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INTRODUZIONE AL PENSIERO FILOSOFICO
Che Leopardi sia poeta nessuno l'ha
messo in discussione. Che sia anche filosofo, invece, è stato oggetto di
acceso dibattito. Alla base c'è il fatto che egli ha scritto di
filosofia e, per così dire, da filosofo: sullo Zibaldone troviamo
tanti e tali pensieri sull'anima, la metafisica, la religione, la
società, la natura, la morale, e via dicendo, che l'opera, ancorché
disorganica e non sistematica, ben potrebbe conurarsi come trattato
filosofico. Né si può dire che manchi a Leopardi lo stile filosofico,
perché alcune sue ine, specie quelle relative alla teoria del piacere, sono
di tale rigore e oggettività che sembrano stilate dalla penna di un Locke o di un suo seguace.
Ma non tutti i critici sono d'accordo su questo punto. Il vecchio filone della
cultura laicista italiana, da De Sanctis a Croce,
nega la filosofia di L., ritenendola scarsamente
significativa, non originale né profonda.
Per Francesco De Sanctis (cfr.
Schopenhauer e Leopardi), interessato
all'uomo e all'artista, essa esprime un superficiale pessimismo, contraddetto
dalla poesia, l'unica sua produzione genuina e profonda; il L.
filosofo, che odia la vita, con la sua poesia ce la fa amare: 'La vita
rimane intatta quando ci sia la forza d'immaginare, di sentire e di amare: che
è appunto il vivere. Dice l'intelletto: l'amore è illusione, sola
verità è la morte. E io amo e vivo e voglio vivere. Il cuore
rifà la vita che l'intelletto distrugge'. Vera poesia è
l'idillio, che è mera espressione del sentimento; l'elemento
raziocinante è un ostacolo, un pericolo, dal quale il poeta non riesce
sempre a guardarsi nei 'piccoli idilli', quasi più nei Canti
scritti dopo il '30.
Benedetto Croce riprende la
contrapposizione, ma restringe ancor più il campo poetico: la poesia del
recanatese gli sembra oscillare tra filosofia e
letteratura, quasi mai riuscendo a tenere la rotta mediana (di qui la sua
sostanziale e netta stroncatura).
Una nuova linea, che rivaluta L. filosofo, è
aperta nei decenni tra le due guerre. Giovanni Gentile, che legge L. con interessi filosofici, nell'intento di rivalutare le Operette
morali, arriva ad affermare che L. è
autentico e grande filosofo. Nel 1940 Adriano Tilgher
sostiene che esiste una filosofia di L., che non
è sistematica né procede per astrazioni (L.
non indaga i problemi gnoseologici o metafisici); essa ora si serve di
un'espressione lirica o letteraria (Canti, Operette morali), ora
è comunicata in modo immediato, solitamente non elaborato, attraverso lo
Zibaldone.
Nel dopoguerra si assiste ad un sostanziale rinnovamento degli studi
leopardiani, grazie prevalentemente agli apporti della critica storicistico-marxiana, la quale mette in risalto l'ultimo L. (la produzione posteriore al '30), sostenendo
l'eccellenza del poeta impegnato e progressivo contro quello isolato e
solitario dell'idillio. Saggi fondamentali sono i seguenti: L.
progressivo di Cesare Luperini (Firenze,
1947), La nuova poetica leopardiana di Walter Binni
(Firenze, 1947), Alcune osservazioni sul pensiero di L.
di Sebastiano Timpanaro (Pisa, 1965), La
protesta di L. di W. Binni (Firenze, 1973), La posizione storica di G.L.
di Bruno Biral (Torino, 1974), L. - Schizzi, studi e letture di Carlo Muscetta (Roma, 1976). Questi contributi, tutti
contrassegnati da una decisa matrice ideologica, individuano una linea
'eroica' del pensiero leopardiano (L.
consapevolmente eroico di fronte al proprio destino), pensiero che, non elevato
al rango di filosofia, non è più un ostacolo alla poesia, ma
piuttosto il suo vitale nutrimento. Notevole il saggio di Umberto Bosco Titanismo
e pietà in G.L. (Firenze, 1957) per il tentativo di spiegare tutto
il percorso intellettuale del poeta alla luce del motivo eroico-titanico.
Infine, entro l'ambito di una critica prevalentemente stilistica si sono mosse
le ricerche di Bigongiari, Getto, Ramat, Solmi e Bigi.
In conclusione, mentre per alcuni studiosi L.
è un filosofo esistenziale, che si pone problemi di ordine
pratico-morale (la vita ha un senso? può l'uomo essere felice? dopo la
morte c'è qualcosa o con la morte finisce tutto?), la maggior parte dei
critici concorda oggi nel ritenere che L. non possa
essere considerato filosofo per il fatto che, pur avendone l'attitudine e i
mezzi 'culturali', era viziata in partenza la sua volontà di
speculazione. Egli infatti, sollecitato da motivi biografici e storico-culturali (vedi sotto il punto 2), assunse sin
dall'inizio un atteggiamento critico negativo nei confronti della vita e dei
valori che essa esprime, considerati alla stregua di miti e illusioni. Tali
convincimenti, penetrati profondamente e per tempo nel suo pensiero, ne
condizionarono di fatto l'attività e gli intendimenti, cosicché, quando L. disporrà degli strumenti filosofici, se ne
servirà non per sottoporre a critica razionale il suo atteggiamento di
base, bensì per rafforzarlo, per aumentarne la consistenza logica e la
naturale persuasione. Così facendo, però, si precludeva la via
alla vera filosofia: il giudizio, se segue e scaturisce dall'analisi, è
oggettivo e logicamente valido, ma se la precede diventa pregiudizio e
strumentalizza e vizia gli esiti di quella.
2 - La formazione di Giacomo (1798-l816)
La genesi del pensiero di L. appare
determinata da una progressiva presa di coscienza della propria
infelicità. All'origine di questa si possono individuare due diversi
ordini di fattori: biografico-ambientali e storico-culturali.
Tra i primi l'atmosfera affettivamente carente della sua famiglia e l'educazione
retrograda e autoritaria, impartita da una madre bigotta e formalista e da
un padre conservatore e chiuso; poi la formazione isolata e solitaria,
da autodidatta, quello 'studio matto e disperatissimo' che
contribuì all'insorgere di diverse malattie croniche e alla malformazione
fisica. Al gelo dei rapporti familiari vanno aggiunti lo scherno e la derisione
dei concittadini, la mediocrità e la scarsa cultura dell'ambiente
recanatese, la precoce sensibilità e
la vivace intelligenza di Giacomo.
Motivi di ordine storico-culturale furono la crisi
dell'illuminismo e l'insorgere inizialmente indistinto e confuso di nuove
ideologie, la perdita d'identità e di funzione politico-civile dell'intellettuale,
l'arretratezza sociale e culturale dello stato pontificio.
Né va dimenticato che il periodo storico in cui Giacomo raggiunge la
maturità è l'età della Restaurazione,
caratterizzata dal conflitto tra nazionalismo, liberalismo e romanticismo da
una parte, cosmopolitismo, assolutismo e classicismo dall'altra. In ambito
letterario nasce e si sviluppa la polemica classico-romantica attizzata
dall'articolo di M.me de Stael, nella quale
interviene anche L. (vedi sotto il punto 3).
Punto di partenza della speculazione leopardiana, volta a tentare di chiarire
il senso della vita, è dunque il disagio esistenziale dell'autore,
ovvero la sua infelicità fisica e psicologica. Tale disagio è
all'origine di un pessimismo di tipo esistenziale, le cui
caratteristiche si possono compendiare come segue: precoce venir meno delle
illusioni e dei sogni infantili, sfiducia nella vita, sentimento (non ancora
razionalizzato) di desolazione e di delusione, insofferenza verso i
condizionamenti, sensazione di inutilità e di soffocamento.
3 - La fase del pessimismo storico (1816-l820)
Il pensiero leopardiano prende l'avvio da una meditazione
sull'infelicità in sé, della quale vengono indagate le cause, le
dinamiche e le conseguenze.
Alla base c'è la teoria dell'amor proprio (di derivazione
illuministica), secondo la quale l'uomo è un essere che ama
necessariamente se stesso e mira alla propria conservazione e alla propria
felicità. L'altruismo è un controsenso: quando io faccio del bene
ad un altro è perché provo piacere, quindi lo faccio sempre a me stesso.
L'altruismo non è il contrario dell'egoismo, ma è una
sublimazione dell'amor proprio, in quanto esistere significa amare se stesso,
cercare la propria felicità. L'amor proprio non coincide con l'egoismo:
quest'ultimo è una degenerazione dell'amor proprio causata dallo
sviluppo della civiltà e dal predominio della ragione; è uno
degli esiti di quel progresso storico negativo, all'indietro, che è,
secondo L., il passaggio dai primitivi ai
civilizzati. L'amor proprio è fonte di nobili azioni, di sacrifici
eroici; l'egoismo, invece, è calcolo meschino. L'amor proprio è
la volontà di potenza dei forti, l'egoismo è il calcolo razionale
del debole che uccide la vita.
L. respinge le ideologie ottimistiche e le utopie
rassicuranti del suo secolo, si ribella alla meschinità del suo tempo e
alle convenzioni del suo ambiente, che giudica arido e gretto; rimpiange un
mondo mitico di nobili virtù e di valori incorrotti, in
cui gloria e fama, unici antidoti contro il grigiore della vita, erano
possibili, conseguibili. Si scaglia con veemenza contro i miti dell'Ottocento,
la storia e il progresso, e contro la stoltezza di un secolo che dalla
filosofia della storia di Hegel fino al balletto Excelsior esalta l'uomo come creatore della
realtà. Per L. si tratta di un antropocentrismo fanatico, al quale egli si oppone con
forza, affermando che la storia non è progresso, ma regresso dal
primitivo stato di natura, buono e felice, allo stato di civiltà,
corrotto e decadente.
Nella storia del genere umano si distinguono quattro tappe:
1) l'età primitiva, quando gli uomini
vivevano in uno stato di perfezione e di innocenza anteriore alla
civiltà;
2) l'antichità classica, civiltà che L.
ammira come sintesi equilibrata di natura e ragione (nello Zibaldone
sostiene la superiorità del politeismo greco-romano rispetto alla
religione cristiana);
3) il medioevo, nel giudicare il quale L.
incorre nei tipici luoghi comuni dell'illuminismo (secoli bui, epoca negativa,
trionfo della barbarie);
4) l'età moderna, con il predominio assoluto della ragione, la
freddezza, il convenzionalismo, il calcolo, la funzionalità, in una
parola la vita inautentica.
L.
rifiuta il progresso civile e tecnologico, convinto che sia negativo in sé,
poiché l'incivilimento è snaturamento, allontanamento dalla natura: il
mondo è sempre più corrotto e non può essere corretto.
Netta, quindi, per L. l'antitesi tra la
remota grandezza e la miseria morale e materiale odierna.
L'antagonismo di L. con gli orientamenti
spirituali e culturali del proprio tempo si manifesta anche nell'impegno in
favore dei classicisti, i quali devono assolvere il duplice compito di riproporre
i valori classici, che hanno funzione liberatoria e di stimolo delle
coscienze, e di scrivere per il proprio tempo (= alfierismo).
Causa della decadenza è la ragione, 'nemica della
natura', corruttrice dei costumi, madre della civiltà e della
società con tutti i loro egoismi, distruttrice del rimpianto mondo
eroico. Sogno è ritrovare la 'favilla antica', cioè la
vivacità dell'immaginazione, la forza delle illusioni, la
vitalità dell'ieri contro la delusione dell'oggi, attraverso il
meccanismo della ricordanza.
Come già il Foscolo, anche L. avverte
la necessità delle illusioni (gloria, amor proprio, amor di
patria, libertà, onore, virtù, amore per la donna), che sono
secondo natura e costituiscono l'unico antidoto agli effetti della
civiltà e della ragione, i quali hanno guastato il mondo moderno, 'tristissimo
secolo di ragione e di lume'; e come il Foscolo nei Sepolcri,
così anche L. concepisce la poesia come
stimolatrice di illusioni.
Tutta la storia del genere umano è la storia della lotta tra la
felicità e il vero, tra l'illusione e la realtà, tra la vita e il
sogno. La realtà è banale e cattiva, vere sono solo le illusioni,
ossia le speranze, di cui l'umanità si nutre e che non può
abbandonare senza cadere nella disperazione. 'Larve' definisce L. le illusioni in cui l'uomo crede nella sua
età giovanile, ovvero in quel 'sabato del villaggio' che
precede il giorno più noioso che è il giorno della 'festa di
sua vita'; sono le illusioni che impediscono di scorgere la tragedia del
vivere. E le illusioni rappresentarono veramente l'unica motivazione alla vita
per l'adolescente Giacomo, che le ricorda con accenti commossi in uno degli
squarci più elevati della sua lirica, i vv.
77-l03 delle Ricordanze.
La realtà è illusoria: manifestando un'evidente consonanza con Schopenhauer, L. sostiene la coincidenza
di vita e sogno, essendo la realtà niente altro che sogno, come scrive Calderòn de la Barca. Questo concetto è
ribadito nelle opere della maturità (Operette morali e Canti posteriori
al '27). Nel Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare si
legge: 'Sappi che dal vero al sognato non corre altra differenza se non
che questo può qualche volta essere molto più bello e più
dolce, mentre quello non può esserlo mai'. E il verso
conclusivo di A se stesso ('l'infinita vanità del tutto')
sottolinea che il vero è nemico della felicità. L. mostra qui il suo paradosso: un'educazione
illuministica che si rivolta contro l'illuminismo, un illuminista antiilluminista, un uomo educato al culto della ragione
(che dissipa le tenebre della superstizione e liquida come favole le
verità della religione), il quale distrugge i miti stessi
dell'illuminismo e afferma la superiorità rispetto al vero di ciò
che è pensato, sognato e sperato. Nel Dialogo di Timandro
e di Eleandro tale concezione è
così espressa: 'Si ingannano grandemente quelli che dicono e
predicano che la perfezione dell'uomo consiste nella conoscenza del vero, e
tutti i suoi mali provengono dalle opinioni false e dall'ignoranza, e che il
genere umano allora finalmente sarà felice, quando ciascuno o i più
degli uomini conosceranno il vero, e a norma di quello solo comporranno e
governeranno la loro vita.' L. nega
in tal modo l'essenza, il 'vangelo' dell'illuminismo: la
felicità è data non dalla conoscenza del vero, bensì dalla
sua ignoranza; sapere di più significa soffrire di più, e chi
aumenta la conoscenza aumenta anche il dolore, come dice la Bibbia. Tutta la
poesia A Silvia esprime in termini altamente lirici questa concezione.
In conclusione, la sostanza del pessimismo storico leopardiano si esprime in quattro antinomie, nelle quali il primo termine ha valenza positiva, il secondo negativa:
valenza positiva |
|
valenza negativa |
natura |
vs |
ragione |
antico |
vs |
moderno |
stato naturale |
vs |
società |
illusione |
vs |
vero |
4 - La fase del pessimismo cosmico (1823-l830)
A partire dagli anni del cosiddetto 'silenzio
poetico' (1823-27) L. opera un
progressivo ribaltamento della concezione iniziale, giungendo a riabilitare la
ragione contro la natura.
Continuando ad analizzare le cause dell'infelicità umana, egli osserva
che il naturale impulso vitale è contrastato e ostacolato, a
livello individuale, da un duplice limite, biologico e ontologico;
a livello storico da un terzo limite, l'egoismo, che egli
definisce 'peste della società'.
Il limite biologico consiste nell'intrinseca debolezza dell'uomo, il
quale, al pari di ogni altro essere vivente, è subordinato al ciclo
meccanicistico della materia. Di qui la scoperta della propria fragilità
e solitudine.
Il limite ontologico è dato dall'impossibilità di essere
felici: la natura genera nell'uomo una tensione irrefrenabile verso la
felicità, un anelito costante al piacere, ma la felicità è
irraggiungibile, giacché, in quanto tale, deve essere infinita e pienamente
apante; di conseguenza la ricerca di essa conduce inevitabilmente ad una
finita e concreta infelicità. I piaceri momentanei che si provano nella
vita non sono altro che una tregua relativa e passeggera
dell'infelicità.
Per comprendere a fondo queste ultime affermazioni, occorre rifarsi alla teoria
leopardiana del piacere, secondo la quale il piacere non né è
assoluto né infinito; anzi, il piacere in sé non esiste: esiste solo nel
desiderio, essendo un 'subbietto
speculativo', vale a dire un puro concetto. Il desiderio è
immaginazione, speranza, sogno, proiettato sempre al futuro e sempre destinato
ad essere deluso. Invece del piacere esistono i piaceri, intesi in senso
negativo come cessazione dell'affanno, brevi momenti di assenza del dolore;
concreti ed effimeri, rendono sopportabile il dolore, restituendo momentaneamente
la vitalità, l'impulso vitale.
La teoria del piacere, il cui carattere è negativo, è
strettamente legata alla teoria dell'amor proprio. L'amor proprio, infatti,
implica la ricerca della felicità, ma questa ricerca è senza
esito, non può avere fine, quindi non può mai aparsi. L'uomo
cerca il piacere sempre, ma non può accontentarsi del piacere che trova,
che è finito; egli è pertanto destinato a cercare il piacere in
qualcosa di sempre diverso, di sempre più alto: ciò significa che
non lo trova mai. La tragicità della condizione umana è in questa
ricerca dell'infinito, che conduce sempre allo scacco.
Il piacere è sempre sperato, mai posseduto, sempre futuro, mai presente:
esso sfugge sempre. Non esistendo e non potendo esistere realmente, esiste solo
nel desiderio del vivente e nella speranza o aspettativa che ne segue. In base
a questa teoria il concetto di piacere è negativo, quello di dolore
è positivo, per cui si può dire che il piacere è la
mancanza del dolore, ma non si può dire che il dolore è la
mancanza del piacere, ovvero di qualcosa che non esiste. Il concetto è
espresso poeticamente nei seguenti versi tratti da La quiete dopo la
tempesta:
Piacer lio d'affanno; |
È questa la concezione del piacere negativo,
perché, se per caso cessa il dolore, di cui il piacere è la negazione,
non subentra il piacere, ma qualcosa di peggio, che nella dialettica di L. è la noia. Il dolore, infatti, non
esclude che l'uomo cerchi e speri di superarlo, mentre la noia è
angoscia e disperazione. E allora, per L. come
per Schopenhauer, la vita oscilla inarrestabilmente
come un pendolo tra il dolore e la noia, in un eterno meriggio privo di
tramonto ristoratore.
Il limite storico è dato dalla inconciliabilità di
individuo e società, tra i quali si determina uno scontro di egoismi.
L'atteggiamento dei singoli è antisociale: ognuno cerca sempre di avere
di più, di soverchiare gli altri, di sottomettere tutto e tutti al
proprio utile o piacere. E ciò per natura. Ne consegue che tutte
le società sono state cattive (superamento del pessimismo storico) e
che, a causa appunto dell'egoismo e dell'aggressività umani, ci si avvia
inesorabilmente alla distruzione del mondo, già data per avvenuta nel Dialogo
di un folletto e di uno gnomo. Di qui la polemica contro l'ingenua fiducia
del XIX secolo nel progresso scientifico e tecnologico, nelle macchine,
nell'espansione economica, che comporta lo sfruttamento industriale e il
colonialismo.
Considerati i tre suddetti limiti, L. conclude
che tutto è male. Esistere equivale ad essere perennemente
insoddisfatti, incontentabili, a soffrire per la propria fragilità. Il
bene consiste nel non esistere. Responsabile del male è la natura,
non più vista come provvida e benefica madre, bensì come causa
dell'infelicità umana. Essa con l'esistenza ci dà i germi
dell'infelicità, essendo l'insopprimibile bisogno di felicità
destinato a restare insoddisfatto.
Documenti (testi che testimoniano la rottura del rapporto con la Natura):
a.
La sera del dì di festa (idillio, 1820);
Cfr. vv. 11-l5:
. io questo ciel, che sì
benigno |
Commenta G. Oliva: 'Il sonno silenzioso e tranquillo della donna si fa metafora di una indifferenza ben più dolorosa per il L.: quella della Natura, che mostra agli uomini il suo aspetto più delicato (il cielo, che sì benigno appare in vista) solo per nascondere la sua malvagia crudeltà'.
b. Ultimo
canto di Saffo (canzone, 1822);
Imperscrutabile è il destino dell'uomo; uniche certezze sono il dolore e
la morte:
. i destinati eventi |
La Natura è beffarda, insensibile al dolore dell'uomo, intenta solo a perpetuare se stessa; come nella Sera del dì di festa cela sotto una struggente immagine di bellezza il suo disdegno (cfr. vv. 19-36). L. non sa proporre alcuna soluzione in grado di superare il dolore del mondo; l'assurdo non può essere vinto, ma solo accettato come tale. L'uomo non può sperare di vincere il nulla, da cui è sorto e a cui farà ritorno, ma può solo identificarsi con esso in un'operazione che ricorda quella orientale del 'nirvana', dell'annullamento.
c. Zibaldone (dal 1821);
Nella sua condanna della Natura il L. rifiuta
qualsiasi provvidenzialismo, qualsiasi consolazione religiosa, qualsiasi
soluzione irrazionale; al contrario, rivaluta pienamente la ragione:
è la ragione che disinganna e guida l'uomo alla vera sapienza, che
consiste nel prendere coscienza della propria inutilità; è la
ragione che 'atterra' (cioè riporta sulla terra dal cielo
della metafisica) l'uomo e lo pone davanti all' arido vero; è la
ragione, infine, che scopre che tutta l'umanità è accomunata da
un unico e identico destino (superamento del pessimismo individuale e
psicologico).
d. Dialogo della Natura e di un Islandese (O.M.,
1824);
Ogni tentativo di agonismo è votato a disfatta: la Natura è
invincibile ed è indifferente alla felicità o meno dell'uomo.
L'universo è dominato dall'irrazionalismo e dal casualismo: non
c'è una ragione, un senso; non c'è un fine, una creazione, un
orientamento; tutto è abbandonato al caso. Del tutto inutile è la
ricerca di un significato: la Natura non dà risposte. L'estrema domanda
dell'Islandese ('Dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi
piace o a chi giova cotesta vita infelicissima
dell'universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo
compongono?') rimane senza risposta.
f. A Silvia (idillio, 1828);
La Natura tradisce, è matrigna, non mantiene le
promesse, inganna, spegne le illusioni:
O natura, o natura, |
La vita si rivela aridità e disillusione:
All'apparir del vero |
g. Canto notturno di un pastore errante dell'Asia (idillio,
1830).
Il desiderio di sapere la verità non è apato; uniche certezze
il vuoto e il nulla; l'esistenza è assurda. 'Perché siamo
nati?'. A questa domanda L. risponde: 'Per
mostrare che era meglio che non nascessimo affatto': per questo, non
appena un bambino è nato, noi prendiamo a consolarlo dell'essere venuto
al mondo. E forse la definizione più precisa del pessimismo cosmico, del
non senso dell'essere, si trova in questa grande lirica, che è stata
chiamata l''anti Divina Commedia', perché,
se la Divina Commedia è senso dell'ordine, della provvidenza,
della finalità, il Canto notturno, all'opposto, esprime una
visione della vita improntata ad un totale casualismo. Effetto di questa presa
di coscienza è il tedio, la noia, definita 'la
più sterile delle passioni umane', 'lia della
nullità e madre del nulla', ma anche 'il più sublime
dei sentimenti umani'. Essa è tormento, è l'esaurirsi del
mito vitalistico, è privazione del desiderio,
è coscienza dell'inutilità del tutto; ed è sentimento
nobile, perché distingue gli spiriti più sensibili e dotati. In questo
risiede la grandezza dell'uomo.
In conclusione, una valida sintesi delle concezioni su cui si fonda il pessimismo cosmico di G.L. può essere la seguente:
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