|
italiano |
L'Enrico IV
L'Enrico IV è la recita di
una recita. Finzione di una finzione, forse per questo appare così
autentica. Enrico, il personaggio della tragedia, mette in scena sul palco il
perpetuarsi di una situazione storica imbarazzante: l'umiliazione del ventiseienne
imperatore di Baviera, costretto a un'estenuante attesa, nell'inverno del 1077,
fuori dalle mura di Canossa, mentre Matilde di Toscana, nel ruolo
inevitabilmente ambiguo del negoziatore, si adopera presso il Papa Gregorio
VII, per ricucire lo strappo fra Chiesa e Impero. Questo dramma, che nella
realtà storica si consumò in due giorni, nella tragedia
pirandelliana dura vent'anni. Potenza della nevrosi.
«Circa vent'anni addietro, alcuni giovani
signori e signore dell'aristocrazia pensarono di fare per loro diletto, in
tempo di carnevale, una "cavalcata in costume" in una villa patrizia: ciascuno
di quei signori s'era scelto un personaggio storico, re o principe, da urare
con la sua dama accanto, regina o principessa, sul cavallo bardato secondo i
costumi dell'epoca. Uno di questi signori s'era scelto il personaggio di Enrico
IV; e per rappresentarlo il meglio possibile, s'era dato la pena e il tormento
d'un studio intensissimo, minuzioso e preciso, che lo aveva per circa un mese
ossessionato». Con queste parole Luigi Pirandello, in una lettera del 1921,
presentava l'antefatto della nuova tragedia che stava scrivendo al grande
Ruggero Ruggeri, l'interprete che desiderava, e che ottenne, nel ruolo
principale.
Nel corso della cavalcata Enrico, che
monta accanto alla bella ma frivola Matilde, di cui è innamorato, cade
da cavallo, rimanendo intrappolato nel personaggio che sta impersonando.
Rinchiuso in un esilio dorato dalla
sorella, insieme a quattro servitori che si prestano al giuoco nel ruolo di
consiglieri segreti, l'uomo porta avanti la bizzarra rappresentazione che, con
il tempo, assume i tratti di una normale quotidianità.
Passano vent'anni e la sorella di Enrico,
che non si è mai capacitata della pazzia del fratello, sul letto di
morte richiede che gli amici rappresentino ancora una volta la scena, per
mettere il malato, con uno stratagemma, di fronte al tempo trascorso e
strapparlo infine alla follia.
Questo è il piano che i cinque
personaggi hanno in mente quando si portano alla villa dove è rinchiuso
Enrico: Matilde, ormai donna matura; sua lia Frida, immagine vivente della
Matilde di un tempo, Carlo Di Nolli, lio della sorella di Enrico e fidanzato
di Frida; Tito Belcredi, allora rivale di Enrico e oggi amante di Matilde;
l'ultimo è il medico «alienista», a cui spetta la paternità
'scientifica' dell'operazione.
Nel primo atto, al cospetto di Enrico,
Matilde, Belcredi e il medico, travestiti in abiti storici, subiscono la
conversazione di Enrico che, pur discorrendo di vicende riguardanti un ambito di
850 anni addietro, li confonde con l'attualità ambigua delle sue
affermazioni.
Una parte del secondo atto è
passata così dal gruppo a interpretare e cercare contraddizioni e
conferme nelle tranquille parole del malato. Ma il fuoco cova sotto la cenere.
Congedati temporaneamente i suoi ospiti, il furore di Enrico espode: «Buffoni!
Buffoni! Buffoni!». Il principe svela ai servitori allibiti la verità.
«Non capisci? non vedi come li paro, come li concio, come me li faccio
ire davanti? Buffoni spaventati». E con la verità, affiora la sua
stramba filosofia: «Dovevate sapervelo fare da voi l'inganno; non per
rappresentarlo davanti a me, davanti a chi viene qua in visita di tanto in
tanto; ma così, per come siete naturalmente, tutti i giorni, davanti a
nessuno, [] Per quanto orrendi i miei casi, e orrendi i fatti; aspre le
lotte, dolorose le vicende: già storia, non cangiano più, non
possono più cangiare, capite? Fissati per sempre: [] il piacere, il
piacere della storia, insomma, che è così grande!».
Nel terzo atto, la resa dei conti.
La grandezza di Pirandello è anche
quella di aver messo in scena l'alienazione in un tempo in cui (1922) la
psicanalisi è ancora scienza in fasce, un po' come Italo Svevo di
lì a poco farà con il suo Zeno (1923).
Enrico è un'alienato, messo al
margine della società dei suoi simili, di cui subisce la
diversità. La sua colpa è quella di affrontare la vita con troppa
serietà e pretendere di essere preso sul serio da chi serio non vuole
essere, come testimoniano le parole di Matilde, che nel primo atto afferma:
«Risi di lui. Con rimorso, anzi con vero dispetto contro me stessa, poi
perchè vidi che il mio riso si confondeva con quello degli altri -
sciocchi - che si facevano beffe di lui».
L'errore è quello di considerare
la «società» come un giuoco cooperativo volto a edificare e a sviluppare
opere e civiltà; mentre essa è più spesso un giuoco
antagonista, in cui i mediocri, che sono i più, alleano le loro
insufficienti forze per ostacolare chi, considerato capace, è specchio
della loro mediocrità. «Conviene a tutti far credere pazzi certuni, per
avere la scusa di tenerli chiusi. Sai perché? Perché non si resiste a sentirli
parlare».
La tragedia pirandelliana è stata
presa a simbolo della camna che ha portato, in Italia, alla controversa
legge 180 detta «Basaglia», dallo psichiatra che la patrocinò,: alla
chiusura dei manicomi e alla reintegrazione forzata dei malati psichici nella
società. Al contrario, la riforma ebbe nello scrittore e psichiatra Mario
Tobino un deciso oppositore, come velatamente traspare anche dalle ine
del suo Per le antiche scale.
Il personaggio di Enrico è stato
visto per lo più come un personaggio positivo, che scieglie di autoemarginarsi,
piuttosto che integrarsi in una società conformista; ma non mancano i
critici che vedono in Enrico «la dimensione di rinuncia, di autorepressione, di
rifiuto della vita e del sesso, in una parola di pulsione di morte». Il
curatore dell'edizione Mondadori del 1993, Roberto
Alonge, sembra pensarla così, quando cita: «Enrico è "impazzito"
non per aver perduto la donna, ma per non dover affrontare il rischio di
conquistarla e di averla» (Gioanola).
L'amore di Enrico per Matilde è
strumentale. Egli vede il matrimonio come il passaporto, se non per la
normalità, almeno per la conformità. Matilde però esita,
non perchè non lo ricambi o non lo stimi, ma perchè non è
disposta ad affrontare il rischio di avvallare le «qualità» di lui
contro tutti gli altri, che lo chiamavano pazzo anche prima che lo fosse,
contro Belcredi, che punse il suo cavallo per farlo imbizzarrire e che nel
finale catartico viene punto a sua volta, trafitto (il grido finale di Matilde
non lascia adito a dubbi) senza speranza, lui «spadaccino temutissimo», dalla
spada acuta e vendicativa della follia, nella quale Enrico si rifugia
definitivamente.
© ePerTutti.com : tutti i diritti riservati
:::::
Condizioni Generali - Invia - Contatta