Numerose circostanze concorrono e hanno concorso, a mio
giudizio ma anche secondo parametri oggettivi, alla determinazione in seno
alle società occidentali del problema della disoccupazione.
Per esempio, i continui cambiamenti nei modi di produzione, che oggi vedono
l'avanzare della automazione e della tecnologia informatica in molti settori;
la razionalizzazione della produzione con pratiche manageriali volte alla
massimizzazione del profitto e alla riduzione massima dei costi; la competizione
'globale' nel pianeta.
Numerose persone finiscono così per non trovare
lavoro o per perderlo, perché per età o grado di istruzione non
riescono ad adeguarsi alle nuove tecnologie e perché i settori
'maturi' e tradizionali della produzione espellono, anziché
attrarre forza lavoro.
Tutto ciò si ripercuote sulla qualità della vita di ampi strati
di popolazione, che si vedono diminuire i redditi e comunque si sentono
minacciati nell'agio e nella sicurezza, spesso raggiunti da poco e con
fatica.
Qualcuno ritiene che, per godersi la vita, sia necessario considerarsi
arrivati, mentre la nostra società occidentale alimenta invece,
nell'ambito lavorativo, i sentimenti di precarietà, insicurezza,
competizione, percepiti da molti come intollerabilmente angosciosi.
Tenderà a cronicizzarsi il
problema della disoccupazione? Davvero la nostra esistenza sarà
mortificata anche negli anni a venire da questa piaga, malgrado gli
indiscutibili progressi raggiunti dalla scienza e dalla tecnica?
Io credo di no.
Anzitutto, la disoccupazione non è un problema nuovo, ma da quando la
rivoluzione industriale ha cambiato il volto dell'Occidente, si ripresenta,
ciclica, ad ogni significativo cambiamento di paradigma produttivo.
E' possibile che quando la situazione si assesti e i settori più
'giovani' siano giunti a una maggiore definizione, molta forza
lavoro venga assorbita.
Bisogna svincolarsi dall'idea che i posti di lavoro siano una quantità
fissa: molto dipende dal dinamismo di individui e società, dalla loro
creatività, dalla loro capacità di indurre nuovi bisogni (si
spera, progressivi e non alienati). Il numero di posti di lavoro dipende
quindi anche dalla buona volontà e dall'impegno di un'intera cultura.
Come dipende da una rivoluzione culturale la volontà di considerare il
lavoro in modo diverso, non una condanna, ma un gioco, serio e impegnativo,
ma soprattutto creativo, dove ciascuno investa la propria personalità.
Non più quindi la cultura ad oltranza del posto fisso, cui accedere
per diritto, senza avere magari nessun requisito, ma maggiori
flessibilità e impegno, maggiore volontà di raggiungere dei
risultati, di porsi al servizio di individui e comunità, in modo non
'servile', ma intelligente e utile.
Soprattutto sarà necessario responsabilizzare gli individui, far
sì che facciano propria l'idea di formazione continua, di cura dei
propri talenti, di autonomia nello sviluppo di adeguati percorsi formativi.
Importante sarà una scolarizzazione diffusa, ma ancora più
importante la disponibilità a imparare in autonomia nell'intero arco
della vita, anche (e soprattutto) fuori dal normale contesto scolastico. Fermo restando che l'eccesso di liberismo economico che
abbiamo sperimentato negli ultimi decenni non va bene. Se è utile
eliminare le rigidità e richiedere al lavoratore un impegno
responsabile, è pure vero che imprenditori, dirigenti, Stati e
comunità devono offrire contropartite valide. Il cosiddetto 'Welfare State' va rimodulato,
ma non soppresso.
Ciascuno di noi ha bisogno di occupazioni sufficientemente attraenti, ben
remunerate, di alternare periodi di lavoro a periodi di studio, di un tempo
libero dilatato (d'altronde quello della progressiva diminuzione del tempo di
lavoro è una costante ineluttabile delle economie occidentali), di
contare di più all'interno delle organizzazioni produttive, di luoghi
di lavoro salubri e stimolanti.
Sono necessari ammortizzatori sociali che impediscano lo sviluppo di sacche
di povertà, offrire a tutti opportunità di formazione e di
cambiamento, concedere alle persone la possibilità di estrinsecare i
propri talenti.
Un capitalismo molto più simile a quello tedesco o
giapponese che a quello americano. Fatto di efficienza e di impegno
sì, ma anche di garanzie.
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