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ARTICOLO DI GIORNALE - "il Manifesto" - "Misure di libertà"

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ARTICOLO DI GIORNALE

Destinazione editoriale: "il Manifesto"

Titolo: "misure di libertà"


Qua a Jalalabad la libertà non sanno neanche cosa è. Mi sono stupito oggi nel vedere tra la folla dimostrante e rumoreggiante per la via un immenso sectiunellone con su scritto "libertà". Era scritto in tante lingue, compresa la nostra. È da più di due secoli che l'Afghanistan è di tutti, eccetto che degli afgani. Gli inglesi prima, poi l'Unione Sovietica, poi anche una "specie di pace" (in cui però disabituato a questa straordinaria situazione, il popolo ha rispolverato gli odi tra le diverse etnie), poi i talebani, adesso un'altra finta democrazia, la nostra e soprattutto quella americana. Libertà. Anche l'Europa era piena di eventi del genere, nei secoli passati. Usavamo l'arte e la cultura per manifestare la volontà di renderci indipendenti. Le bandiere degli stati nazionali sventolavano in alto, a ricordare che era il popolo stesso, e non altri, a governare. Chi di noi non ha in mente almeno un esempio di popolo che lotta per la libertà all'interno dello sconfinato patrimonio artistico occidentale? Uno, che ho stampato in mente, è il celebre dipinto "la libertà che guida il popolo" di Delacroix. Ora tocca all'Afghanistan sventolare la propria bandiera.

Ho avuto la fortuna di incontrare alcuni personaggi straordinari in questo paese, la cui saggezza spicciola mi ha disarmato. Persone che mi hanno spesso fatto riflettere su cosa sia davvero la libertà. Se sia possibile o meno esportare un sistema politico, una democrazia, sempre che la nostra lo sia, sempre che qualcuno abbia voglia di imitarla. Sono le donne le persone che più mi fanno pensare. Dopo la liberazione di Kabul da parte dei militari americani nei nostri Tg si vedevano le immagini di volti femminili scoperti. Sembrava la caduta di un obbligo pesante, anti-democratico, talebano e fondamentalista. E anche terrorista, una parola che ci sta sempre bene. Nel giro di poche ore, sembrava che la libertà fosse tornata in Afghanistan: di lì a poco gli uomini avrebbero potuto far volare nuovamente gli aquiloni, sarebbero potuti andare a vedere i film indiani al cinema. Chissà, magari avrebbero anche iniziato a portare jeans, scarpe da ginnastica e capelli a spazzola. C'era già chi si immaginava le ragazze afgane -finalmente "scoperte" in nome della libertà sessuale- a posare in minigonna per i propri connazionali. Invece noi italiani siamo sempre qua a casa loro, gli americani anche, e tante donne, la maggior parte, portano ancora il velo. Ho chiesto il motivo ad una di loro, qualche giorno fa: "perché voglio essere libera di seguire la mia tradizione". Ci sono rimasto male. E chissà come ci sarebbero rimasti male i vari governi che sono riuniti a ridiscutere di "missioni di pace" da prolungare fino a chissà quando. Quella donna ha demolito in un secondo la nostra idea di villaggio globale. Loro, fanno capire, vogliono provare a fare l'Afghanistan. Magari a noi non è venuto in mente che c'è più libertà nella scelta di quella donna che nel nostro indossare i jeans e ballare in discoteca. Lei ha scelto di essere libera, noi ci vincoliamo a qualche volontà trasparente. La nostra tradizione artistica e letteraria sta venendo meno, rendendoci più stupidi e arroganti, allontanando dai nostri occhi i principi luminosi che nella storia abbiamo voluto innalzare. Lei libera di scegliere la tradizione, noi a inventare nuove forme di schiavitù. Diciamo che vogliamo libertà per l'Afghanistan, ma forse non ricordiamo bene cosa voglia dire. Noi il popolo della resistenza, noi il popolo spezzettato e governato da Longobardi, Borboni, Savoia, Asburgo, Visigoti e barbari vari . e noi oggi il popolo della droga, dell'alienazione da lavoro, della mafia, dei reality show e del calcio marcio che affascina comunque. Noi che vogliamo elargire la libertà agli altri nella maniera in cui percepiamo la nostra. Noi schiavi del tempo, sempre di corsa, senza mai un minuto per assaggiarla, la libertà. Provate a passeggiare per cinque minuti a Manhattan, New York: vi renderete conto che lì la gente corre, non cammina. Ci agitiamo come animali in gabbia. Qua in Afghanistan almeno esiste ancora chi ogni giorno si ferma, si rilassa, e beve una tazza di tè forte. Poi, con calma, si rimette a vivere. E continuiamo a credere stupidamente di essere noi, quelli liberi.



C'è un vecchio giù al bazar che la prima volta che mi ha visto, stupito dalla mia pelle olivastra e dagli occhi azzurri mi ha chiesto da dove provenissi. Gliel'ho detto. "ah, italiano. Pensavo fossi di un popolo nuovo venuto a conquistarci un'altra volta". Stanchezza rassegnata di chi per una vita non ha mai parlato di politica perché non ha mai potuto provare un senso di patria. Noi Italiani, come tanti altri popoli, dovremmo saperle certe cose. Noi che impariamo a memoria le poesie alle scuole elementari senza capirle, recitandole come fossero filastrocche: non sarebbe forse il caso di capirle? Basta pensare a marzo 1821 di Manzoni: "O stranieri, nel proprio retaggio torna Italia, e il suo suolo riprende; o stranieri strappate le tende da una terra che madre non v'è". L'Afghanistan ci chiede lo stesso. Siamo talmente superiori da poter dire che non se lo meritano? E come è possibile portare libertà in uno stato straniero quando noi stessi ci rendiamo conto che in occidente la libertà a volte non è che un antico valore? Aveva ragione Martin Luther King che nel suo celebre discorso I Have a Dream parlando del rapporto tre bianchi e neri, affermava che "la loro libertà è inestricabilmente legata alla nostra libertà". Finché non impareremo a guardarci indietro e a capire a pieno il significato della parola "libertà" attraverso le nostre radici e i nostri maestri, non potremo nemmeno comprendere che la libertà non si esporta. Qua a Jalalabad vogliono la loro misura libertà, ma una libertà afgana, non una occidentale.





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