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PARADISO CANTO XVII
Come
Fetonte, l'esempio del quale rende ancor oggi i padri restii a indulgere alle
richieste dei li, andò dalla madre Climene, desideroso di accertarsi
se era vero ciò che aveva udito contro di se;
Fetonte, avendo udito da Epafo (suo coetaneo e lio di Giove), che egli non
era lio di Apollo, dio del sole; volle sapere dalla madre Climene la
verità sulla sua nascita. Allora Apollo, per persuaderlo, gli concesse
di guidare per un giorno il carro del sole e questo fatto fu poi causa della
morte di Fetonte (cfr. Inferno XVII, 106-l08; Ovidio, Metamorfosi I, 747 sgg.).
così ero io ansioso di sapere, e questo stato d'animo era avvertito e da
Beatrice e dall'anima santa di Cacciaguida, che prima per parlare con me aveva
cambiato posto (scendendo ai piedi della croce luminosa ).
Anche Dante, come Fetonte, è ansioso di conoscere la spiegazione di
quanto ha udito incontro a sé da Farinata (Inferno X, 79-81 ), Brunetto Latini
( Inferno XV, 61-72 ), Vanni Pucci ( Inferno XXIV, 140-l51), Oderisi da Gubbio
(Purgatorio XI, i39-l41).
Perciò la mia donna mi disse: " Esprimi il tuo ardente desiderio, in
modo che l'intensità interiore appaia bene evidente esternamente, non
già perché la nostra conoscenza aumenti per le tue parole, ma perché ti
abitui ad esprimere la sete del tuo desiderio, Così che gli altri ti
possano apare ". "O cara radice della mia famiglia, che t'innalzi
così in alto, che, come la mente dei mortali vede che due angoli ottusi
non possono essere contenuti in un triangolo, con la stessa chiarezza discerni
le cose che possono essere o non essere prima che esistano in atto contemdo
la divina essenza, il punto in cui tutti i tempi sono presenti, mentre seguivo
Virgilio su per il monte del purgatorio che purifica le anime e mentre discendevo
nel mondo dei dannati, mi furono dette parole preoccupanti riguardo alla mia
vita futura, sebbene io mi senta incrollabile ( tetragono: il termine indica
ogni ura geometrica dotata di quattro angoli e, in particolare, il cubo), di
fronte ai colpi della fortuna (di ventura). Perciò l'animo mio è
ansioso di conoscere quale sorte mi viene incontro, perché il colpo previsto
sembra avanzare più lentamente".
Su uno sfondo pervaso di passione morale ( l'immagine dell'antica Firenze
presentata al mondo come modello dell'invocato rinnovamento) e di note intime
del cuore (la dolorosa meditazione sulla sua travagliata sorte), si profila ora
la ura stessa del Poeta, la cui storia ha un inizio preciso ( tu lascerai
ogni cosa diletta più caramente), con vicende ben determinate (il pianto
del distacco: tal di Fiorenza partir ti convene; l'amarezza del mendicare: tu
proverai si come sa di sale lo pane altrui; il peso dell'incomprensione e della
diffidenza: quel che più ti graverà le spalle, sarà la
comnia malvagia e scempia; la prova cruciale della solitudine: averti fatta
parte per te stessso), per sublimarsi poi nella certezza di una missione morale
(versi 124-l35) e di un futuro di gloria ( verso 98 ). Il contrasto fra la
Firenze di un tempo e la Firenze presente, delineato nei due canti precedenti,
è 'la sottintesa ragione del dramma della sua vita di cittadino e
della catastrofe con la quale per allora si era chiusa: l'esilio. E l'esilio,
con l'angoscia del distacco, con la povertà, con la comnia malvagia e
scempia, con le umiliazioni, e insieme coi lenimenti che buoni soccorritori vi
apportano, è delineato a grandi tratti da un animo sensibilissimo, che
soffre di tutte le punture ma tutte le sostiene e contiene: ben tetragono ai
colpi di ventura. Le sostiene per quella dignità di se medesimo della
quale è costantemente compreso, per quella speranza che è anche
maggiore dell'altra, affatto privata e contingente, del ritorno nella sua
città, la speranza dell'immortalità e della gloria, dell'approvazione
e lode dei di futuri. Egli, come tutti i grandi, vive, più assai che nel
presente, nel futuro' (Croce).
Cosi io dissi a quella luce che prima mi aveva parlato; e manifestai il mio
desiderio come aveva voluto Beatrice. Non con oracoli oscuri, nei quali un
tempo si invischia, vano le genti ane prima che fosse ucciso Gesù,
l'Agnello di Dio che riscatto i peccati del mondo, ma con parole chiare e con
preciso linguaggio mi rispose quel padre amoroso, avvolto nella sua luce e
visibile a causa della sua letizia: "Ciò che può essere o non
essere, che non oltrepassa la sfera del vostro mondo materiale ( perché nel
mondo divino esiste solo l'eterno e il necessario), è tutto presente nel
pensiero di Dio: Tuttavia non per questo ciò che è contingente
diventa necessario, così come una nave che discende lungo la corrente
(può essere osservata, ma) non deriva il suo moto dall'occhio nel quale
si specchia. Dalla visione del pensiero eterno di Dio così come
dall'organo giunge all'orecchio una dolce armonia, mi viene davanti agli occhi
il futuro che ti si prepara. Come Ippolito se ne andò da Atene per le
calunnie della spietata e perfida matrigna, così tu dovrai andartene da
Firenze.
Ippolito, lio di Teseo, avendo respinto le offerte amorose della matrigna
Fedra, fu da questa accusato di aver tentato di sedurla; il padre,
maledicendolo, lo scacciò da Atene ( cfr. Ovidio - Metamorfosi XV, 497
sgg.).
Questo si desidera e questo già si cerca di attuare, e presto
sarà fatto da parte di chi ordisce tali macchinazioni là (nella
curia pontificia) dove ogni giorno si fa mercato della religione.
Bonifacio VIII da tempo era intervenuto nella vita politica fiorentina,
aiutando le mire dei Neri contro i Bianchi, il partito al quale Dante
apparteneva. Il Poeta, sia come priore sia come membro dei vari Consigli della
città, si era opposto con decisione ai piani del pontefice, che
minacciavano la pace del comune. Come rivelano chiaramente le parole di
Cacciaguida (l'osservazione è del Chimenz), Dante ha la convinzione di
essere stato vittima di una personale animosità del pontefice contro di
lui.
Tosto verrà fatto: Dante lascio Firenze alla fine dell'ottobre 1301 con
1'abasceria inviata dalla città a Bonifacio VIII per chiedere
assicurazioni in occasione della discesa in Italia di Carlo di Valois. Dopo
l'entrata del principe francese a Firenze (1novembre 1301), Dante probabilmente
non ritornò più nella sua città. La sentenza del 27
gennaio 1302 lo condannava a are cinquemila fiorini, a due anni di confino,
all'esclusione perpetua da qualunque ufficio. fu confermata il 10 marzo 1302,
con un bando che comminava a Dante anche la pena di morte.
La colpa, come al solito, sarà attribuita dall'opinione pubblica alla
parte vinta, ma la punizione darà testimonianza della verità, la
quale assegna giustamente i suoi castighi.
La voce pubblica, come accade di solito, attribuirà la colpa delle
discordie civili ai vinti, ma la giustizia divina si abbatterà sui veri
colpevoli. La profezia, alla quale il Poeta conferisce un tono volutamente
indeterminato, allude ai tristi eventi che funestarono Firenze e il partito dei
Neri dopo la cacciata dei Bianchi e, in particolare, alla misera fine dei suoi
due implacabili nemici, Corso Donati ( cfr. Purgatorio XXIV, 82-90) e Bonifacio
VIII (cfr. Purgatorio XX, 86-90).
Tu dovrai lasciare ogni cosa più cara; e questo è il colpo
doloroso che prima di tutto ti infliggerà l'esilio. Tu proverai quanto
sia amaro il pane chiesto agli altri, e quanto sia duro cammino scendere e
salire le scale delle case; altrui. E quello che ti riuscirà più
gravoso, sarà la comnia cattiva e sciocca con la quale ti troverai
precipitando in questa miseria; essa si volgerà contro di te piena di
ingratitudine, dissennata e piena di odi, ma poco dopo, essa, non tu, ne
avrà le tempie rosse di sangue.
I fuorusciti Bianchi e Ghibellini, unitisi fra di loro, tentarono a più
riprese di ritornare a Firenze con le armi. Nei documenti di un convegno
preparatorio, quello di San Godenzo nel Mugello (8 giugno 1302), e anche
il nome di Dante. Subito dopo, però, il Poeta si allontanò dai
comni di esilio e non prese parte al tentativo che si concluse con la
sanguinosa sconfitta della Lastra (20 luglio 1304), alla quale, probabilmente,
egli intende riferirsi con l'espressione n'avrà rossa la tempia. Non
conosciamo con esattezza i motivi che portarono alla rottura fra Dante e gli
altri fuorusciti, sui quali il Poeta esprime qui un giudizio particolarmente
duro, né sappiamo quali colpe essi gli imputassero per odiarlo al pari dei Neri
(cfr. Inferno XV, 70-72). Il Del Lungo ha avanzato questa ipotesi: 'lo
sconforto del suo ritrarsi, la sfiducia nell'opera loro, il dissenso circa le
opportunità dell'operare o dell'attendere, furono interpretati come
defezione, e quasi come tradimento, dalla comnia sciagurata'.
Il suo modo di agire costituirà la prova della sua folle
sconsideratezza, così che sarà motivo di onore per te l'aver
fatto partito per te stesso.
L'esilio è certamente il momento centrale e decisivo della vita di
Dante: la sua personalità raggiunge la piena formazione, il suo spirito
si apre ad una più ampia visione dei problemi umani, la sua forza morale
si tempra nelle difficoltà e nel dolore dell'esule. L'argomento
fondamentale del presente colloquio con Cacciaguida è l'esilio. Per tale
motivo il XVII 'fra i cento del poema si può chiamare il canto di
Dante. E' il canto dell'esilio, della dignità, dell'onestà
imperterrita: ed è la chiave del tono artistico che assume l'etica della
Commedia. La quale è, prima di tutto, il rifugio di un'anima esulcerata
in un mondo di giustizia, che ristabilisce l'equilibrio rotto in terra fra
virtù e premio, vizio e castigo. Questo duro atteggiamento di sacerdote
della giustizia è solenne e vibrato più che altrove in questo
canto. I primi ventiquattro versi (46-69) della risposta di Cacciaguida, quelle
rime risolute e gagliarde, quei periodi monumentalmente isolati, quelle frasi
ora quasi sillabate (49-50, 64) ora tempestose (51, 54) ora tenacemente
ribadite (69) ora rallentate dal rimpianto e dall'amarezza (55-56, 58-60),
quella frenata irruenza, lo scandiscono maestosamente. Non lasciano
l'impressione d'una vicenda individuale, ma d'un dramma della storia che si
ripercuote nell'alto' (Momigliano). Infatti per il Poeta, in questo
momento, la narrazione delle vicende del suo esilio non è uno sfogo
personale, una ina autobiografica fine a se stessa: non si tratta,
cioè, solo del suo caso personale. Si tratta di sapere che egli con
l'esilio incomincerà la sua missione nel mondo. Cacciaguida non si
soffermerebbe sulle sofferenze transitorie della vita dell'esule, se queste non
costituissero una prova e un presagio. La storia del Poeta è congiunta,
come ogni cosa, ogni personaggio della Commedia, a una visione escatologica del
mondo. Questa caratteristica costante della narrazione dantesca spiega la
compostezza e fermezza di linee con cui il Poeta, attraverso un continuo
ricorso alla metafora e alle urazioni visive, si rivolge al suo dramma
umano, chiarificando la voce delle passioni terrene nell'orbita del senso del
divino: ' Il ritmo delle terzine si fa staccato e forte, i netti
contorni delle cose ci trasportano in una atmosfera tesa e chiara. È
pur sempre la solennità paradisiaca, ma provveduta di un timbro
più distinto, proprio quando l'argomento si volge a delineare un umano
destino: ma il destino umano di Dante è pronunciato da una voce superna
e in quel destino di uomo si compendia la sacra missione di un rinnovamento del
mondo' ( Malagoli ) .
Il tuo primo rifugio, la tua prima dimora ospitale ti sarà offerta dalla
liberalità del grande lombardo che ha per suo stemma una scala
sormontata dall'aquila imperiale;
Il gran Lombardo è, secondo la maggior parte dei commentatori antichi e
moderni, Bartolomeo della Scala, signore di Verona, morto nel marzo 1304 E'
perciò da escludere l'ipotesi di chi ritiene trattarsi del padre
Alberto, morto prima ancora dell'esilio di Dante o del fratello e successore,
Alboino, che il Poeta giudica severamente in un passo del Convivio (IV, XVI,
6). Verona, quindi, fu la prima tappa dell'esilio dell'Alighieri, subito dopo
la sua separazione dalla comnia malvagia e scempia. Il soggiorno, tuttavia,
fu molto breve, tanto che di esso non è rimasta alcuna notizia, mentre
ben più lungo e importante fu quello avvenuto durante la signoria di
Cangrande.
'N su la scala porta il santo uccello: lo stemma degli Scaligeri e una scala in
cima alla quale e l'aquila, l'uccello santo perché insegna dell'lmpero
voluto da Dio.
così benevola sarà la considerazione che nutrirà nei tuoi
riguardi, che, nei rapporti tra voi due, rispetto all'esaudire un desiderio e
all'esprimerlo, sarà primo (non colui che chiede ma) colui che
esaudisce, il quale, normalmente, agisce dopo che il primo ha espresso il
desiderio. Con Bartolomeo vedrai Cangrande, colui che, al momento della
nascita, ricevette un così forte influsso da questo cielo, che le sue
azioni diventeranno memorabili.
Cangrande, fratello minore di Bartolomeo, nacque il 9 marzo 1291 e dopo essere
stato associato al governo da Alboino nel 1311, alla ssa di questo (1312)
divenne signore assoluto di Verona fino al 1329, anno della sua morte. Egli
ricevette con particolare intensità l'influsso del pianeta Marte, che
dispone a forti imprese in campo militare.
Le genti non si sono ancora accorte di lui per la sua giovane età,
perché i cieli ruotano intorno a lui solo da nove anni (Cangrande, infatti,
nacque nel 1291 e Dante immagina di compiere il suo viaggio nell'oltretomba nel
1300); ma prima che il papa guascone Clemente V inganni l'imperatore Arrigo
VII, appariranno i primi segni della sua virtù nel disprezzo del denaro
e della fatica.
Il pontefice Clemente V, originario della Guascogna (cfr. Inferno XIX, 83), nel
1310 invitò Arrigo VII in Italia per ristabilirvi l'autorità
imperiale. In un secondo tempo divenne fautore degli interessi della casa
francese degli Angiò, che mirava ad estendere il suo dominio in Italia,
e ostacolò l'imperatore nel suo tentativo.
Le sue splendide imprese saranno allora così conosciute, che i suoi
stessi nemici non le potranno tacere.
Le sue magnificenze conosciute saranno: tutti i cronisti e gli scrittori del
tempo sono concordi nell'esaltare le doti militari e politiche di Cangrande
della Scala, nonché la sua liberalità (Villani Cronaca X, 140; Petrarca
- Rerum memorandarum liber 11, 83-84; Boccaccio Decamerone I, VII, 5) . Dante,
che fu suo ospite dal 1315 al 1320 circa, vide in lui un possibile restauratore
dell'autorità ghibellina, e quindi imperiale, in Italia, lodandolo anche
nella Epistola XIII, 2-3.
Affidati a lui e ai suoi benefici; per opera sua cambierà condizione
molta gente, poiché i ricchi diventeranno poveri e i poveri diventeranno
ricchi. Porterai scolpite nella tua memoria queste cose che lo riguardano, ma
non le dirai "; e rivelò fatti incredibili persino per coloro che li
vedranno accadere.
Dopo che gli amori, gli odi, i dolori dell'esilio si sono risolti e assommati
in quel - fatta parte per te stesso, ('dov'è, commenta il Grabher -
l'orgoglio e il dramma di una solitudine a cui giungono i sublimi cercatori di
quelle vette inaccessibili che danno si l'ebbrezza di sentirsi al di sopra di
tutti, ma anche la sdegnata tristezza di vedere che nessuno ti segua e ti
raggiunga' ), l'animo del Poeta si riposa sereno nell'oasi
dell'ospitalità di signori generosi e 'cortesi' che sotto
l'insegna del santo uccello fanno sperare a Dante qualcosa di più di un
aiuto per le sue necessità materiali, perché negli Scaligeri, e in modo
particolare in Cangrande, il Poeta confidava per la realizzazione di uno dei
suoi più alti ideali: la restaurazione dell'Impero. 'Questo di
Dante a Cangrande è infatti un elogio che trascende non dico ogni forma
di interessata adulazione, ma perfino quasi la personale riconoscenza che pure
il Poeta ebbe e che certo dà lo spunto alla accesa esaltazione. Se
infatti nell'elogio del gran Lombardo, che pure vedi come ideale incarnazione
di cortesia, v'è un cenno al personale riguardo avuto verso il Poeta, in
Cangrande il Poeta sublima quasi la virtù in se stessa e per se stessa,
idealizzando nella fortezza, nella liberalità, nella giustizia di lui,
in tutte le sue magnificenze, le alte virtù di un perfetto reggitore,
ben degno del sacrosanto segno che egli porta 'n su la scala.' (Grabber).
Prima di proclamare il valore della sua poesia e la missione della sua arte,
Dante ha così tratteggiato gli ideali che essa si propone di realizzare
in terra: la città ideale (Firenze), il cittadino ideale (Cacciaguida),
il sovrano ideale (Cangrande). E al di sopra di tutto questo la voce, il grido
della sua poesia.
Poi aggiunse: " lio, queste sono le spiegazioni di quello che ti fu detto
(nell'inferno e nel purgatorio riguardo al tuo esilio ); ecco le insidie che si
preparano (per te) nello spazio di pochi anni ( dietro a pochi giri: dietro a
pochi giri di sole). Non voglio però che tu porti odio ai tuoi
concittadini, poiché la tua vita (per mezzo della fama) si prolungherà
nel tempo ben oltre il momento nel quale essi riceveranno la punizione della
loro perfidia ". Dopo che, tacendo, l'anima santa di Cacciaguida si
mostrò libera dal compito di rispondermi (letteralmente: di mettere la
trama in quella tela di Cui le avevo presentato l'ordito con le mie domande),
io cominciai, come colui che, nel dubbio, desidera il consiglio della persona
che è capace di distinguere la verità e che agisce rettamente e
ha una caritatevole disposizione: " Ben vedo, padre mio, come il tempo incalza
contro di me, per infliggermi un colpo di tale gravità, che
riuscirà più pesante a chi vi si abbandonerà senza
reagire; per questo motivo è bene che io sia previdente, in modo che, se
mi è tolta la patria, io non debba perdere a causa dei miei versi la
possibilità di rifugiarmi in altri luoghi. Scendendo nell'inferno, il
mondo del dolore eterno, e salendo sul monte del purgatorio, dalla cui bella
cima gli occhi di Beatrice mi hanno sollevato (alle sfere celesti ), e poi
attraverso il paradiso di cielo in cielo, ho appreso cose che, se le riferisco
avranno per molti un sapore fortemente aspro; e se ( tacendo per paura ) mi
mostro timido amico della verità, temo di perdere fama tra i posteri
(coloro che questo tempo chiameranno antico). " La luce nella quale splendeva
Cacciaguida, la gemma che avevo trovato in quel cielo, dapprima divenne
più fulgida, simile a una lamina d'oro investita dal raggio del sole,
poi rispose: "Colui che ha la coscienza macchiata o dalle proprie colpe o da
quelle di parenti e amici sentirà certamente la durezza delle tue
parole. Ma nondimeno, messa da parte ogni menzogna, rivela tutto ciò che
hai visto; e si dolga pure delle tue parole chi è in colpa ( lascia pur
grattar dov'è la rogna: lascia pure che si gratti chi è affetto
da rogna), Perché se le tue parole riusciranno sgradite ad un primo assaggio,
lasceranno poi un nutrimento vitale, non appena saranno state digerite. Queste
tue affermazioni faranno come il vento, che percuote più violentemente
le cime più alte, e questo ( la proclamazione della verità fatta
senza paura ) non costituisce piccolo motivo d'onore; Per tale ragione in
questi cieli, nel purgatorio e nell'inferno, ti sono stati mostrati solo
spiriti di persone famose, perché l'animo di chi ascolta non si apa né
presta fede ad esempi che si fondano su cose o persone sconosciute e non
sufficientemente evidenti, né su altre dimostrazioni di scarsa apparenza ".
Nell'ultima parte del canto il dialogo fra Dante e Cacciaguida diventa,
palesemente, un protratto monologo che il Poeta recita a sé stesso. Un doloroso
contrasto tante volte avvertito nelle sue peregrinazioni d'esilio, frena in lui
l'ardore messianico che Cacciaguida vuole comunicargli. L'esule ha bisogno
d'aiuto, deve dipendere dagli altri, specialmente dai potenti, proprio quelli
contro i quali il suo grido si è levato con più violenza: la sua
coscienza dovrà, dunque, venire a patti con il vero; tuttavia solo la
verità assicura all'uomo la fama tra coloro che questo tempo chiameranno
antico. Brevi, violente metafore scoprono questa tensione interiore che si
è venuta accumulando nel mondo sanza fine amaro e nel monte dal bel
cacume: il tempo sprona verso il Poeta per colpirlo con tagliente ferro (versi
106-l07) e solo chi è tetragono non s'abbandona, ma può
'armarsi' di provedenza. Dopo la dichiarazione dei versi 112-l20, che
ha il sapore di una rabbiosa confessione, quasi il Poeta si sentisse
prigioniero delle meschine necessità della vita, Cacciaguida non spiega,
non giustifica, impone: tutta tua vision fa manifesta. Nei versi 124-l42
'lo stile, dapprima così tenero ed affettuoso quando si descrivono
i dolori dell'esilio, prende una magnificenza epica ispirata dalla
grandezza dell'animo, è il trionfo della dignità umana sopra quei
bassi calcoli d'interessi perituri che costituiscono ciò che dicasi la
prudenza; il trionfo della poesia sulla parte prosaica dell'anima' (De Sanctis).
La crudezza plebea del verso 129 (e lascia par grattar dov'è la rogna)
diventa allora 'espressione insostituibile di offeso orgoglio morale e
misura delle più pure idealità' (Grabher), violenta
affermazione della propria libertà e della propria ansia di
rigenerazione morale. Dante cosi proclama i due principii fondamentali della
Commedia e della vera arte: profondamente radicata nel vero, e di esso solenne
banditrice, la poesia, senza mai scendere a puro valore pratico, deve offrire
vital nutrimento agli uomini bisognosi di verità oltre che di bellezza e
questo grido farà come vento, che le più alte cime più
percuote: 'Le cime, il vento: balenante suggestione di paesaggio alpestre
e di forza di natura che ingigantisce una statura morale, richiamando ben
tetragono; sì che il canto è come racchiuso entro queste sue
fondamentali immagini di potenza spirituale' (Grabher). Ma per essere
vital nutrimento, la poesia deve poggiare sul concreto (versi 136-l42), deve
far sorgere le creazioni della fantasia dalla più viva realtà.
'Senti qui, conclude il critico - la sodezza di un'arte, che, altamente
ideale nello spirito, mai si perde nel nebuloso e nell'astratto, rendendo
veramente ' salde' anche le più labili
'ombre''. L'esule, superati i suoi risentimenti, trascesi i suoi
orgogli, i suoi amori e le sue angosce nella certezza di una missione
universale affidata alla sua poesia, proclama il suo atto di fede nei valori
della vita e dello spirito
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