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DISOCCUPAZIONE E POLITICHE ATTIVE DEL LAVORO: I LAVORI SOCIALMENTE UTILI COME STRUMENTO DI INSERIMENTO NEL MONDO DEL LAVORO PUBBLICO DI SOGGETTI ESPULSI DAI PROCESSI PRODUTTIVI E COME MISURA DI WORKFARE
I lavori socialmente utili hanno avuto la prima sperimentazione in Italia all'inizio degli anni Ottanta e nascono come lavori svolti prevalentemente da lavoratori espulsi dalle aziende private ed utilizzati nel pubblico impiego con progetti a termine per sopperire alla carenza negli organici derivante dal blocco delle assunzioni.
Essi prevedono l'utilizzazione di disoccupati o cassaintegrati in attività di pubblica utilità e nascono nell'ambito della emanazione di una serie di provvedimenti rivolti alla promozione dell'occupazione, con l'obiettivo di creare nuove opportunità di lavoro e nuove professionalità; rientrano, dunque, nell'ambito di una politica attiva del lavoro legata al processo di creazione d'impresa.
L'impiego di soggetti in questa tipologia di lavori rappresenta una modalità di risanamento dell'intervento pubblico nel mercato del lavoro attraverso una struttura organizzativa locale, che viene ricompresa nell'ambito dei programmi di assistenza sociale ai lavoratori disoccupati.
Può parlarsi, al riguardo, di una forma di tutela giuridica della disoccupazione rientrante nell'ambito dell'istituto delle assicurazioni sociali contro la disoccupazione involontaria[1].
L'applicazione di tale istituto scaturisce dall'attuazione di una serie di politiche settoriali dell'intervento pubblico per consentire un parziale recupero della disoccupazione attraverso un lavoro sostitutivo ato con un sussidio e con successive possibilità di svolgere una futura attività lavorativa stabile attraverso la costituzione di società miste.
In ogni caso i progetti inerenti ai lavori socialmente utili devono essere realizzati nel rispetto dell'equilibrio del locale mercato del lavoro per evitare che si determini un doppio mercato del lavoro; non devono essere sostitutivi di attività effettivamente svolte da lavoratori dipendenti da imprese in appalto o in concessione; devono essere realizzati in modo da non determinare effetti sostitutivi o di perturbamento.
Non devono creare concorrenza con le attività di imprese e di lavoratori autonomi: devono creare l'impulso per l'imprenditoria locale, per il mondo della cooperazione, per attività artigianali nell'ambito di una strategia globale di sviluppo economico e sociale.
In questo senso può parlarsi di finalità di politica attiva del lavoro, intesa come finalità diretta a favorire il reinserimento dei disoccupati nel mondo del lavoro attraverso esperienze lavorative che consentano loro di preservare, se non migliorare, la professionalità o che siano, quanto meno, idonee ad evitare il rischio della marginalizzazione stabile ed irreversibile.
Occorre tenere presente, in effetti, il panorama economico-politico esistente al momento dell'attuazione dei primi progetti di lavori socialmente utili poiché esso risulta caratterizzato, come già accennato, dalle crescenti dimensioni assunte dal fenomeno della disoccupazione; in particolar modo, la fase di sviluppo economico, nel cui ambito i lavori socialmente utili si inseriscono, non assicura la piena occupazione a causa della crisi industriale, che ha già fatto chiudere o ristrutturare tantissime aziende, vittime delle ferree ed impietose leggi di mercato; a causa della frantumazione in piccole e medie aziende, della prevalenza del terziario/servizi, della globalizzazione dei mercati.
A tutto ciò si aggiunge la crisi del lavoro, la cui persistenza è garantita da insufficienti risposte da parte della politica e della mancanza di programmi settoriali, industriali ed economici.
I lavori socialmente utili, inoltre, possono essere utilizzati con la finalità di disincentivare il ricorso o la prolungata permanenza a carico dell'assistenza pubblica di soggetti che potrebbero svolgere attività lavorative, ma non lo fanno perché il sussidio previsto le rende poco convenienti.
In questo caso viene sfruttata la c.d. finalità di deterrenza di lavori socialmente utili, finalità che sottintende una critica all'uso inefficiente delle misure di sostegno al reddito dei disoccupati.
I lavori socialmente utili consentono di utilizzare in attività di utilità collettiva soggetti occupati e non, che già percepiscono trattamenti di sostegno al reddito, sia di Cassa integrazione guadagni straordinaria che di mobilità; i disoccupati privi di trattamenti o che hanno perso il diritto a tali trattamenti: i disoccupati di lunga durata, gli iscritti nelle lista di mobilità senza la relativa indennità, alcune specifiche categorie di lavoratori che hanno perso il diritto ai trattamenti di disoccupazione speciale, di mobilità o integrazione salariale straordinaria, i giovani in attesa di un primo inserimento lavorativo di cui all'art. 15, primo comma, lett. a), della legge 19 luglio 1994 n.451, di età compresa tra i 19 e i 32 anni e fino a 35 anni se disoccupati di lunga durata iscritti nelle liste di collocamento.
A tale ultima ipotesi si raccorda l'art. 26 della legge n.196/1997 che prevede <<interventi a favore di giovani inoccupati del Mezzogiorno da realizzare tramite lavori di pubblica utilità e borse di lavoro a favore di giovani di età compresa tra i 21 e i 32 anni in cerca di primo impiego>>.
Queste due tipologie di lavori socialmente utili, in cui è possibile ricondurre i beneficiari dei trattamenti di Cassa integrazione guadagni straordinaria o di mobilità e i soggetti privi di tali trattamenti sono accomunate dallo scambio che viene a realizzarsi tra l'erogazione di un'indennità o di un sussidio e lo svolgimento di un lavoro socialmente utile.
In tal modo al singolo prestatore viene data la possibilità di utilizzare le proprie potenzialità lavorative anche se, in realtà, si tratta di attività alternative al lavoro subordinato e che non implicano la stipulazione di un contratto di lavoro subordinato.
I lavori socialmente utili consentono di equilibrare la spesa che l'intera collettività sostiene per finanziare le prestazioni previdenziali e gli interventi di tutela contro la disoccupazione, a fronte di un numero sempre crescente di disoccupati.
Il ruolo svolto dai lavori socialmente utili nell'ambito delle politiche assistenziali richiama quella strategia politica di protezione del reddito, di origine anglosassone, denominata workfare, i cui primi progetti sono stati sperimentati negli Stati Uniti d'America.
Tale modello di politica del lavoro prevede lo scambio tra la prestazione assistenziale percepita dal disoccupato e quella lavorativa che viene resa alla collettività: letteralmente il termine inglese workfare significa <<lavoro in cambio dell'assistenza>>[2].
I Paesi europei, tra cui l'Italia, hanno adottato strategie di workfare per favorire la rioccupazione e contenere la disoccupazione tecnologica, per contenere la spesa assistenziale, determinando un superamento del Welfare.
In questo modo si perviene ad una sorta di istituzionalizzazione del modello di workfare, poiché esso consente di realizzare, all'interno di uno Stato sociale, uno scambio equo tra lavoro produttivo e reddito di base garantito ai cittadini; determina la creazione di posti di lavoro che consentono la rioccupazione e la qualificazione professionale dei lavoratori e favoriscono il rientro nel mercato del lavoro primario.
Il modello di workfare in Italia è stato preso in considerazione nell'ambito delle strategie di politica del lavoro con il Protocollo del 1993 firmato dal Governo e le parti sociali, e con il quale sono stati definiti programmi, predisposti dallo Stato d'intesa con le Regioni, che prevedono l'utilizzo di giovani disoccupati di lunga durata e di lavoratori in Cassa integrazione guadagni straordinaria o in mobilità.
Viene utilizzato come uno strumento che possa contribuire a ridimensionare la spesa pubblica assistenziale attraverso un utilizzo più produttivo delle risorse di sostegno al reddito dei disoccupati; contribuire a migliorare i servizi pubblici in quei settori in cui i lavori socialmente utili consentono di fronteggiare, anche se temporaneamente, la carenza di personale.
Il workfare nasce nell'ambito di una politica assistenziale, in cui la percezione del sussidio è vincolata allo svolgimento di un'attività lavorativa e, in questo ambito, i lavori socialmente utili o di utilità collettiva hanno la funzione di ridurre la spesa pubblica, oltre che favorire il reinserimento occupazionale e la riqualificazione professionale. Però, trattandosi di lavoro non scelto, ma imposto in cambio del sussidio, l'integrazione economica corrisposta non è assimilabile alle misure di incentivazione al lavoro sperimentate negli Stati Uniti d'America e nel Regno Unito[3].
Si avverte, infatti, la necessità di bilanciare gli interessi pubblici nel sistema di sicurezza sociale attraverso un utilizzo proficuo delle ingenti risorse necessarie per il finanziamento delle prestazioni assistenziali; finalità che può essere perseguita impiegando, appunto, i disoccupati in attività socialmente utili o promuovendo la loro partecipazione a corsi di formazione o riqualificazione professionale.
In quest'ultimo caso la collettività beneficia di un incremento del patrimonio professionale dei disoccupati, che consente di reinserirli nel contesto produttivo.
Occorre, infatti, che l'intervento pubblico a sostegno dei redditi dei lavoratori privi di un'occupazione miri alla realizzazione di iniziative che favoriscano l'avviamento verso il lavoro, l'attività socialmente utile, la formazione professionale, il recupero dell'istruzione.
Ciò implica che il sistema di sicurezza sociale debba orientarsi ad una nuova funzione di sostegno dell'occupazione, ridistribuendo la ricchezza già esistente anziché predisporre meccanismi per la produzione e distribuzione di nuova ricchezza.
In tale contesto il lavoro socialmente utile consente di contemperare il dovere di solidarietà sociale, economica e politica sancito dall'art. 2 della Costituzione, pur sempre nel rispetto del principio di equità e di uguaglianza sancito dall'art. 3 della Costituzione, con il diritto del lavoro ad ottenere i mezzi adeguati alle sue esigenze di vita secondo la disposizione contenuta nell'art. 38 della Costituzione, che riconosce ad <<ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere il diritto al mantenimento e all'assistenza sociale>>, tenendo conto del principio di razionalità sancito dall'art. 81 della Costituzione per il contenimento della spesa pubblica.
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