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L'infanzia e la
giovinezza di Vasco Pratolini, nato a Firenze nel 1918, sono state
particolarmente dure e travagliate e la sua formazione è stata alquanto
diversa da quella tradizionale del letterato italiano. Orfano di madre a cinque
anni, vive coi nonni, modestamente, prima in via de' Magazzini poi in via del
Corno (che descriverà nei suoi romanzi), fa studi irregolari e vari
mestieri fino a diciotto anni: lasciato poi il lavoro si impegna in un intenso
studio da autodidatta, ma negli anni fra il 1935 e il 1936, ammalatosi di
tubercolosi, viene ricoverato in sanatorio.
Torna a Firenze nel 1937, stringe contatti con l'ambiente letterario (Vittorini
fra gli altri, col quale condivide la breve illusione del 'fascismo di
sinistra'). Nel 1938 fionda con Alfonso Gatto un polemico foglio
letterario, «Campo di Marte, poi si trasferisce a Roma, dove nel 1941 pubblica
un suo primo libro di racconti Tappeto verde, e partecipa alla Resistenza. Dopo
una parentesi milanese come giornalista, si trasferisce nel dicembre 1945 a
Napoli, dove vive sino al '51; insegna all'Istituto d'arte e intanto scrive
Cronache di poveri amanti (1947), Un eroe del nostro tempo (1949), Le ragazze
di San Frediano (1949).
Tornato definitivamente nel 1951 a Roma, pubblica nel 1955 Metello, primo testo
della trilogia Una storia italiana, proseguita con Lo scialo (1960, ma
rielaborato notevolmente in una nuova edizione del 1976) e con Allegoria e
derisione (1966): si tratta di «un grande affresco storico intriso di interessi
ideologici, sociali, e morali: dalla lotta per il riscatto sociale del mondo
operaio, in Metello, attraverso il quadro della società borghese durante
il fascismo con Lo scialo, fino alla crisi delle ideologie nel dopoguerra
consegnata alle ine inquiete di Allegoria e derisione» (G. Luti).
La pubblicazione nel 1981 de II mannello di Natascia - testimonianze e
notazioni risalenti agli anni Trenta - ha interrotto il lungo silenzio seguito
alla pubblicazione della trilogia. Pratolini è morto a Roma nel gennaio
del 1991.
Ersilia e
Metello
Accingendosi a comporre, agli inizi degli anni Cinquanta, una trilogia (di cui
Metello costituiva il primo volume) Pratolini mirava a superare l'orizzonte del
'quartiere' - dimensione tipica, prima, della sua narrativa (si pensi
a Cronache di poveri amanti) - e ambiva a dare un quadro più ampio e
articolato della società italiana nel suo svolgimento, a partire dalla
fine dell'Ottocento.
In Metello è rappresentato il periodo che va dal 1875 al 1902 attraverso
le vicende di Metello Salani, lio di un anarchico, che rimasto presto orfano
viene quindicenne a Firenze e trova lavoro come manovale. Concepito dal
narratore come 'eroe positivo', Metello attraverso le esperienze di
lavoro acquista consapevolezza politica e si impegna attivamente nelle lotte
operaie (nel 1898 è in carcere per aver partecipato a una manifestazione
di protesta). Il romanzo culmina con la descrizione del lungo sciopero dei
muratori del 1902, in occasione del quale il protagonista viene di nuovo
arrestato. Alla progressiva consapevolezza politica del protagonista: il
narratore unisce l'educazione sentimentale l'amore per Ersilia, lia di un
anarchico morto per un incidente sul lavoro, il matrimonio nel 1900, uno
sbandamento per una banale avventura proprio durante lo sciopero del 1902, il
riconquistato equilibrio familiare.
Sul Metello, subito dopo la pubblicazione, si accese un vivace dibattito
specialmente fra quei critici che per ragioni di militanza politica (nei
partiti della sinistra e soprattutto nel PCI), parteggiavano per una narrativa
neo-realistica. Alcuni sottolinearono il fatto che con questo romanzo Pratolini
tendeva (ed era questo un dato positivo) ad una rappresentazione della
società italiana nei suoi conflitti di classe, nella varietà dei
suoi ambienti ben più ampia di quanto non avesse fatto prima; altri
ritenevano non riuscito tale tentativo.
Carlo Muscetta - un critico che si è sempre distinto per la
perentorietà dei suoi giudizi e per il rigorismo ideologico-si espresse
con particolare severità sul Metello, lamentando che nella
rappresentazione del protagonista Pratolini proceda su due parallele che non si
incontrano, cioè rappresenti ora la dimensione sentimentale di Metello
che sfarfalla dietro le donne, ora invece la sua dimensione operaia e la progressiva
acquisizione di una coscienza di classe e di una consapevolezza politica.
Si potrebbe verificare la validità o meno di questo giudizio con una
puntuale lettura del romanzo (e abbiamo fornito queste informazioni anche per
suggerire un lavoro di approfondimento in questa prospettiva); vogliamo
però sottolineare che nel testo proposto i due piani, le due dimensioni
si fondono perfettamente: per quanto riguarda specificamente questo problema,
queste ine sono a nostro giudizio fra le più felici del Metello.
Esperienza sentimentale e maturazione politica qui si integrano a vicenda, e
così un tema frequente nella narrativa di Pratolini - lo sbocciare degli
amori giovanili -si cala in una solida rappresentazione dei fermenti e delle
lotte di una categoria operaia in un preciso clima storico.
Cronache di poveri amanti L'epopea di
Via del Corno
Le vicende che il romanzo mette in 'cronaca' sono ambientate in Via
del Corno, a Firenze, negli anni che vanno all'incirca dal '20 al '25, gli
stessi che registrano in tutto il paese gli scontri forse più duri tra
fascisti e antifascisti. «Lunga cinquanta metri e larga cinque», quotidiano
teatro di una commedia umana che ha nel popolino il suo protagonista, la strada
consumala propria esistenza in un'ordinaria altalena di gioie e di affanni,
oppressa da una secolare povertà ma decisa a rifiutarsi per quanto
può, «quasi un'isola, un'oasi nella foresta», alla violenza che la
circonda, che pure la stringe e la minaccia da vicino. E come ha imparato a
convivere, fingendo d'ignorarlo, con il Male Naturale rappresentato dalla
Signora, demoniaca presenza che da sempre la sovrasta, così esorcizza il
Male Storico con battute a mezza bocca, ospitando ugualmente in sé, porta a
porta, i «sovversivi» Maciste, Ugo e Mario e i «camerati» Osvaldo e Carlino,
«cornacchiai» di lontana o recente estrazione (cap. r-mn). Fino alla Notte
dell'Apocalisse: quando Maciste, gigante buono, comunista per scelta di
'cuore', trova la morte per mano dei fascisti, e di Osvaldo e Carlino
in particolare. dopo una corsa disperata nel deserto della città per
salvare da un'imboscata alcuni esponenti dell'apparato clandestino (cap. XIV).
È questo l'evento drammatico, risolutorio, che imprime una svolta
profonda nella vita della strada, nel destino dei vari personaggi: alle
consuete gelosie, rivalità, ripicche, si assomma adesso la paura, la
diffidenza reciproca, il palese o segreto ricatto; e poiché sono i giovani,
soprattutto, a uscirne cambiati, nel 'sentimento' che hanno di sé e
di ciò che li attende, nascono fra loro amori nuovi, o se ne rompono di
antichi, mentre l'amaro di giorni difficili si stempera a tratti in qualche
improvvisa dolcezza, in un'accensione talvolta di becera allegria. E a un certo
punto nessuno, giovane o vecchio che sia, riuscirà a mantenersi davvero
neutrale: alcuni proseguiranno l'opera di Maciste, andone variamente lo
scotto, altri si iscriveranno al fascio, altri ancora, i più, opteranno
per una ostinata, rancorosa, «muta protesta», «l'unica forse» che i tempi
permettono (cap. XV-XXIV). Ma non è che l'inizio: perché nelle
confidenze che i bambini si scambiano, giocando per la via, è già
la promessa di un domani diverso (cap. XXV).
Il progetto di un romanzo su Via del Corno, paese ed emblema per l'autore della
propria adolescenza, del primo amore, dell'educazione al dolore e a «certe
umane privazioni», risale addirittura al 1936, come dichiara Pratolini e come
risulta dall'annuncio che ne diede Vallecchi, nel '3g, ai suoi lettori. Ma
occorsero poi molti anni di preparazione e riflessione, e occorse soprattutto
il vento nuovo dell'Italia postbellica, perché il libro venisse finalmente
scritto, nella primavera-estate del '46, a siglare un punto d'arrivo oltreché
di partenza, la conquista di una dimensione narrativa in cui le ragioni della
memoria, e della fantasia, si saldano con quelle della storia, di una precisa
ideologia. Meglio ancora, le Cronache rimandano al momento in cui la poetica di
Pratolini accoglie in sé l'esigenza, maturata nel tempo, di «riportare al
presente il passato remoto e l'imperfetto delmemoria - I processi di memorizzazione dall'acquisizione al richiamo - Studi comparati" class="text">la memoria», di rivendicare alla
letteratura «un potenziale anche operativo, d'intervento», di assecondare a
fondo «un'illusione populista, perché no?» che all'autore apparteneva da
sempre. E quello che avrebbe dovuto essere, e per certi aspetti rimane, un
romanzo 'di formazione', di apprendistato alla vita, viene ora
delegato a una funzione primariamente documentaria, «a testimonianza se vuoi
riduttiva, ma riduttiva per l'ambizione di renderla maggiormente esemplare di un'epoca
terribile e oscura, in cui tuttavia sussistevano uomini liberi, e in cui,
tra inganni e miseria nera spesso, si perpetuavano i sentimenti e l'amore».
L'esperienza del Quartiere si rinnova insomma nelle Cronache alla luce di uno
specifico, deliberato 'impegno' creativo, entro un'ottica che
manifestamente si rivela marxista, e a partire dalla scelta dell'autore, fino
allora per lui inusuale, di «non mettere in scena la propria persona», di
estraniarsi dall'azione, di parlare anzi per la voce di un narratore a sua
volta fuori campo.
Personaggi e
motivi dominanti
Romanzo corale per antonomasia, le Cronache non hanno un solo protagonista ma
tanti quanti sono gli abitanti di Via del Corno: una piccola folla di
personaggi umili, plebei, fiorentinamente sapidi e faziosi, che Pratolini
organizza in un sistema apparentemente elementare di
eroi-mediatori-antagonisti. Eroe per eccellenza è Maciste, il maniscalco
che è stato «Ardito del Popolo» ed è diventato poi un pilastro
dell'organizzazione comunista, «amico di tutto il mondo compreso nel
quadrilatero di piazza Signoria, piazza Mentana, San Simone e Santa Croce»
(cap. i); e antagonista prima è la Signora, autentico «Maresciallo
dell'Armata Nemica», «una creatura che ha posto se stessa al centro
dell'universo» (cap. XX), il cui sguardo non a caso ha la stessa fissità
e lo stesso potere di suggestione di quello di «Colui che regge il governo
della nazione». Dal cono di luce che investe la ura di Maciste prendono
corpo i personaggi positivi, chiamati a sentimenti puri, a un eros vitale,
sano, e insieme quasi inevitabilmente alla causa antifascista; nella zona
d'ombra della Signora si muovono invece i personaggi negativi: coloro che
un'intima fatale debolezza, o una costituzionale arroganza, condanna a legami
torbidi, morbosi, e anche nel tempo alla complicità e all'ossequio nei
confronti del regime. In mezzo quelli che l'età preserva da ogni
passione troppo accesa, o cui l'urgenza del bisogno economico impedisce una
compromissione esplicita, attiva: ma in un contesto dove il termine
'coscienza', per tutti, significa istinto, significa cuore, e dove la
lotta politica, come già quella tra il Vizio e la Virtù, rimanda
in primo luogo a una questione di 'natura', di 'antico sangue',
di irriflesse e differenti inclinazioni. Avviene perciò che i comunisti
siano tali, in Via del Corno, senza aver letto il Capitale, in obbedienza
piuttosto a un impulso insopprimibile, profondo; al pari dei fascisti, che
rispondono soltanto a un'opposta vocazione, che poco o nulla sanno davvero dell'ideologia
cui prestano servizio. E sono dunque, in qualche modo, immeritevoli e
incolpevoli entrambi, accomunati da un peccato originale che è
intrinseco agli anni e al mondo cui appartengono, e che si traduce in una
limitata, o assente, consapevolezza di sé e delle proprie ragioni. Da qui il
gioco di chiaroscuro che impronta nei fatti la fisionomia dei vari personaggi,
che ne attenua il portato paradigmatico nel bene e nel male, che la rende
suscettibile di eventuali progressive modifiche: come nel caso di Gesuina, che
da abulica «schiavetta» della Signora, accede, per la sola forza dell'amore, a
un'identità e a un destino radicalmente diversi. Ma perfino la distanza
tra Maciste e la Signora, pure vastissima, esemplare, risulta per certi aspetti
colmata dall'incapacità che li caratterizza di dominare i soprassalti
del cuore, di sfuggire alla tirannia dei sentimenti: e se l'uno sconta con la
morte un atto di coraggio, un moto d'altruismo, che il partito stesso gli
avrebbe rimproverato, «Angelo dell'Annunciazione» che s'immola, dimentico dei
propri doveri, così la Signora impazzisce, di una disperata e oscena
follia, perché delusa nel suo ultimo perverso sogno d'amore, «Divinità
ingiuriata» che ribadisce fino in fondo, anche contro se stessa, il diritto a
regolare la propria esistenza «secondo gli umori e i1 caso personali».
La voce fuori
campo
È quella di un narratore che in Via del Corno havissuto, che la conosce
e la riconosce come parte del proprio passato, che dice sempre «la nostra
strada»; ma che non ura tra i personaggi, che li guarda dall'esterno e
dall'alto, che ha maturato nei loro riguardi una coscienza lucida, intera,
storicamente e letterariamente fondata. Che ne parla quindi con un misto di
affetto e disincanto, alternando i modi dell'apostrofe diretta («Tu sei
Maciste» cap. XIV; «Ma si può, Bianca, venir meno al proprio
destino?», cap. XXII) a quelli di una testimonianza superiore, oggettiva («Ugo
era un uomo vinto che piangeva», cap. XV); disposto a trasmettere pensieri ed
emozioni come fossero suoi propri («Più avanti, più veloci:
è la vita che noi portiamo!», cap. XIV) e tuttavia incline, più
spesso, al commento, a1 giudizio, magari alla smentita (« È lo zelo che
lo spinge? 0 spera che sia questa operazione a determinare finalmente la sua
nomina a maresciallo?», cap. VI). Onnipresente e onnisciente come nei romanzi
del grande realismo ottocentesco, bada anche a coltivare un rapporto molto
stretto, costante, con il lettore: e se da un lato lo coinvolge e lo ammonisce
con interrogative retoriche ed esortazioni varie («Non ha dunque una coscienza
la Signora?», cap. XX; «Ma iamogli dentro il cuore ai cornacchiai», cap.
XXIV), dall'altro ne soddisfa appieno la curiosità con una fitta serie
di rimandi a ciò che è stato o che dovrà accadere («A
questo egli è pervenuto attraverso delle crisi », cap. mm; «Noi pure
incontreremo Gesuina», cap. VI). Ma è attento soprattutto, il
narratore, a non tradire il suo ruolo di cronista a evidenziare la presunta
contemporaneità del racconto rispetto alla vicenda, oppure, ancora
oltre, ad accampa e l'uno e l'altra in un presente storico e metastorico
insieme: da qui la sua riluttanza a fare uso dell'imperfetto e del passato
remoto, tempi verbali della memoria o del recupero 'a freddo',
distaccato, di eventi in ogni caso lontani. Mentre lascia spazio volentieri, di
frequente, alla voce viva dei suoi personaggi: nei dialoghi, talora paralleli,
sovente ad apertura di modulo, e in certa cronaca spicciola, un po'
pettegola, di ciò che passa per la via (affidata per lo più a
quello «storico minimo», interno, che è il «Cuba» Staderini).
Così che l'esito finale è quello di un romanzo per il quale si
è parlato ripetutamente di una tecnica e una struttura drammaturgiche,
teatrali: Via del Corno, cioè, come la scena fissa e multipla, assunta
comunque a funzione simbolica, in cui si rappresenta uno spettacolo con attori
presi dalla strada: dove il narratore funge da regista, da intrattenitore, da
esperto delle luce e dei suoni, e dove la presenza dell'autore, nascosto fra le
quinte, si avverte pur sempre nel copione cui la commedia si attiene, nelle
«creste gnomiche» che la percorrono, nell'aria tutta, di commossa ritrovata
speranza, che vi si respira.
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