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Dante Alighieri (Firenze 1265 - Ravenna 1321), poeta e prosatore, teorico letterario e pensatore politico, considerato il padre della letteratura italiana. La sua opera maggiore, la Divina Commedia, è unanimemente ritenuta uno dei capolavori della letteratura mondiale di tutti i tempi.
Dante nacque tra il maggio e il giugno del 1265 da una famiglia della piccola nobiltà. L'evento più significativo della sua giovinezza, secondo il suo stesso racconto, fu l'incontro con Beatrice, la donna che amò ed esaltò come simbolo della grazia divina, prima nella Vita nuova e successivamente nella Divina Commedia. Gli storici hanno identificato Beatrice con la nobildonna fiorentina Beatrice o Bice Portinari, che morì nel 1290 neanche ventenne. Dante la vide in tre occasioni ma non ebbe mai l'opportunità di parlarle.
Non si sa molto della formazione di Dante, ma le sue opere rivelano un'erudizione che copre quasi l'intero panorama del sapere del suo tempo. A Firenze fu profondamente influenzato dal letterato Brunetto Latini, che e come personaggio nella Commedia (Inferno, canto XV), e sembra che intorno al 1287 frequentasse l'Università di Bologna. Durante i conflitti politici che ebbero luogo in Italia in quell'epoca, si schierò con i guelfi contro i ghibellini, partecipando nel 1289 ad alcune azioni militari (a Campaldino contro Arezzo e nella presa di Caprona contro Pisa).
Iniziò l'attività politica nel 1295, iscrivendosi alla corporazione dei medici e degli speziali. Quando la classe dirigente guelfa si spaccò tra bianchi e neri (questi ultimi legati al papa per interessi economici), Dante si schierò con i primi, che avevano il governo della città. Ricoprì vari incarichi e nel 1300, dopo una missione diplomatica a San Gimignano, fu nominato priore (uno dei sei) per il bimestre 15 giugno-l5 agosto, e ricoprì quel ruolo con senso di giustizia e fermezza, tanto che, per mantenere la pace in città, approvò la decisione di esiliare i capi delle due fazioni in lotta quasi quotidiana, tra i quali l'amico Guido Cavalcanti. Fu quasi sicuramente uno dei tre ambasciatori inviati a Roma per tentare di bloccare l'intervento di papa Bonifacio VIII a Firenze. Non era comunque in città quando le truppe angioine consentirono il colpo di stato dei neri (novembre 1301). Venne subito accusato di baratteria (concussione) e condannato in contumacia prima a un'enorme multa e poi a morte (marzo 1302). Iniziò così l'esilio (nel quale furono in seguito coinvolti anche i li) che sarebbe durato fino alla morte. Dopo alcuni tentativi militari di rientrare a Firenze, fece 'parte per se stesso'. Alla notizia dell'elezione al trono imperiale di Enrico VII di Lussemburgo, sperando nella restaurazione della giustizia entro un ordine universale, si avvicinò ai ghibellini, ma la spedizione dell'imperatore in Italia fallì. Negli anni dell'esilio Dante si spostò nell'Italia settentrionale tra la Marca Trevigiana e la Lunigiana e il Casentino, e forse si spinse fino a Parigi tra il 1307 e il 1309. Si recò poi insieme ai li, forse nel 1312, quando aveva già concluso il Purgatorio, a Verona presso Cangrande della Scala, dove rimase fino al 1318. Da qui si recò a Ravenna, presso Guido Novello da Polenta, dove riunì attorno a sé un gruppo di allievi tra cui il lio Iacopo, che si accingeva alla stesura del primo commento dell'Inferno. Morì nella notte tra il 13 e il 14 settembre 1321 a Ravenna, e neppure le sue spoglie tornarono mai a Firenze.
Le prime opere e la Vita nuova
Fin dalle prime prove Dante rivela una marcata passione per la sperimentazione, cimentandosi con vari registri che si articolavano attorno alla nozione medievale dei tre stili (tragico, comico, elegiaco, oppure tragico, medio, comico). Ciò risulta già nei primi due testi che oggi la critica (ma non senza dubbi) assegna a Dante, dopo la recente edizione di Gianfranco Contini: il Fiore (così nominato dal primo editore), di registro 'comico', che si conura come una parafrasi in 232 sonetti delle parti narrative del Roman de la Rose, e il Detto d'amore, poemetto didascalico in distici di settenari con rima equivoca, di cui restano solo 280 versi.
La prima opera di attribuzione certa è la Vita nuova (1292-93), scritta poco dopo la morte di Beatrice, in cui si alternano 31 liriche e 42 moduli di prosa poetica, che fanno da connettivo ai testi e consentono di distendere la gracile storia autobiografica e di commentarli sul piano retorico. Dante ripropone la propria storia d'amore assegnandole però una funzione conoscitiva dell'amore (all'interno della ricerca stilnovista) e funzioni allegoriche e simboliche (secondo il gusto medievale); l'azione si svolge secondo le tappe dell'amore mistico verso Dio, e ogni tappa, che prepara al grado successivo, è segnata da una violenta rottura: prima il saluto tolto da Beatrice a Dante e poi la morte di Beatrice (esemplata su quella di Cristo). L'opera, che contiene alcune delle liriche più belle di Dante, si conclude col proposito dell'autore di non scrivere più di Beatrice se non quando sarà in grado di parlarne più degnamente e di 'dicer di lei quello che mai non fue detto d'alcuna'. Quest'opera, che si apre con un sogno e si chiude con una visione e si distende in un'atmosfera trasognata, rimane per così dire sospesa e troverà il suo compimento nella Commedia. Oltre che nel registro stilnovistico, la scrittura sperimentale di Dante si esprime in altre direzioni: nel registro 'comico', intensificato da forti cadenze popolari, della 'tenzone' con Forese Donati (prima del 1296); nell'intonazione solenne delle rime dottrinali e morali; nella ricerca di uno stile aspro (invece che 'dolce') delle rime 'petrose', per una donna dall'animo duro, collocabili attorno al 1296.
I trattati dottrinali
Durante i primi anni dell'esilio Dante scrisse due trattati dottrinali rimasti incompiuti. Il Convivio (1304-l307 ca.) è un'opera in volgare di divulgazione dottrinaria destinata al ceto politico e sociale emergente nei comuni del tempo, scritta per la formazione di una classe dirigente che fosse adeguata ai compiti di giustizia e di alta moralità. Doveva essere composta di 15 trattati (uno introduttivo e gli altri quattordici a commento ad altrettante canzoni) ma furono portati a termine solo i primi quattro trattati, che avviarono la prosa filosofica in volgare. La scelta del volgare per un trattato era cosa nuova e funzionale alle finalità e ai destinatari dell'opera.
Contemporaneo al Convivio è il De vulgari eloquentia (1303-l305 ca.), trattato in latino (destinato ai dotti, ai 'chierici') sull'uso del volgare come 'lingua letteraria' (eloquentia). Il progetto originario comprendeva almeno quattro libri con l'analisi dei vari livelli stilistici secondo la retorica medievale; ma l'opera si interrompe al XIV modulo del secondo libro. Il De vulgari eloquentia, oltre a un discorso tipicamente medievale sull'origine delle lingue e sulla loro tipologia storico-geografica, affronta la questione di una lingua letteraria unitaria (in seguito continuamente riproposta) e offre preziose e specifiche indicazioni sulla realtà linguistica del primo Trecento.
Incerte sono le date della composizione di un terzo trattato, di tipo politico, questa volta compiuto e in latino, la Monarchia: per alcuni risale al 1308, ma per i più al 1311-l313, al tempo della discesa in Italia di Enrico VII; per altri ancora fu scritto dopo il 1318, al tempo della stesura del Paradiso. L'opera si oppone al potere temporale della Chiesa e delinea un modello della realtà politica contemporanea basato sull'armonica collaborazione delle autorità universali, la Chiesa e l'Impero, per assicurare la giustizia e una vita ordinata, preurazione di quella celeste: emerge una passione utopica tipicamente medievale, mentre la realtà politica andava verso il nuovo orizzonte degli stati nazionali (e, in ambito italiano, regionali). Il trattato si snoda con una tecnica argomentativa propria delle dispute filosofiche delle scuole medievali e il procedimento logico che vi si dispiega è quello del sillogismo aristotelico, reso non accademico dalla passione politica e religiosa che anima tutto il trattato.
A queste tre opere vanno aggiunti altri testi, nati spesso da occasioni specifiche. Sono le tredici Epistole (le sole pervenuteci tra le tante prodotte), in latino, scritte anche per conto di chi lo ospitava. Di particolare rilievo è l'epistola XIII, scritta tra il 1316 e il 1320 per accomnare l'invio e la dedica del Paradiso a Cangrande della Scala. Essa contiene le uniche indicazioni offerte da Dante per interpretare la sua opera maggiore e ripropone la teoria (già contenuta nel Convivio) dei diversi livelli su cui si può e si deve intendere la Commedia (come del resto ogni altro testo letterario). Altre opere sono le Egloghe, due componimenti in esametri latini di tipo virgiliano che riconfermano la dignità della poesia in volgare; e la Quaestio de aqua et terra (Discussione sull'acqua e sulla terra), una conferenza scientifico-filosofica (tenuta a Verona nella chiesa di Sant'Elena il 20 gennaio 1320) centrata su un tema che suscitava grande interesse tra i dotti del tempo, cioè come le terre siano emerse dall'acqua: la tesi sostenuta da Dante è che le sfere della terra e dell'acqua non siano concentriche.
La Divina Commedia
La datazione dell'opera è problematica. Si considera leggendaria la notizia dell'inizio dell'opera prima dell'esilio e se ne fa in genere risalire l'avvio agli anni in cui vennero interrotti i due trattati dottrinali del Convivio e del De vulgari eloquentia, cioè tra il 1305 e il 1307. L'Inferno, che non contiene notizie posteriori al 1309, sarebbe stato compiuto attorno a quella data e diffuso subito dopo in copie manoscritte (la prima menzione è del 1313). Il Purgatorio non contiene riferimenti a fatti posteriori al 1313 e venne divulgato separatamente nei due anni seguenti. Al Paradiso Dante avrebbe messo mano a partire dal 1316 e l'avrebbe terminato negli ultimi anni di vita, mentre i singoli canti venivano fatti conoscere man mano che venivano compiuti. Non possediamo copie autografe di Dante e l'edizione critica più recente del poema (quella di Giorgio Petrocchi, del 1966-67) si basa sui manoscritti settentrionali, più antichi di quelli toscani. Dopo la morte del poeta cominciarono ad apparire commenti alle singole parti.
Nella citata epistola XIII Dante spiega a Cangrande perché chiamasse l'opera 'comedia' o 'commedia' (l'aggettivo 'divina', già impiegato da Giovanni Boccaccio nella sua biografia dantesca, il Trattatello in laude di Dante, venne introdotto in un'edizione a stampa del 1555 da Ludovico Dolce e poi rimase incorporato nel titolo). La ragione del titolo è di tipo retorico e riguarda il tema e il livello linguistico: l'opera inizia con una situazione 'paurosa e tremenda' e termina felicemente (la tragedia invece ha inizio piacevole e fine treme'), e il livello linguistico (il modus loquendi) è dimesso e umile (remissus et humilis) per facilitare la comunicazione (perché è 'la parlata volgare in cui comunicano anche le donnette'). Quanto al fine dell'opera, Dante dice che è quello di 'salvare gli esseri umani dalla condizione di miseria e di condurli alla felicità'. A questo scopo, Dante autore racconta un viaggio nei tre regni dell'aldilà (in cui si proietta il male e il bene del mondo terreno) compiuto da Dante attore ('ura' dell'umanità), che si affida alla guida di Virgilio e poi di Beatrice, in ciascuno dei quali si addensano complesse significazioni di ordine allegorico, simbolico e urale.
La Commedia è un poema didascalico (con ingredienti del poema epico, come la protasi e l'invocazione per ciascuna delle tre cantiche) di 14.233 versi endecasillabi che compongono 100 canti raggruppati in tre cantiche di 33 canti ciascuna più un canto introduttivo, secondo la successione 1-33-33-33. I numeri hanno una valenza simbolica (100, multiplo di 10, allude alla totalità della realtà rappresentata; 3 è il numero della Trinità e ricorre nell'invenzione della forma metrica (la 'terza rima') come pure nelle numerose corrispondenze formali che segnano il testo (ad esempio, i canti sesti delle tre cantiche sono di tema politico), legando gli episodi in un'intricata rete di valori dottrinali.
Si è detto che il titolo della Commedia si spiega fondamentalmente con il linguaggio 'comico' in cui è scritto, ma l'affermazione vale particolarmente per l'Inferno: nel Paradiso prevale lo stile 'tragico' e nel Purgatorio il linguaggio è intermedio o 'medio'. In ogni caso l'opera si caratterizza per una continua mescolanza di stili con una libertà espressiva coerente con le finalità dottrinali.
Compendio della storia umana con centro nell'esperienza e nella memoria di Dante, la Commedia è anche un'intensa drammatizzazione della teologia cristiana medievale, arricchita da una straordinaria creatività immaginativa. Il Purgatorio, ad esempio, è dal punto di vista iconografico un'invenzione di Dante, il quale, al termine di secoli di dibattito teologico sulla questione, ne offrì un'immagine concreta destinata a rimanere nell'immaginario collettivo dell'Occidente. Il sistema cosmologico è quello del suo tempo, ma l'elaborazione concettuale ha una forza sintetica e icastica senza uguali.
Fin dal Trecento vennero istituiti corsi per l'esposizione e l'interpretazione della Commedia. A Firenze il Comune incaricò di questo compito Boccaccio, che lasciò un commento di una parte dell'Inferno. Dopo l'invenzione della stampa vennero pubblicate più di quattrocento edizioni. Celebri illustratori dell'opera furono Sandro Botticelli, Michelangelo, William Blake e Gustave Doré. Luca Signorelli trascrisse in affreschi (recentemente restaurati) la Commedia nel Duomo di Orvieto.
Il problema della lingua e dello stile
All'opera critica e poetica di Dante va il merito di aver dato al volgare italiano dignità di lingua d'arte. Se nella Vita nuova si limita a giustificare l'uso del volgare sul piano della prassi poetica dei rimatori d'amore, nel Convivio Dante avvia un discorso più generale sulla lingua italiana, riconoscendole, nel trattato introduttivo, quei tratti di amabilità, ricchezza, proprietà, bontà che fino ad allora erano attribuiti solo al latino (e al francese). Il tipo stesso di prosa volgare usato nel Convivio (dal periodare complesso e alto, modellato su quello latino-scolastico) e il contenuto delle liriche commentate nell'opera si distaccano dall'operetta giovanile (e Dante stesso ne è cosciente), come si conviene alla diversa esperienza dell'autore, maturata dall'esilio, e alla materia trattata, frutto di studi filosofici e di impegno civile e politico. Il volgare sarà quindi «sole nuovo», che illuminerà sulla via della conoscenza coloro cui «lo sole usato», cioè il latino, «non luce». È il riconoscimento della validità ideale e pratica dell'italiano come lingua di scienza e d'arte. Lo svolgimento puntuale, teorico e applicativo insieme, di questa tesi è contenuto nel De vulgari eloquentia (1304-05), opera latina progettata in 4 libri, ma interrotta al cap. XIV del II libro. Dalle affermazioni dell'autore, che porta a esempio se stesso come poeta della virtù, appare chiaro che la lingua di cui egli tratta è quella d'arte: in particolare, è la lingua, e lo stile, dello stesso Dante, nella sua più alta produzione lirica di ispirazione etica. In questo senso il trattato sulla lingua si riallaccia al Convivio, alle grandi canzoni in esso commentate (concreta applicazione della teoria), a tutta la ricerca stilistica di Dante, aperta dalla Vita nuova e dalle Rime e riassunta e conclusa dalla Commedia. In essa la lingua vive, nello stesso tempo, come mezzo di comunicazione e come creazione artistica di volta in volta innovata, come il «sole nuovo» di cui l'autore aveva sentito la necessità concettuale ed etico-politica e come realizzazione di ben precise scelte stilistiche.
Il pensiero filosofico e politico
Nel 1316, inviando a Cangrande
il I canto del Paradiso, Dante indicava nel «morale negotium
sive ethica» il
'genere' filosofico cui andava ascritta la Commedia: su eguale metro
sono da commisurare le altre opere d'argomento conoscitivo e politico,
cioè il Convivio, la Monarchia, le Epistole
politiche. La moralità come ricerca del proprio essere da parte
dell'individuo e del gruppo sociale si sviluppa, nel pensiero dell'esule
fiorentino, come filosofia della pratica e della storia: muovendo
dall'esigenza d'autonomia cittadina e dai conflitti di parte, Dante approda a
una concezione unitaria e globale della storia e della politica. La base
speculativa della posizione dantesca è eclettica, ma identificabile
nelle sue componenti fondamentali: il pensiero di Aristotele (mediato
attraverso Alberto Magno e San Tommaso); l'eredità classica e postclassica, filtrata attraverso l'esegesi medievale
(innanzitutto Virgilio, quindi Cicerone, Seneca, Boezio); la tradizione biblica e le diverse correnti del
pensiero religioso cristiano; la conoscenza, parziale, del neoplatonismo;
infine, l'influsso dei contemporanei centri di cultura francesi.
Dante accetta la struttura gerarchica e finalistica
della società umana del pensiero aristotelico-tomista,
ma sviluppa e applica in modo autonomo la teoria dei due fini, naturale e
soprannaturale, dell'uomo, giungendo a una valutazione indipendente dell'etica
e della metafisica, concepite come provvidenzialmente ordinate ai due fini in
modo autonomo. Tale posizione è chiarita nel Convivio
(1304-07, la prosa; anteriori di circa un decennio le liriche commentate),
opera in volgare di contenuto enciclopedico- didascalico, progettata in 15
trattati (ma interrotta al IV) e contenente nel primo, proemiale,
l'esposta lode del volgare. Illustrando nel II la lettera e l'allegoria della
canzone Voi ch'intendendo, Dante identifica la «donna gentile»
dei versi con la filosofia, «bellissima e onestissima lia de lo Imperadore de lo universo» (cioè di Dio) e fonte di
spirituale amore; sulla stessa traccia si muove il III trattato, a commento di Amor
che nella mente, che della filosofia canta le lodi in chiave stilnovistica. Infine, Infine, abbandonata la veste al legorica con la terza canzone (Le dolci rime),
Dante può ordire nel IV trattato un commento esclusivamente e
apertamente didattico, che gli consente di introdurre il tema politico: contro
la definizione di nobiltà come bene ereditario data da Federico II, non
solo è ribadito il concetto stilnovistico di
nobiltà legato alla 'virtù' individuale, ma si afferma
l'autonomia dell'autorità filosofica (in particolare di Aristotele) di
fronte a quella imperiale, e il dominio di quest'ultima sulla terra tutta, giustificandone
la provvidenziale universalità e romanità. È questo il
tema della Monarchia, opera latina in 3 libri, che compendia
organicamente il pensiero politico dantesco e ne espone analiticamente i punti.
Particolarmente importante è il libro III, dove l'autore entra nel vivo
della polemica contemporanea contro i decretalisti,
sostenitori della supremazia papale nei confronti del potere politico (ierocrazia): egli confuta l'asserita dipendenza
dell'imperatore dal pontefice e dichiara illegittima la donazione di
Costantino, riaffermando l'indipendenza dei due poteri e la loro autonoma e
diretta provenienza divina. Il contenuto della Monarchia, la sua
ampiezza teoretica, la sua acutezza metodologica, i toni biblici e ispirati
dello stile si riallacciano da un lato alle Epistole politiche,
dall'altro alla Commedia. Le une rispecchiano i primi tempi
dell'esilio (Epistola I, in nome della parte bianca, per la pacificazione
tentata dal cardinale Niccolò da Prato), le successive speranze legate
all'elezione imperiale di Enrico VII (Epistole V, VI, VII,
1310-l1, ai signori d'Italia, agli scellerati Fiorentini, a Enrico, per
caldeggiare e sostenere la sua discesa in Italia), le speranze ultime di
ravvedimento della Chiesa e dei suoi ministri (Epistola XI, 1314,
ai cardinali italiani) in un crescendo continuo dagli interessi cittadini
all'impegno ecumenico, politico e spirituale; la Commedia,
ponendo via via l'accento - non solo nei cosiddetti
canti 'politici' - sulla città, sui regni, sull'impero,
richiama l'umanità tutta, nei capi, nei popoli, negli individui, al
riconoscimento dei propri compiti e al rispetto dei propri limiti, mentre
asserisce vigorosamente la mutua indipendenza delle sfere d'azione religiosa e
politica, sociale e metafisica.
Trovarsi ad essere esiliati dalla propria città non è una bella situazione. Vedere la propria casa in mano ad una fazione nemica, ad uno schieramento avverso che ora è al potere, è terribile. Un tempo, ora parliamo del 1300, non era propriamente una rarità. L'esilio era un'economica soluzione per disfarsi degli avversari politici che col tempo è andata perdendosi. Rimane però che a Firenze nel 1302 viene emessa una condanna a due anni di confino, all'esclusione dai pubblici uffici e al amento di una multa ai danni di un poeta politicamente impegnato, Dante Alighieri. Successivamente la condanna verrà mutata in confisca dei beni e rogo in caso di cattura, in modo da obbligarlo a fuggire. Morirà lontano da Firenze.
Ma lontano dalla sua patria scriverà molto e comporrà la sua grande opera: la Divina Commedia. Con questo scritto, insieme ai mille simbolismi e insegnamenti morali che ci offre, si prende anche una piccola parte di vendetta. Il suo è un grande operato e verrà letto e pubblicato per secoli, così, consapevole del successo che non avrebbe potuto mancare, infila tra i versi più alti piccole frecciate, o invettive, contro i suoi nemici. In questo modo riesce a colpirli abilmente con una satira studiata e davanti ad un grande pubblico, tenendo anche conto che scrive in volgare.
Dante quindi ci offre un completo quadro politico della Firenze del 1300. Lo fa con cura, tenendo conto dei numeri, a lui tanto cari. Infatti, come sempre, Dante è metodico e dedica per ogni cantica un canto politico ed è ogni volta il sesto.
Analizziamo l'Inferno, unica cantica osservata finora.
Dante ha appena lasciato Paolo e Francesca nel cerchio dei lussuriosi e si sta dirigendo in quello dei golosi. Qui acqua putrida, pioggia sporca e grandine tormentano i dannati con la faccia nel fango. Dopo aver passato Cerbero si scontra con Ciacco, cittadino fiorentino vissuto al tempo di Dante. Parlando arriva la sua famosa profezia. Dante rivolge al peccatore tre domande, rispondendo alle quali Ciacco fa il resoconto dei fatti. Le due parti, guelfi bianchi e neri, si scontrano per superbia, invidia e avarizia e ormai sono soltanto due gli uomini giusti in tutta la città. Su quest'ultima cosa abbiamo diverse interpretazioni di cui non intendo discutere ora. Poi Ciacco prevede la conclusione dei conflitti. Infatti Dante scrive l'opera successivamente all'esilio, ma inscena i fatti nel 1300, quando ancora non era stata data la condanna. Così Ciacco dice: dopo un lungo contrasto verranno al sangue, ovvero un ragazzo verrà ferito in una rissa il primo maggio 1300 e con questo gesto l'odio fra le fazioni crebbe notevolmente, poi i bianchi avranno il sopravvento, ma cadranno nuovamente entro tre anni. In effetti così sarà, ma passeranno meno di tre anni da una supremazia all'altra, venuta nel 1302, e al numero va attribuito un valore simbolico. Ciacco però non ha finito perché specifica che i neri torneranno al potere grazie a colui che fino a quel momento non aveva preso le parti di alcuno, si parla del tanto amato Bonifacio VIII. Ancora tre versi per questa risposta che Dante dedica al fine di far surare i suoi avversari dipingendoli come specie di barbari crudeli e privi di pietà, infatti scrive che saranno crudeli, imporranno forti multe e saranno crudeli, benché gli altri piangano e subiscano l'onta. E qui Ciacco conclude.
Ma non possono bastare tre canti su cento per denigrare coloro che lo hanno allontanato dalla sua casa, così troviamo qua e là versi interessanti di satira.
Saltiamo ora al canto decimo. Dante con Virgilio sono entrati nella città di Dite e stanno visitando le tombe aperte degli epicurei. Tralasciando l'incontro con Cavalcante, non utile ai fini della tesi, osserviamo la discussione con Farinata degli Uberti, fiero ghibellino.
All'inizio i due si incalzano e Farinata ricorda orgogliosamente a Dante che il suo partito fu cacciato due volte da Firenze, nel 1248 e nel 1260. E' facile per Dante difendersi, rispondere e schernirlo, infatti i guelfi erano tornati a Firenze entrambe le volte, nel 1251 e nel 1267, mentre quando è stata la volta dei ghibellini non fu così. Qui però Farinata si vendica e prevede l'esilio di Dante da Firenze. Dice: non passeranno cinquanta mesi che capirai cosa significa perdere. Il periodo è di quattro anni e due mesi, ovvero il maggio del 1304. Esiliato nel 1302, Dante parteciperà per due anni ai molti tentativi dei guelfi bianchi di tornare a prendere possesso della città con la forza.
La cantica è costellata di invettive su Firenze e soprattutto sul suo grande nemico: il papa Bonifacio VIII. Questi tocchi leggeri rendono più divertente la lettura dell'opera e fanno assumere a volte aspetti comici ai personaggi.
Per concludere nomino un passo che ho trovato deliziosamente arguto, sempre contro Bonifacio VIII.
Siamo nell'ottavo cerchio, nella bolgia dei simoniaci. Qui i dannati sono conficcati nella terra in colonna e ogni nuovo che arriva spinge la fila un po' più in giù. L'ultimo, l'unico con le gambe fuori, ha la comnia di una fiamma che gli brucia le palme dei piedi. Niccolò III è l'ultimo della fila dei papi e Dante gli si avvicina. Sentendo lui e Virgilio parlare Niccolò si stupisce, convinto che sia il suo successore. Chiaramente chi può essere il successore se non proprio Bonifacio? Niccolò lo esplicita e in questo modo Dante riesce a mettere all'inferno Bonifacio ancor prima della sua morte.
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