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DISOCCUPAZIONE E BISOGNI SOCIALI. CRISI DEL WELFARE STATE
Allo stato attuale dello sviluppo dell'economia e della società si ritiene che l'elevato numero dei disoccupati non possa essere riassorbito da un'eventuale crescita della produzione, proprio perché la disoccupazione sta assumendo dimensioni drammatiche, ha assunto un carattere strutturale ed è tendenzialmente irreversibile.
Il mercato del lavoro ha subìto repentini mutamenti in conseguenza di ristrutturazioni di imprese, costrette a ciò dalle mutate condizioni di politica internazionale, dall'allargamento dei mercati, dalla rivoluzione tecnologica e ciò ha degli effetti paragonabili a quelli della Rivoluzione Industriale; sono imposti oggi nuovi modelli di organizzazione di impresa, diversi dal passato, basati su un'automazione molto spinta con riduzioni di personale.
L'introduzione di nuovi e rivoluzionari strumenti che limitano l'intervento dell'uomo ha determinato il moltiplicarsi delle iniziative attraverso interventi diversificati miranti alla riorganizzazione del lavoro, a ridurre i costi, a migliorare la formazione e a creare nuove opportunità di lavoro.
Ma la piaga della disoccupazione richiede politiche serie ed innovative ed essa è un problema risolvibile, o quanto meno affrontabile, facendo riferimento alla competitività sui mercati internazionali; competitività che può essere superata attraverso la creazione non solo di un modello di sviluppo industriale ma anche di un modello di assetto sociale.
Quindi, uno degli strumenti che il Governo dovrebbe sfruttare per garantire il mantenimento dell'occupazione esistente è il capitale sociale.
Per favorire l'inserimento dei disoccupati nel mondo del lavoro e diminuirne il numero occorre creare nuove occasioni di lavoro al di là, però, di una logica industriale e mercantile, quindi al di là di una logica di mercato, partendo dalla considerazione che esistono dei bisogni sociali insoddisfatti.
Per fronteggiare il problema della disoccupazione, occorre che lo Stato attivi dei lavori concreti che consentano l'utilizzo dei giovani disoccupati e degli "anziani" precocemente espulsi dai processi di produzione a causa di crisi aziendali, in attività rivolte al soddisfacimento dei bisogni della società.
Partendo da queste considerazioni è possibile parlare di lavori socialmente utili come istituto che nasce in risposta al problema della disoccupazione: lavori concreti destinati alla produzione di valori d'uso inizialmente pensati non come ammortizzatori sociali, ma come lavori capaci di soddisfare bisogni sociali che la produzione di merci non riesce a soddisfare[1]; lavori concreti, dunque, intesi al soddisfacimento di bisogni sociali e sottratti alla concorrenza sul mercato internazionale.
Si fa riferimento, in questo senso, a quei beni collettivi e sociali che vanno oltre i tradizionali servizi di Welfare, quali la sanità e l'istruzione, e che riguardano la cura della persona e dell'ambiente di vita sociale e collettiva (assistenza agli anziani, ai disabili, ai malati cronici, ai tossicodipendenti; protezione del territorio, tutela ambientale, restauro e manutenzione della città, conservazione e valorizzazione del patrimonio artistico e culturale).
Si tratta, più specificamente, di quei bisogni sociali e collettivi alla cui soddisfazione lo Stato Sociale ha cercato di provvedere attraverso la sua funzione assistenziale o di <<Welfare>>, sulla base di quel rapporto di strumentalità esistente tra i pubblici servizi e lo stesso Stato Sociale, per garantire il godimento dei diritti sociali sanciti e riconosciuti dalla nostra Carta Costituzionale.
Ma il sistema dei servizi offerti dal Welfare State è entrato in crisi a causa dell'insufficienza del gettito fiscale a coprirne le spese e, conseguentemente, esso è divenuto incapace di soddisfare la variegata complessità dei bisogni collettivi nonché di provvedere al sostentamento finanziario dei diritti sociali.
Da prendere in considerazione, altresì, che il processo di integrazione europea ha fatto emergere nel nostro Paese l'ulteriore esigenza di contenimento del deficit di bilancio, imposto dai parametri di Maastricht, che comporta una riduzione dell'intervento pubblico nel settore sociale.
Tali considerazioni consentono, altresì, di rilevare l'inadeguatezza da parte del sistema di Welfare State a garantire una tutela minima della disoccupazione sempre a causa della scarsità delle risorse disponibili, oltre che a causa dell'aggravarsi della situazione occupazionale[2].
E' inevitabile, infatti, che il costante aumento del numero dei disoccupati renda sempre più gravoso il loro sostentamento da parte del sistema di Welfare[3].
Tuttavia, osservando i criteri selettivi di accesso alle prestazioni sociali di tutela, si rileva un apparente squilibrio a vantaggio di alcune determinate categorie di disoccupati piuttosto che di altri. E più precisamente a scapito dei disoccupati ancora in cerca di prima occupazione (i c.d. inoccupati) o dei disoccupati di lungo periodo: categoria che, a causa della persistente insufficienza strutturale della domanda di lavoro, è divenuta la più consistente a differenza dell'ipotesi tradizionale dei disoccupati divenuti tali in seguito ai licenziamenti per sopravvenute situazioni di eccedenza di manodopera.
Infatti, mentre per i disoccupati licenziati risulta preurato un trattamento di protezione per alcuni versi anche migliorativo degli standard ordinari di tutela della disoccupazione, gli inoccupati e i disoccupati di lungo periodo permangono pressoché privi di effettiva considerazione da parte del Welfare State.
Basti pensare alla previsione di un trattamento fortemente privilegiato a favore dei lavoratori privati del posto di lavoro o, comunque, il cui posto di lavoro sia messo in pericolo di fronte a situazioni di eccedenza di manodopera: si tratta del c.d. trattamento di mobilità, nonché di possibili agevolazioni di vario tipo nell'accesso al pensionamento secondo le disposizioni contenute nella legge 23 luglio 1991 n.223 e modifiche ed integrazioni successive[4].
Risulta, comunque, ovvio che il sistema di Welfare preveda forme di protezione differenti in riferimento alle diverse ipotesi di disoccupati,
ciò perché per i disoccupati licenziati occorre predisporre strumenti di tutela che assistano non solo il lavoratore ma anche la famiglia nel periodo di ricollocazione da un posto di lavoro ad un altro, in conseguenza di un transitorio venir meno del reddito da lavoro; mentre per gli inoccupati acquista rilievo la difficoltà di garantire loro il primo inserimento lavorativo e, quindi, l'impossibilità di garantire un reddito da lavoro che consenta di raggiungere uno standard di vita accettabile.
Da queste considerazioni si perviene alla conurazione di un settore di attività alternativo all'ordinario mercato del lavoro, ormai condizionato dal bilancio pubblico, e che offre occasioni di lavoro fuori mercato create direttamente dallo Stato e che, dal punto di vista giuridico, rientrano nel programma di tutela contro la disoccupazione, nella sua accezione prettamente assistenziale.
In questo contesto i lavori socialmente utili vengono individuati come lavori in grado di soddisfare bisogni sociali in diversi settori, quali l'ambiente, la cultura, la sicurezza, il territorio, la cura della persona, essi vengono fatti rientrare nell'ambito dello svolgimento di attività lavorativa svolta secondo modalità definite "non di mercato" perché, utilizzando un linguaggio economico e sociale, si tratta di forme di lavoro prestate al di fuori delle relazioni economiche e di scambio che caratterizzano il mercato del lavoro.
Prevedono l'utilizzo di lavoratori non occupati in quei settori diretti alla soddisfazione di bisogni sociali e collettivi, ai quali viene ato un salario fuori mercato per lo svolgimento di lavori anch'essi fuori mercato ma socialmente utili.
Tali lavori possono essere collocati tra quelle forme di lavoro che vengono rese in adempimento di obblighi di cittadinanza ai fini della protezione sociale ovvero ancora in funzione di reintegrazione nella vita sociale.
Il sistema di sicurezza sociale garantito dal Welfare State è entrato in crisi a causa della crescita della disoccupazione strutturale ed all'occupazione flessibile e precaria; ciò impedisce a tale sistema di garantire alla popolazione una tutela assicurativo-previdenziale, mettendo in rilievo la crisi politica di questo strumento.
Inoltre, il mutamento del processo economico e sociale ha alterato l'equilibrio esistente tra il sistema di sicurezza sociale e il mercato del lavoro, evidenziando l'inaffidabilità del mercato del lavoro a garantire la sicurezza di un reddito minimo garantito e determinando la crescita della disuguaglianza sociale.
In questa prospettiva è nata l'esigenza di superare il modello istituzionale di Welfare e favorire lo sviluppo di uno Stato Sociale che promuova le capacità di nuovi soggetti della società civile.
Si prospetta, dunque, la riorganizzazione su basi nuove del sistema di Welfare State attraverso l'utilizzo di istituzioni non profit[5] da inserire nelle relazioni economiche e in grado di svolgere lavori con una generica utilità sociale, in quanto esse perseguono interessi collettivi di rilevanza sociale ed operano con uno scopo diverso dal profitto, non distribuiscono utili ai propri membri, ma li reinvestono nell'attività.
Con l'attività privata non profit si cerca di supplire alla crisi del Welfare State ed al ridimensionamento dei servizi pubblici, mediante l'utilizzazione di un settore che si pone come ''terzo'' rispetto allo Stato o al mercato.
I lavori socialmente utili divengono uno strumento che consente di fronteggiare situazioni di urgenza occupazionale, non risolvibili a breve termine, e possono mirare all'introduzione di un reddito minimo garantito a favore dei soggetti privi di lavoro e di reddito in cambio dello svolgimento di un'attività in quello che viene definito il terzo settore (il c.d. non profit, appunto), operante nell'area dei bisogni sociali che né il mercato né la Pubblica Amministrazione riescono a soddisfare[6].
Ma i lavori socialmente utili condividono con le attività non profit la destinazione a fini sociali del lavoro svolto, da queste ultime si distinguono sotto diversi profili, in particolare, perché privi del connotato della spontaneità della prestazione lavorativa, e per il collegamento con un rapporto giuridico previdenziale a tutela del lavoratore privo di un reddito retributivo[7].
G. LUNGHINI, 'La risposta dei lavori socialmente utili', in Pol. ed Ec., 1995, n.1-2, 64
G. LUNGINI, op. cit.
G. G. BALANDI S. RENGA, 'Disoccupazione nel diritto della sicurezza sociale (voce), in Digesto, Utet, Torino, 1990
F. LISO, 'I trattamenti di disoccupazione. Riflessioni critiche', in Riv. It. Dir. Lav., 1995, I, 339
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