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La fase del pessimismo storico (1816-l820)
Il pensiero
leopardiano prende l'avvio da una meditazione sull'infelicità in sé,
della quale vengono indagate le cause, le dinamiche e le conseguenze.
Alla base c'è la teoria dell'amor proprio (di derivazione illuministica),
secondo la quale l'uomo è un essere che ama necessariamente se stesso e
mira alla propria conservazione e alla propria felicità. L'altruismo
è un controsenso: quando io faccio del bene ad un altro è perché
provo piacere, quindi lo faccio sempre a me stesso. L'altruismo non è il
contrario dell'egoismo, ma è una sublimazione dell'amor proprio, in
quanto esistere significa amare se stesso, cercare la propria felicità.
L'amor proprio non coincide con l'egoismo: quest'ultimo è una
degenerazione dell'amor proprio causata dallo sviluppo della civiltà e
dal predominio della ragione; è uno degli esiti di quel progresso
storico negativo, all'indietro, che è, secondo LEOPARDI, il passaggio
dai primitivi ai civilizzati. L'amor proprio è fonte di nobili azioni,
di sacrifici eroici; l'egoismo, invece, è calcolo meschino. L'amor
proprio è la volontà di potenza dei forti, l'egoismo è il
calcolo razionale del debole che uccide la vita.
LEOPARDI respinge le ideologie ottimistiche e le utopie rassicuranti del suo secolo,
si ribella alla meschinità del suo tempo e alle convenzioni del suo
ambiente, che giudica arido e gretto; rimpiange un mondo mitico di nobili
virtù e di valori incorrotti, in cui gloria e fama, unici antidoti
contro il grigiore della vita, erano possibili, conseguibili. Si scaglia con
veemenza contro i miti dell'Ottocento, la storia e il progresso, e contro la
stoltezza di un secolo che dalla filosofia della storia di Hegel
fino al balletto Excelsior esalta
l'uomo come creatore della realtà. Per LEOPARDI si tratta di un
antropocentrismo fanatico, al quale egli si oppone con forza, affermando che la
storia non è progresso, ma regresso dal primitivo stato di natura, buono
e felice, allo stato di civiltà, corrotto e decadente.
Nella storia del genere umano si distinguono quattro tappe:
1) l'età
primitiva, quando gli uomini vivevano in uno stato di perfezione e di innocenza
anteriore alla civiltà;
2) l'antichità classica, civiltà che LEOPARDI ammira come sintesi
equilibrata di natura e ragione (nello Zibaldone sostiene la
superiorità del politeismo greco-romano rispetto alla religione
cristiana);
3) il medioevo, nel giudicare il quale LEOPARDI incorre nei tipici luoghi
comuni dell'illuminismo (secoli bui, epoca negativa, trionfo della barbarie);
4) l'età moderna, con il predominio assoluto della ragione, la
freddezza, il convenzionalismo, il calcolo, la funzionalità, in una
parola la vita inautentica.
LEOPARDI rifiuta il
progresso civile e tecnologico, convinto che sia negativo in sé, poiché
l'incivilimento è snaturamento, allontanamento dalla natura: il mondo
è sempre più corrotto e non può essere corretto. Netta,
quindi, per LEOPARDI l'antitesi tra la remota grandezza e la miseria morale e
materiale odierna.L'antagonismo di LEOPARDI con gli
orientamenti spirituali e culturali del proprio tempo si manifesta anche
nell'impegno in favore dei classicisti, i quali devono assolvere il duplice
compito di riproporre i valori classici, che hanno funzione liberatoria e di
stimolo delle coscienze, e di scrivere per il proprio tempo (= alfierismo). Causa della decadenza è la ragione,
'nemica della natura', corruttrice dei costumi, madre della
civiltà e della società con tutti i loro egoismi, distruttrice
del rimpianto mondo eroico. Sogno è ritrovare la 'favilla
antica', cioè la vivacità dell'immaginazione, la forza delle
illusioni, la vitalità dell'ieri contro la delusione dell'oggi,
attraverso il meccanismo della ricordanza.
Come già il Foscolo, anche LEOPARDI avverte la necessità
delle illusioni (gloria, amor proprio, amor di patria, libertà, onore,
virtù, amore per la donna), che sono secondo natura e costituiscono
l'unico antidoto agli effetti della civiltà e della ragione, i quali
hanno guastato il mondo moderno, 'tristissimo secolo di ragione e di
lume'; e come il Foscolo nei Sepolcri, così anche
LEOPARDI concepisce la poesia come stimolatrice di illusioni.Tutta la storia
del genere umano è la storia della lotta tra la felicità e il
vero, tra l'illusione e la realtà, tra la vita e il sogno. La
realtà è banale e cattiva, vere sono solo le illusioni, ossia le
speranze, di cui l'umanità si nutre e che non può abbandonare
senza cadere nella disperazione. 'Larve' definisce LEOPARDI le
illusioni in cui l'uomo crede nella sua età giovanile, ovvero in quel
'sabato del villaggio' che precede il giorno più noioso che
è il giorno della 'festa di sua vita'; sono le illusioni che
impediscono di scorgere la tragedia del vivere. E le illusioni rappresentarono
veramente l'unica motivazione alla vita per l'adolescente Giacomo, che le ricorda
con accenti commossi in uno degli squarci più elevati della sua lirica,
i vv. 77-l03 delle Ricordanze.
La realtà è illusoria: manifestando un'evidente consonanza con Schopenhauer, LEOPARDI sostiene la coincidenza di vita e
sogno, essendo la realtà niente altro che sogno, come scrive Calderòn de la Barca. Questo concetto è
ribadito nelle opere della maturità (Operette morali e Canti posteriori
al '27). Nel Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare si
legge: 'Sappi che dal vero al sognato non corre altra differenza se non
che questo può qualche volta essere molto più bello e più
dolce, mentre quello non può esserlo mai'. E il verso
conclusivo di A se stesso ('l'infinita vanità del tutto')
sottolinea che il vero è nemico della felicità. LEOPARDI mostra
qui il suo paradosso: un'educazione illuministica che si rivolta contro
l'illuminismo, un illuminista antiilluminista, un
uomo educato al culto della ragione (che dissipa le tenebre della superstizione
e liquida come favole le verità della religione), il quale distrugge i
miti stessi dell'illuminismo e afferma la superiorità rispetto al vero
di ciò che è pensato, sognato e sperato. Nel Dialogo di Timandro e di Eleandro tale
concezione è così espressa:
'Si ingannano grandemente quelli che dicono e predicano che la perfezione dell'uomo consiste nella conoscenza del vero, e tutti i suoi mali provengono dalle opinioni false e dall'ignoranza, e che il genere umano allora finalmente sarà felice, quando ciascuno o i più degli uomini conosceranno il vero, e a norma di quello solo comporranno e governeranno la loro vita.'
LEOPARDI nega in tal modo l'essenza, il 'vangelo' dell'illuminismo: la felicità è data non dalla conoscenza del vero, bensì dalla sua ignoranza; sapere di più significa soffrire di più, e chi aumenta la conoscenza aumenta anche il dolore, come dice la Bibbia. Tutta la poesia A Silvia esprime in termini altamente lirici questa concezione.
In conclusione, la sostanza del pessimismo storico leopardiano si esprime in quattro antinomie, nelle quali il primo termine ha valenza positiva, il secondo negativa:
valenza positiva |
|
valenza negativa |
natura |
vs |
ragione |
antico |
vs |
moderno |
stato naturale |
vs |
società |
illusione |
vs |
vero |
4 - La fase del pessimismo cosmico (1823-l830)
A partire dagli anni
del cosiddetto 'silenzio poetico' (1823-27) LEOPARDI opera un
progressivo ribaltamento della concezione iniziale, giungendo a riabilitare la
ragione contro la natura. Continuando ad analizzare le cause
dell'infelicità umana, egli osserva che il naturale impulso vitale
è contrastato e ostacolato, a livello individuale, da un duplice limite,
biologico e ontologico; a livello storico da un terzo limite, l'egoismo, che
egli definisce 'peste della società'. Il limite biologico
consiste nell'intrinseca debolezza dell'uomo, il quale, al pari di ogni altro
essere vivente, è subordinato al ciclo meccanicistico della materia. Di
qui la scoperta della propria fragilità e solitudine. Il limite
ontologico è dato dall'impossibilità di essere felici: la natura
genera nell'uomo una tensione irrefrenabile verso la felicità, un
anelito costante al piacere, ma la felicità è irraggiungibile,
giacché, in quanto tale, deve essere infinita e pienamente apante; di
conseguenza la ricerca di essa conduce inevitabilmente ad una finita e concreta
infelicità. I piaceri momentanei che si provano nella vita non sono
altro che una tregua relativa e passeggera dell'infelicità.Per
comprendere a fondo queste ultime affermazioni, occorre rifarsi alla teoria
leopardiana del piacere, secondo la quale il piacere non né è assoluto
né infinito; anzi, il piacere in sé non esiste: esiste solo nel desiderio,
essendo un 'subbietto speculativo', vale a
dire un puro concetto. Il desiderio è immaginazione, speranza, sogno,
proiettato sempre al futuro e sempre destinato ad essere deluso. Invece del
piacere esistono i piaceri, intesi in senso negativo come cessazione
dell'affanno, brevi momenti di assenza del dolore; concreti ed effimeri,
rendono sopportabile il dolore, restituendo momentaneamente la vitalità,
l'impulso vitale.La teoria del piacere, il cui carattere è negativo,
è strettamente legata alla teoria dell'amor proprio. L'amor proprio,
infatti, implica la ricerca della felicità, ma questa ricerca è
senza esito, non può avere fine, quindi non può mai aparsi.
L'uomo cerca il piacere sempre, ma non può accontentarsi del piacere che
trova, che è finito; egli è pertanto destinato a cercare il
piacere in qualcosa di sempre diverso, di sempre più alto: ciò
significa che non lo trova mai. La tragicità della condizione umana è
in questa ricerca dell'infinito, che conduce sempre allo scacco.
Il piacere è sempre
sperato, mai posseduto, sempre futuro, mai presente: esso sfugge sempre. Non
esistendo e non potendo esistere realmente, esiste solo nel desiderio del
vivente e nella speranza o aspettativa che ne segue. In base a questa teoria il
concetto di piacere è negativo, quello di dolore è positivo, per
cui si può dire che il piacere è la mancanza del dolore, ma non
si può dire che il dolore è la mancanza del piacere, ovvero di
qualcosa che non esiste. Il concetto è espresso poeticamente nei
seguenti versi tratti da La quiete dopo la tempesta:
Piacer lio d'affanno; |
È questa la concezione del piacere negativo, perché, se per caso cessa il dolore, di cui il piacere è la negazione, non subentra il piacere, ma qualcosa di peggio, che nella dialettica di LEOPARDI è la noia. Il dolore, infatti, non esclude che l'uomo cerchi e speri di superarlo, mentre la noia è angoscia e disperazione. E allora, per LEOPARDI come per Schopenhauer, la vita oscilla inarrestabilmente come un pendolo tra il dolore e la noia, in un eterno meriggio privo di tramonto ristoratore.Il limite storico è dato dalla inconciliabilità di individuo e società, tra i quali si determina uno scontro di egoismi. L'atteggiamento dei singoli è antisociale: ognuno cerca sempre di avere di più, di soverchiare gli altri, di sottomettere tutto e tutti al proprio utile o piacere. E ciò per natura. Ne consegue che tutte le società sono state cattive (superamento del pessimismo storico) e che, a causa appunto dell'egoismo e dell'aggressività umani, ci si avvia inesorabilmente alla distruzione del mondo, già data per avvenuta nel Dialogo di un folletto e di uno gnomo. Di qui la polemica contro l'ingenua fiducia del XIX secolo nel progresso scientifico e tecnologico, nelle macchine, nell'espansione economica, che comporta lo sfruttamento industriale e il colonialismo.Considerati i tre suddetti limiti, LEOPARDI conclude che tutto è male. Esistere equivale ad essere perennemente insoddisfatti, incontentabili, a soffrire per la propria fragilità. Il bene consiste nel non esistere. Responsabile del male è la natura, non più vista come provvida e benefica madre, bensì come causa dell'infelicità umana. Essa con l'esistenza ci dà i germi dell'infelicità, essendo l'insopprimibile bisogno di felicità destinato a restare insoddisfatto.
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