PUBBLICITA' E MASS MEDIA
Legami pericolosi
La storia della pubblicità moderna si
presenta come la storia di un intreccio sempre più stretto con la
comunicazione di massa.
I mass media costituiscono infatti i canali ideali per la diffusione di
messaggi il cui scopo è quello di raggiungere un pubblico di massa. Senza un
adeguato numero di contatti anche l'idea creativa più felice sarebbe
destinata all'insuccesso.
Le origini 'ufficiali' dell'intreccio tra pubblicità e media
vengono fatte risalire, come si ricorderà, all'iniziativa dell'editore e
giornalista francese Emile de Girardin di dare stabilmente uno spazio fisso
alle inserzioni pubblicitarie sul suo quotidiano La Presse, nel 1836. Da allora il destino dei giornali e poi
degli altri mezzi di comunicazione si è legato indissolubilmente a quello
della pubblicità 1.
Inizialmente il rapporto tra pubblicità e media, pur avendo dato luogo a
contestazioni (anche drammatiche) sulla contaminazione della sacralità
dell'informazione ad opera degli annunci commerciali, aveva visto la
pubblicità come una forma di comunicazione sostanzialmente estranea ai
contenuti 'primari' veicolati da media: gli introiti che le
inserzioni fornivano esercitavano benefici effetti finanziari (anche a
vantaggio del pubblico) senza influenzare la funzione primaria dei media.
Ma quando l'equilibrio tra i proventi delle vendite e gli introiti
pubblicitari ha lasciato il posto al prevalere di questi ultimi, è iniziato
un processo di condizionamento dei mezzi che ha finito per assumere dimensioni
imprevedibili, con risultati rilevanti anche di ordine etico e politico.
In particolare, la nascita e lo sviluppo di mezzi (in primo luogo la
televisione) finanziati esclusivamente dalla pubblicità, hanno conferito a
questa un peso determinante nell'influenzare i criteri di gestione e le linee
editoriali dei mezzi stessi.
Il problema del rapporto tra pubblicità e autonomia dei media investe ormai
da tempo il destino stesso della vita democratica, per l'importanza che in
essa assume la libertà dell'informazione e, più in generale, della
comunicazione. Molti, in realtà, considerano la pubblicità come una garanzia
di indipendenza economica dei media e quindi la base della loro libertà, in
quanto li sottrae ai condizionamenti del potere politico. Ma si tratta di
vedere se, a sua volta, la pubblicità non si trasformi essa stessa in una
fonte di condizionamento. Perché se è vero che la dipendenza da qualsiasi
potere toglie libertà all'informazione e ne compromette la funzione
fondamentale, è anche vero che tra i poteri condizionanti dei media si
affianca oggi (o si sostituisce) a quello politico e a quello proprietario,
il potere della pubblicità 2.
Come si afferma nel Rapporto MacBride sui problemi della comunicazione,
'la pubblicità è diventata un'immensa attività mondiale' e si
assiste oggi ad 'una dipendenza sempre maggiore dei mass media'
dalla pubblicità 3.
Media e risorse pubblicitarie
La pubblicità costituisce ormai dovunque l'unica risorsa finanziaria per i
mezzi commerciali, la televisione in primo luogo, ma rappresenta una fonte
essenziale di proventi anche per quasi tutte le emittenti radiotelevisive
pubbliche (alle quali non sono sufficienti i canoni d'abbonamento) e per le
imprese editoriali (cui non bastano i ricavi degli abbonamenti e delle vendite
in edicola).
Negli USA le risorse dei principali mezzi di comunicazione sono costituite
prevalentemente dalla pubblicità. La tabella che segue mostra che accanto
alla televisione via etere e alla radio, la cui risorsa finanziaria è dovuta
esclusivamente alla pubblicità, anche la stampa quotidiana e periodica
ricavano i loro maggiori introiti dalle vendite degli spazi.
Tabella
1
Provenienza delle risorse per i
principali mezzi di comunicazione (USA) Tabella
2
Quotidiani: rapporti tra ricavi da
pubblicità e da vendita
La tabella seguente indica invece i
rapporti tra ricavi da pubblicità e ricavi da vendita per i quotidiani nei
principali Paesi.
In Italia, come altrove, l'emittenza televisiva commerciale è finanziata
integralmente dai proventi pubblicitari, ma anche nel bilancio della Rai tali
proventi hanno un rilievo essenziale: nel 1992 sono stai pari al 1.247
miliardi, mentre i ricavi derivanti dal canone sono stati di 2.044 miliardi 4.
Per la stampa, come si è visto, gli introiti pubblicitari si bilanciano
sostanzialmente con quelli delle vendite.
Nel sistema della comunicazione di massa, insomma, la pubblicità riveste un
ruolo economico fondamentale; e se è vero che essa non sarebbe concepibile
senza i media, è anche vero che, ormai, la vita di questi ultimi dipende in
larga misura dalla pubblicità.
Ma, come si è detto, il rilievo che essa è andata assumendo nella vita
economica dei mezzi non è stato privo di contraccolpi negativi: crescente
invasione 'fisica' degli spazi a danno dei contenuti primari
(informazione, spettacolo, ecc.), intrusività crescente (si pensi
all'interruzione dei film in Tv), condizionamenti sulle scelte editoriali,
sui contenuti redazionali, sui palinsesti radiotelevisivi.
Particolari ripercussioni sono state provocate dal formarsi di posizioni
monopolistiche nel mercato pubblicitario, che si profilano come serie minacce
per il pluralismo del sistema della comunicazione e in particolare per la
libertà dell'informazione.
L'importanza degli introiti pubblicitari nella vita dei media ha finito per
provocare anche una distorsione nella loro valutazione, che gli utenti pubblicitari
denunciano da tempo con preoccupazione: la tendenza a considerare le entrate
pubblicitarie come una vera e propria sovvenzione
per le aziende editoriali e per le emittenti radiotelevisive, a tutto danno
della funzione naturale della pubblicità quale strumento di comunicazione
commerciale.
Si è insomma diffusa una concezione 'assistenziale' della
pubblicità, sempre meno vicina al suo ruolo primario. Anche le imprese non
sono indenni da colpe, ove si pensi che in non pochi casi gli interventi
pubblicitari assumono la funzione di veri e propri finanziamenti occulti
(come è emerso anche dalle vicende di 'tangentopoli'). La
'pianificazione' pubblicitaria non obbedisce a ragioni di utilità
economico-commerciale, ma diventa strumento di condizionamento dei media e
persino di corruzione.
L'importanza assunta dalla pubblicità come fonte di finanziamento dei mezzi
di comunicazione ha finito per giustificare anche interventi pubblici volti
ad assicurare un equilibrio tra i diversi ti mediali (soprattutto fra
televisione e stampa) o a garantire un minimo di risorse a determinati mezzi
'poveri' (come le emittenti televisive locali), attraverso una
ripartizione 'pilotata' degli introiti 5.
Un esempio, del quale si è discusso a lungo, di interventi del genere è stato
il 'tetto' posto alle entrate pubblicitarie dalla Rai fino al 1992.
Serva o padrona?
Un libro su pubblicità e media, scritto da Gian Luigi Falabrino, è stato
intitolato Pubblicità serva padrona.
In esso l'autore sostiene che 'I padroni della pubblicità non sono mai
stati gli industriali che la promuovono e la ano per lo sviluppo delle
loro aziende e per la vendita dei prodotti. E tanto meno sono tali le agenzie
che creano e pianificano le camne pubblicitarie, mere intermediarie di
servizio fra il potere economico e il potere dei media. I padroni della
pubblicità sono gli editori, la Rai, Berlusconi; e le concessionarie, che in
altri tempi condizionavano quasi tutta la stampa e che tuttora hanno un forte
peso sugli editori minori' 6.
Il libro è di pochi anni fa, ma c'è da ritenere che i cambiamenti di scenario
(politici, economici, sociali) intervenuti nel frattempo consentano di
affermare che se nell'ambito del sistema mediale esiste un
'padrone', questo sia la pubblicità. Oggi, in realtà, la pubblicità
sembra essersi affermata come protagonista assoluta nella vita della
comunicazione di massa.
In una intervista al 'Corriere della Sera' (del 7 novembre 1993) il
presidente degli inserzionisti pubblicitari italiani, Giulio Malgara, si è
rivolto con molta chiarezza ai nuovi dirigenti della Rai intenzionati a
riqualificare la programmazione del servizio pubblico; e ha detto loro di
stare molto attenti 'Perché il tentativo di elevare il livello delle
trasmissioni è apprezzabile (l'audience non può essere sempre alla testa di
tutto) ma devono tener presente che l'audience deve essere o alto e
indifferente oppure ridotto ma molto ben identificato. Altrimenti noi
dell'Upa taglieremo gli investimenti'.
Si capisce chiaramente che, tanti o pochi, i telespettatori sono considerati
dagli inserzionisti in funzione delle loro strategie di comunicazione. E se
si tiene conto dell'apporto ormai indispensabile rappresentato, anche per
l'emittenza pubblica, dagli introiti pubblicitari, ci si rende conto
pienamente del peso che essi esercitano sulla programmazione e quanto
l'autonomia e la libertà delle emittenti e degli autori (giornalisti
compresi) siano largamente subordinate agli interessi della committenza
pubblicitaria.
Tanto più che la validità in termini pubblicitari di trasmissioni rivolte a
settori ridotti del pubblico caratterizzati però da omogeneità interessanti
sotto il profilo commerciale viene posta in dubbio dagli esperti.
'Ci si può chiedere - scrivono ad esempio Marco Gambaro e Francesco
Silva - se chi domanda spazio pubblicitario televisivo miri sempre e solo ad
ottenere il massimo ascolto. Una possibilità alternativa sarebbe quella di
selezionare un tipo particolare di consumatore, ad esempio quello più ricco o
più sportivo, per pubblicizzare un prodotto di lusso o uno strumento sportivo
(piscine, sci, ecc.). Programmi particolari capaci di selezionare in modo
opportuno questi gruppi di ascoltatori si presterebbero a camne
pubblicitarie mirate e a un costo di contatto più elevato. Questa tuttavia è una
prospettiva remota. La televisione è un mezzo di comunicazione di massa, che
non riesce a individuare un particolare tipo di consumatore, a dividere
l'ascolto sulla base di interessi o di livello di reddito particolari; è uno
strumento adatto alla pubblicità soprattutto di beni maturi di largo consumo.
Su questa esigenza della pubblicità regge appunto l'esistenza delle grandi
reti televisive commerciali' 7.
Ma, si può aggiungere, anche quella di un'emittenza pubblica costretta a
'stare sul mercato', cioè ad agire concorrenzialmente per la
vendita degli spazi agli inserzionisti pubblicitari.
I rapporti tra media e pubblicità sono resi ancor più difficili in Italia da
una situazione di aspra conflittualità tra la stampa e la televisione, a
causa del forte divario tra le rispettive quote nella ripartizione degli
introiti pubblicitari complessivi. Lo sviluppo dell'emittenza televisiva
commerciale ha letteralmente rovesciato il precedente rapporto tra i due
ti: in precedenza, infatti, la quota maggiore degli introiti finiva
alla stampa, ora la televisione ne assorbe più della metà, come appare
chiaramente nella tabella che segue.
Tabella
3
Investimenti pubblicitari in Italia
Quote di mercato
Ma agli editori che lamentano questa
anomalia rispetto a quanto accade nei principali Paesi stranieri 8, l'emittenza televisiva commerciale
risponde facendo notare che l'incremento complessivo degli investimenti
pubblicitari, dovuto all'impulso determinato dall'ingresso nel mercato
pubblicitario delle Tv commerciali, si risolve in un vantaggio cospicuo anche
per la stampa (che riceverebbe una 'fetta' sì più piccola, ma di
una 'torta' molto più grossa) 9.
Si tratta, d'altra parte, di dati che riflettono le scelte compiute dalle
imprese nelle loro strategie di pianificazione dei mezzi, che tengono conto
di vari fattori, e in particolare del 'costo-contatto', cioè del
rapporto tra il prezzo di un'inserzione pubblicitaria (costo dello spazio) e
il numero di individui che essa raggiunge. Per quanto si tratti di un
rapporto necessariamente grossolano - e che richiede quindi, ai fini della
valutazione dell'efficacia degli investimenti, l'integrazione con l'analisi
di altri fattori tra cui le particolarità dei diversi mezzi - il
'costo-contatto' costituisce un punto di riferimento considerato
fondamentale nella determinazione del 'piano-media' 10.
E l'equazione più contatti=più introiti ha finito per diventare il punto
fondamentale di riferimento nella gestione dei media, facendo assurgere la
conquista dell'audience al ruolo principale nella determinazione delle
politiche di gestione.
Pubblicità e giornali
La pubblicità costituisce una delle principali 'forze' che
concorrono a formare la struttura di un giornale. Ma a causa del suo ruolo
strategico ha finito per influenzare, a volte profondamente, le linee
editoriali, le modalità di raccolta, di selezione, di elaborazione, di
diffusione dell'informazione stampata.
Come ha osservato Alberto Cavallari, la pubblicità 'opera in permanenza
una selezione del contenuto. Un giornale che riceve diversi milioni per la
pubblicità-automobile, difficilmente potrà rifiutare di avere una rubrica
'automobile'. Un giornale che ha contratti pubblicitari con gli
Stati esteri dedicando loro dei supplementi, dovrà avere una linea in
politica estera coerente con questi contratti' 11.
In realtà, i condizionamenti esercitati dalla pubblicità (o attraverso la
pubblicità) sull'informazione - come più in generale, sull'autonomia dei
media - sono molteplici, vistosi, preoccupanti per le sorti della libertà
dell'informazione. Essi si aggiungono a (e talvolta si confondono con) quelli
esercitati direttamente attraverso la proprietà delle testate. Le grandi
imprese, infatti, difendono i loro interessi utilizzando anche direttamente i
mezzi di comunicazione: 'Spesso ricorrono all'acquisto dei giornali.
Spessissimo forniscono pubblicità solo a chi difende i loro interessi o,
quanto meno, non li aggredisce. Infine, producono informazione con le proprie
strutture e un giornale sarà penalizzato se non la pubblica. La pubblicità a
amento segue o precede la pubblicazione di queste informazioni. Così è
nata una nuova struttura che affianca la pubblicità classica: quella dei
servizi stampa o di relazione pubblica. Ma le si riservano giudizi poco
lusinghieri. Molti studiosi segnalano che 'essa è piuttosto
equivoca'' 12.
Le stesse cronache editoriali degli ultimi anni presentano una discutibile
testimonianza di inquinamenti pubblicitari dell'informazione, dei quali sono
responsabili in primo luogo le imprese giornalistiche e gli inserzionisti
pubblicitari (insieme alle loro agenzie), ma accanto ad essi anche
giornalisti complici o passivi. Fino a pochi anni fa, viceversa, i guasti
provocati dai condizionamenti pubblicitari erano coperti da un silenzio
totale. Il velo si è squarciato con lo svilupparsi degli studi sui problemi
dell'informazione e oggi la letteratura in argomento, nonostante le
difficoltà di documentazione, presenta elementi notevoli di conoscenza e di
valutazione.
Tra i primi segni di pubblica e documentata denuncia reperibili in Italia,
merita di essere ricordata l'indagine sui condizionamenti nella professione
giornalistica svolta dalla Scuola Superiore delle Comunicazioni Sociali
dell'Università Cattolica di Milano per conto dell'Unione Cattolica Stampa
Italiana (Ucsi) nel 1972 13.
Già allora la quasi totalità dei giornalisti intervistati aveva indicato
spontaneamente 'come uno dei fattori più negativi di
condizionamento' la pubblicità. Le testimonianze raccolte appaiono
persino patetiche nella loro crudezza: 'io mi occupo un po' di
automobilismo e se usciva una '' l'andavo a provare: se per caso
avessi pensato che era una brutta macchina, non lo potevo scrivere, non lo potevo
neanche pensare che era una macchina da non comprare. E su qualsiasi giornale
si troverà che la macchina va benissimo e, se si parla di difetti, sono
sempre cose secondarie e insignificanti, altrimenti ti tolgono la pubblicità.
Noi, in questo giornale, abbiamo avuto una esperienza drammatica con
''. Ci fu una grossa polemica con un altro giornale. A un certo
punto la '' ci tolse la pubblicità per un anno e noi non potemmo
non smettere la camna perché si trattava di molti, molti milioni' 14.
Erano le prime voci, anche stilisticamente cagionevoli, di denuncia di una
realtà oppressiva, raccolte con metodologie attendibili. Oggi le denunce si
sono fatte più frequenti e aperte e compaiono anche nelle cronache e nelle
inchieste di giornali che non sembrano essi stessi in odore di santità, oltre
che nei testi di giornalismo e, in generale, nelle opere che trattano i
problemi dell'informazione e della comunicazione di massa. E si ammette, come
ha fatto Giorgio Bocca, che 'convivono nel giornale due professioni
antitetiche, la ricerca della verità e l'imbonimento mercuriale, quasi sempre
menzognero' 15.
Secondo Paolo Murialdi 'Il discorso sull'influenza della pubblicità
sulla libertà di stampa deve partire dalla constatazione che i quotidiani e i
periodici sono prodotti venduti due volte, ai lettori e, in rapporto al loro
successo e in certi casi, alla loro particolare importanza e penetrazione,
agli inserzionisti. Più lettori ha un quotidiano, più la sua posizione è
egemonica in una determinata zona, più pubblicità raccoglie. Salvo,
naturalmente, le non rare discriminazioni adottate dagli inserzionisti per
ragioni politiche. Ma per avere tanti lettori bisogna fare dei giornali che
interessino o piacciano a tante persone di idee e gusti diversi. La storia del
giornalismo dell'era industriale dimostra che questa tendenza conosce ben
poche eccezioni' 16.
Questo spiega perché la pubblicità sia diventata il fattore fondamentale
nelle strategie di marketing ormai affermatesi come strumenti decisionali
anche nella gestione delle imprese editoriali, che - detto in termini brutali
- hanno come obiettivo essenziale la vendita di notizie ai lettori per
'vendere' i lettori agli inserzionisti pubblicitari.
I pericoli che ne derivano sono evidenti: ad esempio quello di trascurare
lettori di livello economico medio-basso perché non interessano agli
inserzionisti pubblicitari come consumatori. E' nota in proposito la
sferzante battuta dei rappresentanti di un lussuoso negozio americano rivolta
agli agenti pubblicitari del 'New York Post': 'I vostri
lettori sono i nostri taglieggiatori'. Una esasperata logica di mercato,
non contemperata dal riconoscimento di interessi diversi da quelli puramente
economico, favorisce anche la tendenza alla spettacolarizzazione e al
sensazionalismo e quindi reca con sé il pericolo di una trasformazione di
tipo teleologico: il fine
dell'informazione non è più di tipo cognitivo, referenziale, critico, quello
cioè di far conoscere la realtà e di consentire la sua valutazione, ma di
tipo fàtico, legato alla pura
ricerca del contatto, del numero, in omaggio alla valenza pubblicitaria dello
strumento informativo e alla sua gestione in termini di puro profitto.
Ne deriva un ovvio capovolgimento del rapporto con i destinatari: non già un
rapporto di servizio, bensì di strumentalizzazione a fini commerciali, come
del resto si è già detto. L'informazione-spettacolo, il giornale ridotto a
puro veicolo commerciale diventa sempre di più una merce, facendo venir meno
la sua funzione di utilità collettiva. Nella società dello spettacolo questa
tendenza non costituisce certo una sorpresa: è però la conferma di un
fenomeno di snaturamento della funzione informativa e del suo progressivo
disancoramento dal principio dell'utilità sociale e, più ancora, dall'ideale del
pubblico interesse e del contributo alla promozione della vita democratica.
La crescente mercificazione del prodotto giornalistico è stata ulteriormente
rafforzata, in questi ultimi anni, dal sistematico ricorso ad operazioni
promozionali - concorsi, operazioni a premio, omaggi, ecc. - esclusivamente
finalizzate all'aumento delle vendite in funzione pubblicitaria, prive di
qualsiasi riferimento al ruolo fondamentale dell'informazione nello sviluppo
culturale e civile. E ne è segno anche l'uso del colore che certi quotidiani
riservano alle sole inserzioni pubblicitarie.
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