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Non passa giorno senza che un uomo politico, in Italia o fuori, deprechi l'alto tasso di disoccupazione, promettendo provvedimenti per farlo scendere. La disoccupazione è diventata l'incubo del nostro tempo, la calamità che affligge i popoli, la peste dei tempi moderni. Con particolare riferimento all'Europa, dove i disoccupati sono, proporzionalmente alla popolazione, più numerosi che altrove.
Ora, non nego che la disoccupazione sia un malanno. Ma ho l'impressione che sia anche diventata un luogo comune, e che coloro che ne parlano non sempre sappiano di che cosa stanno parlando. Assistiamo a una specie di riflesso condizionato. Già negli anni Trenta la disoccupazione era fonte di disperazione e causa di tanti guai, fra i quali anche l'ascesa di Hitler al potere. Ora tutto è cambiato intorno a noi: ma si continua a parlare di disoccupazione con gli stessi accenti con cui se ne parlava allora, come se si trattasse sempre dello stesso fenomeno.
Il punto di partenza che conviene tener presente, quando si affronta il tema, è che nella prima metà del secolo i disoccupati erano veramente dei disperati, ridotti alla miseria e alla fame: si mettevano in coda, anche nei paesi ricchi come gli Stati Uniti e l'Inghilterra, per un piatto di minestra; rovistavano nei rifiuti in cerca di cibo.
Oggidì, la disoccupazione è sempre una sciagura, ma si manifesta in modo diverso; è deprecabile, ma per altre ragioni. I disoccupati del Duemila sono sempre infelici, ma non per l'assillo di una povertà paragonabile a quella del passato, non così estrema. La società moderna, nei paesi industriali avanzati, quindi anche in Italia, eccezion fatta per alcune zone del Mezzogiorno, è abbastanza benestante, nel complesso, per sopportare il peso di una parte della popolazione non produttiva, e per farla partecipare, mediamente, a un certo benessere. Anche chi è senza lavoro gode per lo più di un tenore di vita non proprio spregevole. Ci sono disoccupati, a quanto si sente dire da coloro che si occupano di questi problemi, che vanno a cercare lavoro in automobile.
Sono disoccupati, oggidì, uomini e donne non più giovani, scartati dalle loro aziende in modo più o meno brutale perché non servono più, e ormai troppo avanti negli anni per trovare un nuovo lavoro; e sono disoccupati molti giovani in attesa del primo impiego perché non conoscono ancora un mestiere, oppure perché non trovano un lavoro adatto alla loro preparazione e alle loro inclinazioni. Le condizioni degli uni e degli altri, degli anziani e dei giovani, sono causa di depressione, di squilibri psicologici; se vogliamo usare una parola facile ma onnicomprensiva, sono causa di "infelicità".
Uno psicologo che conosce molti giovani in cerca di lavoro osserva che la disoccupazione è una causa di turbamento per la gioventù moderna, ma non è l'unica. Più grave ancora, a suo avviso, è la disgregazione della famiglia; la mancanza di punti di riferimento sicuri; la mancanza, in molti casi, di un padre, perché i genitori si sono separati: tutte cose note, e dette e ridette tante volte, e non certo rimediabili con provvedimenti governativi. Ma anche la disoccupazione, male moderno, deve essere vista nel quadro di una crisi generale, e non come l'unico grande flagello dei paesi industriali avanzati. Se ne parla tanto: quanti si chiedono che cosa significhi in realtà, e che cosa c'è dietro?
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