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Fino al secolo XIX le relazioni dei viaggiatori e dei missionari sulle popolazioni indigene con cui erano entrati in contatto sono state in pratica la sola documentazione accessibile agli Europei interessati a quel genere di studi che oggi chiamiamo «etnografici» (dal greco éthnos = «popolo») o di «antropologia culturale» (dal greco àntropos = «uomo»), e che si occupano della cultura e della mentalità di specifici gruppi etnici o sociali e in particolare dei popoli detti «primitivi». Etnologi e antropologi, insomma, per un lungo periodo di tempo hanno continuato a studiare soprattutto sui libri, conoscendo le popolazioni di cui si occupavano solo attraverso la testimonianza di altre persone. Naturalmente anche i missionari, che vivevano a stretto contatto con i «primitivi», erano, a modo loro, etnologi e antropologi, almeno nel senso che avevano un evidente interesse a conoscere usi, costumi, mentalità delle popolazioni che intendevano convertire al Cristianesimo: ma, appunto, il loro scopo primario era quello di convertire, e cioè di distruggere le culture con le quali venivano in contatto.
La ura dell'antropologo che lavora «sul campo», cioè che passa un certo periodo di tempo presso la popolazione che desidera studiare senza pretendere di modificarne la cultura, di istruirla, di convertirla o di civilizzarla, è relativamente recente: risale ai primi decenni del XX secolo, quando la dominazione bianca e la presenza dei missionari avevano già in larga misura mutato o compromesso le tradizionali forme di vita. Per i primi ricercatori sul campo si trattava dunque di recuperare, prima che fossero definitivamente dimenticate, le antiche tradizioni culturali di popolazioni che spesso erano minacciate anche fisicamente di estinzione.
Il contatto diretto degli studiosi con le culture oggetto delle loro indagini modificò sostanzialmente l'atteggiamento di fondo con cui avevano fino a quel momento guardato ai «primitivi» o «selvaggi», come erano tradizionalmente denominati. Mentre il razzismo costituiva un presupposto implicito o esplicito delle vecchie dottrine antropologiche, tra i ricercatori sul campo si vennero gradualmente affermando, specialmente nel periodo tra le due guerre mondiali, varie forme di relativismo culturale tutte genericamente riconducibili alla constatazione che ciò che è buono, giusto o bello in una cultura non necessariamente lo è anche in un'altra cultura. Nessuna cultura, si diceva, può essere giudicata con i criteri e i valori propri di un'altra cultura, e tanto meno coi criteri e i valori della cultura europea, che era la cultura dei conquistatori e dei coloni. Quelle che erano state definite, non senza disprezzo, culture «primitive» venivano ora riconosciute come culture diverse, ma non inferiori alla nostra.
Dall'assunzione dell'uguale dignità di tutte le culture discendeva quasi per necessità il rifiuto dell'azione missionaria e più in generale un forte scetticismo circa l'opportunità di una qualsiasi azione «civilizzatrice» (come allora si qualificavano le iniziative delle amministrazioni coloniali a beneficio delle popolazioni indigene nei settori dell'istruzione, della sanità, delle opere pubbliche, ecc.). Un atteggiamento di questo genere implicava non piccoli problemi per chi, volendo condurre le proprie ricerche sul terreno, doveva comunque ricorrere alla collaborazione delle autorità coloniali o addirittura, come qual che volta succedeva, svolgeva quelle ricerche per incarico espresso delle stesse autorità.
Gli antropologi si sono dunque sforzati, nello studiare le popolazioni presso cui si recavano, di liberarsi dei propri pregiudizi (a cominciare dalla credenza nella superiorità del bianco) e dei condizionamenti derivanti dall'appartenenza alla razza (e alla classe) dominante. Anche psicologicamente la cosa era tutt'altro che facile, come si rileva, tra l'altro, da queste annotazioni dell'antropologo francese Claude Lévi-Strauss, che si riferiscono al suo primo incontro con un gruppo di indios Bororo nell'interno del Brasile:
In che ordine descrivere quelle impressioni profonde e confuse che assalgono il nuovo arrivato in un villaggio indigeno la cui civiltà è rimasta relativamente intatta? [] Di fronte a una società ancora vitale e fedele alla sua tradizione lo choc è così forte che si rimane sconcertati. In questa matassa dai mille colori quale filo si deve seguire per cercare di sbrogliarla? [] Il villaggio racchiude i suoi abitanti come una leggera ed elastica armatura; più simili ai cappelli delle nostre donne che alle nostre città: insieme monumentale che conserva un po' della vita della vegetazione, volte e fogliami la cui linea naturale è stata conciliata dall'abilità dei costruttori con le esigenze e necessità dei loro piani. La nudità degli abitanti sembra protetta dal velluto erboso delle pareti e dalla frangia delle palme: essi scivolano fuori dalle loro dimore come se si spogliassero di ampi mantelli di struzzo. [] Mentre attendevamo alla nostra sistemazione nell'angolo di una vasta capanna, io, più che analizzarle, mi lasciavo impregnare da queste immagini. Si delineavano particolari: le abitazioni conservavano sempre la disposizione e le dimensioni tradizionali, ma la loro architettura aveva già subito l'influenza neobrasiliana: la loro pianta era rettangolare e non più ovale e benché il materiale del tetto e delle pareti fosse lo stesso (rami che sostenevano un intreccio di palme), le due parti erano distinte e lo stesso tetto era a doppio spiovente invece che arrotondato. Tuttavia, il villaggio di Kejara dove eravamo appena arrivati, restava [] uno degli ultimi dove l'azione dei Salesiani non si era ancora fatta troppo sentire. Questi missionari che sono riusciti a porre fine ai conflitti fra Indiani e coloni, hanno condotto nello stesso tempo eccellenti inchieste etnografiche [] e un metodico sterminio della cultura indigena
Nonostante le migliori intenzioni di questo mondo, gli antropologi che hanno operato fino al secondo dopoguerra conducevano le loro ricerche presso popolazioni dominate dall'uomo bianco e conservavano per questo semplice fatto una condizione di superiorità e di forza nei confronti di coloro che avrebbero dovuto osservare e studiare: non c'è da stupirsi che il rispetto degli indigeni nei loro confronti nascondesse una sostanziale diffidenza. Anche oggi, del resto, gli antropologi si trovano spesso in una posizione ambigua. Un antropologo francese, Jean Monod, ha descritto in termini assai divertenti la sua poco felice esperienza tra gli indios Piaroa del Sud America:
Una sera, mentre mangiavamo carne in scatola dopo aver ascoltato la radio, il padrone della casa venne come al solito a sedersi vicino a noi e sorridendo dichiarò che stavamo mangiando carne umana. Sobbalzai, smisi di mangiare e gli mostrai la scatola e l'etichetta con la testa di bue. Il vecchio ammiccò come per dire che a lui non l'avremmo fatta perché sapeva bene come stavano le cose. Vedendo poi che stavamo per condire gli shetti con la salsa di pomodoro il vecchio aggiunse che quello era sangue. Nella società Piaroa si uccide solo per mangiare e solamente gli animali. I bianchi al contrario dal momento che erano abituati ad ammazzarsi tra loro dovevano fare ciò per lo stesso motivo, cioè per procurarsi carne da mangiare. Una prova era data dal fatto che ascoltavo la radio tutte le sere: secondo il vecchio facevo questo per non sentire le grida delle persone che erano state ammazzate e che stavo per divorare. Mentre parlavamo dei miti Piaroa, il padrone della casa ad un certo momento si rifiutò di dirmi altro. Era male raccontare queste cose ad un bianco. Compresi che voleva essere ato per il suo lavoro come aveva visto che avevo fatto in precedenza con un indigeno creolo. La mia resistenza a are il vecchio era dovuta ad una buona intenzione: non volevo tramite lui dare ai Piaroa il gusto di lavorare per i bianchi per denaro. Temevo che ciò potesse portare ad uno stato di dipendenza. Ma era una preoccupazione eccessiva! Veniva infatti scambiata per avarizia. A nulla valsero i miei discorsi che cercavano di risolvere la questione su un piano di amicizia. Dovetti are. Uno sfruttatore: ecco cos'ero. Il fatto che loro erano indigeni era il pretesto fornitomi dall'etnologia per arricchire la «scienza» del mio paese a loro spese senza la minima preoccupazione della loro sopravvivenza e del loro avvenire e per farmi nello stesso tempo una posizione. Il secondo mese trascorse in trattative economiche sempre più pressanti. Il fascino era completamente svanito. Mi ero trasformato in distributore automatico di sigarette. ll mio fallimento tra i Piaroa si spiega con l'esistenza del neocolonialismo negli schemi del quale rientrava il mio lavoro anche se all'inizio mi ero illuso di sfuggirgli.
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