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Giovanni Carmelo Verga nacque a Catania, secondo di sei li, il 2 settembre 1840 al numero 8 di via Sant'Anna da Giovan Battista Verga Catalano e Caterina Di Mauro Barbagallo originaria di Belpasso (paesino a circa 15 Km a ovest di Catania), ed era discendente del ramo cadetto dei baroni di Fontanabianca, appartenente alla nobiltà antica di Vizzini, un grosso borgo che si trova a metà strada sulla via che porta da Catania a Ragusa, e che ha cercato di rivendicare i natali dello scrittore. Un documento dell'8 settembre 1840 dell'archivio arcivescovile di Catania attesta che la nascita del Verga era stata 'rivelata' in quello stesso giorno insieme al battesimo avvenuto nella chiesa dei Santi Apostoli, alla presenza dei due padrini, gli zii don Giuseppe e donna Domenica Verga. Lasciati gli studi di legge per entrare, nel 1861, nella Guardia Nazionale, manifesta fin da giovane un grande interesse per la letteratura, pubblicando a soli 22 anni il romanzo storico 'I carbonari della montagna'. Già in quest'opera è visibile l'ardore patriottico dell'autore, e il suo impegno politico per l'annessione della Sicilia al Regno d'Italia; questi si fanno più evidenti con il secondo romanzo, 'Sulle lagune' (1863) e con la fondazione del giornale 'Roma degli Italiani'. Nel 1865 si trasferisce a Firenze, pubblicando i romanzi 'Una peccatrice' (1866) e 'Storia di una capinera' (1871), quest'ultimo di grande successo. Si sposta poi a Milano, dove entra in contatto con scrittori del calibro di Arrigo Boito, Giuseppe Giacosa, Federico De Roberto; pubblica i romanzi 'Eva' e 'Tigre reale' (1874), 'Eros' (1875) e la raccolta 'Primavera e altri racconti'(1876). In una lettera del 1878 espone il suo progetto di un ciclo di romanzi, il cui comune denominatore sarebbe dovuto essere la teoria evoluzionistica darwiniana e il cui modello i romanzi di Zola, dal titolo 'I vinti'. Nel 1880 esce la raccolta di novelle 'Vita dei campi'; l'anno successivo il primo romanzo del ciclo dei vinti e il suo capolavoro, 'I Malavoglia'; nel 1882 il romanzo 'Il marito di Elena'; nel 1883 le raccolte di novelle 'Per le vie' e 'Novelle rusticane'. Nel 1884 ha la soddisfazione di veder rappresentata in teatro una sua novella contenuta in 'Vita dei campi', la 'Cavalleria rusticana', che Pietro Mascagni tramuterà in opera lirica nel 1890. Nel 1888 esce il secondo romanzo del ciclo dei vinti, il 'Mastro don Gesualdo'. Raggiunta l'agiatezza economica e la tranquillità sentimentale, dopo alcune relazioni anche adulterine, nel 1894 si ritira a Catania e pubblica ancora una raccolta di novelle, 'Don Candeloro'; nel 1903 esce il dramma 'Dal tuo al mio', nel 1911 inizia il terzo romanzo del ciclo, 'La duchessa di Leyra', che però rimane fermo al primo modulo. Nominato senatore nel 1920, muore nel 1922.
Verga, a differenza
di altri scrittori, non espose le proprie idee sulla letteratura e sull'arte in
opere compiute; preferisce invece immergersi nel suo scrupoloso e concreto
lavoro di scrittore. Il canone fondamentale a cui si ispira è quello
dell'impersonalità (per altro comune ai veristi), che egli intende
innanzi tutto come 'schietta ed evidente manifestazione dell'osservazione
coscienziosa'. Verga vuole indagare nel misterioso processo dei sentimenti
umani presentando il fatto nudo e schietto come è stato 'raccolto
per viottoli dei campi, press'a poco con le medesime parole semplici e
pittoresche della narrazione popolare', sacrificando 'l'effetto della
catastrofe, allo sviluppo logico, necessario delle passioni e dei fatti verso
la catastrofe resa meno imprevedibile ma non meno fatale'; l'obiettivo
è quello di giungere a un romanzo in cui l'affinità di ogni sua
parte sarà completa, in cui il processo della creazione rimarrà
un mistero, la mano dell'artista rimarrà invisibile e 'l'opera
d'arte sembrerà essersi fatta da sé'. Verga vuole rappresentare la
lotta per la vita ripercorrendo la scala sociale, dai livelli più bassi
a quelli più elevati e questo sia per la sua esigenza personale di
rimeditare la propria esperienza umana e artistica e anche per estendere
l'indagine che si era in genere limitata ai ceti popolari, alle classi
più alte. Le tecniche narrative
riguardano il rapporto tra autore e materia rappresentata, le tecniche
espressive, la sintassi e il lessico. La novità di Verga sta nella
distinzione tra autore e narratore e nella definizione e invenzione del
narratore regredito. L'autore per essere impersonale deve rinunciare ai suoi
pensieri e giudizi, alla sua morale e cultura perché non deve esprimere se
stesso ma si deve nascondere impedendo così al lettore di percepire la
sua presenza. Verga cerca di realizzare l'eclissi dell'autore delegando la
funzione narrante a un narratore che è perfettamente inserito
nell'ambiente rappresentato, regredito al livello sociale e culturale dei
personaggi rappresentati che assume la loro mentalità e non fa trapelare
l'idea dell'autore. Il narratore assume così, un aspetto camaleontico
evidente soprattutto nei Malavoglia. Verga vuole essere impersonale fino in
fondo e, oltre a rinunciare alla sua mentalità ai suoi ideali e principi
rinuncia anche alla sua lingua e cerca di adottare un tipo di espressione
più vicina possibile agli umili rappresentati; l'autore cerca, infatti,
di studiare la sintassi del dialetto siciliano e tenta di riprodurre tale
struttura della frase nella lingua italiana, citando spesso proverbi che
appartengono alla cultura locale. L'autore utilizza anche la tecnica del
discorso indiretto libero tutte le volte che ha bisogno, nel descrivere fatti e
luoghi, di far risuonare i modi tipici del linguaggio popolano e di
identificarsi col pensiero della gente del posto. E' utilizzato anche
l'artificio dello straniamento realizzato attraverso un modo di raccontare i
fatti secondo cui quello che è normale appare strano e viceversa
Il Verismo fu un movimento letterario e artistico, sviluppatosi sul finire
dell'Ottocento, che propugnava l'estrema aderenza alla verità.
LETTERATURA
Il verismo, sviluppatosi in Italia fra il 1875 e il 1890, pur richiamandosi
alla tendenza realistica del romanticismo che fa capo a Manzoni e prendendo
forma nell'ambiente fervido di stimoli culturali della scapigliatura lombarda,
si ricollega direttamente alle teorie positivistiche e al grande modello del
naturalismo francese. Mentre gli scrittori realisti francesi avevano dietro di
sé una società matura e consapevole e potevano quindi fare delle loro
opere uno strumento di azione rinnovatrice, i nostri scrittori veristi si
trovavano dinanzi a masse culturalmente sprovvedute e incapaci di recepire il
messaggio sociale a esse rivolto. Di qui la condizione di isolamento dello
scrittore verista che assume un atteggiamento più contemplativo che
attivo e volge la sua attenzione alle sofferenze delle plebi contadine, ma
è incapace di sottrarsi al paternalismo e di additare concrete
possibilità di riscatto. Accanto a questa fondamentale differenza tra
naturalismo francese e verismo italiano (orientato il primo verso le classi
sociali produttive dal proletariato all'alta borghesia, volto il secondo a
descrivere il mondo agricolo-provinciale e le plebi contadine) è da
rilevare il carattere moderato, meno rigido, con cui fu applicata la teoria
zoliana del "romanzo sperimentale" e lo stesso canone
dell'impersonalità. Teorizzato da L. Capuana, il verismo ebbe in Sicilia
il suo massimo rappresentante in G. Verga, accanto al quale è da
ricordare il concittadino e amico F. De Roberto. In Calabria il verismo si
presenta nelle contrapposte versioni del documentarismo socialmente impegnato
di V. Padula e della cronaca pittoresca e folclorica di N. Misasi. La chiassosa
e dolente civiltà partenopea ha i suoi affettuosi interpreti in Matilde
Serao e in S. Di Giacomo, mentre la remota civiltà racchiusa nel
paesaggio sardo viene evocata, con arte sospesa tra verismo e decadentismo, da
Grazia Deledda. In Italia centrale l'allucinato paesaggio dell'Agro Romano ha
il suo appassionato cantore in C. Pascarella, mentre le zone più
selvagge e pittoresche dell'Abruzzo sono sublimate nella sgargiante scenografia
delle dannunziane Novelle della Pescara; in Toscana il verismo si attenua nel
bozzettismo folcloristico di R. Fucini, o viceversa si irrobustisce nella
risentita moralità di M. Pratesi. Nell'Italia settentrionale, infine, la
lezione verista si riflette nella Milano di E. De Marchi, con la sua atmosfera
grigia e stagnante, e si avverte negli scorci di vita piemontese di G. Giacosa
e negli sfondi di paesaggio veneto di A. Fogazzaro. Dopo aver nutrito la
formazione di L. Pirandello, il verismo ha trovato rinnovata fortuna, nel
secondo dopoguerra, in coincidenza con la fioritura del neorealismo.
TEATRO
La nascita del teatro verista, che puntava sull'oggettività della
rappresentazione, risale al 1884, con la rappresentazione di Cavalleria
rusticana di G. Verga. Quest'ultimo e L. Capuana furono i maggiori
rappresentanti del verismo di ambiente contadino, caratterizzato dallo
scatenarsi, anche cruento, delle passioni. Il verismo di ambiente borghese
fiorì invece a Milano, con la sua borghesia industriale, gli interessi e
la morale a essa propri. Autori: G. Giacosa (Tristi amori, Come le foglie), M.
Praga (La moglie ideale), C. Antona Traversi, G. Rovetta. Nel grande C.
Bertolazzi (El nost Milan), in L. Illica, protagonista è il proletariato
urbano della stessa Milano.
Il Verga ebbe una concezione dolorosa e tragica della vita. Pensava che tutti gli uomini fossero sottoposti a un destino impietoso e crudele che li condanna non solo all'infelicità e al dolore, ma ad una condizione di immobilismo nell'ambiente familiare, sociale ed economico in cui sono venuti a trovarsi nascendo. Chi cerca di uscire dalla condizione in cui il destino lo ha posto, non trova la felicità sognata, ma va incontro a sofferenze maggiori, come succede a'Ntoni Malavoglia e a Mastro Don Gesualdo. Con questa visione un po' pietrificata della società il Verga rinnova il mito del fato ( cioè la credenza in una potenza oscura e misteriosa che regola imperscrutabilmente le vicende degli uomini), ma senza accomnarlo con il sentimento della ribellione in quanto non crede nella possibilità di un qualsiasi cambiamento o riscatto. Per il Verga non rimane che la rassegnazione eroica e dignitosa al proprio destino. Questa concezione fatalistica e immobile dell'uomo sembra contraddire la fede nel progresso propria delle dottrine positivistiche ed evoluzionistiche. In verità, Verga non nega il progresso, ma lo riduce alle sole forme esteriori ed appariscenti; in ogni caso, è un progresso che comporta pene infinite. La visione verghiana del mondo sarebbe la più squallida e desolata di tutta la letteratura italiana se non fosse confortata da tre elementi positivi. Il primo è quel sentimento della grandezza e dell'eroismo che porta il Verga ad assumere verso i 'vinti' un atteggiamento misto di pietà e di ammirazione: pietà per le miseria e le sventure che li travagliano, ammirazione per la loro rassegnazione. Secondo elemento positivo è la fede in alcuni valori che sfuggono alla dure leggi del destino e della società: la religione, la famiglia, la casa, la dedizione al lavoro, lo spirito del sacrificio e l'amore nutrito di sentimenti profondi ma fatto di silenzi, sguardi furtivi e di pudore. Il terzo elemento è la saggezza che ci viene dalla coscienza dei nostri limiti e ci porta a sopportare le delusioni
Nell'attività
letteraria del Verga si distinguono tre periodi; il periodo romantico
patriottico, il periodo romantico passionale e il periodo verista. Al primo
periodo appartengono i romanzi giovanili Amore e patria (incompiuto), I
carbonari della montagna, Sulle lagune, tutti ispirati alla storia del
Risorgimento e a motivi patriottici e amorosi. Al secondo periodo romantico
passionale appartengono i romanzi scritti durante il soggiorno fiorentino e
milanese quando il Verga viene a contatto con la cultura positivistica e con
gli ambienti della Scapigliatura. Sono romanzi in cui si narrano torbide storie
d'amore e di morte in ambienti aristocratici e borghesi.
UNA PECCATRICE
È la storia dell'amore tra la contessa Narcisa e il giovane scrittore
Pietro Brusio, il quale, dopo aver destato in lei una tormentosa passione, la trascura,
spingendola al suicidio.
STORIA DI UNA CAPINERA
Pubblicato nel '71 dove Verga svolge un tema che in passato aveva ispirato vari
autori tra i quali Manzoni. La fanciulla Maria, costretta dalla matrigna a
farsi novizia, torna per breve tempo in famiglia conoscendo la libertà e
innamorandosi di Nino, il fidanzato della sorellastra. Il ritorno al convento
con la definitiva assunzione dei voti scatena in lei una follia mortale. Il
romanzo ha il carattere di una confessione intima, orientata verso la resa dei
sentimenti e di nascoste passioni ma vi è anche la documentazione
dell'inflessibile autorità familiare e del rigido cerimoniale dei
conventi.
EVA
Attraverso la vicenda del pittore Enrico Lanti, che conquista una danzatrice e,
dopo averla lasciata, muore, si ripresenta il tema dell'amore passione che a un
certo punto si esaurisce nella sazietà e nell'apatia.
TIGRE REALE
Compare un altro contrasto doloroso, anch'esso di stampo romantico, quello tra
la seduzione di una passione d'amore e l'opposto richiamo alla
semplicità degli affetti familiari: il diplomatico Giorgio La Ferlita
è diviso tra Nata, la contessa russa sua amante, e la moglie Erminia.
EROS
Il marchese Alberto Alberti, dopo aver interrotto la sua relazione con l'amante
Velleda, sposa la virtuosa e riservata Adele, ma, in seguito ad un nuovo
incontro con Velleda, si rituffa nella vita dissoluta; la conclusione è
il suicidio di Alberto sul letto di morte di Adele, ammalatasi per il dolore
provato dopo l'abbandono del marito.
La svolta verista si ha con la novella Nedda del 1874 ed è dovuta alla
scoperta dei naturalisti francesi, all'amicizia col Capuana, alla letteratura
della prosa asciutta e distaccata di un giornale di bordo.
NEDDA
Nella novella si narra la storia triste di Nedda che lavora come raccoglitrice
di olive per curare la madre malata. Ella si innamora di un giovane, Janu, ma
prima perde il suo uomo, morto per la caduta da un albero, poi la bambina nata
da questa relazione. Con Nedda il Verga abbandona i personaggi passionali,
evoluti e raffinati dei romanzi giovanili e ritrae la vita degli umili, che
vivono rassegnati e silenziosi tra gli stenti e le fatiche; abbandona anche le
complicate analisi psicologiche ed i lirismi dei primi romanzi iniziando una narrazione
in un linguaggio semplice e scarno.
A Nedda seguono le grandi opere d'ispirazione verista, le due raccolte di
novelle Vita dei campi e Novelle rusticane e i due capolavori, i romanzi I
Malavoglia e Mastro-don Gesualdo.
MASTRO DON GESUALDO
In Mastro-don Gesualdo il Verga narra le vicende di un ex muratore, che con la sua tenace laboriosità è riuscito ad arricchirsi. Non gli basta però la potenza economica, egli mira ad elevarsi socialmente e sposa Bianco Trao, una nobile decaduta che ha avuto una relazione amorosa col cugino Rubiera ed è stata da lui lasciata, perché la madre, la baronessa Rubiera, si è opposta al matrimonio riparatore. Il matrimonio con Bianca non porta a Mastro-don Gesualdo la sperata soddisfazione, perché, ora che è diventato 'don', si sente escluso non solo dalla plebe dalla quale proviene, ma anche dal mondo aristocratico, che lo considera un intruso e lo tratta con distacco. Egli porta nei due titoli che precedono il nome 'Mastro-don Gesualdo' il suo dramma: per la plebe è diventato un 'don', un signore quindi, e perciò appartiene a un altro mondo; per gli aristocratici rimane il 'mastro' di sempre, e quindi è un estraneo al loro mondo. Ma il dolore maggiore gli deriva dal non sentirsi amato né dalla moglie né dalla lia Isabella, che, d'altra parte, non è propriamente sua lia, ma è nata dalla relazione di Bianca con Ninì Rubiera. Egli, che ignorava tutto ciò, fa educare la lia in un collegio di nobili e la vizia accontentandola in tutti i desideri. Ma poi si scontra con lei quando Isabella si innamora del cugino Corrado La Gurna, e la fa sposare ad un nobile palermitano. Mastro-don Gesualdo, che nel frattempo ha perduto la moglie, è costretto a lasciare il paese in rivolta per i moti del '48; poi, essendosi ammalato di cancro, va ad abitare a Palermo nel palazzo della lia dove assiste allo scempio delle proprie ricchezze e muore solo e abbandonato da tutti. Sul piano sociale il romanzo rappresenta la borghesia in ascesa di nuova formazione, avida e ambiziosa simboleggiata da Mastro-don Gesualdo, e le vecchie aristocrazie in declino, simboleggiate dai Trao. Mastro-don Gesualdo è un uomo senza riposo, sempre attento a custodire i suoi beni e i suoi affari, morso dal cruccio interno della coscienza che ha del proprio fallimento famigliare e sociale. Il mito del progresso e dell'innalzamento delle nuove classi, tanto spesso sbandierato dalla cultura del positismo, è sottoposto ad una critica assai più radicale che nei Malavoglia, e tutto ciò mentre anche i privilegi e le tradizioni dell'ordine antico sono osservati con occhio lucido, senza alcuna indulgenza. Nel Mastro lo scrittore, pur mantenendo la sua fedeltà al metodo impersonale e obiettivo, è indotto dalla maggiore complessità dei temi e dal maggiore approfondimento psicologici dei personaggi a usare soluzioni di linguaggio meno audacemente innovative rispetto ai Malavoglia. La lingua è quella d'uso comune, ma non propriamente popolare.
I MALAVOGLIA
Le vicende si svolgono nei primi anni dell'unità d'Italia, tra il 1863 ed il 1876 ad Acitrezza. Prendono le mosse da una piccola speculazione commerciale che padron 'Ntoni intraprende per migliorare le condizioni della famiglia, aggravatasi quando il nipote 'Ntoni va a fare il soldato e viene meno il suo lavoro. Padron 'Ntoni acquista a credito dallo zio Crocifisso una partita di lupini, che Bastianazzo imbarca sulla 'Provvidenza' per andare a venderli. Durante il tragitto una tempesta provoca la perdita del carico di lupini e la morte di Bastianazzo. A questa seguono altre disgrazie: la morte di Luca nella battaglia di Lissa, la morte di Maruzza per il colera, la perdita della casa del Nespolo per l'insolvenza del debito e degli interessi, il traviamento di 'Ntoni, che, tornato cambiato dal servizio militare, non si adatta alla vita di stenti, si unisce a una comnia di contrabbandieri e ferisce con una coltellata il brigadiere don Michele, che lo ha sorpreso in flagrante con gli altri. Durante il processo l'avvocato imposta la difesa sostenendo l'attenuante dell'amore per 'Ntoni che sapeva di una relazione della sorella Lia con Don Michele. 'Ntoni è condannato a cinque anni di carcere e Lia, considerandosi colpevole verso il fratello scappa di casa e si perderà. Il disonore getta nella costernazione i Malavoglia: padron 'Ntoni, affranto, si ammala e muore all'ospedale. Intanto Alessi, che ha sposato la Nunziata, con la sua laboriosità riscatta la casa del Nespolo, dove torna ad abitare insieme alla sorella Mena la quale rifiuta di sposare Alfio, perché si sente anche lei disonorata per la perdizione di Lia. Nei Malavoglia si scontrano due concezioni della vita: la concezione di chi, come padron 'Ntoni si sente legato alla tradizione e riconosce la saggezza dei valori antichi come il culto della famiglia, il senso dell'onore, la dedizione al lavoro, la rassegnazione al proprio stato; e la concezione di chi, come il nipote 'Ntoni, si ribella all'immobilismo dell'ambiente in cui vive, ne rifiuta i valori ed aspira ad uscirne con il miraggio di una vita diversa. La simpatia latente del Verga è per padron 'Ntoni e per il nipote Alessi, che ne riproduce il carattere e ricostruisce il focolare domestico andato distrutto. Attorno alle vicende dei Malavoglia brulica la gente del paese che partecipa coralmente ad esse con commenti ora comprensivi e pietosi, ora ironici e maligni. Lo stesso Verga narratore sembra essere uno del posto che racconta e commenta col distacco impassibile del cronista, vale a dire di un anonimo narratore orale; da ciò nasce l'impressione di un Verga narratore camaleontico, che assume di volta in volta la maschera e l'opinione di tutti coloro che entrano in scena. Anche il paesaggio partecipa alla coralità della narrazione, ora quasi compiangendo, ora restando indifferente alla sorte degli uomini. Per quanto riguarda la lingua, il Verga accettò, per sua stessa confessione, l'ideale manzoniano di una lingua semplice, chiara, antiletteraria. Egli riuscì a creare una prosa parlata, fresca, viva, popolare, che riproduce, nella sintassi e nel lessico, il dialetto siciliano. Nei Malavoglia è rigorosamente applicato il canone dell'imparzialità e dell'obiettività. Nella prefazione al romanzo, Verga sottolinea come lo scrittore di fronte alla propria storia non abbia il diritto di giudicare, ma solo di tirarsi fuori dal campo della lotta per 'studiarla senza passione'. Nella pratica poetica quest'idea si traduce in una tecnica di grandissima originalità. Abbondano i discorsi indiretti liberi, cioè gli interventi dei personaggi non mediati attraverso la elaborazione del narratore. Anche le parti connettive del romanzo non lasciano mai trasparire la sovrapposizione dell'autore e sembrano uscire dalla bocca di un anonimo paesano, che sia come un portavoce dell'intera comunità di Acitrezza. Per rafforzare questo effetto Verga si avvale di un discorso indiretto tutte le volte che ha bisogno, nel descrivere fatti e luoghi, di far risuonare i modi tipici del linguaggio popolare e di identificarsi con il pensiero della gente del posto. Inoltre utilizza più di 150 proverbi che esprimono in modo pittoresco la mentalità dell'ambiente sociale rappresentato.
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