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PARADISO CANTO XVII commento
Fetonte, avendo udito da Epafo
(suo coetaneo e lio di Giove), che egli non era lio di Apollo, dio del
sole; volle sapere dalla madre Climene la verità sulla sua nascita.
Allora Apollo, per persuaderlo, gli concesse di guidare per un giorno il carro
del sole e questo fatto fu poi causa della morte di Fetonte
(cfr. Inferno XVII, 106-l08; Ovidio, Metamorfosi I,
747 sgg.).
Anche Dante, come Fetonte, è ansioso di
conoscere la spiegazione di quanto ha udito incontro a sé da Farinata (Inferno
X, 79-81 ), Brunetto Latini ( Inferno XV, 61-72 ), Vanni Pucci ( Inferno XXIV,
140-l51), Oderisi da Gubbio (Purgatorio XI, i39-l41).
Su uno sfondo pervaso di passione morale ( l'immagine dell'antica Firenze
presentata al mondo come modello dell'invocato rinnovamento) e di note intime
del cuore (la dolorosa meditazione sulla sua travagliata sorte), si profila ora
la ura stessa del Poeta, la cui storia ha un inizio preciso ( tu lascerai
ogni cosa diletta più caramente), con vicende ben determinate (il pianto
del distacco: tal di Fiorenza partir ti convene;
l'amarezza del mendicare: tu proverai si come sa di sale lo pane altrui; il
peso dell'incomprensione e della diffidenza: quel che più ti
graverà le spalle, sarà la comnia malvagia e scempia; la prova
cruciale della solitudine: averti fatta parte per te stessso),
per sublimarsi poi nella certezza di una missione morale (versi 124-l35) e di
un futuro di gloria ( verso 98 ). Il contrasto fra
Ippolito, lio di Teseo, avendo respinto le offerte amorose della matrigna
Fedra, fu da questa accusato di aver tentato di sedurla; il padre,
maledicendolo, lo scacciò da Atene ( cfr.
Ovidio - Metamorfosi XV, 497 sgg.).
Bonifacio VIII da tempo era intervenuto nella vita
politica fiorentina, aiutando le mire dei Neri contro i Bianchi, il partito al
quale Dante apparteneva. Il Poeta, sia come priore sia come membro dei vari
Consigli della città, si era opposto con decisione ai piani del
pontefice, che minacciavano la pace del comune. Come rivelano chiaramente le
parole di Cacciaguida (l'osservazione è del Chimenz), Dante ha la convinzione di essere stato vittima di
una personale animosità del pontefice contro di lui.
Tosto verrà fatto: Dante lascio Firenze alla fine dell'ottobre 1301 con
1'abasceria inviata dalla città a Bonifacio VIII per chiedere assicurazioni in occasione
della discesa in Italia di Carlo di Valois. Dopo
l'entrata del principe francese a Firenze (1novembre 1301), Dante probabilmente
non ritornò più nella sua città. La sentenza del 27
gennaio 1302 lo condannava a are cinquemila fiorini, a due anni di confino,
all'esclusione perpetua da qualunque ufficio. fu confermata il 10 marzo 1302,
con un bando che comminava a Dante anche la pena di morte.
La voce pubblica, come accade di solito, attribuirà la colpa delle
discordie civili ai vinti, ma la giustizia divina si abbatterà sui veri
colpevoli. La profezia, alla quale il Poeta conferisce un tono volutamente
indeterminato, allude ai tristi eventi che funestarono Firenze e il partito dei
Neri dopo la cacciata dei Bianchi e, in particolare, alla misera fine dei suoi
due implacabili nemici, Corso Donati ( cfr.
Purgatorio XXIV, 82-90) e Bonifacio VIII (cfr. Purgatorio XX, 86-90).
I fuorusciti Bianchi e Ghibellini, unitisi fra di loro, tentarono a più
riprese di ritornare a Firenze con le armi. Nei documenti di un convegno
preparatorio, quello di San Godenzo nel Mugello (8
giugno 1302), e anche il nome di Dante. Subito dopo, però, il
Poeta si allontanò dai comni di esilio e non prese parte al tentativo
che si concluse con la sanguinosa sconfitta della Lastra (20 luglio 1304), alla
quale, probabilmente, egli intende riferirsi con l'espressione n'avrà
rossa la tempia. Non conosciamo con esattezza i motivi che portarono alla
rottura fra Dante e gli altri fuorusciti, sui quali il Poeta esprime qui un
giudizio particolarmente duro, né sappiamo quali colpe essi gli imputassero per
odiarlo al pari dei Neri (cfr. Inferno XV, 70-72). Il
Del Lungo ha avanzato questa ipotesi: 'lo sconforto del suo ritrarsi, la
sfiducia nell'opera loro, il dissenso circa le opportunità dell'operare
o dell'attendere, furono interpretati come defezione, e quasi come tradimento,
dalla comnia sciagurata'.
L'esilio è certamente il momento centrale e decisivo della vita di
Dante: la sua personalità raggiunge la piena formazione, il suo spirito
si apre ad una più ampia visione dei problemi umani, la sua forza morale
si tempra nelle difficoltà e nel dolore dell'esule. L'argomento
fondamentale del presente colloquio con Cacciaguida
è l'esilio. Per tale motivo il XVII 'fra i cento del poema si
può chiamare il canto di Dante. E' il canto dell'esilio, della
dignità, dell'onestà imperterrita: ed è la chiave del tono
artistico che assume l'etica della Commedia. La quale è, prima di tutto,
il rifugio di un'anima esulcerata in un mondo di giustizia, che ristabilisce l'equilibrio
rotto in terra fra virtù e premio, vizio e castigo. Questo duro
atteggiamento di sacerdote della giustizia è solenne e vibrato
più che altrove in questo canto. I primi ventiquattro versi (46-69)
della risposta di Cacciaguida, quelle rime risolute e
gagliarde, quei periodi monumentalmente isolati,
quelle frasi ora quasi sillabate (49-50, 64) ora tempestose (51, 54) ora
tenacemente ribadite (69) ora rallentate dal rimpianto e dall'amarezza (55-56,
58-60), quella frenata irruenza, lo scandiscono maestosamente. Non lasciano l'impressione
d'una vicenda individuale, ma d'un dramma della storia che si ripercuote
nell'alto' (Momigliano). Infatti per il Poeta,
in questo momento, la narrazione delle vicende del suo esilio non è uno
sfogo personale, una ina autobiografica fine a se stessa: non si tratta,
cioè, solo del suo caso personale. Si tratta di sapere che egli con
l'esilio incomincerà la sua missione nel mondo. Cacciaguida
non si soffermerebbe sulle sofferenze transitorie della vita dell'esule, se
queste non costituissero una prova e un presagio. La storia del Poeta è
congiunta, come ogni cosa, ogni personaggio della Commedia, a una visione
escatologica del mondo. Questa caratteristica costante della narrazione
dantesca spiega la compostezza e fermezza di linee con cui il Poeta, attraverso
un continuo ricorso alla metafora e alle urazioni visive, si rivolge al suo
dramma umano, chiarificando la voce delle passioni terrene nell'orbita del
senso del divino: ' Il ritmo delle terzine si fa staccato e forte, i
netti contorni delle cose ci trasportano in una atmosfera tesa e chiara.
È pur sempre la solennità paradisiaca, ma provveduta di un timbro
più distinto, proprio quando l'argomento si volge a delineare un umano
destino: ma il destino umano di Dante è pronunciato da una voce superna
e in quel destino di uomo si compendia la sacra missione di un rinnovamento del
mondo' ( Malagoli ) .
Il gran Lombardo è, secondo la maggior parte dei commentatori antichi e
moderni, Bartolomeo della Scala, signore di Verona, morto nel marzo 1304 E'
perciò da escludere l'ipotesi di chi ritiene trattarsi del padre
Alberto, morto prima ancora dell'esilio di Dante o del fratello e successore,
Alboino, che il Poeta giudica severamente in un passo del Convivio (IV, XVI,
6). Verona, quindi, fu la prima tappa dell'esilio dell'Alighieri, subito dopo
la sua separazione dalla comnia malvagia e scempia. Il soggiorno, tuttavia,
fu molto breve, tanto che di esso non è rimasta alcuna notizia, mentre
ben più lungo e importante fu quello avvenuto durante la signoria di Cangrande.
'N su la scala porta il santo uccello: lo stemma degli Scaligeri e una scala in
cima alla quale e l'aquila, l'uccello santo perché insegna dell'lmpero voluto da Dio.
Cangrande, fratello minore di Bartolomeo, nacque il 9
marzo 1291 e dopo essere stato associato al governo da Alboino nel 1311, alla
ssa di questo (1312) divenne signore assoluto di Verona fino al 1329,
anno della sua morte. Egli ricevette con particolare intensità
l'influsso del pianeta Marte, che dispone a forti imprese in campo militare.
Il pontefice Clemente V, originario della Guascogna (cfr.
Inferno XIX, 83), nel 1310 invitò Arrigo VII in Italia per ristabilirvi
l'autorità imperiale. In un secondo tempo divenne fautore degli
interessi della casa francese degli Angiò, che mirava ad estendere il
suo dominio in Italia, e ostacolò l'imperatore nel suo tentativo.
Le sue magnificenze conosciute saranno: tutti i cronisti e gli scrittori del
tempo sono concordi nell'esaltare le doti militari e politiche di Cangrande della Scala, nonché la sua liberalità
(Villani Cronaca X, 140; Petrarca - Rerum memorandarum
liber 11, 83-84; Boccaccio Decamerone
I, VII, 5 ) . Dante, che fu suo ospite dal 1315 al 1320 circa, vide in lui un
possibile restauratore dell'autorità ghibellina, e quindi imperiale, in
Italia, lodandolo anche nella Epistola XIII, 2-3.
Dopo che gli amori, gli odi, i dolori dell'esilio si sono risolti e assommati
in quel - fatta parte per te stesso, ('dov'è, commenta il Grabher - l'orgoglio e il dramma di una solitudine a cui
giungono i sublimi cercatori di quelle vette inaccessibili che danno si
l'ebbrezza di sentirsi al di sopra di tutti, ma anche la sdegnata tristezza di
vedere che nessuno ti segua e ti raggiunga' ), l'animo del Poeta si riposa
sereno nell'oasi dell'ospitalità di signori generosi e
'cortesi' che sotto l'insegna del santo uccello fanno sperare a Dante
qualcosa di più di un aiuto per le sue necessità materiali,
perché negli Scaligeri, e in modo particolare in Cangrande,
il Poeta confidava per la realizzazione di uno dei suoi più alti ideali:
la restaurazione dell'Impero. 'Questo di Dante a Cangrande
è infatti un elogio che trascende non dico ogni forma di interessata
adulazione, ma perfino quasi la personale riconoscenza che pure il Poeta ebbe e
che certo dà lo spunto alla accesa esaltazione. Se infatti nell'elogio
del gran Lombardo, che pure vedi come ideale incarnazione di cortesia,
v'è un cenno al personale riguardo avuto verso il Poeta, in Cangrande il Poeta sublima quasi la virtù in se
stessa e per se stessa, idealizzando nella fortezza, nella liberalità,
nella giustizia di lui, in tutte le sue magnificenze, le alte virtù di
un perfetto reggitore, ben degno del sacrosanto segno che egli porta 'n su la
scala.' (Grabber). Prima di proclamare il valore
della sua poesia e la missione della sua arte, Dante ha così
tratteggiato gli ideali che essa si propone di realizzare in terra: la
città ideale (Firenze), il cittadino ideale (Cacciaguida),
il sovrano ideale (Cangrande). E al di sopra di tutto
questo la voce, il grido della sua poesia.
Nell'ultima parte del canto il dialogo fra Dante e Cacciaguida
diventa, palesemente, un protratto monologo che il Poeta recita a sé stesso. Un
doloroso contrasto tante volte avvertito nelle sue peregrinazioni d'esilio, frena
in lui l'ardore messianico che Cacciaguida vuole
comunicargli. L'esule ha bisogno d'aiuto, deve dipendere dagli altri,
specialmente dai potenti, proprio quelli contro i quali il suo grido si
è levato con più violenza: la sua coscienza dovrà, dunque,
venire a patti con il vero; tuttavia solo la verità assicura all'uomo la
fama tra coloro che questo tempo chiameranno antico. Brevi, violente metafore
scoprono questa tensione interiore che si è venuta accumulando nel mondo
sanza fine amaro e nel monte dal bel cacume: il tempo
sprona verso il Poeta per colpirlo con tagliente ferro (versi 106-l07) e solo
chi è tetragono non s'abbandona, ma può 'armarsi' di provedenza. Dopo la dichiarazione dei versi 112-l20, che ha
il sapore di una rabbiosa confessione, quasi il Poeta si sentisse prigioniero
delle meschine necessità della vita, Cacciaguida
non spiega, non giustifica, impone: tutta tua vision fa manifesta. Nei versi
124-l42 'lo stile, dapprima così tenero ed affettuoso quando si
descrivono i dolori dell'esilio, prende una magnificenza epica ispirata
dalla grandezza dell'animo, è il trionfo della dignità umana
sopra quei bassi calcoli d'interessi perituri che costituiscono ciò che
dicasi la prudenza; il trionfo della poesia sulla parte prosaica
dell'anima' (De Sanctis). La crudezza plebea del
verso 129 (e lascia par grattar dov'è la rogna) diventa allora
'espressione insostituibile di offeso orgoglio morale e misura delle
più pure idealità' (Grabher),
violenta affermazione della propria libertà e della propria ansia di
rigenerazione morale. Dante cosi proclama i due principii
fondamentali della Commedia e della vera arte: profondamente radicata nel vero,
e di esso solenne banditrice, la poesia, senza mai scendere a puro valore
pratico, deve offrire vital nutrimento agli uomini
bisognosi di verità oltre che di bellezza e questo grido farà
come vento, che le più alte cime più percuote: 'Le cime, il
vento: balenante suggestione di paesaggio alpestre e di forza di natura che
ingigantisce una statura morale, richiamando ben tetragono; sì che il
canto è come racchiuso entro queste sue fondamentali immagini di potenza
spirituale' (Grabher). Ma per essere vital nutrimento, la poesia deve poggiare sul concreto
(versi 136-l42), deve far sorgere le creazioni della fantasia dalla più
viva realtà. 'Senti qui, conclude il critico - la sodezza di
un'arte, che, altamente ideale nello spirito, mai si perde nel nebuloso e
nell'astratto, rendendo veramente ' salde' anche le più labili
'ombre''. L'esule, superati i suoi risentimenti, trascesi i suoi
orgogli, i suoi amori e le sue angosce nella certezza di una missione
universale affidata alla sua poesia, proclama il suo atto di fede nei valori
della vita e dello spirito
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