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Il rogo dei libri durante il Nazismo
Ai primi di aprile del 1933 l'Associazione degli studenti nazional-socialisti creò una sezione stampa e proanda. La sua prima iniziativa, decisa l'8 aprile, sarebbe stata «la pubblica messa al rogo delle deleterie opere ebraiche» da parte degli studenti universitari in risposta allo «sfrontato incitamento» dell'ebraismo mondiale contro la Germania. Dal 12 aprile al 10 maggio avrebbe avuto luogo una camna «d'informazione»; il rogo avrebbe avuto luogo nei campus universitari alle ore diciotto dell'ultimo giorno di tale camna.
Le tristemente note dodici tesi preparate dagli studenti per essere ritualisticamente declamate durante il rogo non erano dirette esclusivamente contro gli ebrei e lo «spirito ebraico»: tra gli altri obiettivi uravano il marxismo, il pacifismo e l'«eccessiva enfasi posta sulla vita istintiva» (vale a dire la «scuola freudiana e la sua rivista 'Imago'»). Si trattò di una ribellione dei tedeschi contro lo «spirito non-tedesco». L'essenza della manifestazione, tuttavia, restò essenzialmente antiebraica. Agli occhi degli organizzatori essa avrebbe dovuto ampliare l'azione antiebraica dal settore economico (il boicottaggio del 1° aprile) all'intero campo della cultura tedesca.
Il 13 aprile le tesi vennero affisse sui muri e le bacheche di tutte le università tedesche. La tesi 7 recitava: «Quando l'ebreo scrive in tedesco, mente. A partire da oggi dovrebbe essere costretto a indicare sui libri che desidera pubblicare in tedesco: 'tradotto dall'ebraico'».
La sera del 10 maggio rituali esorcistici ebbero luogo in gran parte delle città universitarie della Germania. Oltre ventimila libri vennero bruciati a Berlino, e dai due ai tremila in ogni altra grande città tedesca. A Berlino fu acceso un enorme falò dinanzi al Teatro dell'Opera Kroll, e Goebbels fu uno degli oratori. Nella capitale come in altre città, al termine dei discorsi la folla di partecipanti prese a intonare slogan contro gli autori messi al bando via via che le pile di libri malefici (di Karl Marx, Ferdinand Lassalle, Sigmund Freud, Maximilian Harden e Kurt Tucholsky tra gli altri) venivano lanciate una dopo l'altra nelle fiamme. «I grandi riflettori puntati sulla Piazza dell'Opera», scrisse il «Jüdische Rundschau» «spandevano la loro luce anche sull'abisso in cui sprofondavano la nostra esistenza e il nostro destino. Non sono stati accusati solo ebrei, ma anche uomini di puro sangue tedesco. Questi ultimi vengono giudicati esclusivamente per le loro azioni. Per gli ebrei, invece, non c'è bisogno di nessun motivo specifico; come recita l'antico detto: 'l'ebreo finirà bruciato'».
da "La Germania nazista e gli ebrei" di Saul Friendländer ( 65)
Quando nel '33 cominciano gli arresti e la rapidissima demolizione di tutte le istituzioni democratiche, scrittori, musicisti, registi, pittori e scienziati cominciano ad emigrare in massa negli altri paesi dell'Europa o negli Stati Uniti. Uno dei primi è Albert Einstein, seguono Thomas Mann, Brecht e quasi tutti quelli che hanno un nome sulla scena culturale e scientifico.
Negli anni precedenti gli ebrei avevano contribuito non poco ai successi della Germania nel campo della cultura e della scienza, il cieco antisemitismo di Hitler reca cosi un gravissimo danno in questo campo. A proposito di ciò un piccolo ma significativo fatto: nelle pubblicazioni scientifiche fino agli anni venti la lingua tedesca era quella predominante a livello internazionale. A cominciare con gli anni 30 questo cambiò radicalmente a favore dell'inglese. Solo a partire dagli anni 60 la lingua tedesca sta riconquistando importanza in questo ambito. Prima del '33 il centro mondiale della ricerca atomica è in Germania, a Göttingen, con l'arrivo di Hitler si sposta in America. Il fatto che furono gli americani e non i tedeschi a costruire la prima bomba atomica è indubbiamente 'merito' di Hitler. La cultura del nazismo è banale e piatta, e la Germania, per 12 anni, rimane praticamente tagliata fuori dalla vita culturale internazionale.
Il libri proibiti tra stampa e censura
L'immagine ricorrente associata alla censura è quella del rogo di libri, che ha attraversato i secoli dall'età classica fino ai giorni nostri. Dal primo momento in cui le idee hanno iniziato a circolare in forma scritta, c'è stato chi ha sentito la necessità di controllarne la diffusione; nel rapporto conflittuale tra poteri organizzati e voci dissidenti la censura ha sempre avuto un ruolo di rilievo.
È nel corso dell'età moderna, però, con l'avvento della stampa, che la discussione intorno alla censura assume proporzioni enormi. Fino ad allora i libri venivano copiati a mano negli scriptoria; non c'erano reali possibilità di controllo, ma la produzione avveniva principalmente all'interno di strutture religiose e questo costituiva una forma di garanzia. I libri prodotti, inoltre, erano pochi ed estremamente costosi, e arrivavano quasi esclusivamente nelle mani di studiosi ed eruditi.
Ben presto si delineano i rischi di una diffusione indiscriminata di testi scritti. Si pensi allo strettissimo rapporto che unisce stampa e Riforma: da una parte la stampa garantisce agli scritti di Lutero una diffusione oltre ogni aspettativa; dall'altra proprio l'incredibile diffusione, insieme al fatto che i due fenomeni si affacciano quasi contemporaneamente sulla scena europea, fa sì che i cattolici vedano nella stampa stessa un pericolo da controllare o eliminare.
Il controllo sulla carta stampata interessa naturalmente anche ai sovrani, che intendono rafforzare le proprie strutture assolutistiche; ed è proprio sulle controversie giurisdizionali tra potere religioso e potere politico che si gioca la reale efficacia della censura nei primi secoli della storia della stampa. Negli stati che maggiormente vogliono sancire la loro indipendenza politica da Roma la censura pontificia ha meno effetto; qui all'imprimatur si contrappone una licenza di stampa rilasciata dal sovrano. Se inizialmente ci si limita a bandire gli scritti contrari al regime, a poco a poco si inizia pensare anche in termini di una stampa funzionale al potere.
La stampa clandestina e l'elusione dei divieti
Non tutti, però, sono disposti ad adeguare la propria produzione alle norme curiali. Se alla fine del '500 in quasi tutti gli stati si possono trovare strutture preposte alla supervisione delle pubblicazioni, editori e lettori imparano da subito ad eludere i controlli. Innanzitutto diventa estremamente facile procurarsi le patenti per la lettura dei libri proibiti. Inoltre, grazie ad una vivace stampa clandestina si stampano molti dei libri all'indice in volumi di difficile identificazione e con falsi frontespizi.
Per quanto riguarda gli autori, molti pensano che il controllo sulle opere stampate sia necessario, che la libertà di parola non possa garantire uno stato ordinato; altri invece si dichiarano per una cultura senza divieti. Ma già nel corso del XVII secolo Inquisizione e censura perdono la loro valenza minacciosa.
Lo spostamento del centro di controllo della produzione libraria nelle mani del potere laico produce un notevole allentamento delle maglie della censura. Spesso le autorità cedono alla logica mercantilistica per la quale è meglio lasciar produrre un libro non del tutto ortodosso che incentivare, con la proibizione, la stampa clandestina. Sempre la stessa logica fa sì che, non essendo sempre in grado di bloccare le importazioni, lo Stato preferisca incassare i proventi dei libri piuttosto che cederli agli stampatori stranieri.
La libertà di stampa viene proclamata a Parigi il 26 agosto 1789 con la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino. La Rivoluzione causa un irrigidimento delle strutture di controllo negli altri stati europei, con la conseguente revoca di libertà precedentemente concesse, ma non si dovrà aspettare molto perché i suoi principi varchino i confini francesi. Poco più di mezzo secolo più tardi lo Statuto Albertino (1848) introduce la libertà di stampa anche in Italia. Al di là delle alterne vicende di XIX e XX secolo, il principio parigino rimane uno dei punti fermi degli ordinamenti liberali moderni, a cui fa riferimento anche l'art. 21 della Costituzione Italiana.
Nella storia del genere umano, le religioni hanno spesso manifestato la loro insofferenza per la circolazione autonoma delle idee e dei libri che le contengono. In particolare la Chiesa cattolica si è distinta per secoli per un duplice rapporto di amore-odio nei confronti dei libri. Nei secoli bui del Medio Evo, i monaci delle abbazie si incaricarono delle conservazione di migliaia di volumi e li riproducevano, in un'età in cui la stampa non esisteva ancora, ricopiandoli a mano. Per contro, chiusi nelle biblioteche delle abbazie, difficilmente questi libri potevano essere consultati se non dagli stessi monaci e dalle persone che godevano della loro fiducia.
Il resoconto documentale più antico che riguarda un'iniziativa violenta nei confronti dei libri, si trova negli Atti degli Apostoli, in relazione all'attività di San Paolo, durante la sua visita a Efeso: «Molti di quelli che avevano abbracciato la fede, venivano a confessare in pubblico le loro pratiche magiche e un numero considerevole di persone che avevano esercitato le arti magiche portavano i propri libri e li bruciavano alla vista di tutti. Ne fu calcolato il valore complessivo e trovarono che era di cinquantamila dramme d'argento» (19:19). Il primo atto ufficiale nei confronti della circolazione dei libri, nella storia della Chiesa, fu il decreto di Papa Gelasio I (496 c.ca), che conteneva una lista di libri, ripartita tra libri raccomandati e libri proibiti. Tuttavia, per il primo indice ufficiale bisogna attendere più di mille anni, Alessandro Farnese, che salì al trono pontificio col nome di Papa Paolo III (1534-l549), e l'Inquisizione Romana. Questa fu istituita per combattere il protestantesimo e, in un periodo in cui la Sna dominava quasi interamente l'Italia del nord, per controbilanciare l'eccessiva severità della Inquisizione snola, resa tristemente famosa da Tommaso de Torquemada (1483).
Durante il papato di Paolo III, un ambizioso prelato di origine toscana, Giovanni Della Casa (1503-l556), autore tra l'altro del celebre Galateo (1553), viene nominato vescovo di Benevento e gli viene affidata la nunziatura pontificia di Venezia.
Il Della Casa ipotizza la prima proposta di redazione dell'Index librorum prohibitorum che viene pubblicato a Venezia nel 1549.
Alla morte di Paolo III, Giovanni Della Casa perse la protezione dei Farnese e con essa la nunziatura di Venezia. Papa Giulio III (1550-l555), un moderato di impostazione rinascimentale, limitò ulteriormente la giurisdizione del tribunale dell'Inquisizione ai soli fatti che avvenivano all'interno dei confini della Penisola.
Così la prima edizione ufficiale dell'Index librorum prohibitorum fu pubblicata soltanto nel 1559 dalla Santa Congregazione dell'Inquisizione Romana, sotto il papato di Gian Pietro Carafa, ovvero Paolo IV, un papa spietato e sanguinario a cui si deve, tra l'altro, l'istituzione del ghetto ebraico di Roma. Vi primeggiava il Decameron di Giovanni Boccaccio e il Il Principe di Niccolò Machiavelli, ma non mancava neppure Il Novellino di Masuccio Salernitano. Nel corso dei quattro secoli della sua storia fu aggiornato venti volte per impedire la contaminazione della fede e la corruzione della morale attraverso la lettura di libri teologicamente sbagliati o immorali. Esso conteneva quindi l'elenco dei libri considerati pericolosi dall'autorità ecclesiastica per la fede e la morale dei cattolici.
Fino a tutto il 1966, la legge canonica ha prescritto che ci fossero due forme di controllo sulla letteratura: la censura preventiva sui libri scritti da cattolici in tema di morale e/o di fede, il proverbiale «imprimatur» tuttora in vigore ai giorni nostri, e la condanna di libri giudicati offensivi, contro i quali sia chiesto l'intervento dell'autorità ecclesiastica, l'Index, appunto, la cui ultima edizione, la ventesima, fu redatta nel 1948.
In essa vi ivano Balzac, Berkeley, sectiunesio, D'Alembert, Darwin, Defoe, Diderot, Dumas, Flaubert, Heine, Hobbes, Hugo, Hume, Kant, Lessing, Locke, Malebranche, Stuart Mill, Montaigne, Montesquieu, Pascal, Proudhon, Rousseau, George Sand, Spinoza, Stendhal, Sterne, Voltaire, Zola. E tra gli italiani Aretino, Beccaria, Bruno, Benedetto Croce, D'Annunzio, Fogazzaro, Foscolo, Gentile, Giannone, Gioberti, Guicciardini, Leopardi, Marini, Minghetti, Monti, Ada Negri, Rosmini, Sacchetti, Sarpi, Savonarola, Settembrini, Tommaseo, Pietro Verri e anche il Teatro comico fiorentino; inoltre era all'Indice qualsiasi volume non autorizzato che trattasse di storia della massoneria o dell'Inquisizione e le versioni non cattoliche del Nuovo Testamento.
Nel 1966 l'Index librorum prohibitorum fu infine definitivamente soppresso.
www.storiadellastampa.unibo.it
www.fuoridalghetto.blogosfere.it
"La Germania nazista e gli ebrei" di Saul Friendländer ( 65)
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