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"Fragilità, il tuo nome è donna" afferma William Shakespeare.
La letteratura europea è pregna dell'immagine di ure femminili che confermano questa tesi, a partire dalla bella Elena che per amore, secondo il mito, lascia Sparta e il marito Menelao per seguire il giovane amante Paride trascinando così la sua nuova patria in una guerra logorante e tremenda. Ci narra questo fatto la stessa Saffo (metà del VI secolo a.C.) scrivendo:"Elena che superava/ogni donna in bellezza, abbandonato il suo illustre marito,/andò a Troia per mare,/scordando del tutto la lia,/e i genitori.' La ura di Elena è sin dall'antichità lo stereotipo della femme fatale, si pensi solo all'origine etimologica del nome: Elein significa distruggere.
Dopo la follia della fuga con il principe troiano appare invece nell'Iliade (IX a.C.) una donna dal carattere molto forte che, al contrario delle altre donne del poema, prende parola in proprio, senza esserne richiesta da un uomo, descrive ciò che vede sul campo di battaglia, biasima il nuovo marito Paride che accusa di codardia e se stessa, ritenendosi una scellerata, si rammarica con Ettore dello stato presente dei fatti. E' l'unica donna a non mischiare parole e lacrime, lasciandosi andare alla tristezza solamente dinnanzi al cadavere del cognato: "A questo pianto rinnovossi il lutto,/ed Elena fe' terza il suo lamento:/ O a me il più caro de' cognati, Ettorre, /poiché il Fato mi trasse a queste rive /di Paride consorte! oh morta io fossi /pria che venirvi! Venti volte il Sole /il suo giro compì da che lasciato /ho il patrio nido, e una maligna o dura /sola parola sul tuo labbro io mai /mai non intesi. E se talvolta o suora /o fratello o cognata, o la medesima/veneranda tua madre (ché benigno /a me fu Prìamo ognor) mi rampognava, /tu mansueto, con dolce ripiglio /gli ammonendo, placavi ogni corruccio. /Quind'io te piango e in un la mia sventura, /ché in tutta Troia io non ho più chi m'ami /o compatisca, a tutti abbominosa.".
Queste parole sono le ultime ad essere pronunciate all'interno dell'Iliade; probabilmente Omero voleva lasciarle a colei che può essere considerata la donna per eccellenza, dolce ma determinata, fedele e infedele, moglie e amante, oggetto di amore e di odio al tempo stesso.
Si occupa successivamente di questa donna tanto bella quanto complicata Euripide (480-406), nella tragedia a lei dedicata. Elena stessa disconosce qualsiasi responsabilità riguardo la guerra di Troia affermando che gli dei hanno creato un simulacro simile a lei e sono stati loro a trarre in inganno gli assaliti e gli assalitori della guerra contro Priamo. Elena cerca ora la pace, cerca la tranquillità per la lia legittima; ma dispera, perché crede morto il marito Menelao, che invece è vivo e approda, dopo un naufragio, sulle rive egiziane, dove il re di queste terre vuole contrarre matrimonio proprio con la bella Elena.
Originale è anche la ura della regina Didone nell'Eneide di Virgilio (I secolo a.C.) che accoglie e si innamora dell'eroe troiano Enea, che però poco tempo dopo deve riprendere il viaggio verso l'Italia; la donna allora disperata, sconvolta, vedendo andarsene via per sempre colui al quale è ormai legata da profondo amore, e con il quale ha pure ipotizzato nuove nozze, dopo aver invocato dagli dei una tremenda maledizione su Enea, sale sul rogo e si trage con la spada avuta in dono proprio da Enea, mentre la flotta troiana già naviga in mare aperto. "Tre volte levò il capo poggiando sui gomiti, /tre volte sul letto ricadde e, con gli occhi in alto erranti, /la luce al cielo cercò, e vedutala pianse. Così Virgilio descrive la scena finale, con lo sguardo dolente di Didone, ansioso, errante in ricerca dell'ultima luce terrena, prima di sprofondare nell'ombra sotterranea. Viene così messa in evidenza la forte passione della donna che vive l'abbandono in maniera così traumatica da decidere di togliersi la vita, ragion per cui Dante sceglie di colloca tra i "peccator carnali/ che la ragion sommettono al talento", i lussuriosi, divisi in due gruppi, a seconda che la loro passione sia bassa e bestiale o ardente e fatale, tale, quindi, da non contaminare la sostanziale nobiltà del personaggio, eternamente trasportati e sferzati da una violenta bufera, simbolo della bufera dei sensi da cui sono stati travolti in vita. Didone aveva infatti promesso di restare fedele al defunto marito Sicheo ma poi viene sopraffatta dalla passione per Enea: "L'altra è colei che s'ancise amorosa, e ruppe fede al cener di Sicheo . ". Anche la pittura ha dedicato spazio a questa donna potente, a questa regina, lottatrice, arresa al suo destino, ma soprattutto a questa innamorata, soprattutto nella rappresentazione pittorica del Guercino, altamente drammatica, che coglie proprio l'attimo in cui, mentre sullo sfondo s'allontanano le navi troiane, ed il dio dell'Amore, Cupido, s'invola, circondata dalle ancelle che piangono, Didone morente, con la spada conficcata nel petto, cercando con lo sguardo quello della sorella che le è accanto sgomenta.
Tornando a Dante
(1265-l321), significativo è l'amore del poeta per Bice Portinari, che
egli chiama Beatrice: colei che porta beatitudine e la salvezza. Ella da
semplice donna-angelo, quale sarebbe stata per gli stilnovisti, diviene ipostasi
della salvezza. La storia di questo amore consiste semplicemente in uno
sguardo, in un saluto, poiché la ragazza muore nel 1290, all'età di 24
anni, lasciando Dante in preda ad un grande sconforto. Si può notare la
percezione che il poeta fiorentino ha della sua amata nella parte terza delle
rime, dove, nella poesia 88 mette in bocca alla ragazza le seguenti parole: Io mi son pargoletta bella
e nova, /e son venuta per mostrarmi
a vui /delle bellezze e loco,
dond'io fui. /Io fui del cielo e
tornerovvi ancora, /per dar della mia luce
altrui diletto; /e chi mi vede e non se ne
innamora, /d'amor non averà mai
intelletto. /Ciascuna stella negli occhi
mi piove /della sua luce e della sua
virtute: /le mie bellezze sono al mondo nove, /perocchè di lassù mi son venute." E'
qui evidente come la donna perde il suo significato diabolico prevalente
nell'Alto Medioevo, per assumere invece quello di creatura beata discesa dal
cielo in grado di elargire salvezza, che viene da Dio, a chiunque ella ritiene
degna del suo saluto. L'incontro con Beatrice diventa il punto di
svolta della maturazione umana e poetica di Dante, la cui vita è, da
quel momento 'rinnovata dall'amore'. Dante, infatti, racconta che il
suo primo incontro con Beatrice avviene quando entrambi hanno nove anni, numero
che identifica il miracolo.
Nella Vita Nuova viene delineato il cammino interiore che porta il poeta a
comprendere come il fine del suo amore non sia legato a nulla di materiale,
neppure al semplice saluto, elemento pur così caro all'amor cortese;
unico fine dell'amore è per il poeta cantare le lodi della sua donna:
Beatrice è per Dante uomo stimolo per l'introspezione spirituale e per
Dante poeta fonte di ispirazione letteraria. Al termine della Vita Nuova Dante,
che ha compreso la svolta impressa dalla donna alla sua spiritualità, ma
è ancora incapace di trasferire nella realtà questa acquisizione
dell'anima, promette di non scrivere più di lei se non quando
potrà farlo in modo completamente degno. Egli quindi decide di scrivere
di lei nella Divina Commedia introducendola in Inferno II "I' son Beatrice che ti faccio andare; /vegno del loco ove tornar disio; /amor mi mosse, che mi fa parlare. /Quando
sarò dinanzi al segnor mio, /di te mi loderò sovente a lui." Dante una volta giunto in Paradiso, dopo
aver percorso con Virgilio l'Inferno e il purgatorio, rincontrerà la sua
amata che lo condurrà nella visita del Paradiso.
Profondamente cattolica è anche Lucia, che viene introdotta nel modulo II dei Promessi Sposi da Alessandro Manzoni (1840-l842). La sua presentazione, quasi tutta in termini spirituali, non manca però di una sua evidenza, affidata alla descrizione del costume tradizionale scelto per il matrimonio : "i lunghi spilli d'argento, il vezzo di granata, i bottoni d'oro a filigrana, il busto di broccato a fiori, la gonnella di filaticcio di seta, le calze vermiglie e le pianelle a ricami." La sua modesta bellezza, che trae il proprio fascino dal suo volersi nascondere, pur non avendo nulla di eccezionale, trasmette al lettore un effetto di singolare freschezza:" lunghi e neri sopraccigli Lucia aveva quello [l'ornamento] quotidiano di una modesta bellezza rilevata allora e accresciuta dalle varie affezioni che le si dipingevan sul viso: una gioia temperata da un turbamento leggiero, quel placido accoramento che si mostra di quand'in quando sul volto delle spose, e, senza scompor la bellezza, le dà un carattere particolare" e nello stesso tempo la concretezza fisica di una sana e ritrosa robustezza:"la modestia un po' genuina delle contadine" Lucia è orfana del padre e vive con la madre Agnese. Lavora in casa o alla filanda ed appartiene, come Renzo, al popolo e la sua condizione economica è modesta, ma decorosa. La nota distintiva di Lucia è la purezza, una castità delicata che cela nel profondo i sentimenti più puri. Il suo pianto "asciugandosi gli occhi col grembiule con voce rotta dal pianto violento scoppio di pianto" rivela una profonda ricchezza di sentimenti, quelli che Lucia, per sua scelta, è abituata a controllare. Le parole della protagonista sono poche, semplici, ma esprimono fermezza interiore e speranza, fede e rassegnazione nella Provvidenza: 'No, no, per amor del cielo! Il Signore c'è anche per i poveri; e come volete che ci aiuti, se facciam del male?' Lucia si affida con le preghiere alla misericordia divina, anche e soprattutto nei terribili momenti del rapimento. L'onestà è la sua forza, quella che le permette di affrontare il terribile colloquio con l'Innominato e di operare la conversione di quell'uomo universalmente temuto, lei, povera contadina ignorante. La sua fiducia in Dio è tanto grande che, appena pronunciato il voto nella stanza del castello in cui è prigioniera, Lucia si addormenta 'd'un sonno perfetto e continuo. Ella si abbandona alla Provvidenza: 'E' il Signore che ha voluto che tutto andasse così: sia fatta la sua volontà'.
Differente
soprattutto sul piano morale è
Di quattro "Piccole donne" parla anche un romanzo di L. M. Alcott, pubblicato in America tra il 1868 e il 1869 di cui svariati registi hanno fatto la trasposizione cinematografica tra il 1933 e il 1984. La storia è quella quasi autobiografica della famiglia Alcott, diventata March nel libro: le quattro sorelle, Margaret, Josephine (la stessa Louisa May Alcott), Elizabeth e Amy sono le protagoniste della storia, che si snoda intorno agli avvenimenti domestici accaduti nell'anno in cui il padre è lontano da casa perché nell'esercito. In questo anno, che le ragazze vivono come un gioco, cercando di migliorare i propri difetti, sono accomnate da altri personaggi come la madre, la fedele domestica Hannah, l'amico Laurie. Il padre ritorna e le piccole donne crescono: Meg si sposa, Jo si trasferisce a New York inseguendo il suo sogno di divenire scrittrice, Amy parte per l'Europa con la zia March, dove sposa Laurie, un tempo innamorato di Jo. La piccola Beth, rimasta l'unica ancora in casa, muore nel giro di poco tempo, affetta da una malattia grave, lasciando un grave vuoto nel cuore di tutti. Il lieto fine vede però tutta la famiglia riunita e una Jo finalmente innamorata di un professore tedesco conosciuto a New York. La Alcott ha saputo scrivere due romanzi, a cui ne sono seguiti altri due davvero magistrali, seguendo le parole di Diderot che afferma: "quando si scrive delle donne, bisogna intingere la penna nell'arcobaleno."
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