I più grandi
poeti che cantarono l'amore
L'amore è uno
dei sentimenti fondamentali dell'animo umano e da sempre ha ispirato
l'espressione artistica e letteraria. Ecco alcuni poeti che hanno saputo ben
rendere omaggio a questo sentimento senza età.
Dante alighieri - Nato a Firenze
da Alighiero
di Bellincione
e dalla sua prima moglie Bella
(forse degli Abati), sotto il
segno astronomico dei Gemelli (cfr. Par. XXIII
112-l17) fra il 21 maggio e il 21 giugno del 1265, Dante morì
a Ravenna,
dopo un esilio
quadrilustre, la notte fra il 13 e il 14 settembre 1321. Visse dunque 56 anni e
quattro mesi; età non breve, ma di fronte alla quale la sua multiforme
operosità poetica, letteraria, civile, per ampiezza e profondità di
interessi, per i raggiunti vertici dell'arte, appare senz'altro prodigiosa, se
si pensi che per la maggior parte essa va sicuramente collocata negli anni
fortunosi e travagliati dell'esilio,
e se ne consideri la complessa ricchezza di motivi ed esperienze diverse,
retoriche, cortesi, etico-politiche, nutrite di accese speculazioni dottrinali.
Per non parlare poi del capolavoro - quella Comedìa
saldamente maturata in una mirabile reductio ad unum di una vita
sofferta e vissuta - ch'è già di per sé stessa espressione
summatica e ineguagliabile della civiltà medievale, ma insieme per certi
aspetti partecipa di quel profondo rinnovamento culturale che col Petrarca
e col Boccaccio
fonderà il nuovo Umanesimo e aprirà le porte alla civiltà
moderna. Con i suoi primi biografi e i pochi documenti non invidiati dal tempo,
Dante stesso è fonte delle notizie sulle origini della sua stirpe (cfr. Par. XV-XVI).
Il suo trisavolo, Cacciaguida
lio di Adamo, era nato alla fine del secolo XI nella Firenze
della 'cerchia antica ' (Par. XV 97):
testimonia, con suo padre, in atti del 28 aprile 1131. Due suoi fratelli, Moronto ed
Eliseo, dettero origine a nobili casate fiorentine; prese in moglie
una donna nata presso il delta del Po ('val di Pado'), forse degli
Aldighieri di Ferrara,
che gli dette due li, Preitenitto e
Alighiero (vivo ancora nel 1201). Lasciata la casa paterna presso
l'odierna via degli Speziali, essi si trasferirono nel popolo di San Martino
del Vescovo (presso l'odierna via Dante Alighieri). E lì da Bellincione,
lio (con Bello) di Alighiero,
nacque, insieme a cinque fratelli, Alighiero II,
padre del poeta. L'antica nobiltà di sangue è attestata da Dante
medesimo (Cacciaguida,
armato cavaliere da Corrado II,
morì in Terrasanta nella Crociata del 1147), e confermata dalla
consorteria con gli Elisei, i Ravegnani, i Donati;
il poeta si compiacque di farla risalire ben in alto, leggendariamente
legandola alle origini romane della sua città. Antica nobiltà
cittadina, non ricca di terre e castelli nel contado (pochi e modesti i
possessi nei dintorni immediati di Firenze),
ma inserita piuttosto nella vita economica del Comune mercantile e artigianale.
Bellincione,
avo di Dante, prestò denaro in Firenze
e in Prato;
Alighiero II
continuò fino alla morte (avvenuta prima del 1283) l'attività
paterna. Questa attività di prestatore (che offrirà il destro al
'rinfaccio' di Forese Donati
nella sua tenzone
con Dante) non indorava certo il blasone familiare; e ci spiega come il poeta,
in tutte le sue opere, accenni rarissimamente ai congiunti. Non rilevante
l'importanza del casato anche entro la vita politica della Firenze
guelfa;
se Bellincione
e Brunetto
presero parte ai Consigli del Comune, il loro scarso peso politico è
provato (almeno per Bellincione
e Alighiero II,
che a noi soprattutto interessa) dal mancato esilio dopo la sconfitta di Montaperti.
Mancano infatti i loro nomi nelle liste dei danneggiati dai Ghibellini
fra il 1260 e il 1266; e solo Geri del
Bello, cugino del poeta, ebbe a dolersi al ritorno da Bologna
d'un danno parziale alla sua casa. Dante nacque così 'sovra '1 bel
fiume d'Arno a la gran villa' (Inf. XXIII 95):
in quella Firenze
ormai lontana dal quieto vivere cittadinesco rievocato nostalgicamente, qual
mito generatore di poesia, per bocca di Cacciaguida,
e tutta protesa verso una espansione territoriale ed economica considerata dal
poeta causa profonda e primaria delle discordie intestine che la travagliarono
(Par. XVI 49-78).
L'inserirsi della nobiltà feudale nella vita economica e politica
cittadina (man mano che la vivace espansione comunale piegava e costringeva ad
inurbarsi i feudatari finitimi) aveva infatti portato a forti contrasti di
interessi; nel 1216, dopo l'uccisione di Buondelmonte
de' Buondelmonti da parte degli Amidei
(Par. XVI 136-l47)
le famiglie magnatizie
si divisero così in due opposte fazioni, schierate l'una coi Guelfi
e l'altra coi Ghibellini,
mentre il popolo,
grasso e minuto, rimaneva all'inizio fuori della lotta. L'appoggio di Federico II
condusse i Ghibellini
(capeggiati dagli Uberti)
al potere nel 1248; ma la sua morte, cui seguì il crollo della parte
imperiale in Italia, consentì al Popolo
grasso, nell'ottobre 1250, di insorgere (mentre i Guelfi
erano ancora in esilio) e di impadronirsi del Comune. È il cosiddetto
'primo Popolo' o 'Popolo vecchio', che dura per dieci anni,
fino alla sconfitta delle forze comunali a Montaperti
(4 settembre 1260), ad opera dei fuorusciti Ghibellini,
dei Senesi, dei cavalieri teutonici di Manfredi:
''1 grande scempio Che fece l'Arbia colorata in rosso' (Inf. X 85-6).
Fu posta allora in gioco l'esistenza stessa della città, non rasa al
suolo dai vincitori solo per l'opposizione generosa, nella dieta d'Empoli,
di Farinata
degli Uberti, 'colui che la difese a viso aperto' (Inf. X 93),
ma che vide annullati i nuovi ordinamenti e le conquiste di parte democratica.
Il sangue versato a Montaperti
e le rappresaglie ghibelline
segnarono d'altronde il definitivo orientamento guelfo
del popolo e del Comune. Dopo la battaglia di Benevento
(26 febbraio 1266) ove Carlo
d'Angiò sgominava Manfredi
e il partito ghibellino,
Firenze
gravitò così sempre maggiormente entro la sfera d'influenza
angioina e papale, non senza fieri contrasti sociali dovuti alla politica
decisamente antimagnatizia del Comune guelfo
(soprattutto dopo il Priorato
delle Arti, 1282, e il 'secondo Popolo') e conflitti esterni, dovuti
al proseguire di una vigorosa azione di conquista. Questi gli avvenimenti,
gravidi degli sviluppi che alcuni anni più tardi lo vedranno non
più giovane spettatore ma deciso attore, entro i quali Dante visse
puerizia e giovinezza; e ne trasse avvìo alle future meditazioni.
Mortagli prestissimo la madre,
e risposatosi Alighiero
con Lapa
di Chiarissimo Cialuffi, ebbe l'infanzia almeno allietata dalla comnia d'una
sorella maggiore, presto sposa a Leone Poggi,
e poi da Francesco
e Tana
(Gaetana), fratelli di secondo letto. Dopo i primi precoci studi (come allora
usava) di grammatica e retorica, ecco i contatti, però non ancora
determinanti, con gli auctores latini, e i frequenti incontri con
l'ambiente culturale fiorentino che grandemente favorì nel giovinetto
una naturale, spontanea inclinazione alla poesia. In ordine di tempo e di
importanza, primo l'incontro con Brunetto
Latini, rientrato in Firenze
dall'esilio di Francia nel 1266 e ivi morto nel 1294 dopo aver ricoperto
cariche importanti (fra cui quella di Cancelliere
del Comune e, nel 1287, di Priore)
e aver 'digrossato' i fiorentini avviandoli e spronandoli con
documenti di sapienza retorica e di viver civile. Oggi più non si crede
ch'egli sia stato, in senso proprio, il 'maestro' di Dante: certo
però che, per ammissione dello stesso poeta, gli insegnò ad ogni
modo 'come l'uom s'etterna' (Inf. XV 85):
cioè come lascia durevole traccia di sé con le proprie opere letterarie
(ibid. 119-l20).
Tirocinio retorico e letterario, insomma, provato da numerosi imprestiti da
testi brunettiani presenti nel Dante maggiore e minore, latino e italiano, e
nell'ambito del quale vanno collocati quegli esercizi, condotti con piglio
quanto mai franco e sicuro, e a non grande distanza l'uno dall'altro, che sono
il Detto d'Amore
e il Fiore
(riduzioni in versi italiani del Roman de la Rose): che appunto si muovono nell'ambito
della tecnica retorica e della cultura di volgarizzatore cara al Latini (e sia
pure con una vivissima e schietta apertura verso la res iocosa)
e la cui attribuzione all'Alighieri, ancor oggi non condivisa in maniera
concorde dalla critica, può essere saldamente documentata attraverso una
rigorosa indagine di ordine stilistico, che misuri le qualità concrete
di quell'arte in rapporto agli altri rimatori, e che insieme riproponga su
nuove basi sia il problema cronologico sia la caratterizzazione stessa di quei
componimenti entro la biografia intellettuale dell'Alighieri e la sua
disponibilità, di volta in volta, a nuovi sperimentalismi (rifusi poi
tutti nel crogiolo del poema maggiore). Accanto alla 'imagine
paterna' di Brunetto,
si collocano i rimatori fiorentini che operavano nella scia della scuola
siciliana e di Guittone,
cerchia la cui produzione poetica è raccolta nel codice Vaticano 3793
(del sec. XIII), fratello gemello del Canzoniere prestilnovista ove Dante
compié i suoi giovanili esercizi di lettura. Ma su tutti, per l'importanza
degli influssi e quindi degli sviluppi concreti dell'arte dantesca, la poesia e
l'amicizia di Guido
Cavalcanti: il 'primo amico' cui Dante, raggiunta la
maggiore età (per lui orfano di padre rappresentata dai 18 anni) e
prossimo a prendere in moglie, attorno il 1285, Gemma Donati
(destinatagli già nel 1277) inviò il sonetto A
ciascun'alma presa e gentil core, dopo quasi due lustri
collocato in apertura alla Vita Nuova,
appunto a lui dedicata. La prima esperienza poetica dell'Alighieri si venne in
tal modo svolgendo entro schemi sicilianeggianti
e guittoniani
(corrispondenza con Dante da
Maiano) e poi subito cavalcantiani
(e alla graziosa levità di alcune ballate si affiancheranno allora
accenti di doloroso turbamento e di amore tormentoso, in nuove e più
drammatiche forme stilistiche); ma acquisterà poi uno spiccato carattere
di individualità, quando con le cosiddette 'rime di loda'
per Beatrice,
il poeta, con un colpo d'ala, saprà e vorrà staccarsi dai moduli
della poesia amorosa tradizionale, sviluppando appieno la lezione del Guinizzelli
e trascendendola, con la canzone Donne,ch'avete
intelletto d'amore, vero e proprio manifesto poetico delle
'nove rime' (cfr. Purg. XXIV 50-51).
Con esse davvero il poeta esce fuori 'de la volgare schiera' (Inf. II 105),
distinguendosi per nobiltà di ispirazione e magistero di stile dagli
altri rimatori in volgare. Sotto la spinta di nuove conquiste ideologiche e
pragmatiche, con le 'rime di
loda' Dante si fa adesso assertore di una poesia amorosa tutta
legata alla scoperta del valore
analogico della bellezza di Beatrice
donna quale mezzo di conoscenza metafisica del divino (posizione culturale che
nutrirà di sé plenariamente le linee maestre del Paradiso)
e insieme pienamente conscia della necessità di rinunciare (entro la
nozione letteraria e teologico filosofica dell'amore 'gratuito',
mediata da Cicerone
e dai trattatisti dell'amore dei secoli XII-XIII) ad ogni speranza e desiderio
di concreta remunerazione: un terreno sul quale avverrà lo scontro,
prima ideologico che letterario, con Guido
Cavalcanti, l'amico di un tempo (e ne conseguirà il distacco
sottolineato a Inf. X 58-63).
Tali nuove conquiste, indubbio frutto di nuove letture (alla morte di Beatrice
Portinari avvenuta l'8 giugno 1290 seguì, come il poeta
stesso ci dice, un periodo di studi severi)
particolarmente da Boezio,
Cicerone,
Agostino,
Aristotele
ed altri testi filosofici, sono dal poeta cristallizzate paradigmaticamente
nella sua Vita Nuova
che, attorno al 1293, raccoglie in una cornice prosastica (dunque un prosimetrum
sull'esempio del De Consolatione di Boezio
ma anche della originaria concezione del Tesoretto del Latini
e di alcune razos
provenzali) 31 componimenti composti fra il 1283 e il 1291, organizzati in una
trama fantastica e concettuale che vuol essere ripensamento, sul filo ideale
del 'libro della memoria', degli avvenimenti e dei momenti fondamentali
dell'amore per Beatrice,
dal primo incontro (avvenuto all'età di nove anni) alla 'mirabile
visione' (seguita alla sua morte) di quell'angiola giovanissima
contemplata in gloria; probabile primo germe, sia pure embrionale, di quella
che sarà, al tempo della Commedia,
la glorificazione di Beatrice
'nel trono che i suoi merti le sortiro' (Par. XXXI 69).
Come si è già accennato, alla morte di Beatrice
seguì un periodo di studi severi. Dante getta ora le basi di tutto il
suo mondo speculativo e pratico; accanto al poeta si plasma il robusto (anche
se eclettico) pensatore, quale apparirà nelle opere più complesse
dell'età matura. Boezio
e Cicerone
gli aprono un mondo nuovo; egli frequenta presso i Francescani e i Domenicani
'le scuole de li religiosi e le disputazioni de li filosofanti' (Convivio II xii 7).
Da questo arricchimento di pensiero e dall'incontro con testi e autori classici
e medievali basilari per la sua formazione (Virgilio,
Ovidio,
Lucano,
Stazio,
le opere d'Aristotele
- particolarmente l'Etica e la Politica - commentate da San Tommaso,
Alberto Magno,
San
Bonaventura, Averroè)
nascono le rime allegoriche in lode della Filosofia come scienza (Voi che
'ntendendo e Amor che ne
la mente mi ragiona) e quelle dottrinali, a celebrazione di due
virtù morali, Nobiltà e Leggiadria. Quest'ultime (Le dolci rime
e Poscia
ch'Amor) per il reciso giudicare su idee e modi di vivere
correnti, mostrano non solo (come le precedenti) il dilatarsi d'una cultura e
di una problematica, riflessa in temi nuovi (con la rinuncia a poetare unicamente
d'amore); ma sono il chiaro frutto della quotidiana, risentita esperienza
(vòlta in meditazione) di come i pregiudizi di casta fossero alla base
delle violenze magnatizie
(un tema che affiorerà, con Filippo
Argenti, nel canto VIII
dell'Inferno); e ci dicono l'avvenuta concreta adesione agli
ideali democratici del Comune guelfo,
alla cui vita Dante veniva sempre più partecipando. Dopo la giovanile,
guerresca veglia d'armi della battaglia di Campaldino
(11 giugno 1289), a cui Dante prese parte quale 'feditore'
a cavallo, e le operazioni militari di due mesi più tarde
contro il castello pisano di Caprona
(cfr. Inf. XXI 95;
XXII 4-6;
Purg. V 92),
la riforma degli Ordinamenti
di Giustizia di Giano della
Bella (6 luglio 1295) e la concessione ai nobili di partecipare alle
cariche pubbliche purché aderissero, anche nominalmente, ad una delle Arti
e non fossero Cavalieri,
consentirono infatti a Dante, iscrittosi all'Arte
dei Medici e degli Speziali (per gli studi
filosofici che seguiva) di iniziar la sua vita politica: lo troviamo
nel Consiglio
speciale del Capitano del Popolo a partire dal semestre novembre
1295 - aprile 1296. In
questo primo incontro con la vita pubblica egli non fu però molto
attivo: non prese mai la parola. Altri, in quel torno di tempo, i suoi
problemi, e d'ordine squisitamente letterario: del dicembre 1296 è la
prima delle quattro 'petrose'
(Io son venuto
al punto de la rota) scritte per una donna, 'Pietra',
che duramente si nega all'amore del poeta, rime che non vanno più
considerate (come un tempo) testimonianza d'una ardente passione dei sensi, ma
come il consapevole inizio d'una più matura stagione di poesia, d'una
nuova esperienza stilistica e metrica (modulata su le difficili orme di Arnaut
Daniel), lontana ormai dalla giovanile poetica dello Stil Nuovo
e aperta, nel forte vocabolario e nell'ampiezza e robustezza dell'invenzione,
verso le ardue virtuosità stilistiche del poema maggiore. Ma gli eventi
storici che dal 1295 (anno dell'elezione di Bonifacio
VIII al pontificato) condizionarono sempre più la vita
fiorentina, tolsero ben presto Dante alla poesia per farne uno dei maggiori
responsabili delle vicende cittadine. Riaffermate le istanze integraliste e
teocratiche del papato, Bonifacio
si inserì abilmente nel giuoco di accese rivalità della politica
interna di Firenze,
sfociata in aperta lotta tra le fazioni cittadine, dei Guelfi
Neri
(capeggiati dai Donati,
di ascendenza magnatizia)
e dei Guelfi
Bianchi,
più moderati (capeggiati dai Cerchi,
famiglia di banchieri e mercanti). Quando il Popolo volle richiamare in Firenze
Giano della
Bella, i Grandi
ricorsero al papa, che a tale richiamo si oppose con la bolla del 23 gennaio 1296. L'ingerenza papale si
fece poi sempre più pesante, sia in occasione della 'Crociata'
contro i Colonna
(1298) sia in occasione dell'arbitrato
tra Bologna
e Ferrara.
L'appoggiarsi dei Donati
al pontefice tramutò quella ch'era fino a quel momento lotta intestina
di parti in un conflitto di poteri tra il Comune e il papato, ben presto
drammatico quando fu palese che i Neri
si erano accordati segretamente con la corte di Roma. La Signoria
di parte Bianca
colpì allora duramente i traditori, esiliandoli nonostante la fiera
opposizione del papa. Il quale per suo conto, forte della vacanza imperiale e
della dottrina della plenitudo
potestatis, mirava al predominio sull'Italia centrale. La
posizione dantesca in questi avvenimenti è chiarissima, pur in mancanza
di documenti ufficiali esaurienti: egli sostiene una politica di assoluta
indipendenza e autonomia comunale, come appare dagli incarichi sempre
più importanti che adesso consegue. Ambasciatore il 7 maggio 1300 a San Gimignano
per consolidare i legami degli associati alla Taglia Guelfa,
fu eletto tra i Priori
dal 15 giugno al 14 agosto 1300: evidente coronamento, d'una precisa visione
politica. Anche nel Consiglio dei
Cento (in previsione dello scontro diretto) egli si adoperò
il 14 aprile, il 19 giugno e il 13 settembre 1301 perché fossero richiamate le
truppe messe in precedenza a disposizione del pontefice. Dopo la sua elezione a
Priore,
egli divenne il capo riconosciuto dei, Bianchi
più decisi ad opporsi a Bonifacio
VIII e agli Angioini; ma le sue proposte di resistenza non piacquero
alla maggioranza, che ancora sperava nel compromesso. Quando Carlo di
Valois, fratello di Filippo il
Bello, era alle porte di Firenze
(inviato da Bonifacio
quale paciere, ma con lo scopo segreto di favorire i Donati),
e il 4 ottobre 1301, giunto a Castel della
Pieve, si univa ai Neri
là confinati, la Signoria
preferì mandare ambasciatori al papa. Tra essi fu l'Alighieri, che pure
aveva propugnato ben diversa politica. Partito nella seconda metà
d'ottobre, non doveva più rientrare in Firenze.
Entrato il 1° novembre Carlo di
Valois, il 4, alla spicciolata, tornarono i più facinorosi
fra i Neri;
e iniziarono così i processi contro i Bianchi,
accusati di ghibellinismo
e di frodi nell'amministrazione della cosa pubblica. Il 27 gennaio 1302 Cante Gabrielli da Gubbio,
podestà
nominato dai Neri,
condannava Dante (solo colpevole d'essersi opposto alle mire del pontefice) a
are 5000 fiorini e a restare due anni fuori di Toscana; il 10 marzo, non
essendosi egli presentato a are, fu pronunciata la sua condanna a morte.
Dante era in quel mentre sulla via del ritorno da Roma. Si unì allora
agli altri esuli (Bianchi
e Ghibellini)
che, muovendo dalle terre mugellane di Ugolino Ubaldini,
tentavano di rientrare in città con le armi. L'8 giugno 1302, è
tra i firmatari, a San Godenzo,
di un impegno a risarcire gli ospiti per i danni derivanti dalla guerra. Nel
1303, per procacciare alleati, si reca a Forlì
presso gli Ordelaffi e a Verona
presso Bartolomeo
della Scala. Morto nell'ottobre di quell'anno Bonifacio,
nel cuore degli esuli, concentrati nell'Aretino, risorge la speranza. Benedetto XI
manda nel marzo 1304 a
Firenze,
quale paciaro, il Cardinale
Niccolò da Prato. Ma le trattative (documentate anche da una Epistola
dantesca al Cardinale) naufragarono per l'intransigenza dei Neri.
Si venne ancora alle armi; e dopo la infausta giornata della Lastra
(20 luglio 1304) naufragarono definitivamente i sogni di una imminente
rivincita. In quei giorni Dante aveva però già 'fatta
parte per se stesso' (Par. XVII 69),
dopo forti contrasti (ibid. )
sulla politica da adottare. L'amor di patria era in lui più forte che
l'amor di parte: sono i sentimenti che emergono sia dalla già citata Epistola I,
sia dal Congedo della grande Canzone dell'esilio,
Tre donne
intorno al cor (1304), ispirata tutta all'amore per la Giustizia e al desiderio
di conciliazione; e che animeranno la poesia dell'episodio di Farinata
(Inf. X).
Staccatosi dalla 'parte
selvaggia', Dante è veramente esule e solo, costretto ad
andare povero e ramingo per quasi tutte le parti d'Italia (Convivio I III).
Poche le notizie certe delle sue peregrinazioni. Fra il 1304 e il 1306 lo
accolse Bologna,
città propizia agli studi e che già gli aveva offerto in
gioventù materia al poetare; lì furono probabilmente disegnate e
in parte composte due opere dense di dottrina, che mostrano una fervida ripresa
di studi
filosofici e retorici e un ulteriore allargarsi di prospettive
letterarie, culturali, civili e politiche: il Convivio
e il De vulgari
Eloquentia. Dante vuole con esse innalzare la sua fama di
studioso, al fine di ottenere la revoca della condanna: un'altra delle sue
illusioni di poeta. La nostalgia della patria lontana, la speranza del ritorno,
animano infatti con accenti commossi entrambi i trattati, anche se Dante si
proclama con nobili accenti cittadino del mondo. Rimaste interrotte le due
opere sia per l'espulsione degli esuli da Bologna
(1306) sia per l'incalzare d'un nuovo e più vasto disegno che in effetti
le trascendeva, quello del poema maggiore, Dante riprende il suo peregrinare.
Poche le notizie certe: il 6 ottobre 1306 stipula a Sarzana
la pace tra Franceschino Malaspina
e il Vescovo di Luni;
nel 1308 è probabilmente a Lucca; indi,
dal Casentino,
invia a Moroello
Malaspina la Canzone Amor, da che
convien, con una Epistola
dichiarativa (IV).
Lì dovette giungergli notizia dell'elezione di Arrigo VII
al trono imperiale (1308): fatto capitale, per chi s'era ormai convinto (cfr.
il trattato IV
del Convivio) che solo la vacanza dell'Impero aveva
consentito il prevalere dell'integralismo pontificio e provocato quindi la
catastrofe di parte Bianca
e il tragico disordine sociale e civile di quegli anni. Esulta pertanto il
cuore dell'Esule (Epistola V,
del 1310) quando Clemente V
accetta di incoronare in Roma
il Cesare eletto; e le due successive epistole politiche, del 1311 (VI,
ai
Fiorentini di dentro; VII
all'Imperatore)
sono chiaro documento dell'animo di chi anela a rimuovere ogni ostacolo a la
discesa d'Arrigo
e ad affrettare i tempi d'una desiderata, necessaria pacificazione. Per aver
fiancheggiato la parte imperiale, Dante sarà così escluso
dall'amnistia concessa da Firenze
(nella imminenza dell'assedio d'Arrigo)
ai fuorusciti: ma per suprema reverenza verso la patria che pur gli era stata
noverca, egli non partecipò direttamente alle operazioni militari:
manca, infatti, il suo nome nella rinnovata sentenza di condanna emanata dal
Comune nel marzo 1313. La sua azione si era invece, e assai più
validamente, svolta sul piano teorico, nel trattato latino in tre libri
intitolato alla Monarchia:
probabilmente composto all'atto della discesa di Arrigo
e vòlto a mostrare la necessità della monarchia pel benessere
del mondo nonché l'indipendenza dell'Imperatore dal Pontefice. Morto Arrigo
a Buonconvento
(24 agosto 1313), tramontarono definitivamente i sogni e le speranze del
poeta, che dopo aver soggiornato qualche tempo in Toscana (forse presso Uguccione
della Faggiuola, signore di Lucca)
tornò verso il 1316 nell'Italia del Nord, a Verona,
ove Cangrande,
vigoroso e impetuoso Vicario imperiale, veniva realizzando il suo audace
disegno di un potente stato ghibellino.
A questi anni risalgono le tre ultime Epistole a noi note, la XI
(ai Cardinali
italiani raccolti in Conclave dopo la morte di Clemente: giugno
1314), la XII
(a un Amico
fiorentino, per rifiutare una amnistia a condizioni umilianti:
maggio 1315) e la XIII,
con la quale, nel 1316, egli dedica a Cangrande
la cantica del Paradiso,
appena iniziata, e ne offre un saggio di commento, assieme a un
importantissimo inquadramento generale dei significati e del fine della Commedia.
Lasciata Verona
verso il 1318, Dante trascorre a Ravenna,
attorniato dai li Pietro,
Jacopo
e Antonia
e da pochi, fedeli amici, l'ultimo periodo della sua vita. La calda
ospitalità di Guido da
Polenta allevia le cure familiari; e lì egli conduce a compimento
l'opera sua maggiore, la Divina
Commedia, iniziata attorno al 1308 come un vasto e possente
affresco che traducesse e rappresentasse in immagini poetiche le avventure
più segrete dell'animo suo, i suoi dolori e le sue speranze, gli odi
violenti e tenaci ma anche le amorose e fiduciose, anzi incrollabili certezze
di poeta e di credente, e insieme riaffermasse in modo esemplarmente valido
per ogni tempo, attraverso un continuo giudicare sugli uomini e sulle cose
umane di quegli anni, una ben precisa concezione morale e politica del mondo,
dei fini e dei doveri dell'umanità tutta, entro e in rapporto al
duplice ordine della Natura e della Grazia. Le prime due cantiche del poema
erano già compiute entro il 1316, il Paradiso
sarà invece pubblicato dai lioli, Pietro
e Jacopo,
nel 1322. Una breve ulteriore permanenza a Verona
è testimoniata dalla Questio de
Aqua et Terra, del gennaio 1320, disputa scolastica su un
argomento caro alla cultura accademica (se l'acqua in qualche sua parte possa
essere più alta della terra emersa: tema risolto negativamente), ma
anche chiaramente legato alla concezione cosmologica e urativa
dell'universo tolemaico ch'è alla base del poema. A Ravenna
furono composte due Egloghe
responsive (in latino) a Giovanni del
Virgilio, che lo aveva esortato a comporre un poema in versi latini
di materia storica, e lo invitava a Bologna
promettendogli l'alloro poetico. Inviato da Guido da
Polenta ambasciatore a Venezia,
per dirimere una pericolosa controversia con la potente vicina, e còlto
sulla via del ritorno da febbri malariche, il poeta, che aveva da poco
terminato la cantica del Paradiso,
moriva la notte fra il 13-l4 settembre 1321.
Francesco petrarca
- nato ad Arezzo nel 1304, lio di un
notaio fiorentino esiliato per motivi politici, fin da piccolo Francesco
Petrarca fu costretto a seguire i lunghi spostamenti del padre, che lo
portarono prima in altre città toscane e poi ad Avignone, in Francia,
dove all'epoca si era trasferito il Papato. Il suo primo maestro fu il dotto
Convenevole di Prato, al cui magistero seguirono gli studi giuridici, presto
oscurati dalla passione per i classici greci e latini. Dopo la morte della
madre, Eletta Cangiani, Francesco ritorna ad Avignone, dove decide di prendere
gli ordini minori, a differenza di suo fratello Gherardo che voterà
invece la sua esistenza al sacerdozio, nel monastero di Montrieux. Nel 1330, il
poeta entra al servizio del Cardinale Giovanni Colonna, ma risulta che
già fosse stato stipendiato da Giacomo, fratello del porporato. I
rapporti con il Cardinale non furono facili, nonostante Petrarca godesse nella
casa di prestigio e libertà. Giovanni volle sempre mantenere un ruolo di
dominus, atteggiamento ben diverso da quello mostrato da Giacomo,
coetaneo, comno di studi ed intimo amico del poeta. La situazione
precipitò quando Francesco non nascose il suo sostegno nei confronti
della rivoluzione antinobiliare di Cola di Rienzo, indirizzata anche contro la
famiglia Colonna; perciò quando da Parma alla fine del luglio del 1348
giunse notizia della morte del Cardinale, fu solo il triste epilogo di un
rapporto nei fatti già compromesso, vivo solo sotto un aspetto formale.
Il periodo 1347-l348 fu in realtà
un periodo costellato di eventi funesti. Dopo la ssa di Giovanni Colonna
lo raggiunse la morte di Laura, stroncata dalla peste ad Avignone nel luglio
del 1348. Quando ne ebbe notizia Petrarca si trovava a Verona. Di ritorno dalla
Provenza in autunno aveva scelto come dimora la casa di Parma, città
dalla quale di sovente si spostava per recarsi in Veneto e in Emilia. Il tempo
aveva quasi completamente cancellato la sua passione per Laura, una ura
ormai viva solo in metaforizzazioni simboliche, estranea al desiderio ma
già presenza immortale nelle sue rime giovanili. L'erotismo, giunto
all'immaginario poetico, riempiva l'universo ideologico e concettuale del
poeta. È difficile stabilire quanto questi eventi abbiano inciso
sull'animo di Francesco, ma essi ebbero una forte valenza simbolica, di
frattura e di passaggio da una stagione all'altra della vita, che lo indussero
a comprendere di essere giunto a un momento esistenziale decisivo.
Viaggi ed
esperienze non erano certamente mancati in una vita in alcuni casi dispersiva,
con fughe, ribellioni e prese di posizione sostenute, però, con poca
convinzione, visto il perdurare di due punti di riferimento: Avignone e la
famiglia Colonna.
Nei confronti
della città francese, Petrarca nutriva una assoluta indifferenza,
trasformatasi successivamente in odio, per il luogo ed per il tipo di vita al
quale lo costringeva il potere politico espresso dalla curia papale. Avignone,
però, e di questo Francesco era consapevole, aveva influito fortemente
sulla sua formazione come luogo di scambio politico e culturale, in un secolo
denso di eventi. L'arrivo, presso il papato di scrittori e dotti provenienti da
tutta Europa favoriva il confronto e il dibattito, unitamente alla conoscenza
che si accumulava nelle numerose biblioteche private e al fiorente mercato
letterario. Tutti elementi fondamentali per la formazione di Francesco,
intellettuale lontano dalla scuola e dalle università, orientato a un
apprendimento basato sull'interscambio personale, all'interno di circoli selezionati,
e nel contatto fisico con i libri.
I Colonna,
nonostante essere al loro servizio gli fosse pesato, furono per Francesco
ugualmente importanti, dato che solo per loro tramite gli si aprirono diverse
possibilità. L'influenza della famiglia in Francia ed in Italia era
fondata su una una fitta rete di relazioni che permisero al poeta di accedere
ai luoghi dove la ricerca storica e filologica prosperava, spalancandogli le
porte di biblioteche e ambienti altrimenti inaccessibili, per venire in possesso
di volumi rari e costosi. La stessa incoronazione sul Campidoglio di Roma
nell'aprile del 1341 fu promossa dai Colonna, con un'azione prima sotterranea e
poi di palese supporto. Fu quello il momento decisivo per la consacrazione di
Francesco Petrarca nell'olimpo dei letterati più importanti e famosi
d'Europa. Anche la scoperta della città eterna si lega ai Colonna:
l'essere stato accolto sotto l'ala protettrice della famiglia gli permise di
vivere a fondo l'esperienza romana, conoscere la città, sentirsi cittadino
di quella patria ideale vagheggiata in gioventù.
Alla morte del
Cardinale, nulla più lo tratteneva ad Avignone, così non aveva
impedimento alcuno a trasferirsi in Italia, ma una scelta di quel tipo avrebbe
comportato profondi rivolgimenti con l'assunzione di nuovi punti di
riferimento, ambientali, sociali e politici. In Italia molti avevano espresso
il desiderio di ospitarlo, cosicché qualsiasi scelta doveva, per forza di cose,
essere accuratamente motivata, con la conseguenza di una nuova empasse che
durò alcuni anni.
Il mito poetico di
Laura aveva oramai esaurito le sue espansioni e metaforizzazioni simboliche,
riducendosi alla riproduzione, tra revisioni ed accorgimenti, di racconti ed
immagini. Solo un evento esterno avrebbe potuto imprimere una svolta
rivitalizzante; così la ssa di Laura, forse dolorosa per l'amante,
stimolò invece forti suggestioni simboliche per il poeta, costretto ora
a cercare nuove vie o, perlomeno, a ripercorrere, in altro modo, quelle
già conosciute. Francesco aveva perduto il suo universo ed ora,
angosciato, cercava il futuro della propria poesia, sospesa tra la
volontà di un ritorno ad un rassicurante passato ed un'incerta
prospettiva ventura. La scelta fu di natura intimistica: il poeta decise di
raccogliere la sua produzione, ordinarla e ad essa affidare l'immagine di sé.
Viaggiatore
irrequieto, Petrarca sarà protagonista di numerosi spostamenti tra il
1347 ed il 1351, che toccheranno città come Parma, Verona, Padova,
Mantova, piccoli centri come Carpi e Ferrara. Grande rilevanza avrà il
suo viaggio a Roma nel 1350
in occasione del Giubileo. Durante questo viaggio, il
poeta fece tappa a Firenze ed anche ad Arezzo, circostanze che potrebbero
collegarsi ad un desiderio di ritornare alle proprie radici. Né la città
dei suoi avi né quella natale suscitarono tuttavia in lui particolari emozioni.
Gli unici avvenimenti interessanti furono l'incontro con Lapo di Castiglionchio
il Vecchio e la conoscenza di Giovanni Boccaccio, il quale
diventerà il suo più importante amico. Il vero ritorno alle
origini fu il viaggio a Roma, città sempre in grado di suscitargli
grandi entusiasmi, ma assolutamente cambiata rispetto agli anni della gloriosa
incoronazione in Campidoglio, tanto da indurre Francesco ad accettare nel 1351
l'invito di Clemente VI a tornare ad Avignone.
La Provenza ospitò Petrarca per
altri due anni, un periodo di intenso lavoro, nei quali trovò una nuova
vena artistica, ma proprio allora, improvvisa, maturò la decisione di
rientrare in Italia. Lasciata la terra di Francia nel 1353, dove non avrebbe
mai più fatto ritorno, obbedendo al suo spirito irrequieto e curioso,
scelse come dimora Milano, una città sconosciuta, dove la sua natura di
uomo senza radici poteva ritrovare nuovo vigore.
Fu però a
Valchiusa che nacque in Petrarca l'idea di raccogliere, con un criterio
ordinatore e di ampliamento, le rime sparse, sottoposte fino agli ultimi anni
di vita a un'intensa attività di edizione e di riorganizzazione, che
testimonia il suo genuino interesse per la poesia in volgare.
Il cambiamento
introdotto da Petrarca si basa fondamentalmente sull'imposizione di regole,
disciplina, ordine alla poetica contemporanea, come avveniva nel Duecento,
tesaurizzando e ampliando le potenzialità della lingua poetica toscana
che Dante aveva messo in evidenza. Saranno una serie di esclusioni a
caratterizzare questo nuovo modello che tanto influenzerà i rimatori a
venire; generi, temi e lingua non dovranno mai andare oltre uno specifico
canone letterario, duttile, armonico e scevro dalle accidentalità del
parlato. La produzione originale sarebbe andata negli anni man mano scemando,
lasciando il posto ad un certosino lavoro di cesura e ordinamento, foriero
anche su questo terreno di epocali novità in quanto la
frammentarietà, tipica fino ad allora del componimento poetico, veniva
abbandonata per creare, attraverso le singole liriche, momenti intimi tra loro
collegati in un disegno complessivo morale, introspettivo e personale, a testimonianza
della propria esperienza di uomo, amante e poeta. Francesco, però,
avrà sempre presente l'originaria frammentarietà delle rime,
definendole sparse o fragmenta, pur consapevole
dell'organicità del proprio lavoro.
Nella redazione
definitiva il Canzoniere sarà formato da 366
rime, di cui 317 sonetti, 29 canzoni, 9 sestine, 7 ballate e 4 madrigali.
L'innamoramento e la morte di Laura giustificano la divisione dell'opera in due
parti, in vita e in morte di Madonna Laura. La prima parte è
segnata da un grande numero di rime legate alla vicenda d'amore e si conclude
con un elogio di Laura, simbolicamente rafurata attraverso l'alloro, Arbor
Victoriosa, triumfale, 263, esaltata anche per virtù e
castità. La seconda è aperta da una canzone che osserva l'errore
dell'infatuazione, I'vo pensando et nel penser m'assale, 264, a causa della quale
Francesco ha creduto, sbagliando, in un bene fatuo. È il senso voluto
imprimere da Francesco all'ordine delle sue rime a caratterizzarne la
specificità come risultato di una complessa elaborazione, con
spostamenti di collocazione dettati dagli scopi senza tenere conto della data
di composizione, ma rispondenti all'ideale sviluppo che quei frammenti dovevano
delineare, anche, se necessario, attraverso la composizione, di rime atte a
colmare i vuoti di quel disegno. La costruzione di una sorta di romanzo della
propria vita e del proprio amore, nel quale gli avvenimenti risiedessero nelle
sfumate allusioni, nascoste o visibili nelle sue rime, sempre seguendo quel
disegno specifico maturato negli anni della riflessione, il periodo compreso
tra il 1332 e il 1348: questa è l'intenzione sottesa alla creazione da
parte di Francesco Petrarca del Canzoniere.
Un medesimo
criterio organico lo ritroveremo anche nelle opere in latino che il poeta stava
componendo in quello stesso periodo, opere erudite, ispirate dalla conoscenza
di testi storici e morali degli antichi, una sorta di riproposizione del modello
cristiano e letterario delle raccolte di exempla, risalenti esse stesse
a Valerio Massimo e Svetonio autori di raccolte e biografie di personaggi
illustri. Il De viris illustribus, destinato a delineare il profilo di
uomini politici e guerrieri, come Romolo e Catone, e di personaggi biblici,
quali Abramo, Mosé ed Ercole, è l'opera nella quale il segno della nuova
tendenza di Petrarca è più forte, imprimendo nel suo percorso
culturale lo spostamento dai temi giuridici e teologici ad argomenti storici e
morali atti a scandagliare la storia e la conoscenza dell'uomo. I Rerum
memorandum libri, raccolta di aneddoti, vicina al modello di Valerio
Massimo, va anch'essa in questa direzione con una particolare attenzione
all'esempio morale come guida indispensabile per l'uomo. L'interesse storico si
esprime invece nel poema in esametri Africa, voluto per celebrare la
grandezza e la gloria di Roma, ma interrotto al IX libro. L'opera doveva
avvicinarsi al modello classico della poesia, mescolando, memore dell'insegnamento
virgiliano, motivi epici e sentimentali, intrecciando le gesta di Scipione,
liberatore della città eterna, con la tragica vicenda amorosa di
Massinissa e Sofonisba.
Gli onori e la
persistente passione amorosa diverranno per Francesco uno stimolo ad interrogarsi
sulla sua esistenza terrena, minacciata dall'allontanarsi dalla prospettiva
eterna, dettata dalla cristianità. Francesco indagò la
contrapposizione tra la vita contemplativa e quella mondana, allora per lui
prevalente, giungendo ad una profonda introspezione dell'esistenza, divisa tra
la gioia e la paura della morte, temi analizzati nel Secretum, dialogo
in tre libri sulla conflittualità dei suoi sentimenti, i cui
interlocutori sono Sant'Agostino e Francesco, il poeta incapace di sradicare il
male dalla sua anima, pur conoscendone l'origine. Il Secretum è
un dialogo interiore alla presenza della verità, dove il ruolo di
maestro e guida spirituale è riservato ad Agostino, il quale rappresenta
anche la coscienza stessa del poeta che, appellandosi alle Sacre Scritture
ed ai testi morali degli antichi, osserva la vera natura del male, insito nella
volontà, ma dovuto, secondo Francesco, alla fragile natura umana sempre
in balia della fatalità e del destino che le è riservato. Il
primo libro osserva gli ostacoli frapposti inconsapevolmente dall'uomo stesso
sulla strada della propria salvezza. Il secondo libro analizza, canonicamente,
i vizi capitali, puntando l'attenzione sull'acedia-la latina aegritudo-,
l'accidia, quella condizione angosciosa causata all'uomo dal terrore della
morte. Nel terzo libro il significato di amore e gloria come beni eterni o
tramiti verso la perfezione morale e l'immortalità viene confutata,
sgombrando l'animo di Francesco dalla fede in questa effimera illusione. La
contrapposizione tra la vita contemplativa ed il materialismo esistenziale
diventa nelle ultime ine del Secretum un problema di natura culturale
e letteraria, con Francesco che si chiede se sia ancora possibile per lui
occuparsi di scrittori ani, o metterli da parte, intensificando il suo
rivolgersi al Creatore. Petrarca confessa così la volontà di
completare gli studi eruditi, sebbene consapevole del loro limite e del suo
desiderio di santità. L'amore per i classici è per Francesco una
scelta culturale ed esistenziale, universo cui è necessaria la
contemplazione dovuta alla religione: la solitudine diventa l'impegno morale
del laico che, dedito durante la giornata a nobili occupazioni, studia, conosce
se stesso e quale ruolo gli è riservato nel mondo.
Il De vita solitaria,
composto a Valchiusa nel 1346-l347, mostra questa vita ideale, affiancandosi, e
non contrapponendosi, alla contemplazione dell'esistenza ascetica e monastica.
Il De ocio religioso, un trattato sulla vita ascetica, scaturito da una
visita al caro fratello Gherardo a Montrieux, è la consacrazione della
felicità monastica, condizione privilegiata per la tradizione cristiana.
Francesco pare anelarla quale risoluzione degli affanni, delle paure, dei
dolori e delle insicurezze dell'umanità.
Durante la difficile
e complessa rielaborazione delle rime sparse, Francesco concepì anche i Trionfi,
un poema in volgare intriso della sua riflessione ideologica, presentata sotto
forma di narrazione simbolica. Il titolo è ispirato dalle spettacolari e
successive rappresentazioni, cui il poeta immagina di assistere come in una
visione significativa sul vero senso della vita. Le parti del poema- composto
di terzine come la Commedia
dantesca- sono sei, derivanti dal modello del sommo poeta anche per
l'alternarsi di personaggi e situazioni esemplari, illustrate da una guida che
accomna Francesco in questo viaggio immaginario. L'impianto è invece
petrarchesco per quanto concerne la disposizione delle parti, risalenti ai temi
della meditazione del poeta operata nei Rerum vulgarium Fragmenta e nel Secretum.
Francesco protrarrà la composizione dei Trionfi fino agli ultimi
anni della sua vita, conclusasi il 19 luglio del 1374 ad Arquà, sui
Colli Euganei, dove si era trasferito dal 1370 dopo che Francesco di Carrara
gli aveva donato un terreno.
ura
prestigiosa, già quando era in vita, Petrarca ha influenzato gli
intellettuali di ogni epoca, diventando il primo fulgido esempio di una nuova,
autonoma ed apprezzata professionalità, quella del dotto finalmente
abile a districarsi tra le asprezze della politica e gli incanti del metro
poetico, segnando quel passaggio epocale che ha donato all'uomo di lettere la
giusta dignità, tante volte negatagli in passato a causa di pregiudizi
antichi e senza fondamento.
Umberto saba - ran
due razze di un'antica tenzone» i genitori di Umberto Saba, nato nella Trieste
di Svevo e Slataper il 9 marzo 1883, da un
matrimonio non felice tra la madre Felicita Rachele Cohen ed il padre, Ugo
Edoardo Poli. Lei, appartenente ad una famiglia ebraica di piccoli commercianti
e tradizionalmente legata agli affari e alle pratiche religiose; lui, giovane
«gaio e leggero» discendente da una famiglia della nobiltà veneziana, abbandonò
la vita coniugale prima ancora che il lio nascesse. Grazie al padre tuttavia
Saba ottenne la cittadinanza italiana (pur essendo nato nella Trieste che
apparteneva allora all'impero austro-ungarico).
Ben presto il bambino venne messo a
balia presso una contadina slovena di nome Peppa Sabaz, che, avendo perso il
proprio lio, riversa sul piccolo Umberto tutto il suo affetto e la sua
tenerezza. A lei Saba resterà profondamente legato lungo tutto il corso
della sua vita, tanto che, il rifiuto del cognome paterno si risolverà
in un omaggio alla madre naturale ed alla nutrice slovena (che si chiamava
Sabaz, mentre "saba" in ebraico significa pane).
Trascorre grave la sua infanzia non
felice: privo della ura paterna e diviso nel suo amore tra la madre adottiva
ed una madre naturale austera e severa; emozioni che risuoneranno presto nella
preziosa malinconia della raccolta Il piccolo Berto.
Demotivato dagli scarsi profitti
scolastici, abbandona gli studi e trova un impiego presso una ditta triestina,
continuando a costruirsi una discreta formazione culturale e letteraria da
autodidatta. Invano la madre tenterà di contrastare il suo amore per Leopardi, instradandolo verso la letteratura
pariniana, ritenuta più costruttiva al fine di combattere la sua
tendenza troppo pessimistica. Il poeta dell'Infinito resterà
molto presente nella sua formazione, insieme a Dante e Petrarca, Ariosto e Tasso,
Foscolo e Manzoni ed i contemporanei Pascoli
e D'Annunzio (di cui guarda con maggiore
attenzione il testo intimistico e precrepuscolare del Poema paradisiaco).
Da questo momento in poi, ancor più
che precedentemente la letteratura e la poesia saranno destinate a divenire la
sua sola forma di compensazione e di sfogo (le Poesie dell'adolescenza e
giovanili risalgono agli anni tra il 1900 e il 1907).
Fra il 1905 ed il 1906 frequenta la Firenze impegnata nella
battaglia di rinnovamento avviata dai giovani intellettuali pur non restandone
coinvolto.
Particolarmente difficili
risulteranno i suoi rapporti con la «Voce» che rifiuterà di pubblicare
il suo saggio Quel che resta da fare ai poeti e con Slataper che
stronca la sua prima raccolta di versi.
E' il prezzo da are per la sua
collocazione di intellettuale periferico, aperto più ad una cultura
mitteleuropea che verso quella nazionale talvolta troppo superficiale (stessa
sorte aveva subito il concittadino Svevo).
Scarso interesse gli verrà
riservato anche da parte della critica (tranne il numero unico di «Solaria» del
1928 dedicato a Saba con i saggi di Solmi, Montale e Debenedetti).
Nel frattempo l'esperienza militare
del servizio di leva a Salerno (1907-l908) gli offre ulteriori spunti poetici
che porteranno alla creazione di Versi militari, mentre il matrimonio
con Carolina Woelfer (Lina) e la nascita della lia Linuccia incideranno
profondamente nella sua poesia successiva. Da Montebello, alla periferia di
Trieste scrive le poesie di Casa e camna (1909-l910) e Trieste e
una donna (1910-l912). A queste seguiranno nell'1911 la prima raccolta
delle Poesie e l'anno seguente Con i miei occhi.
Dopo la sua partecipazione al
conflitto mondiale (di cui lascerà una testimonianza in Poesie scritte
durante la guerra) Saba riesce a conciliare il suo amore per la letteratura
e le tradizioni commerciali della sua famiglia integrandoli nella libreria
antiquaria che apre a Trieste.
Il 1921 sarà l'anno in cui la
sua precedente raccolta poetica verrà per la prima volta raccolta nell'
unico volume del Canzoniere (successivamente integrato con le poesie dei
decenni successivi); risale invece al 1928 il suo incontro con la psicanalisi
attraverso la quale Saba spera di riuscire a curare i suoi disturbi nervosi. Ad
aiutarlo sarà un allievo di Freud, Edoardo Weiss, con il quale
intraprenderà un percorso psicanalitico che gli offrirà strumenti
più raffinati per smascherare "l'intimo vero" e per acquisire quella
"chiarezza psicologica" che già caratterizzava la sua produzione poetica
(alla quale infatti, in un primo momento avrebbe voluto dare il nome di Chiarezza).
Vittima della persecuzione razziale
per via della sua origine ebraica, cerca rifugio prima a Parigi, poi a Roma
sotto la protezione di Ungaretti ed infine a Firenze, ospite di
Montale.
Nel 1945 viene pubblicata da Einaudi
la seconda edizione del Canzoniere, quella definitiva uscirà
postuma e notevolmente accresciuta nel 1961.
Le sezioni di cui risulterà
composta l'opera oltre a quelle già indicate, sono: La serena
disperazione (1913-l915), Tre poesie fuori luogo, Cose leggere e
vaganti (1920), L'amorosa spina (1920), Preludio e canzonette (1922-l923),
Autobiografia (1924), I prigioni (1924), Preludio e
fughe (1928-l929), Parole (1933-l934), Ultime cose (1935-l943),
Varie Mediterranee (1945-l946), Epigrafe (1947-l948), Quasi un
racconto (1951) e Sei poesie della vecchiaia (1953-l954).
Il mancato riconoscimento della sua
attività letteraria si traduce invece in un'opera in cui il poeta si
farà interprete di se stesso: Storia e cronistoria del Canzoniere (1948).
Solo al periodo postbellico
risalgono infatti le prime importanti attestazioni pubbliche; il Premio
Viareggio (1946), il Premio dell'Accademia dei Lincei (1953) e la laurea Honoris
causa conferitagli dall'Università di Roma.
Gli ultimi anni della sua vita sono
resi difficili dalle continue e sempre più gravi crisi di depressione,
di cui resterà vittima, e dalla malattia della moglie, che muore nel
1956. Appena nove mesi dopo (il 25 agosto del 1957) Saba la seguirà.
Postumo sarà quindi il volume
complessivo delle Prose: Scorciatoie e raccontini (1946) e Ricordi-Racconti
(1956), in cui una lucida, tagliente ironia traghetta la moralità
racchiusa nella narrazione breve ed autobiografica.
Al 1957 risale invece la
pubblicazione di Ernesto, romanzo incompiuto in cui l'atmosfera
triestina, resa in un singolare impasto linguistico-dialettale fa da sfondo ai
turbamenti erotici dell'adolescente protagonista
Cesare pavese - Narratore e poeta
italiano (Santo Stefano Belbo, Cuneo, 1908-Torino 1950). Nato da una famiglia
di origine contadina, presto orfano del padre, compì gli studi a Torino,
in un periodo di transizione tra positivismo e idealismo, lotte operaie e
fascismo. Pavese imparò la grande lezione dei classici e dei realisti
dell'Ottocento e dei contemporanei, strinse amicizia con molti intellettuali
torinesi e, dopo essersi laureato nel 1930 con una tesi su W. Whitman,
insegnò inglese in scuole serali e private, collaborando intanto a La Cultura con saggi su
Lewis, Twain, Lee Masters, Henry, Melville (del quale nel 1932 tradusse
magistralmente Moby Dick). Nel 1935, dopo alcuni mesi di carcere scontati per
aver servito da tramite fra alcuni militanti antifascisti, fu condannato a tre
anni di confino a Brancaleone Calabro, ma dopo un anno poté tornare a Torino
per un condono. Durante il confino, preparò la stesura di alcuni dei
suoi romanzi brevi: Il carcere, che uscì nel 1949 nella raccolta Prima
che il gallo canti, nacque proprio dall'esperienza di quel periodo. L'esordio
di P. avvenne nel 1936 con le poesie di Lavorare stanca: un genere nuovo, di
tipo narrativo, col quale P. passava dal crepuscolarismo gozzaniano di certe
sue prime esperienze, al superamento della metrica tradizionale, convinto dalla
lezione degli Americani che il verso possa divenire 'strumento' del
narrare. Dopo il confino intensificò la sua attività presso la
casa editrice Einaudi; nel 1941 pubblicò Paesi tuoi, scritto due anni
prima, anche questo accolto, come le poesie, distrattamente dalla critica.
Continuava intanto a tradurre scrittori americani contemporanei e classici
inglesi; l'armistizio lo sorprese a Roma, ma P. riuscì a tornare a
Torino e si rifugiò presso la sorella, in camna. Finita la guerra, si
iscrisse al Partito comunista; scrisse saggi, articoli di politica, nuove opere
di narrativa, sempre cercando una spinta per uscire dal suo isolamento e da una
disposizione essenzialmente lirica: Feria d'agosto (1946), Il comno (1947),
La bella estate (1949, premio Strega); Dialoghi con Leucò (1947), in cui
rielabora alcuni miti classici e certe interpretazioni moderne
dell'umanità 'primitiva', già apparsi in Feria
d'agosto; La luna e i falò (1950), nel quale ricompaiono i motivi cari
all'autore: le Langhe, le indimenticabili ure di amici, di donne, insieme
all'incombente senso di tormentosa delusione per l'esistenza, che P.
cercò di nobilitare con l'immagine e il racconto. Sono queste le due
componenti essenziali della poetica di P., più stati d'animo,
impressioni, momenti lirici che trame e personaggi, tanto sono trasurati in
mito: prodotti di un alto decadentismo, non di un soltanto apparente
neorealismo. Nel 1950 P. raccolse le sue poesie vecchie e nuove nel volume
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (postumo, 1951); poi, colmata
la misura del suo disperato soffrire, si tolse la vita in una camera d'albergo
della sua città, in piena estate, la stagione che è un altro dei
suoi temi ricorrenti. Il suo diario, Il mestiere di vivere, pubblicato postumo
nel 1952, racchiude la realtà che P. ha interpretato in una sua chiave
unica: il senso della morte, del dolore, della solitudine concepita come una
'gioia feroce' e anche come un tentativo di liberazione, un miraggio,
infine, sterile e inutile per chi si sente fatto invece per gli altri.
Considerato dalla critica uno dei rappresentanti più significativi
nell'ambito della nuova letteratura, P. ha avuto anche il merito, insieme a
pochi altri, di aver liberato la nostra narrativa e la nostra cultura da una
certa tradizione di provincialismo che l'aveva immobilizzata fino al secondo
dopoguerra
Emily dickinson - Emily Dickinson (Amherst, Massachusetts, 10 dicembre
- 15 maggio )
fu una poetessa
statunitense.
È considerata tra i maggiori lirici del XIX secolo.
Nacque da una famiglia molto in
vista, conosciuta per il sostegno fornito alle istituzioni scolastiche locali.
Suo nonno, Samuel Fowler Dickinson, era uno dei fondatori dell'Amherst College,
mentre il padre ricopriva la funzione di legale e tesoriere dell'Istituto;
inoltre, ricopriva importanti incarichi presso il Tribunale Generale del
Massachusetts, il Senato dello Stato e alla Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti.
Biografia
Dickinson scoprì la propria
vocazione poetica durante il periodo di revival religioso che, nei
decenni 1840- , si diffuse rapidamente nella regione
occidentale del Massachusetts. Uno dei suoi biografi ha affermato che
concepì l'idea di diventare poetessa avendo come riferimento - in
termini biblici - la lotta di Giacobbe con l'angelo.
Emily Dickinson visse la maggior
parte della propria vita nella casa dove era nata, ebbe modo di fare solo rare
visite ai parenti di Boston, di Cambridge e nel Connecticut. Gran parte della sua
produzione poetica riflette e coglie non solo i piccoli momenti di vita
quotidiana, ma anche i temi e le battaglie più importanti che
coinvolgevano il resto della società. Per esempio, più della
metà delle sue poesie furono scritte durante gli anni della Guerra di
secessione americana. Per citare alcuni tra i suoi versi più
memorabili, le poesie della Dickinson dicono tutta la verità, ma la
dicono indirettamente:
Di' tutta la verità ma dilla obliqua
Il successo sta in un Circuito
Troppo brillante per la nostra malferma Delizia
La superba sorpresa della Verità
Come un Fulmine ai Bambini chiarito
Con tenere spiegazioni
La Verità deve abbagliare gradualmente
O tutti sarebbero ciechi -
Al momento della sua morte non erano
state pubblicate che dieci sue poesie, ma il suo lascito di circa 1800
componimenti poetici fu prova evidente della vastità del suo lavoro, in
seguito riconosciuta dal mondo intero. Oggi, Emily Dickinson viene considerata
non solo una dei poeti più sensibili di tutti i tempi, ma anche una dei
più rappresentativi. Alcune caratteristiche delle sue opere, all'epoca
ritenute 'stranezze', sono considerate adesso aspetti particolari e
inconfondibili del suo stile. Le digressioni enfatiche, l'uso poco
convenzionale delle maiuscole, le lineette telegrafiche, i ritmi salmodianti,
le rime asimmetriche, le voci multiple e le elaborate metafore sono diventati
dei marchi di riconoscimento per i lettori, durante gli anni e nelle varie
traduzioni del suo lavoro.
Emily Dickinson morì di
nefrite nello stesso posto dove era nata, ad Amherst, nel Massachusetts.
Opere
Il linguaggio di Emily Dickinson era
semplice e brillante. Non ebbe molti riconoscimenti durante la sua vita, perché
i più prediligevano un linguaggio fiorito e le sue opere non risultavano
conformi al gusto dell'epoca.
Il suo amore per la natura traspare
da tutte le sue poesie. Scrisse anche numerose poesie sulla morte, per esempio Tie
the Strings to my Life, My Lord (Annoda i lacci alla mia vita, Signore):
Annoda i Lacci alla mia Vita, Signore,
Poi, sarò pronta ad andare!
Solo un'occhiata ai Cavalli -
In fretta! Potrà bastare!
Addio alla Vita che ho vissuto -
E al Mondo che ho conosciuto -
E Bacia le Colline, per me, basta una volta -
Ora - sono pronta ad andare
Nel 1890,
la sorella di Emily, Lavinia, e Mabel Loomis Todd, amica del fratello Austin,
riescono a ottenere la pubblicazione di un volume di poesie, primo di una lunga
serie. Dal al
vengono pubblicate altre 300 poesie di Emily Dickinson, trovate dalla nipote
Martha dopo la morte della madre, cognata di Emily, a cui le aveva affidate in
custodia quando era ancora in vita.
Nel 1955
Thomas H. Johnson cura la prima edizione critica in tre volumi di tutte le
poesie di Emily Dickinson, in ordine cronologico e nella loro forma originale
(1775 poesie). Del 1998 è una nuova edizione critica, a cura di Ralph W.
Franklin e sempre in tre volumi, con una revisione della cronologia e una nuova
numerazione delle poesie (1789 poesie più 8 in appendice).
Bibliografia
- Emily Dickinson - Giuditta ed Emilio Cecchi, Brescia, Morcelliana, 1939
- Poesie, Emily Dickinson - a cura di Margherita Guidacci, Firenze, Cya,
1947
- Poesie e Lettere, Emily Dickinson - a cura di Margherita Guidacci,
Firenze, Sansoni, 1961 (rist. 1993)
- Poesie, Emily Dickinson - trad. di Barbara Lanati, introd. di Rossana
Rossanda, Roma, Savelli, 1977
- Lettere, Emily Dickinson - a cura di Barbara Lanati, Torino,
Einaudi, 1982
- Silenzi, Emily Dickinson - a cura di Barbara Lanati, Milano,
Feltrinelli, 1986
- Le più belle poesie, Emily Dickinson - trad. di Silvio Raffo, Milano,
Crocetti, 1993
- Poesie, Emily Dickinson - a cura di Massimo Bacigalupo, Milano,
Mondadori, 1995 (nuova ediz. 2004)
- Tutte le poesie - a cura di Marisa Bulgheroni, con versioni
d'autore, Milano. Mondadori, 1997
- L'alfabeto dell'estasi (Vita di Emily Dickinson) di Barbara Lanati, Milano, Feltrinelli,
1999
- Nei sobborghi di un segreto (Vita di Emily
Dickinson) - di Marisa
Bulgheroni, Milano, Mondadori, 2001
- Nel bianco respiro di Emily - Una lettura per
entrare 'nel cuore dell'enigma' - di Maria Giulia Baiocchi, Delta Editrice,
Parma, 2005
- Nel giardino della mente - 24 liriche
interpretate su CD -
voce di Paola Della Pasqua, Delta Editrice, Parma, 2006
Pablo neruda - Pablo Neruda è
lo pseudonimo che Neftalì Ricardo Reyes scelse in onore del poeta
cecoslovacco Jan Neruda (1834-l891)cantore della povera gente. Egli nacque a
Parral nel 1904, da famiglia modesta che trascorse l'infanzia scontrosa nel
piovoso, malinconico e selvaggio sud del Cile; frequentò le scuole fino
al liceo nella cittadina di Temuco e poi l'Università a Santiago.
Dal 1926 al 43 girò il mondo come rappresentante diplomatico del suo
paese, nel'36-37 visse l'esperienza della guerra civile snola non soltanto
da spettatore interessato. L'incontro o meglio la scoperta della Sna fu per
Pablo Neruda un fatto di estrema importanza. Come scrisse su di lui Dario
Puccini: 'Uno di quei salti dialettici grazie ai quali la storia esterna
diviene storia personale, la vita degli altri vita propria, il dolore del mondo
sentimento radicato' .Neruda, favorito dalle circostanze, mise un pur
lieve scompiglio nella letteratura snola facendosi paladino della
'poesia impura' opponendosi alla linea purista di Juan Ramon Ramirez.
Allora la sua influenza non fu preponderante ma si fece sentire più
tardi e ancora perdura in qualche modo presso le generazioni intermedie e
recenti.
Dopo aver subito il fascino dell'incontro con la poesia snola, il poeta
cileno venne travolto nell'appassionata vicenda della guerra civile: prese
subito posizione a favore della Repubblica aggredita; fu scosso dalla tremenda
fucilazione di Lorca e con Cesar Vallejo, un poeta peruviano, fondò il
Gruppo ispano-americano d'aiuto alla Sna. La guerra civile determinò
un mutamento profondo nell'animo, nelle convinzioni, nella cultura, nella
poesia del poeta. La sua fu una vera e propria conversione al prossimo e la sua
poesia divenne quella dell'uomo con gli uomini cioè una poesia sociale e
di lotta politica, di adesione e di repulsione rispetto al prossimo, di
sostegno e di esacrazione, di speranza e di rabbia: d'azione'
E quando cessata la guerra civile e sconfitte le armi repubblicane tanti
snoli furono costretti all'esilio o morirono fucilati o in carcere quel
'legame materno' con la Sna si fece per Pablo drammatico e fu come
una goccia di sangue che rimase indelebile. Se uno dei sentimenti più
forti dell'anima moderna è quello di un continuo e cocente esilio di una
imprecisata perdita esistenziale, la Sna è stata per Neruda quella
perdita, quell'esilio:Un vuoto angoscioso e accorato che si ripercuote nel suo
virile grido di poeta dal lontano '39 a oggi
Nel 1944 tornato in Cile s'iscrisse al partito comunista cileno e venne eletto
senatore.
Dal '48 al 52 fu perseguitato e costretto all'esilio per la sua presa di
posizione contro il neodittatore Gonzalez Videla; così tornò a
viaggiare per il mondo.Nel 1971 guadagna il premio nobel per la letteratura,
nel 1973 torna in Cile e in quello stesso anno muore a Santiago subito dopo il
colpo di Stato del generale Pinochet.
avese
- hieri - anno saputo ben rendere
omaggio a questo sentimentosenza età.