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Copernico: vittima dell'umorismo
Sono passati ormai 80 anni dalla mia morte, ma ricordo come fosse ieri l'incontro con uno dei più grandi poeti della letteratura italiana dell'800.
Mentre vagavo per questo mondo a me sconosciuto incontrai un uomo, gli chiesi chi fosse, e lui mi rispose che nel mondo terreno era conosciuto come Giacomo Leopardi.
Non potevo crederci, avevo incontrato uno tra i più dotti e eruditi poeti della storia italiana, colui da cui presi ispirazione colui che aveva una visone tanto simile alla mia.
Non persi tempo e volli subito chiederli:
P - Quanto è più difficile è la vita, e più è sentita in questa lotta la propria debolezza, tanto maggiore si fa poi il bisogno del reciproco inganno. La simulazione della forza, dell'onestà, della simpatia, della prudenza, in somma d'ogni virtù massima della veracità, è una forma d'adattamento, un abile strumento di lotta. L'umorista coglie subito queste varie simulazioni per la lotta della vita; si diverte a smascherarle; non se n'indigna. Non crede?
L - così va il mondo: il delitto e il vizio trionfa, i buoni sono oppressi, la felicità e l'infelicità sono ambedue di chi non le merita. - Ma nel mondo il felice ha per lo più il nome di buono, e viceversa. Il dramma chiama la bontà e la malvagità col loro nome, e mostra il carattere e la condotta morale de' felici e degl'infelici qual ella è veramente. Quindi la sua grande utilità, quindi l'odio e il disprezzo originato dal dramma, verso i malvagi benché felici, e viceversa
P - non crede che la scienza, l'eccessivo nozionismo e scientismo abbiano fatto cadere l'uomo in uno stato di infelicità?
L - certo caro collega, l'Anima era felicissima senza conoscere, l'uomo non è fatto per sapere, la cognizione del vero è nemica della felicità, la ragione è nemica della natura. Socrate diceva: "c'è un solo bene, il sapere, e uno solo è il male, l'ignoranza", ebbene carissimo, egli si sbagliava; il progresso della conoscenza consiste nello svelare e distruggere le certezze che l'uomo man mano ha costruito, mostrando quanto, in realtà l'uomo sia così piccolo in confronto all'immensità della natura e delle cose da conoscere.
P - Copernico disse: "Ma ora se noi vogliamo che la Terra si parta da quel suo luogo di mezzo; se facciamo che ella corra, che ella si voltoli, che ella si affanni di continuo, che eseguisca quel tanto, né più né meno, che si è fatto di qui addietro dagli altri globi; in fine, che ella divenga del numero dei pianeti; questo porterà seco che sua maestà terrestre, e le loro maestà umane, dovranno sgomberare il trono, e lasciar l'impero; restandosene però tuttavia co' loro cenci, e colle loro miserie, che non sono poche"
Copernico ha rovinato l'umanità irrimediabilmente. Ormai noi tutti ci siamo a poco a poco adattati alla nuova concezione dell'infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men che niente nell'Universo. E gli uomini si contenteranno di essere quello che sono: e se questo non piacerà loro, andranno raziocinando a rovescio, e argomentando in dispetto della evidenza delle cose; come facilissimamente potranno fare; e in questo modo continueranno a tenersi per quel che vorranno, o baroni o duchi o imperatori o altro di più che si vogliano.
Ma è poi veramente così piccolo l'uomo, come il telescopio rivoltato ce lo fa vedere? Se egli può intendere e concepire l'infinita sua piccolezza, vuol dire ch'egli intende e concepisce l'infinita grandezza dell'universo. E come si può dir piccolo dunque l'uomo?
L - si dice con ragione, massime delle cose umane, e terrene, che tutto è piccolo. Ma con altrettanta ragione si potrebbe dire, anche delle menome cose, che tutto è grande, parlando cioè relativamente, come ancor parlano quelli che chiamano tutto piccolo, perché né piccola né grande non è cosa niuna assolutamente
P - L'uomo quindi vive in uno stato di infelicità a causa della sua brama di conoscenza?
L - Esatto. E le dirò di più, è impossibile che la natura abbia voluto l'infelicità dell'uomo, ma è l'uomo che allontanandosi dalla natura e volendosi erigere a semidio, crea la propria infelicità, infatti vive in una condizione in cui tenta di superare lo stadio naturale ma si rende ridicolo di fronte all'immensità della conoscenza
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