verso l’una piuttosto che verso l’altra apre delle porte chiudendone altre.
I trade-off sono presenti nella competizione in maniera pervasiva e risultano essenziali qualsiasi strategia venga adottata. Il loro ruolo si esplica nel fungere da deterrente per avventate estensioni di linea e riposizionamenti, dal momento che, qualora non fossero attentamente valutati, potrebbero minare le strategie seguite e degradare il valore delle attività esistenti. L’insufficienza dell’efficacia operazionale a costruire vantaggi competitivi durevoli e sostenibili si accomna all’impossibilità di trarne che deriva dall’assenza di trade-off. In mancanza di questi ultimi tutti gli sforzi compiuti nella direzione di una maggiore efficacia operazionale sfociano solamente in una continua corsa che nella migliore delle ipotesi, ha come unico traguardo raggiungibile non il prevalere sulla concorrenza, ma lo stare al passo con essa. La strategia avveduta deve tenere i trade-off[106] e la loro incidenza sulla competizione nella massima considerazione, ritrovandosi la sua essenza nello scegliere cosa l’attore non deve fare.
Più precisamente, esistono valide ragioni per l’esistenza dei trade-off. La più ovvia discende dal fatto che l’immagine e la reputazione non si possono costruire da un giorno all’altro e tanto meno le si può modificare agevolmente una volta che i consumatori hanno posizionato la marca nelle scale categoriali all’interno della propria mente. Una marca cui è attribuito, a torto o a ragione, un particolare valore con il quale viene ad essere identificata rischia, modificando la propria collocazione strategica, di perdere credibilità e indebolire anche i suoi profili di forza, riuscendo solamente a creare confusione nel potenziale acquirente.
I trade-off non sono entità astratte, in quanto derivano dalle attività stesse dell’impresa. Se il perseguimento delle posizioni strategiche è strettamente correlato alle diverse attività che possono essere create e messe in sistema, queste ultime sono poi, a loro volta, foriere di possibilità e di limiti secondo il particolare assetto venutosi ad instaurare. Questo accade in virtù del mantenimento di un elevato grado di coerenza tra l’identità comunicata e l’immagine percepita da una parte, e quanto il consumatore si troverà poi a constatare una volta entrato in contatto con l’offerta, dall’altra. Ogni particolare posizione richiede differenti conurazioni di prodotto, nonché comportamenti e capacità da parte del management e degli altri assetti d’impresa che siano in sintonia con essa. Esiste, comunque, una relazione inversa tra la flessibilità che le diverse organizzazioni dimostrano di possedere e la consistenza dei trade-off, anche se molti di essi possono essere piuttosto elementari. Le difficoltà per l’impresa non sorgono, tuttavia, in seguito al superamento dei singoli trade-off, ma nel momento in cui essi costituiscono una rete di interdipendenze reciproche che risulta assai più difficile da districare.
Un’ulteriore origine per i trade-off scaturisce dall’interno dell’impresa e, in particolare dai sistemi di coordinazione, gestione e controllo. Nel definire con chiarezza il modo con cui si intende affrontare la competizione, chi idea la strategia sceglie di intraprendere una strada invece di altre, creando ad un tempo, nel far questo, le possibilità che si profileranno per l’impresa, così come i vincoli ed i rischi cui andrà incontro. Appare in tutta la sua evidenza il limite generale che affligge qualsiasi impresa e, più in generale, qualsiasi entità che abbisogni di una propria definita identità: non è possibile – e non a se si incentrano i propri sforzi in questo – essere tutto per tutti, ovvero risulta vano tentare di proiettare un’immagine di sé buona per tutti gli interlocutori e per tutte le occasioni[107]. Il rischio è quello di non rappresentare, alla fine, niente di importante per nessuno, a causa della confusione che viene in essi generata. Sempre esisterà, per ognuno dei concetti di cui vogliamo farci portatori, qualcuno in esso focalizzato a cui verrà riconosciuta dal mercato, proprio per questo, una maggiore credibilità. Si tratta, in ultima analisi, di un problema di concentrazione di forze: disperdere le proprie energie su un fronte mentale troppo ampio rischia di renderne troppo deboli e permeabili i confini. Una migliore strategia è, allora, quella che coniuga le forze e le capacità a propria disposizione con punti strategici da presidiare che siano circoscritti e ben determinati. La chiarezza della propria identità e delle essenziali linee direttrici, assieme alle potenzialità evocative della missione aziendale, costituisce un necessario quanto importante riferimento per chi, poi, è tenuto a mettere in pratica a livello operativo la strategia di posizionamento.
3.1.3 – Identificazione e sviluppo delle associazioni e delle reti di attività.
Se la strategia si incentra su un sistema di attività, questo non può essere ideato e strutturato sulla base di orientamenti generici o semplicistiche imitazioni di posizioni di successo, ma deve poggiare su più solidi argomenti, quelli costituiti dalle associazioni. Che senso avrebbe, infatti, impegnare i propri sforzi in direzione di attività che, frutto di una miope visione del mercato dall’interno verso l’esterno, risultino superflue quand’anche non deleterie e fuorvianti rispetto alla generazione delle associazioni realmente importanti per il potenziale acquirente? Nella ideale piramide strategica, quindi, le associazioni si trovano al di sopra delle attività d’impresa, in posizione immediatamente sottostante al concetto di marca, che ne costituisce la sommità e dal quale esse traggono origine.
Ciò non appare comunque sufficiente, dal momento che, nonostante le attività siano il frutto dell’analisi delle associazioni da sviluppare, occorre poi verificare quali siano quelle effettivamente generate dalle attività medesime. Questo momento del processo di posizionamento va oltre quella che può essere la consueta analisi dei risultati di una strategia, imponendo un confronto serrato con quanto precedentemente ipotizzato circa il rapporto marca/acquirenti potenziali. Nel tenere conto degli esiti riscontrati, non necessariamente si prospetta la necessità di una risistemazione della rete di attività tale da consentire l’aderenza ottimale delle associazioni effettive con quelle teorizzate, potendosi, invece, ritenere più opportuno incentrare i successivi sviluppi sulle risultanze dell’interazione concretamente realizzata con il mercato.
Le scelte di posizionamento, viste dal punto di vista delle attività poste in essere, concernono l’individuazione di quelle tra esse che verranno chiamate in causa, la conurazione delle singole attività e del modo in cui esse entrano in relazione l’una con l’altra. Rintracciamo, qui, una differenza sostanziale tra l’efficacia operazionale e la strategia: mentre la prima concerne il perseguimento dell’eccellenza nelle attività individualmente considerate, la seconda investe il modo in cui le attività vengono combinate.
La rete di attività che si viene a determinare costituisce una barriera all’imitazione tanto più forte, quanto più forti sono i legami tra le attività medesime portando l’impresa verso una posizione caratterizzata dall’unicità e dall’amplificazione dei trade-off.. La complementarietà delle attività integrate a sistema diviene poi fonte di accrescimento del valore di marca.
Possiamo riconoscere tre tipi di legame che, nonostante la loro diversità, non si escludono vicendevolmente in maniera automatica. Una prima classe di relazioni è costituita dalla semplice coerenza tra ciascuna delle diverse attività e la strategia. La coerenza fa sì che il vantaggio competitivo si accumuli e non venga eroso, permettendo una facilità di comunicazione della strategia sia verso il mercato – attraverso l’immagine proiettata – sia all’interno dell’impresa ai fini della sua implementazione.
Un altro tipo di relazioni si ha quando le attività si rinforzano, attraverso le associazioni, l’una con l’altra. Così, gli aspetti positivi presenti nella performance di una di esse si trasmette, per induzione, alle altre cui essa è collegata. Vale, tuttavia, anche il ragionamento inverso: i segnali negativi possono anch’essi riversarsi sui nodi alle altre estremità delle linee che li connettono. Bisogna quindi studiare con molta attenzione la struttura delle attività e le relazioni che intercorrono tra esse, in modo da conferirle un’adeguata adattabilità alle diverse circostanze che può venire a dover affrontare, minimizzando la possibilità di attivazione di associazioni negative e massimizzando la sensibilità a quelle positive.
Un terzo ordine di legami, l’ottimizzazione dello sforzo, va oltre il rafforzamento delle attività. Essa si esprime, innanzitutto, attraverso la coordinazione e lo scambio di informazioni tra attività, in modo da ridurre la ridondanza e minimizzare lo sforzo. Risultati analoghi possono essere conseguiti mediante la coordinazione con i fornitori ed i canali distributivi.
Il carattere che accomuna tutti i tipi di relazione che possono essere perseguiti in una struttura di attività, dalla quale, nella sua interezza, scaturisce il vantaggio competitivo, è dato dalla preminenza dell’insieme sulle singole parti. I legami tra le attività concorrono alla determinazione della superiorità competitiva attraverso la riduzione dei costi o il contributo alla differenziazione.
La rilevanza strategica della struttura di attività non è limitata solamente alla creazione del vantaggio competitivo, ma si estende anche alla sua sostenibilità. Le posizioni costruite su un sistema di attività sono molto più solide e sostenibili di quelle basate su attività prese singolarmente, a causa della stessa complessità che è insita nella sua articolazione. Ala minore imitabilità di un intero insieme di relazioni, fa cioè riscontro una più agevole difendibilità della posizione sia nei confronti dei concorrenti attuali che degli entranti potenziali. Il fulcro del valore difensivo di una qualsiasi struttura risiede, ancora una volta, negli inevitabili trade-off che i competitori si trovano a dover affrontare e gestire.
Più specificamente, il vantaggio connesso al posizionamento sarà tanto più consistente quanto maggiore sarà il ricorso al secondo ed al terzo ordine di relazioni instaurabili tra le attività. Anche se gli avversari sono in grado di identificare le interconnessioni rilevanti, troveranno grandi difficoltà nel replicarle ed integrarle con le proprie attività esistenti. Oltre a ciò, non giova agli imitatori il prendere in considerazione la realizzazione di una replica solo parziale del sistema di attività (specialmente quando queste si caratterizzano per una spiccata complementarietà reciproca), poiché si perverrebbe a qualcosa di diverso che, oltre a non migliorare la performance, potrebbe anzi contribuire in maniera determinante al suo decadimento.
Un ulteriore fattore posto a freno delle possibilità di imitazione di posizioni che poggino su un ben strutturato insieme di attività sta nella considerazione che le relazioni tra esse creano incentivi e pressioni a che si migliori l’efficacia operazionale, dal momento che, se ciò non accadesse, la povera performance di un’attività contribuirebbe a degradare quella di altre ad essa collegate indebolendo, in questo modo, l’intera struttura[108]. È, quindi, la superiorità riguardo alla strategia ed all’efficacia operazionale a comporre i singoli giovamenti ad esse ricollegati in un vantaggio competitivo di difficile imitazione.
In virtù delle considerazioni appena esposte, appare evidente come le posizioni strategiche maggiormente appetibili siano quelle i cui sistemi di attività siano difficilmente imitabili a causa della presenza dei trade-off. Attività e ruoli dei trade-off devono, allora, essere adeguatamente interpretati e strutturati, al fine di conferire, a loro ed alla posizione che da essi risulta, una profonda connotazione strategica.
Nel caso in cui il problema da affrontare sia quello della necessità di pervenire ad un riposizionamento, la scelta della posizione migliore incontra delle ulteriori complicazioni derivanti dalla gestione delle associazioni già esistenti e consolidate riferite ad un prodotto con una storia di relazioni alle spalle. Alcune di esse possono rivelarsi ormai obsolete ed anacronistiche o non più in linea con l’immagine ideale e quella percepita di cui il mercato è interprete. Altre, al contrario, possono presentarsi creando la necessità di una loro pronta assimilazione da parte dell’impresa. Inoltre, può verificarsi l’opportunità di procedere ad una ridefinizione e risistemazione dei collegamenti tra le associazioni stesse (e, di conseguenza, tra le attività). Occorre valutare, perciò, quali associazioni indebolire od eliminare e quali creare e rafforzare, riponendo particolare attenzione e cura a quelle caratterizzate da una reciprocità di rapporti, sia in termini di complementarietà, che di sostituibilità.
Di ogni attività in cui si estrinseca la posizione dell’impresa e della marca dobbiamo identificare e conoscere a fondo le possibili associazioni positive e negative da essa generate. Vale la regola generale per cui, con riferimento alle associazioni positive, debbano essere rafforzate le attività esistenti assieme ai legami intercorrenti tra di esse in modo da erigere difese più solide a sostegno del vantaggio competitivo, procedendo nel contempo ad uno sforzo creativo di nuove attività per meglio sfruttare il potenziale delle associazioni attuali e per portarne avanti di nuove. Valgono considerazioni opposte nel caso di associazioni negative, con l’esigenza di isolare ed abbandonare attività e legami esistenti qualora risultino costituire solamente dei pesi per le associazioni generatrici di valore[109].
La posizione determinata dalla combinazione delle associazioni evocate dovrebbe essere tale da consentire, una volta espressa da un idoneo sistema di attività, il conseguimento di adeguati profitti e la possibilità di mutare prontamente posizione nel caso in cui ciò dovesse rendersi necessario o comunque opportuno e vantaggioso.
Aaker indica tre criteri interpretativi delle associazioni attraverso i quali può essere conurata una scelta di posizionamento[110]. Con la premessa che la selezione delle associazioni attiva tutte le leve del marketing, tali criteri sono ravvisabili, come rappresentato in ura 3.2 , nell’autoanalisi, nello studio delle associazioni dei concorrenti, e in quello del mercato-obiettivo.
Lo scopo di un’autoanalisi indirizzata alla comprensione di ciò che rappresenta per il cliente l’offerta dell’impresa è quello di perseguire quella coerenza che abbiamo riconosciuto essere un requisito primario di ogni posizionamento[112]. Creare un’immagine non in linea con la posizione assunta nella mente dei potenziali acquirenti, venendo a mancare codesto fondamentale sostegno, può risultare strategicamente disastroso, oltreché dispendioso. In seguito al mancato riscontro dell’effettività dell’immagine proposta, risulta, cioè, minato il valore e la credibilità della marca, rendendo ancora più ardua la successiva opera di riposizionamento. Inoltre, proprio a causa delle associazioni, le quali, se da una parte sono foriere di potenziali vantaggi transitanti attraverso le relazioni, dall’altra possono trasmettere anche sentimenti ed atteggiamenti negativi, il deterioramento della posizione potrebbe proarsi con un effetto domino ai prodotti o servizi collegati alla marca che di tale deterioramento è prima vittima.
Vero è che a volte può risultare utile avvalersi di una molteplicità di associazioni comuni, con un unico elemento di differenziazione, il quale rivesta un ruolo significativo per il consumatore. In questi casi la cooptazione delle associazioni dei concorrenti si rende necessaria perché esse appaiono fondamentali agli occhi degli acquirenti e devono pertanto essere presenti. In più, l’appoggiarsi e il riferirsi all’immagine di un qualcosa già presente nella loro mente rende il confronto con la nostra offerta più semplice e diretto, senza che la persona sia costretta a processare ed elaborare ex novo tutte le informazioni ad essa relative. Ad ogni modo, un’associazione può risultare talmente importante per il consumatore che si renda comunque necessaria una sua marcata evidenziazione.
Se la marca è in una posizione di leadership del settore – sia che essa sia conquistata sul campo, sia, a maggior ragione, che sia stata quella che per prima ha scorto il créneau nel quale andare ad inserirsi e abbia creato (occupandola) la relativa categoria mentale – la differenziazione ha, dal punto di vista della “paternità” della categoria concettuale di riferimento, un’importanza relativa: i concorrenti diventano, in quanto tali, degli imitatori della marca “originale”, ritrovandosi su un piano sottoelevato rispetto ad essa a cagione della loro stessa immagine e di altri fattori contingenti[113].
L’analisi del ruolo delle associazioni per il mercato principale ha per obiettivo la costruzione di elementi di differenziazione in grado di accrescere la forza della marca e di valorizzarne le caratteristiche e gli attributi in modo da dare consistenza e spessore alla posizione ricoperta nel mercato stesso. Se la differenziazione crea visibilità, una posizione forte deriva dalla proposizione di valide ragioni di acquisto e dal conferimento di ulteriore valore al prodotto o servizio.
Le ragioni di acquisto possono essere esplicitate mediante il collegamento dell’associazione a caratteristiche specifiche, ma questa condizione pur necessaria, non dimostra essere sufficiente. Infatti, la ragione di acquisto deve risultare abbastanza forte e delineata da risultare davvero attraente per i potenziali acquirenti. La concretezza fine a se stessa, non accomnata dalla rilevanza, non basta per innescare il meccanismo di valorizzazione della marca.
Sulle ragioni di acquisto si basa il concetto di unique selling proposition per il quale nel prodotto dovrebbe essere presente un vantaggio specifico ed unico abbastanza importante da incidere nella scelta di acquisto del consumatore, la quale, una volta creata, dovrebbe essere mantenuta nel tempo.
L’altro elemento originante una posizione solida è costituito da associazioni che agiscono in modo indiretto, aggiungendo valore alla marca senza addivenire necessariamente ad una esplicitazione delle ragioni di acquisto razionali e facilmente interpretabili. Tali associazioni fanno leva essenzialmente sulle sensazioni collegate al prodotto ed al suo utilizzo, e sono portate avanti in particolare dalla pubblicità[114], la quale incrementa il valore aggiunto fornendo un’esperienza indiretta dell’utilizzo del prodotto e delle sensazioni ad esso collegate. Seguendo questa linea, associazioni “di prestigio” e “di qualità” vanno a modificare effettivamente l’esperienza d’uso, aggiungendo valore alla marca.
La costruzione di una posizione basata sulla comprensione delle associazioni già esistenti e percepite dai consumatori e sulla creazione di nuove a partire di esse presenta maggiori possibilità di successo rispetto a quella fondata sui tentativi di modificarle.
3.2 – L’approccio strategico alla competizione per le posizioni
La prima questione da affrontare in una competizione per le posizioni riguarda la scelta del particolare atteggiamento al quale dovrà improntarsi la strategia seguita, ovvero il modo in cui ci si porrà nell’affrontare il mercato. La ragione di ciò risiede nel fatto che esistono diverse linee primarie che possono essere seguite dal soggetto al centro dell’azione, anche se solo una di esse risulta, in definitiva, appropriata.
La scelta dell’approccio strategico alla competizione dipende fondamentalmente dalla posizione – sia con riferimento agli spazi mentali del consumatore, sia in termini dei rapporti di forza con i concorrenti – occupata in partenza dalla marca. L’essenza della competizione sta nel tentativo di prendere possesso del gradino più in alto possibile sulle scale valoriali che gli individui usano per esprimere in maniera sintetica, ma significativa, le posizioni relative nelle diverse categorie mentali concernenti i prodotti ed i servizi. Se questa considerazione appare piuttosto logica, spesso i decisori d’impresa commettono il grave errore di non tenerne adeguatamente conto, banalizzandone il significato tacciato di scontatezza e privilegiando quegli scenari che meglio loro suonano alle orecchie, salvo poi puntualmente are le conseguenze della propria miopia strategica.
Ries e Trout riconoscono l’esistenza di quattro principali modi di affrontare il mercato e la competizione, ciascuno dei quali si presta ad essere seguito in una specifica situazione concorrenziale nella quale si è inseriti: la strategia difensiva, quella offensiva, l’attacco laterale, la “guerriglia”[115].
Non esiste una strategia di marketing più valida delle altre in termini assoluti. Il seguire l’una piuttosto che l’altra dipende dalle specifiche circostanze e dalle caratteristiche del mercato di riferimento, ma soprattutto dalla posizione qui ricoperta dall’impresa la quale dovrebbe essere oggetto di un attento e scrupoloso studio prima di prendere qualsiasi decisione di ordine strategico[116]. La strategia valida per una impresa leader, non lo è altrettanto, ad esempio, per una piccola impresa, e viceversa. Non sono, poi, tanto le dimensioni dell’impresa ad essere importanti, quanto, piuttosto, quelle dei propri rivali: occorre scegliere la strategia giusta su misura della concorrenza, non sulla nostra.
L’elemento comune che attraversa, permeandole, le quattro strategie di base è costituito dal principio della forza. Esso, derivato direttamente dalla teoria bellica, afferma che bisogna avere sempre forze maggiori del nemico nel punto – decisivo – che deve essere attaccato o difeso. Seguendo le indicazioni che esso ci offre, constatiamo come non sia sufficiente disporre di una quantunque valida idea imprenditoriale per ottenere un successo e, a maggior ragione, per renderlo sostenibile. Il punto determinante sta nella concentrazione di forze laddove viene sferrato l’attacco. Nel caso, per esempio, che una piccola impresa cerchi di aprirsi un varco del mercato poco coperto dall’impresa leader, se essa non dispiega risorse ed energie su quello specifico punto, gioco forza quest’ultima, nel momento che si muoverà alla risposta, sovrasterà la sfidante che non ha saputo sferrare il colpo con la dovuta decisione e razionale coerenza e costanza.
L’importanza del principio della forza discende dall’analisi della “matematica degli scontri a fuoco”, per la quale, in uno scontro a viso aperto, è inevitabile che prevalga la parte in causa che dispone di una preponderanza di forze: essa subisce, in seguito allo scontro, minori danni in termini relativi, venendosi prima ad esaurire, con la sua prosecuzione, le forze residue ancora a disposizione dell’altra parte, la quale potrà opporre una resistenza sempre più bassa[117].
La questione che più rileva nel principio della forza sta comunque nella sua focalizzazione su un punto specifico dello spazio mentale che è teatro della competizione. La detenzione di abbondanti forze ammassate in punti (segmenti…) non cruciali, magari non prontamente dispiegabili all’occorrenza, costituisce un punto debole per l’impresa, lasciando scoperto settori nevralgici che potenzialmente potrebbero servire da corridoi per chi volesse attaccare la sua posizione. Se così non fosse, assisteremmo al mantenersi di un perpetuo status quo nel momento in cui una categoria mentale è stata scoperta ed occupata da qualcuno, ed i follower sarebbero irrimediabilmente costretti nelle zone marginali del mercato.
Il prodotto, per quanto valido sia, non consente, da solo, di sovvertire gli esiti del pronostico della competizione. Sbaglia, quindi, chi si affida alla bontà della propria offerta nella speranza, da questi trasformata in convinzione, che prima o poi il mercato si accorgerà, premiandola, della sua superiorità. Nella migliore delle ipotesi, se una superiorità veramente sussiste, ma ad essa non si accomna una adeguata strategia di posizionamento, l’unica speranza è che il competitor non se ne accorga, altrimenti non avrebbe troppi problemi a farla propria, agli occhi del mercato, grazie alla reputazione ed allo spessore che la sua stessa posizione di preminenza gli conferisce. Chi detiene la leadership della categoria mentale di riferimento ha (gli viene attribuita), per definizione, l’offerta migliore. Siamo di fronte, ancora una volta, ad un tipico problema di immagine e di identità non adeguatamente proiettata e trasferita nei suoi tratti e valori essenziali ai potenziali acquirenti. Deficita, al solito, una appropriata visione strategica dall’alto, con il conseguente effetto distorsivo nel momento in cui l’impresa entra in contatto con l’arena competitiva. L’orientamento dall’interno verso l’esterno, anziché dall’esterno verso l’interno, trascura gli atteggiamenti e le prese di posizione sedimentate, a torto o a ragione, nell’immaginario delle persone, non rendendo possibile, per la strategia, il poggiarsi su quanto esiste già nella loro mente, unico vero riferimento affidabile.
L’impresa può venire a trovarsi nella necessità/opportunità di attuare una strategia difensiva in seguito al verificarsi di due ben distinte situazioni. Nel caso in cui abbia per prima identificato un varco potenzialmente accessibile e vi si sia insediata occupando la categoria mentale (ancora in formazione o già costituita) ad esso relativa, essa beneficerà del vantaggio conquistato sui follower derivante dalla propria sagacia e tempestività d’intervento, potendo attuare con successo strategie di natura eminentemente difensiva.
La difesa deve, inoltre, essere la linea guida di quelle imprese che, in forza di una quota di mercato nettamente superiore ai concorrenti, si trovino in una posizione di leadership, nella posizione di sommità della categoria mentale di riferimento espressa dai consumatori[118]. Risulta problematico, infatti, per gli sfidanti scalzare il leader dal gradino più elevato della scala mentale, a causa della resistenza opposta dai soggetti in seguito al processo di sedimentazione che lo ha ivi rinsaldato.
In forza dell’adozione di una strategia difensiva da parte di chi venga a trovarsi in una delle suddette situazioni, si determina una modificazione della probabilità che chi la pone in essere prevalga nel gioco competitivo. La difesa da una posizione consolidata richiede, infatti, un minore impiego di risorse ed energie rispetto a chi tale posizione intende attaccare, il quale dovrà impegnarsi molto per sottrarre terreno[119] al concorrente già affermato, dispiegando le proprie forze in modo tale da trovarsi in una situazione di preponderanza nello specifico punto dove si giocano gli esiti del confronto. In altre parole, è molto più semplice riuscire a catturare l’attenzione e a vendere ad un acquirente “libero”, cioè non ancora contattato da altri, che sottrarre clienti a chi detiene il possesso dei loro spazi mentali.
Un ulteriore importante argomento che gioca in favore delle strategie di difesa è dato dalla difficoltà dei challenger di attuare una politica di marketing aggressiva incentrata su un’azione allo stesso tempo massiccia e di sorpresa. I due termini sono in realtà antitetici: se sorpresa deve essere, assai improbabilmente potrà trattarsi di un’operazione in grande stile. La ragione è rintracciabile nell’attrito generato dalla macchina organizzativa, una volta che viene attivata: l’attrito sarà tanto maggiore quanto maggiori sono le dimensioni di quest’ultima. Così, se una piccola impresa (in termini relativi, naturalmente) può cogliere di sorpresa, soprattutto nel breve termine, il leader, difficilmente questo accadrà per uno dei principali competitori, a meno che esso prenda in scarsa considerazione tutti quei segnali di avvertimento che dovrebbero altrimenti metterlo in stato di allerta. Chi si trova in cima alla scala categoriale opererà, solitamente, un attento monitoraggio dei principali concorrenti e non potrà non avvertire i movimenti e l’attrito prodotto dalle loro azioni aggressive.
Inoltre, non solo l’effetto sorpresa è mitigato dal rumore dell’organizzazione che lo mette in atto, ma il fattore tempo gioca anch’esso a favore di chi si trova nella condizione di poter attuare una strategia difensiva. Per organizzare i propri movimenti sul mercato il competitore dovrà prima dispiegare le proprie risorse affinché tutti le funzioni e i ruoli nel piano siano coperti. Anche solo considerando le problematiche connesse alla logistica, il defender può venire a disporre di tutto il tempo necessario per poter allestire una adeguata risposta, riuscendo, oltre a ciò, ad attutire e contrastare i messaggi del concorrente prima che il messaggio sia recepito dal pubblico cui è destinato.
Non saper valutare ed apprezzare i vantaggi di una valida posizione di difesa costituisce, poi, un altro grave errore strategico. Bisogna evitare, trovandoci in una delle situazioni ad essa propizie, di cedere al richiamo di avventate azioni di attacco nei confronti dei rivali che avrebbero solamente il risultato di portarci con le nostre stesse mani fuori da una posizione di favore, facendo noi quello che avrebbero dovuto fare i nostri concorrenti.
Questa osservazione vale anche a rovescio: le imprese che non detengono la maggiore quota di mercato ed una posizione di privilegio nella mente dei potenziali acquirenti dovrebbero guardarsi bene dal seguire una strategia difensiva nel senso più stretto del termine. La leadership non fa riferimento a quanto noi presumiamo di essere e rappresentare, ma va conquista sul campo rispecchiando i reali rapporti di forza. Non è possibile, al di là del consueto ricorso ad iperboli comunicative, indicare falsamente la propria marca come la capofila del mercato senza andare incontro al giudizio rivelatore dei consumatori. Esistono delle posizioni che per l’impresa risultano insostenibili e di ciò occorre prendere atto, incentrando i propri sforzi su quanto è effettivamente nelle sue possibilità, soprattutto a livello evocativo.
La difesa, comunque, non può e non deve implicare una staticità strategica nell’attesa di un attacco cui rispondere. La migliore strategia difensiva consiste, all'opposto, non nell’aggredire la concorrenza, ma nel trovare il coraggio di attaccare se stessi. Il leader della categoria concettuale di prodotto dovrebbe, cioè, impegnarsi nell’attaccare continuamente la propria posizione in modo tale da rafforzarla. Ricorrendo, sempre comunque in maniera accorta, a questo tipo particolare di riposizionamento, poniamo di fronte ai competitori un bersaglio in movimento, riducendo la possibilità che essi trovino in noi un riferimento costante e costringendoli, ogni volta, a ridefinire la propria offerta in funzione della nostra nuova proposta. Si tratta, all’atto pratico, di introdurre senza soluzione di continuità, nuovi prodotti e servizi che, cannibalizzando e sostituendo quelli precedenti, riducano lo spazio di manovra dei concorrenti, anticipandone in funzione preventiva le eventuali mosse e provocandone, per quanto è possibile, lo spiazzamento.
La possibilità di bloccare le mosse strategiche degli avversari attraverso una loro emulazione repentina e mirata rappresenta l’ulteriore strada percorribile dall’impresa leader, a condizione di non lasciare che il competitore consolidi la propria immagine e posizione. Dovrebbe, a riguardo, preoccupare maggiormente la possibilità che vengano lasciati a disposizione dei concorrenti degli spazi non immediatamente coperti dalla marca e che potrebbero essere potenzialmente forieri di futuri sviluppi, (anche se tutti ancora da verificare), rispetto all’impegnare risorse finanziarie nella loro pronta chiusura, con la consapevolezza che non tutte daranno i loro frutti. Dal momento che la posta in palio è troppo elevata, si tratta, in sostanza, di considerare il denaro speso nel tentativo di bloccare le iniziative dei competitori alla stregua di un premio assicurativo sul futuro del proprio posizionamento.
Frequentemente, gli attacchi della concorrenza sono portati sul versante del prezzo. Se l’impresa leader non si dimostra sprovveduta, tali tentativi troveranno forti ostacoli nella loro riuscita. Infatti, solitamente, chi detiene la maggiore fetta del mercato dispone di risorse – anche finanziarie – superiori a quelle degli altri ed in grado di consentirgli di intraprendere una valida opposizione in caso di una guerra di prezzi. Un punto importante da tenere in considerazione è rappresentato dal mantenere un adeguato livello di riserve di risorse di cui poter celermente disporre all’evenienza[120]. Questo può fare la differenza, dal momento che l’attaccante di solito immette una quota proporzionalmente maggiore di risorse nello scontro.
La ragione che sta alla base dell’opportunità per l’impresa leader di attaccare se stessa e di bloccare le iniziative dei concorrenti risiede nelle particolari connotazioni del terreno su cui si gioca la competizione. Come abbiamo visto, imprimere qualcosa di nuovo nella mente delle persone è, per gli sfidanti, ancora più complicato che per il leader, dal momento che devono prima riuscire a scalzare chi occupa la posizione target nella categoria di riferimento per poi poterne prendere il posto. Dovendo, inoltre, impegnarsi a lungo in questo proposito e lasciando necessariamente trascorrere del tempo prima che i nuovi concetti vengano metabolizzati, può accadere che la marca attaccata trovi la risposta più opportuna per rispondere entro ragionevoli termini.
A favore del leader di mercato gioca, poi, la natura stessa del concetto di leadership. Essere l’oggetto delle preferenze della maggioranza delle persone costituenti il mercato, suggerisce agli altri, più o meno implicitamente, la sensazione della correttezza delle preferenze stesse. L’immagine trasmessa, quando non è affetta da immobilismo, non fa altro che rafforzare se stessa per il solo fatto di appartenere alla marca cui viene associata la categoria, le caratteristiche della quale finiscono, in questo modo, per muoversi con essa.
Molte volte, tuttavia, succede che, a causa di una sorta di complesso di superiorità, l’impresa leader non appresti simili azioni di bloccaggio delle opzioni strategiche altrui, salvo poi, invariabilmente e ormai troppo tardi, correre ai ripari ponendo rimedio ad una situazione competitiva che risulta compromessa. Anche quando si percepisca la necessità di attaccare le proprie posizioni, possono venire a mancare il coraggio e la forza necessari per abbandonare strategie e prodotti che, nel breve termine, non sembrano richiedere particolari correzioni di rotta, mentre sembrano d’altro canto offrire conforto quanto ai risultati ottenuti. Se nel breve periodo attuando questo genere di scelta vengono sacrificati i profitti, l’interesse a farlo è di ordine superiore e consta nella protezione offerta alla quota di mercato della marca.
Come abbiamo visto, l’adozione di una strategia competitiva di tipo offensivo non si addice all’impresa leader del mercato. Essa può essere, invece, seguita con successo dai suoi più immediati concorrenti. Ma fino a che punto si possa scendere nella scala categoriale di riferimento e fra i detentori di quote di mercato significative, non è dato stabilire in maniera puntuale e completamente affidabile. Non esistono, cioè, metri sicuri di giudizio, restando l’analisi più delicata affidata alle capacità interpretative di chi è a ciò preposto. Indicativamente, potremmo riconoscere quelli che più verosimilmente hanno la possibilità di attuare questo genere di scelta nei più diretti competitori dell’impresa leader, ovvero la seconda e, eventualmente, terza impresa del mercato.
Molto dipende dalla peculiare struttura del settore sotto osservazione: in alcuni settori potremmo riconoscere, causa la frammentarietà delle quote di mercato, una pluralità di imprese capaci di lanciare offensive con buone probabilità di successo, mentre in altri potremmo non trovarne nemmeno una. Altro fattore molto importante da tenere in considerazione è dato dalla forza e dalle risorse di cui l’impresa dispone. Le guerre di marketing offensive assorbono molte energie umane e materiali, dal momento che andiamo ad affrontare un nemico che parte da una posizione vantaggiosa e che, con tutta probabilità, ha dalla sua ingenti mezzi a disposizione comprensivi di riserve da schierare in caso di necessità. Lo scopo di una strategia offensiva deve essere in primo luogo quello di scalzare chi “detiene” la categoria concettuale per poi andare ad occupare il primo gradino nella scala delle preferenze dei potenziali acquirenti[121] prendendone il posto. Questo obiettivo prevale su quello, in un certo fittizio, dell’incremento della quota di mercato. La principale preoccupazione di chi adotta una strategia offensiva non deve riguardare quest’ultimo aspetto, ma, piuttosto, la riduzione della quota di mercato dell’impresa leader, senza la quale non si potrà avere un ribaltamento delle rispettive posizioni. Il bersaglio da colpire si trova nella mente delle persone, mentre le armi più efficaci sono quelle legate alla percezione dell’identità di marca ed al suo divenire immagine (quindi, in primo luogo, la comunicazione in tutte le sue espressioni e manifestazioni).
In effetti, la prima e più importante valutazione da fare è quella riguardante le forza di cui dispone l’impresa leader, la quale discende dalla particolare posizione occupata. Questo, prima ancora dell’analisi della propria posizione strategica: non serve a niente sapere che siamo particolarmente competitivi riguardo un certo aspetto dell’offerta, se il leader ha proprio in esso uno dei suoi punti di forza. Se la strategia offensiva è di per sé molto rischiosa e difficile da mettere in pratica, le probabilità di successo aumenteranno in seguito ad una scrupolosa analisi dell’impresa leader. La ricerca di una differenziazione che consenta di emergere deve portarci alla larga dai punti di forza del nostro concorrente obiettivo per concentrarsi sui punti di debolezza.
Il nucleo delle strategie offensive è espresso dalla ricerca di una differenziazione che consenta, non essendo possibile ottenere una superiorità assoluta, di raggiungerne una relativa nel punto decisivo, facendo un buon uso delle risorse a propria disposizione. A livello operativo, affinché la superiorità relativa sia veramente tale, le forze schierate in campo devono essere applicate su un fronte ristretto (il più stretto possibile) dello spazio mentale di riferimento. Quest’indicazione deriva direttamente dalla strategia militare. Attaccando lungo un fronte limitato facciamo leva sul “principio della forza”: concentriamo le nostre forze per ottenere una superiorità numerica localizzata in un punto decisivo. Conseguentemente, è senz’altro preferibile ed ha superiori possibilità di successo, una pressione esercitata attraverso una sola marca o prodotto, piuttosto che mediante un’intera linea, perché in quel modo avremmo una dispersione di risorse su uno spazio troppo ampio, lasciando al principale concorrente la possibilità di rispondere nel modo a lui più congeniale, con una controffensiva su tutta la linea e l’impiego più consistente, razionale ed omogeneamente schierato delle proprie forze[122].
Devono essere ricercati ed attaccati i punti deboli insiti nella posizione del leader, ed in particolar modo quelli collegati alla sua forza, in quanto più difficilmente difendibili senza intaccare gli elementi su cui poggiano le relative associazioni di successo e lo stesso sistema di attività dell’impresa. L’offensiva, in altre parole, ha possibilità di successo tanto maggiori, quanto più vengono sfruttati i potenziali trade-off negativi che sono collegati alla stessa posizione di leadership.
In ogni forza esiste una debolezza. Il problema è trovarla. Una marca che faccia sua la quota di mercato oltre certi limiti fisiologici di gestibilità, sarà più debole e vulnerabile che nel caso di una superiorità meno marcata ed evidente. A volte, inoltre, i problemi per una marca possono essere generati a partire da considerazioni spicciole apparentemente tanto ovvie da risultare, agli occhi dei più, banali.
La strategia basata su un deciso quanto inatteso attacco laterale è, forse, quella che, presentando in caso di successo i più vistosi risultati, comporta per chi la adotta i rischi più elevati. La decisione di attuarla non può essere presa molto alla leggera dal momento che la posta in palio è altissima, e dovrebbe essere presa in considerazione solamente da chi abbia la piena padronanza degli strumenti e dei principi strategici, ed una adeguata visione – dal dentro e dall’alto – della competizione in atto[123].
In particolare, occorre che l’offensiva sia concentrata su una linea o un’area che l’avversario lascia sguarnita o, comunque, con un debole presidio. Per quanto ovvia, questa osservazione deve sempre essere tenuta presente, poiché sarebbe insensato ed autolesionistico lanciare un’offensiva ai fianchi contro un prodotto affermato ed in punti in cui esso è particolarmente forte.
L’attacco laterale, solitamente, consiste nel tentativo di creare e proiettare nella mente dei potenziali acquirenti una nuova categoria concettuale cui fare riferimento. L’elemento di rottura non necessariamente è rappresentato da un nuovo prodotto, dovendo, tuttavia, essere presente nell’offerta un qualche elemento di novità tale da richiedere il suo inserimento in una nuova e diversa categoria.
Possiamo ravvisare nella strategia di attacco ai fianchi le caratteristiche tipiche della segmentazione e della ricerca di una nicchia. Il punto cruciale è, come detto, che il segmento del quale ci accingiamo a prendere possesso non risulti già occupato da altri (altrimenti si tratterebbe di una tradizionale e molto impegnativa strategia offensiva).
L’attacco laterale è, per sua natura, un attacco di sorpresa, a differenza della strategia difensiva e di quella offensiva dove l’attrito prodotto dalle organizzazioni nel mettere in pratica la condotta prefissata conferisce all’azione in essere una certa prevedibilità e una possibilità di risposta con un certo anticipo sugli eventi. L’elemento sorpresa permette, superando le linee della concorrenza, di sfaldarne le posizioni, creando una forza di slancio difficile da contrastare se si è stati veramente colti alla sprovvista e comportando effetti negativi per il morale nell’attesa che ci si riorganizzi.
Il momento più propizio per dare forza alla nuova posizione venuta a determinarsi è quello iniziale, quando il nuovo prodotto o concetto gode ancora del beneficio incontrastato della novità. Una volta che l’azione ai fianchi della concorrenza è stata portata avanti con esito positivo, la successiva condotta deve essere improntata al rafforzamento del successo senza permettere che si distolga l’attenzione dalle determinanti strategiche che lo hanno originato. Il tempismo è fondamentale: il successo deve essere rafforzato da subito, senza aspettare che i competitori si riorganizzino e preparino una controffensiva, in modo tale che le loro mosse giungano sempre in ritardo sulle nostre e sulla costituzione di una solida posizione nel varco venutosi ad aprire.
Perché assuma rilievo e spessore, una strategia offensiva di tipo laterale deve influenzare in modo sostanziale le possibilità di scelta dei potenziali acquirenti. L’effettuazione di troppi test di mercato risulta inoltre deleteria, oltreché ridondante: da una parte, infatti, i concorrenti avrebbero l’occasione di accorgersi, attraverso il rumore inevitabilmente generato dai nostri movimenti, delle nostre intenzioni, potendo correre in tempo ai ripari ed anticipare le nostre azioni; dall’altra, i potenziali clienti non possono sapere, oggi, quello che decideranno di acquistare domani, se le loro scelte stanno per subire un cambiamento radicale.
Esistono attributi che più di altri possono essere alla base di un attacco ai lati alle posizioni dei competitori. Quello che per primo viene solitamente preso in considerazione è il prezzo basso. Perché sia un’opzione praticabile, occorre, ove possibile, ridurre i costi relativi al prodotto preso in considerazione, ed un’attenzione particolare va riposta nel farlo in quei punti dell’offerta nei quali il consumatore non ha grandi capacità di discernimento. In effetti, il rischio è quello di evidenziare, attraverso la riduzione di prezzo, una diminuzione della performance, potendo arrecare, in questo modo, un danno effettivo all’immagine di marca. Tale pericolo, naturalmente, è tanto maggiore, quanto più il valore di marca poggia su attributi intangibili e connessi al processo mentale di fascinazione a livello di macrosistema interpretativo. La leva del prezzo opera anche quando esso viene elevato, aggiungendo, il prezzo alto, credibilità al prodotto attraverso la scrematura e la naturale tendenza delle perone ad associare prezzo e qualità. A corollario di una strategia di prezzi alti sta l’ulteriore vantaggio di conseguire margini superiori che possono contribuire, reimpiegati, ad alimentare il circolo virtuoso di rafforzamento della posizione di marca. Anche la distribuzione e l’aspetto differenziato del prodotto[124], essendo notevoli vettori comunicativi, sono in grado di offrire un rilevante contributo a possibili attacchi ai fianchi dei concorrenti cogliendoli di sorpresa.
3.2.4 – La competizione basata sulla “guerriglia”.
Le imprese che si possono permettere di seguire strategie difensive, offensive o di attacco ai fianchi della concorrenza sono un’esigua minoranza di tutte quelle presenti sull’arena competitiva. Questo a prescindere dalle dimensioni assolute che le caratterizza, contando, invece, quelle relative[125] ed i reciproci rapporti instauratisi. Per tutte le altre la migliore strada da intraprendere pare essere quella di un’attività “di guerriglia”, caratterizzata dal mimetismo e dal continuo rovesciarsi dei ruoli nelle azioni tattiche in cui questa strategia va a comporsi .
Una prima fondamentale regola per chi si trovi nella situazione di dover seguire una strategia di guerriglia consiste nel trovare un segmento di mercato sufficientemente piccolo da poter essere difeso con successo. Non importa la natura e l’origine delle piccole dimensioni del segmento, potendo risultare da una segmentazione geografica, in base al prezzo… come da un qualunque altro aspetto che una grande impresa troverebbe difficile o inopportuno attaccare in forze. Il principio che sta alla base della forza delle azioni di guerriglia consiste, invece, nel ridurre le dimensioni dello spazio mentale entro il quale avviene il confronto concorrenziale in modo da ottenere un vantaggio relativo di forze nel punto critico per il nostro fare competizione. La differenza tra un attacco ai fianchi della concorrenza ed un’azione di guerriglia sta nell’obiettivo perseguito: il primo ha come presupposto il diretto e deliberato attacco alla posizione del leader nel tentativo di sorprenderlo e ridurne a proprio vantaggio la quota di mercato e con essa la sua posizione di dominio; la seconda, invece, non mira a disturbare la posizione di un concorrente, ma al mantenimento del proprio spazio vitale.
Questa porzione di mercato andrebbe difesa a qualunque costo, essendo le credenziali derivanti dalla leadership di un segmento, per quanto piccolo esso sia, la migliore garanzia per la sopravvivenza e per il futuro dell’impresa. Una volta che perde il primato dello spazio mentale in precedenza occupato, infatti, la marca inizia una rapida discesa lungo il declivio dell’anonimato ritrovandosi ben presto ai margini della competizione.
Né andrebbe commesso l’errore, opposto, di cercare di trasformare, quantomeno per eccesso di confidenza se non per un vero e proprio peccato di presunzione, una strategia di guerriglia in un attacco ai fianchi con un inevitabile conseguente sacrificio della flessibilità.. Cercare di aumentare la sua quota di mercato avvicinandosi ed andando a recare dei disturbi alla posizione del leader, significa, per l’impresa guerrigliera, dare inizio ad un confronto che, a causa della notevole sproporzione tra le risorse (finanziarie, umane, organizzative) di cui dispongono le due contendenti, appare il più delle volte già segnato. Per attaccare i concorrenti, le imprese devono uscire da quello spazio concettuale che costituisce il loro peculiare territorio, andando, così, allo scoperto ed esponendosi ai rischi che questa scelta comporta. Le forze di cui dispone un’impresa guerrigliera, soprattutto all’inizio, sono generalmente alquanto limitate rispetto ai maggiori concorrenti presenti sul mercato, presentandosi la necessità di tenerle concentrate nel segmento di cui può disporre. Solitamente, quando quest’ultimo viene abbandonato siamo di fronte ad una scelta di ampliamento di linea, che, come meglio vedremo nel paragrafo 3.4, se in generale costituisce una scelta rischiosa (in quanto un solo nome non può sostenere una pluralità di concetti), diventa quasi certamente una manovra autolesionista nel caso in questione: allargare le sue forze significherebbe, per l’impresa guerrigliera, andare incontro ad un sicuro disastro.
La fisionomia di un’impresa guerrigliera non deve cambiare in seguito agli eventuali successi ottenuti: nel preciso momento in cui pone in essere comportamenti simili a quelli del leader, perde in focalizzazione abbandonando quei principi e quegli orientamenti che hanno consentito la differenziazione e la connotazione originaria di punto di riferimento per un determinato segmento portandola al successo. La forza di un’impresa che segua questo genere di strategia di posizionamento dovrebbe, invece, risiedere nella sua flessibilità e capacità di un pronto adeguamento ed interpretazione della realtà in movimento, e nelle possibilità offerte dalla mimesi.
La strategia di guerriglia impone alle imprese che la seguono di tenersi preparate ad una pronta quanto inattesa ritirata dalla posizione attualmente coperta per andare ad occuparne un’altra nel caso ciò si rendesse necessario od opportuno. Nel momento in cui la competizione sta volgendo a nostro sfavore, non occorre esitare ad abbandonare la nostra posizione, evitando di subire danni maggiori e tenendo in serbo le risorse rimaste per occuparne di nuove. L’agilità dell’organizzazione risulta essere, in questi casi, un fattore decisivo per la riuscita della ritirata strategica. Viceversa, l’impresa deve tenersi pronta, grazie alla propria flessibilità, ad entrare in quei mercati di cui possa intravedere potenziali valide possibilità di sviluppo (magari ricoprendo spazi che le marche superiori hanno abbandonato lasciandoli sguarniti perché, per esse, non più appetibili).
Una strategia di guerriglia può concretizzarsi nell’adozione di diverse tipologie di tattiche. Una tipica tattica soventemente seguita consiste nell’attaccare a livello locale un prodotto o sevizio diffuso ad un livello geografico superiore grazie al più stretto legame con il territorio. La focalizzazione deve però essere completa, oltreché consapevolmente portata avanti. Tutti gli elementi dell’azione di marketing devono essere convergenti e protesi a valorizzare il peculiare posizionamento prescelto. Il sistema di attività e le associazioni ad esso correlate abbisognano ancora più, rispetto alle altre strategie competitive, del mantenimento di una coerenza con il concetto espresso dalla posizione occupata. A riguardo, molta attenzione va riposta nell’evitare la tentazione di fare della marca locale, per quanto affermata sia, un competitor nazionale o sovranazionale se il radicamento all’area coperta costituisce il suo principale asset strategico. Il rischio, in caso contrario è doppio: la perdita di tale asset, il cui valore andrebbe a diluirsi non rappresentando più un motivo di scelta riconosciuto neppure dal target precedentemente raggiunto, ed il rischio competitivo legato all’affrontare avversari con posizioni consolidate sul loro terreno disponendo, nel contempo, di risorse inferiori ed in ulteriore probabile decadimento.
Altri esempi di strategie di guerriglia consistono nel rivolgersi a uno specifico segmento della popolazione riconosciuto isolando quella particolare categoria attraverso una appropriata segmentazione demografica, oppure nel concentrarsi su piccoli mercati caratterizzati dalla presenza di prodotti del tutto particolari che posizionano gli eventuali concorrenti come evidenti imitazioni ed i cui volumi di vendita non sono mai tanto grandi da stimolare gli appetiti dei grandi marchi generalisti (può essere, questo, il caso della Land Rover per quanto riguarda la categoria dei fuoristrada), o, ancora, nel concentrarsi in uno specifico settore aprendosi un varco stretto e profondo piuttosto che largo e poco profondo[127].
Un caso particolare, e assai ricorrente nelle economie caratterizzate da un elevato tenore di vita, è poi quello in cui le azioni di guerriglia vengono portate all’estremità alta del mercato potendo contare sulla ricerca di prodotti superiori da parte di una porzione considerevole (quanto a peso specifico) di potenziali acquirenti. Spesso potenziali imprese guerrigliere sul terreno della parte alta sono renitenti a mettere entrambi i piedi oltre la soglia che delimita il segmento medio da quello superiore perché ritengono di non avere il prodotto adatto per sostenere un elevato rapporto qualità/prezzo. Altre volte, e questo è ancora peggio, vengono adottate soluzioni intermedie che, in assenza di un pubblico pronto ad accettarle, finiscono nel sommare i lati negativi – e non quelli positivi – delle posizioni più forti. Entrambe le opzioni sembrano trascurare il nesso di causalità che lega l’elevata qualità e l’elevato prezzo all’immagine e questa alla domanda: i primi elementi generano il secondo che, a sua volta crea il terzo. Sono i prezzi alti, inscindibilmente correlati ad una pari qualità, a conferire alla marca la visibilità perché possa iniziare a raccontare al potenziale acquirente, seducendolo, il particolare mondo di riferimento di cui essa costituisce, ponendosi come tale, l’accesso. Poi, una volta entrato in codesta nuova prospettiva, viene il momento in cui il consumatore riconosce al prodotto o servizio una qualità degli attributi costitutivi tale da giustificare il prezzo superiore, ed anzi finisce egli stesso per ritenere tutto questo necessario e desiderabile. Il fattore tempestività è, ancora una volta, determinante: occorre essere i primi a creare questo tipo di associazioni occupando lo spazio mentale relativo all’estremità alta della categoria concettuale di riferimento. Certamente, questo tipo di strategia è piuttosto rischioso, ma, proprio per questo, perché non vada sprecato il coraggio necessario ad intraprenderla, una volta che il dado sia tratto, occorre dare un seguito deciso e perseverante alla strada imboccata.
Una scelta intelligente per ovviare ad una carenza riguardo alle risorse ed alle possibilità e limiti connessi al principio della forza, è costituita dal ricorso ad alleanze strategiche[128], mediante le quali le imprese operanti in un settore cercano nell’aggregazione quello che altrimenti da sole non potrebbero mai conseguire. Basilare è, per potere dar vita ad un’alleanza che non sia un’accozzaglia immotivata di entità economiche, l’individuazione di chi sia la concorrenza, ossia il comune avversario che si intende contrastare.
3.3 – La marca e le diverse fasi della competizione
3.3.1 – La gestione del ciclo di vita della marca.
Le strategie di posizionamento devono tenere conto non solo degli spazi mentali occupati dall’impresa e dai suoi concorrenti, ma anche del momento evolutivo-temporale nel quale è inserita la marca. Differenti attività di marketing vanno poste in essere secondo la particolare fase del ciclo di vita attraversata dalla marca.
1) Sviluppo e lancio di nuove marche. La questione più importante che attiene al lancio di una nuova marca è rappresentata dall’edificazione di un’immagine coerente con il tipo di posizionamento cui essa viene destinata. Generalmente, infatti, la marca giunge sul mercato ancora spoglia di una propria personalità definita e distinta sulla cui base incentrare la differenziazione. Anche nel caso si tratti di un’estensione di linea e si possa riparare sotto l’ombrello percettivo della marca di origine, la nuova marca deve lottare per affermare l’unicità della propria personalità, pena la dissoluzione del valore di cui si fa portatrice. Poter contare su vantaggi relativi alla funzionalità, piuttosto che su elementi di differenziazione meno apprezzabili direttamente, consente di avere una più solida base di partenza sulla quale poi edificare, attraverso un’idonea rete di attività, il sistema di associazioni ideale per la particolare posizione occupata. Ciò non toglie che le particolari connotazioni dell’immagine di marca, così come viene percepita dal target di riferimento, costituiscano, poggiando su affidabili e riconosciuti attributi funzionali, il punto che più rileva ai fini del conseguimento di una posizione stabile e focalizzata da parte della marca.
Gli attributi che maggiormente contribuiscono al conferimento di una sostenibilità nel tempo della posizione strategica ricoperta dalla marca sono, quindi, quelli che ineriscono l’immagine percepita dai potenziali acquirenti, potendo essa costituire la caratterizzazione ed il vantaggio meno erodibile dall’imitazione. Una posizione che si basi essenzialmente su elementi funzionali presenta delle evidenti debolezze che ne lasciano intuire il prossimo decadimento. Analogamente, il concentrarsi sul prezzo espone l’impresa ad attacchi che, se portati da concorrenti che dispongono di ingenti e superiori risorse, possono impegnarla in una guerra al ribasso in grado di condurla fuori dal mercato.
Se il lancio di nuove marche, come abbiamo visto per il caso di una strategia di attacco laterale, comporta rischi molto elevati, spingendo le imprese ad intraprendere lunghe ricerche volte a diminuire la probabilità di incorrere in un costoso insuccesso, occorre constatare come spesso si perda del tempo prezioso in questo genere di attività, rischiando di lasciarci sfuggire importanti occasioni di sviluppo per carenza di tempestività, o, ancora peggio, fornendo ai rivali preziosi segnali circa nuove possibili strade percorribili.
La possibilità di incorrere in un fallimento lanciando sul mercato una nuova marca deve essere temuta ed attentamente valutata, ma non può costituire un capro espiatorio per giustificare la mancata adozione di una strategia potenzialmente valida, occorrendo cercare, semmai, di apprendere dagli errori di valutazione commessi[129].
2) La fase di crescita. Una volta lanciata sul mercato, l’immagine della marca deve essere sviluppata tenendo conto della particolare personalità di cui essa è espressione. La personalità di marca può essere meglio intesa identificando il particolare processo di personificazione attraverso cui si giunge alla determinazione del suo carattere e del significato che essa assume per i potenziali interlocutori. Già al momento del lancio, tuttavia, deve esserci la piena consapevolezza della peculiare conurazione con cui la marca soddisferà le dimensioni funzionale, simbolica ed esperenziale dei bisogni dei potenziali acquirenti.
Una volta che il cammino della marca ha preso slancio e le vendite aumentano, bisogna porre come priorità la difesa della marca dai competitori posti in posizioni di taglio inferiore. La dimensione funzionale deve essere rafforzata assieme al carattere che, caso per caso, più incide nella qualifica di problem solving, ma sono soprattutto le altre dimensioni, adesso, ad offrire il maggior potenziale di sviluppo e rafforzamento della marca. Occorre porre una particolare attenzione a mantenere la coerenza tra l’immagine percepita ed il nucleo originale di significati dell’identità di marca, intervenendo soprattutto per fortificare il sistema di associazioni generato. Un particolare accorgimento consiste nel comunicare il posizionamento della marca al segmento target ed al non-target, lavorando nel contempo selettivamente con la distribuzione in maniera tale da renderne difficoltoso l’accesso per quest’ultimo, sostenendo, in tal modo, l’immagine percepita.
3) La fase di maturità. Quando il ciclo di vita della marca raggiunge la sua fase di maturità, la pressione esercitata su di essa dalla concorrenza si fa particolarmente forte. Numerosi competitori saranno presenti sul mercato e ciascuno di essi cercherà di guadagnare quote di mercato ai danni dei propri rivali, avversando con i mezzi a loro disposizione la fedeltà alla marca leader.
Un’opzione assai frequentemente seguita è quella dell’ampliamento di marca che, però, come vedremo nel paragrafo 3.4, sfruttando un’unica immagine per esprimere diversi significati, deve essere intrapresa seguendo un’estrema cautela in ordine di evitare una perdita di focus nella posizione della marca di partenza in quanto ciò potrebbe avere conseguenze disastrose per la capacità competitiva dell’impresa.
4) La fase di declino. Una volta iniziata la fase di declino, bisogna valutare molto attentamente quale sia la strategia più opportuna tra le due che, tipicamente, si presentano come quelle più proficuamente praticabili.
È possibile “riciclare” la marca trovando nuovi usi per essa, sia attraverso la dimensione funzionale, sia sviluppando quella simbolica od esperenziale. Il riposizionamento, che peraltro può essere intrapreso a qualunque stadio del ciclo di vita, assume qui una rilevanza ancora superiore essendo i suoi esiti determinanti per le sorti della marca.
Nel caso si convenga che non ci sia ulteriore spazio di utilizzo delle suddette dimensioni occorrerà impegnarsi nel governare la marca nella fase di declino eventualmente procedendo alla sua soppressione, nel qual caso, specialmente se essa è collegata ad altre marche ancora sviluppabili, bisogna cercare di minimizzare l’effetto ssa rendendola più morbida possibile.
Secondo il particolare stadio del ciclo di vita in cui si trova la marca, esistono diverse implicazioni finanziarie, come appare nella matrice 3.3, che finiscono per coinvolgere la profittabilità di medio-lungo termine e delle quali, perciò, l’impresa deve tenere conto. Se nei primi stadi la marca necessita di un ingente supporto, nella fase di maturità dovrebbe generare denaro.
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Nella prima fase (quadrante A), l’attività promozionale a sostegno del lancio della marca necessiterà dell’apporto di notevoli risorse finanziarie, cui non si accomnano considerevoli guadagni in termini di quota di mercato, al fine di superare gli ostacoli frapposti dagli anelli di difesa percettivi dei potenziali acquirenti, dalla concorrenza e degli operatori a valle con i quali l’impresa dovrà costruire o rinsaldare i rapporti veicolandoli nella direzione desiderata. L’impresa deve resistere alla tentazione di recuperare parte degli ingenti investimenti in R&S attraverso risparmi nell’attività promozionale, essendo quello il punto nel quale si gioca il futuro della marca.
Al crescere dell’accettazione del mercato e dell’efficienza della distribuzione, aumenterà anche la quota di mercato: l’impresa verrà a trovarsi nella posizione delineata dal quadrante B, nel quale gli investimenti iniziali cominciano ad essere recuperati. Questa situazione di transito (verso il quadrante C od il quadrante D) segna il passaggio dalla fase di sviluppo iniziale della marca a quella del suo successivo mantenimento.
In D succede che i decisori, ossessionati dal profitto di breve termine, taglino drasticamente gli investimenti in sviluppo e promozione, ottenendo elevati flussi di cassa nell’immediato, ma compromettendo la posizione della marca che, esaurita la spinta precedentemente acquisita, intraprenderà ben presto con elevate probabilità una rapida discesa.
Benefici di lungo termine possono essere conseguiti mantenendo un adeguato supporto di marketing di modo che la marca – affrontando un mercato la cui crescita rallenta e nel quale la concorrenza, dato il livello di saturazione, si fa sempre più agguerrita – resti in ogni caso collocata nel quadrante C. Attraverso lo sfruttamento delle economie di scala e gli effetti della curva di esperienza, la marca dovrebbe comunque rimanere in buona salute. Nonostante il sostegno, può accadere che l’impresa, sentendo affievolito il supporto del mercato diventato meno attrattivo mentre la concorrenza si fa pressante ed i consumatori perdono interesse, diminuisca il livello di risorse dedicate al perseguimento della posizione strategica con il conseguente decremento della quota di mercato e, almeno per un breve periodo di tempo, lo scivolamento nel quadrante D. Spesso, è quindi l’insufficiente alimentazione della marca a determinare la perdita della posizione ricoperta in favore della concorrenza.
3.3.2 – L’entrata nel mercato.
Il momento in cui la marca fa il suo ingresso nell’arena competitiva è quello che forse maggiormente contribuirà a determinarne le sorti. Nessuno costringe un’impresa ad entrare in un mercato, ma, nel momento in cui essa intraprende questa scelta, deve essere forte di una strategia di posizionamento adeguata al confronto con le caratteristiche e le esigenze dei potenziali acquirenti e con ciò che richiede la lotta con la concorrenza per la conquista degli spazi mentali.
Le conurazioni che la posizione può assumere in seguito all’ingresso nel mercato, a parità di circostanze, sono generalmente diverse secondo che l’impresa si presenti come pioneer o come follower.
Ordine di ingresso in un mercato e quota di mercato vengono spesso messi in una relazione di ordine causale: il first-mover avrebbe quote di mercato più elevate rispetto ai suoi più vicini follower, i quali, a loro volta, goderebbero di un vantaggio verso gli ulteriori successivi entranti. Tuttavia, se essere il first-mover offre un’opportunità indiscutibile di sfruttamento dei vantaggi relativi all’ordine d’entrata, qualora si mantenga, attraverso la fusione, un’adeguata visione degli eventi in atto, i fattori coinvolti nel conseguimento di tali vantaggi sono considerevolmente più complessi del semplice ordine di entrata. Allo steso modo, una partenza da capofila del mercato di riferimento non è di per sé sufficiente per produrre sostenibili vantaggi di differenziazione e di costo sui rivali in grado di generare una dominante e duratura quota di mercato.
L’impresa può raggiungere lo status di first-mover in differenti modi. Ad esempio, può essere la prima ad offrire un nuovo prodotto, usare un nuovo processo od entrare in un nuovo mercato. In ognuna di queste situazioni, che paiono intersecarsi vicendevolmente, l’iniziativa viene presa in seguito all’individuazione di un créneau ritenuto praticabile, sulla cui base viene poi sviluppata una coerente strategia di approccio.
Nel delineare caratteristiche e natura dei vantaggi che spettano al first-mover è possibile, ed anzi conveniente, fare riferimento a due ordini di prospettive: quella economica-analitica e quella comportamentale.
La teoria economica e le analisi ad essa associate usano un approccio basato sui concetti di barriere all’entrata per spiegare questo genere di vantaggio. La barriera all’entrata, consistente in costi che il potenziale entrante, a differenza del competitore già insediato sul mercato, deve sopportare, implica l’impiego di risorse addizionali per competere efficacemente nel mercato. Tra le possibili barriere all’entrata riconosciamo quelle originate da economie di scala, effetti di esperienza, asimmetria informativa, differenze tra il primo e l’ultimo entrante negli effetti marginali della pubblicità. Inoltre, l’imitabilità può risentire di una relativa incertezza riguardo alla comprensione ambigua o addirittura errata delle ragioni specifiche del successo della marca pioneer.
Come evidenzia Von Hippel, i vantaggi conferiti grazie alla precedenza temporale acquisita favoriscono l’impresa leader in due modi, sostanzialmente[130]. Durante il periodo in cui non c’è competizione, il first-mover è, per definizione, un monopolista, e può utilizzare questa posizione per guadagnare profitti più alti di quanto sarebbe possibile in un mercato competitivo e/o incrementare la dimensione complessiva del mercato stesso. In seguito all’entrata dei competitori, il first-mover, avendo stabilito una posizione di mercato ed economie da apprendimento, ha la possibilità di mantenere una quota di mercato dominante e margini superiori rispetto agli imitatori.
La prospettiva economica, che pure offre tanti spunti per cogliere l’essenza del vantaggio che la marca pioneer consegue, deve comunque essere contestualizzata: le diverse contingenze di mercato hanno, cioè, un’influenza in senso moderatore delle varie forme con cui si esprime tale vantaggio.
Altri sono gli aspetti posti in rilievo dalla prospettiva comportamentale. La visibilità e la reputazione garantite da un’immagine consolidata fanno sì che il first-mover trovi una minore resistenza da parte dei potenziali acquirenti, il rischio percepito dai quali tende ad essere minore nei riguardi della marca conosciuta. Inoltre, qualora gli entranti introducano nel mercato nuovi concetti attraverso la marca, il leader ha la possibilità, riproponendo quegli stessi concetti sotto le proprie insegne, di intraprendere una tipica azione di copertura che, se ben portata, gli consente di appropriarsene ai danni dell’innovatore. Questa “ingenerosità” del mercato discende direttamente dal processo di sedimentazione delle percezioni e dalla familiarità che il reiterarsi del contatto apante e stimolante con la marca induce.
Un importante ruolo nello sviluppare un vantaggio di origine comportamentale è svolto dall’apprendimento nella formazione delle conoscenze e delle preferenze di marca da parte del consumatore[131]. Quando il potenziale acquirente conosce poco circa l’importanza degli attributi del prodotto e la loro combinazione ideale, il first-mover può riuscire ad influenzare con successo il modo in cui gli attributi sono valutati, definendo esso stesso la loro combinazione ideale. La naturale posizione di leadership che viene solitamente attribuita all’impresa pioneer, le offre l’opportunità di costruire a suo vantaggio la struttura delle percezioni del mercato. La marca viene così ad assumere un nome generico che conferisce, grazie al seguito originato, all’intera categoria di riferimento. Quando la marca è in grado di divenire talmente generica da improntare di sé l’intera categoria di prodotto, essa assurge alla dimensione di prototipo sulla cui base avviene la valutazione di tutti i soggetti partecipanti alla competizione, ben poco potendo fare i nuovi entranti per rimuovere questa percezione se non rapportarsi ad essa in maniera congrua con la struttura percettiva venutasi a determinare o tentare un riposizionamento dell’avversario .
Naturalmente, questa concezione del vantaggio che spetta al first-mover deve fare i conti con quanto avviene nella realtà. Non sempre tale vantaggio viene adeguatamente sfruttato e sviluppato, restando gli attributi ideali della marca dei valori vacanti il cui appannaggio conferirà il conseguente giovamento a chi saprà individuare il giusto créneau meglio e prima degli altri. Né bisogna credere che i rapporti di forza instauratisi con il conseguimento di una posizione di scopritore (potremmo dire, anzi – a seguito ed in considerazione delle associazioni tra categoria e marca sopra discusse – di creatore) della categoria stabiliscano delle atteggiamenti e dei rapporti di forza inalterabili, ben potendo accadere che, per un proprio errore strategico o per l’opera di riposizionamento o di spiazzamento posta in essere da un concorrente, l’impresa leader presti il fianco ad un attacco mirante ad occuparne la posizione. Nel momento in cui l’impresa first-mover non sceglie od esce dalla “corretta” posizione, si porrà in una condizione di svantaggio relativamente agli entranti successivi, i quali, grazie a quanto appreso dallo scorretto posizionamento del pioneer circa le preferenze dei consumatori, potranno meglio posizionare le proprie marche.
Perciò, sebbene il first-mover possa avvantaggiarsi della relazione di causalità diretta che intercorre tra ordine di entrata e quota di mercato, per i follower esistono le possibilità offerte dal posizionamento e da una forte comunicazione dei concetti che esprime la propria marca[133], anch’essi fattori che si correlano positivamente all’acquisizione della quota di mercato.
Le possibilità di inserimento in un mercato come pioneer, si possono presentare per un’impresa in seguito a mutamenti ambientali (ad esempio relativamente alla tecnologia o alle esigenze dei consumatori). Tuttavia, sebbene i cambiamenti ambientali costituiscano un’opportunità per svilupparsi in una posizione di first-mover, la fruibilità dei vantaggi ad essa connessi dipende dal grado di concordanza tra quanto è necessario in termini di competenze e di risorse per capitalizzare le opportunità ambientali e per sfruttare, traendone il massimo profitto, il meccanismo di incremento del vantaggio del first-mover e quanto è effettivamente a disposizione dell’impresa. In definitiva, l’impatto ultimo dell’essere l’impresa pioneer dipende dall’abilità dell’impresa, dalle posizioni, dai competitori e dai mutamenti ambientali.
Andando oltre fuorvianti asserzioni circa un’improbabile relazione di natura deterministica tra l’ordine di entrata nel mercato ed il vantaggio che spetta al first-mover, occorre analizzare, facendo riferimento alla ura 3.4[134], quali siano, invece, i fattori che più contribuiscono a crearlo.
La sostenibilità del vantaggio posizionale relativo alla condizione di marca pioneer dipende da tre requisiti:
Anche in seguito all’ingresso nel mercato di nuovi concorrenti, i consumatori devono continuare a percepire la presenza di consistenti differenze relativamente ad attributi importanti del prodotto o servizio offerti dal first-mover rispetto a quelli presentati dai successivi entranti. La marca pioneer deve, quindi, concentrare su di sé l’attenzione dei potenziali acquirenti, consolidando la propria base di fedeltà. La dimensione complessiva del first-mover advantage discende dall’effetto netto prodotto dai rispettivi aspetti positivi e negativi della differenziazione in termini dei criteri chiave di acquisto.
La positiva differenziazione della marca pioneer in termini dei criteri chiave di acquisto deve porsi come l’immediata conseguenza delle barriere all’entrata poste nei confronti dei potenziali concorrenti[135]. La sostenibilità del vantaggio competitivo dipende in larga misura dalla creazione delle condizioni per l’inimitabilità della posizione strategica e degli attributi da essa espressi e che il potenziale cliente ritiene importanti e riscontra nella marca.
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