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L'IDEOLOGIA VERGHIANA E SUA CONCEZIONE DELLA VITA
Un cupo pessimismo è alla base della visione verghiana della vita. Vivere è patire: questa, nell'essenza, l'elementare filosofia del Verga e non è azzardato collegarla al fatalismo dell'anima siciliana. In più tratti, codesta filosofia somiglierebbe a quella di certi asceti medievali pervasi dal doloroso spirito dell' Ecclesiaste, se non rifiutasse le prospettive del Divino e la fede consolatrice nella Provvidenza. L'infelicità che il Verga coglie nella vicenda umana ha oscure radici ontologiche: no deriva dalle ingiustizie della vita civile o da particolari errori della storia, ma dalla condizione stessa dell'esistere, ed è per questo che stringe nelle sue spire inesorabili tutti gli uomini e tutte le classi sociali. Per Verga non ha senso distinguere, come ha fatto il Manzoni, fra vincitori e vinti in conseguenza dell'accettazione o del rifiuto del messaggio salvifico di Cristo: per lui, che non spinge lo sguardo al di là dei confini terreni, tutti gli uomini sono dei vinti ed ogni loro passione è viatico a tragedie senza catarsi. Non ha senso neppure il titanismo di cui Leopardi ed altri romantici europei coloravano la loro rivolta al destino: per lui il solo atteggiamento possibile a lume di logica è quello della muta rassegnazione, perché il ribelle alle immutabili leggi del fato ripete l'errore di chi, caduto nelle sabbie mobili, si agita per uscirne e più presto vi affonda. Di fronte al progresso, che pur riconosce nello svolgimento del mondo, il Verga non attenua il proprio pessimismo, giacché considera le lacrime e sangue - Fase di Problematizzazine" class="text">il sangue di cui gronda ogni passo in avanti della storia. Il suo occhio non si incanta alle conquiste della scienza e della tecnica, ma si svolge desolato a compassionare le vittime di cui parla nella prefazione ai Malavoglia: " i deboli che restano per via, i fiacchi che si lasciano sorpassare dall'onda per finire più presto, i vinti che levano le braccia disperatamente e piegano il capo sotto il piede brutale dei sopravvenenti."
Un così duro fatalismo porta il Nostro in uno spazio ideologico ben lontano dalla concezione positivistica, che è aperta, al contrario, all'ottimistica fiducia nelle sorti umane e lo estrania da ogni interesse per le proposte politiche di tipo progressista.
Inoltre, sulla base di scritti e di pubbliche dichiarazioni dell'ultimo Verga, più di uno ha creduto di poter attribuire il conservatorismo politico dello scrittore al proposito di difendere dalla minaccia proletaria la propria condizione di proprietario terriero. ½ si associa infatti un rifiuto esplicito e polemico per le ideologia progressiste contemporanee, democratiche e socialiste, che egli giudica fantasie infantili o interessati inganni e causa di pericolosi rivolgimenti sociali. Però questo pessimismo non implica affatto un'accettazione acritica della realtà esistente, anzi, esso gli consente di cogliere con grande lucidità ciò che vi è di negativo in quella realtà: nelle ine verghiate la disumanità della lotta per la vita, lo sfrenarsi delle ambizioni e degli interessi, il trionfo dell'utile e della forza, lo scatenarsi degli antagonismi tra ceti sociali e individui, la brutalità dell'oppressione sui più indifesi, la sofferenza e la degradazione umana che essa provoca, sono messi in luce con implacabile precisione. Anche se non dà giudizi correttivi, Verga rappresenta con grande acutezza l'oggettività delle cose, che parlano da sé eloquentemente.
Proprio tale pessimismo gli assicura l'immunità da quei miti che trionfano in tanta letteratura contemporanea e la trasformano in mediocre veicolo di grossolana mitologia: innanzitutto il mito del progresso, centrale nella cultura e nella mentalità diffusa del tempo, poi il mito del popolo, sia nella sua versione progressista e umanitaria, sia in quella romantico-reazionaria e nostalgica. Anche se le sue opere veriste hanno per gran parte al centro la vita del popolo, non si riscontra in esse quell'atteggiamento populistico che affligge tanta letteratura del secondo '800, che consiste nella pietà sentimentale per le miserie degli umili, nella fiducia in un miglioramento delle condizioni dei diseredati garantito dalla buona volontà e che si traduce in una rappresentazione patetica e lacrimevole.
Tuttavia, il duro pessimismo , la visione arida e desolata, abbandonano l'autore al patetismo umanitario, anzi, la scelta di "regredire" nell'ottica popolare, di raccontare proprio dal punto di cista della lotta per la vita, che nega sistematicamente ogni valore di umanità e di altruismo, costituisce la dissacrazione più impietosa di ogni mito populistico progressivo. Ma in lui non è presente neppure il populismo di tipo romantico reazionario, proteso nostalgicamente verso forme passate della vita. Pur sottolineando la negatività del progresso moderno, non contrappone ad essa il mito della camna, concepita come un Eden di incorrotta autenticità, di una sanità ed innocenza di vita ormai perdute. Il pessimismo lo induce a vedere che anche il mondo primitivo della camna è retto dalle stesse leggi del mondo moderno, l'interesse economico, l'egoismo, la ricerca dell'utile, la forza e la sopraffazione, che pongono gli uomini in costante conflitto fra loro. Verga non è scrittore che offra facili evasioni o immagini consolatorie, ma è uno scrittore scomodo, aspro, sgradevole, che urta il lettore e stimola così la riflessione critica. Non diffonde miti, semmai li distrugge.
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