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Il racconto della vicenda da cui prende le mosse il romanzo prende l'avvio con un'ampia, minuta, realistica, visione del paesaggio in cui si colloca il paese brianzolo dove abitano Renzo e Lucia, i due promessi sposi. Lui è un filatore di seta, orfano di padre e di madre; lei è filatrice in una filanda ma senza continuità di lavoro: vive con la madre vedova. Si dovevano sposare e il matrimonio era fissato per l'otto novembre 1628. Tutto sarebbe andato liscio, se il signorotto locale, doti Rodrigo, non si fosse incapricciato di Lucia e non avesse scommesso col cugino, don Attilio, che in tempi brevi, se ne sarebbe impadronito e l'avrebbe portata al castello. Per questa violenza egli poteva sperare nell'immunità dovuta sia al suo grado sociale sia alla connivenza del potere giudiziario e politico, alleato dei potenti. Bisognava impedire intanto la celebrazione del matrimonio. Per questo il pomeriggio del 7 manda due bravi ad ordinare al curato don Abbondio che quel matrimonio non si deve celebrare. I due bravi si appostano all'angolo di una strada di camna, percorsa d'abitudine dal curato. Il quale, intimidito, si dichiara pronto ad obbedire. Lo fa perché per temperamento è un pauroso; non era nato con un cuor di leone; ma obbedisce e si rassegna e si fa complice di un gesto di violenza anche perché la società nella quale viveva era violenta, ingiusta e non offriva adeguata protezione contro i soprusi dei potenti ai poveri, ai disarmati, ai miti. A casa dove giunge affannato ed agitato confida ogni cosa alla sua serva Perpetua: serva affezionata e fedele, che sapeva ubbidire e comandare, secondo l'occasione. L'ordine impartito a lei è di non fiatare della cosa con nessuno. Lei dà qualche suggerimento, tra cui quello di avvertire il cardinale. Ma don Abbondio è troppo dominato dalla paura procuratagli da quei bravi e crede che la disobbedienza gli costerà una fucilata. La notte, che trascorre agitatissima, è difatti popolata di bravi e di archibugiate.
La notte per don Abbondio trascorre agitata, tumultuosa, ma gli dà il tempo di preparare un piano per obbedire a don Rodrigo: quel matrimonio deve essere rinviato a tempo indeterminato. Poi si vedrà: intanto bisogna sostenere e respingere il primo attacco, quello di Renzo che viene di buon mattino a prendere accordi col curato sull'ora del matrimonio. La data era stata fissata da tempo dallo stesso curato: il quale, ora al vedersi di fronte Renzo, dapprima si finge sorpreso, poi adduce una serie di scuse di carattere amministrativo: non aveva (e se ne assume la colpa) preparato in tempo tutti gli atti prescritti dalla Chiesa. Non è la fine del mondo, se si sposta il matrimonio di qualche giorno. Dolente e intristito e quasi arrabbiato Renzo esce dalla casa del curato, ma fuori è ad aspettarlo Perpetua, la quale ha una voglia matta di parlare e dire tutto a Renzo. Abilmente solleticata Perpetua dice a Renzo la vera ragione del rinvio delle nozze. E Renzo si precipita nella stanza del curato e con le buone o le cattive (ad un certo momento inavvertitamente mette mano al coltello) riesce a sapere da don Abbondio il nome del manigoldo che si oppone al matrimonio. Mogio mogio Renzo si reca a casa da Lucia che intanto si agghindava per le nozze. A lei e alla suocera, Agnese, comunica il fatto: gli invitati sono allontanati con la scusa che il matrimonio non si fa per malattia del curato. Ed effettivamente don Abbondio, pressato prima dai bravi poi da Renzo, è caduto in preda alla febbre. La casa del curato sembra un fortilizio: tutto vi è sbarrato come se si temesse un imminente attacco. Alle comari che, indotte da spirito pettegolo, erano andate a bussare per trovare conferma della malattia del curato, Perpetua affacciatasi ad una finestra conferma la notizia con insolita fretta e secchezza.
Il modulo si apre con il racconto
di Lucia ad Agnese e a Renzo dei suoi involontari incontri con don Rodrigo
(questi, infatti, aveva avvicinato Lucia lungo la strada e aveva scommesso con
un altro nobile, il conte Attilio, suo cugino, che la ragazza sarebbe stata
sua). Lucia rivela poi di aver narrato l'accaduto a fra Cristoforo. Renzo e
Agnese, l'uno come fidanzato, l'altra come madre, sono amareggiati dal fatto
che Lucia non si sia confidata a loro. Al sentire gli episodi descritti da
Lucia, Renzo viene colto da un nuovo attacco d'ira e da propositi di vendetta,
ma Lucia riesce a placare le sue nuove ire.
Agnese consiglia poi al giovane di recarsi a Lecco, da un avvocato
soprannominato Azzecca-garbugli e gli consegna quattro capponi da portare in
dono al dottore. Renzo si mette dunque in cammino verso Lecco. Lungo la strada,
agitato e incollerito, dà continui strattoni ai capponi che ha in mano:
le povere bestie, pur accomunate da un triste destino, si beccano tra loro.
Ciò dà l'occasione all'Autore per riflettere sulla mancanza di
solidarietà tra gli uomini, anche quando questi sono accomunati dalle
sventure ('i quali intanto s'ingegnavano a beccarsi l'una con l'altra,
come accade troppo sovente tra comni di sventura').
Giunto alla casa dell'Azzecca-garbugli e consegnati i capponi a una serva,
Renzo viene fatto accomodare nello studio: uno stanzone disordinato, polveroso
e un po' decadente in cui spiccano, alle pareti, i ritratti degli imperatori
romani, simbolo del potere assoluto. Il dottore lo accoglie indossando una toga
consunta che lo fa apparire decrepito quanto i mobili della stanza.
Azzecca-garbugli scambia Renzo per un bravo e, per intimorirlo, legge
confusamente una grida che annuncia pene severissime per chi impedisce un
matrimonio. Ha qui inizio il tragicomico equivoco tra Renzo e
l'Azzecca-garbugli che, credendo che il giovane si sia camuffato tagliandosi il
ciuffo che contraddistingue i bravi, si complimenta con lui per la sua astuzia.
A questo proposito, l'Autore non perde l'occasione per sottolineare ancora una
volta l'ottusità della macchina burocratica snola, e ci propone
frammenti di gride in cui si vieta addirittura di
portare il ciuffo. Renzo nega di essere un bravo, ma l'avvocato non gli crede e
lo invita a fidarsi di lui, prospettando poi una linea di difesa. Scoperto
l'equivoco, Azzecca-garbugli si infuria e rifiuta ogni aiuto, mettendolo infine
alla porta, poiché colpevole di un crimine all'epoca gravissimo: essere vittima,
e per di più senza appoggi nobiliari. Intanto Lucia e Agnese si
consultano nuovamente tra loro e decidono di chiedere aiuto anche a fra
Cristoforo. In quel momento giunge fra Galdino, un umile frate laico, in cerca
di noci per il convento di Pescarenico, lo stesso
dove vive il padre Cristoforo.
Per eludere le domande del fraticello circa il mancato matrimonio si porta il
discorso sulla carestia; Galdino racconta allora un aneddoto riguardante un
miracolo avvenuto in Romagna. Lucia dona a fra Galdino una gran quantità
di noci affinché egli, non dovendo continuare la questua, possa recarsi subito
al convento ed esaudire la sua richiesta di inviare presso di loro fra
Cristoforo. A questo punto il Manzoni ci tiene a
precisare che, nonostante fra Cristoforo avesse a che fare con la gente umile,
era un personaggio 'di molta autorità, presso i suoi, e in tutto il
contorno' e approfitta dell'occasione per un excursus sulla condizione dei
frati cappuccini nel Seicento. Renzo fa quindi ritorno alla casa di Lucia e
racconta il pessimo risultato del suo colloquio con Azzecca-garbugli. Tra Renzo
e Agnese si accende una piccola discussione, subito placata da Lucia, circa la
validità del consiglio di rivolgersi all'avvocato. Dopo alcuni sfoghi di
Renzo ed altrettanti inviti alla calma da parte delle donne, il giovane torna a
casa propria.
La mattina seguente, piuttosto presto, padre Cristoforo esce dal convento di Pescarenico per raggiungere la casa di Lucia: attraversando la serena camna, che ha i toni e i colori limpidi e dolci del mattino, il padre osserva con dolore i segni dell'incipiente carestia. A questo punto il Manzoni avverte il bisogno di interrompere la trama narrativa dei due promessi per dare un profilo biografico e morale del frate. Era lio di un grosso mercante che, dopo aver faticato, s'era conquistata una grossa fortuna: lo turbava la sua origine modesta di popolano: voleva essere accettato dai nobili ed essere eguale a loro. La parola 'mercante' in sua presenza era motivo di turbamento. Aveva un solo lio, Ludovico, cui volle impartire l'educazione che era degli aristocratici. Ludovico era cresciuto fra l'opulenza, la servitù, con gli agi propri dei nobili. Dai quali, nonostante i tentativi di essere accettato, era stato sempre snobbato e lasciato da parte. Aveva però indole buona che lo portava a proteggere i poveri, e a respingere gli atti di ingiustizia e di sopraffazione. Tanto che a volte, disgustato della società, aveva meditato di farsi frate. Viveva però in una grande contraddizione: voleva essere dei nobili, ma intanto ne respingeva la mentalità e i pregiudizi. Voleva un mondo regolato da giustizia e non s'avvedeva che la vita dell'aristocrazia, cui voleva partecipare, era quella della sopraffazione. Voleva essere uomo di pace ma andava armato come i signorotti e si circondava di un corpo di guardia armata. Il fatto che diede una svolta a tutta la sua vita fu il duello che dovette sostenere in pubblica strada, lui e i suoi servi, tra cui uno che gli era molto caro e si chiamava Cristoforo, contro un signorotto prepotente ed aggressivo, circondato anche questo da alcuni bravi. Lo scontro ebbe ragion futili: il prepotente voleva che Ludovico gli cedesse il passo lungo il muro: come nobile presumeva di averne diritto. Ma questo privilegio non gli venne riconosciuto da Ludovico che nel duello, quando vide cadere il suo Cristoforo, persa la luce della ragione, infilzò l'avversario tra l'approvazione della gente che col vinto per le sue maniere brutali ce l'aveva. Come fuor di sé, Ludovico viene spinto nel vicino convento dei cappuccini: come ogni convento anche questo gode del diritto d'asilo, che concede l'immunità a tutti coloro che vi si rifugiano: non possono però uscirne. Ma in convento Ludovico medita su di sé, sui grandi temi del destino dell'uomo si converte e si fa frate. Da allora fu frate e dentro sempre lo accomnò il desiderio di giustizia con la energica opposizione ai soprusi. Prima di iniziare la nuova vita, volle chiedere perdono al fratello dell'ucciso: lo ottenne ma la cerimonia che doveva essere di umiliazione, si risolse in un trionfo per lui.
Dalle informazioni ottenute da Agnese sul pesante intervento intimidatorio di don Rodrigo, padre Cristoforo sa tutto ormai; ma non avendo altre armi che quelle della religione, decide di affrontare il prepotente nel tentativo di dissuaderlo in nome dei principi morali e religiosi dal proposito di rapire Lucia. Dalla casa di Lucia il tratto di camna che attraversa è per il frate motivo di costernazione: dappertutto i segni della carestia, il palazzotto del signorotto, segno di forza e di potenza, sorge tetro sulla cima di un poggio quasi come minaccioso custode della gente disseminata nei paesi sottostanti. Per il formale (anche i prepotenti sono ipocritamente pronti a rendere omaggio agli uomini di religione) ossequio che gli si deve in quanto cappuccino, padre Cristoforo non solo è introdotto nel palazzo, ma addirittura ammesso alla sala da pranzo dove don Rodrigo banchetta con alcuni ospiti: c'è il cugino Attilio, più vivace che mai, il podestà di Lecco, l'Azzeccagarbugli e altri uomini di minore rilievo. Si discute in modi frivoli di un argomento violento: dei duelli, sui quali si chiede, dato il contrasto di opinioni tra gli ospiti, il parere del frate. Questi riconferma come inalienabile la legge evangelica della non violenza. Altro argomento, questa volta politico, è quello della guerra tra Francia e Sna scatenata in conseguenza della mancanza di un erede diretto nel ducato dì Mantova. La Francia sostiene un Gonzaga da tempo trasferitosi al di là delle Alpi e fattosi francese: altro è il candidato della Sna. La guerra da quei loro discorsi appare come una partita di scacchi ingaggiata da due abili giocatori: da un lato il cardinale Richelieu, dall'altro il conte duca, che i commensali servilmente dicono grande ministro del re di Sna. Alla fine si sfiora anche l'argomento della carestia. Per loro non esiste: è solo il risultato malefico dell'intervento dei fornai che imboscano la farina per ottenerne prezzi più alti. Se si dovesse giudicare della nobiltà lombarda del Seicento da questi rappresentanti accolti intorno ad una tavola, li si dovrebbe dire non solo cinici e perversi, ma insensibili e intelligenti. Ad un certo momento don Rodrigo che mal sopporta la vista di quel frate concentrato e silenzioso si decide a dargli udienza.
Piantato in mezzo alla sala con atteggiamento di prepotente altezzosità, il più adatto a scatenare l'opposizione e la condanna del frate, don Rodrigo si degna di ascoltare la preghiera: quella di lasciare in pace Lucia e di consentire al matrimonio. Non si può dire che il frate conosca le vie tortuose e sapienti della diplomazia: le parole che adopera sono più che di preghiera, di condanna. Quando don Rodrigo esce nella battuta: Lucia, se si senta da qualcuno minacciata, venga a mettersi sotto la mia protezione, il frate scatta in toni profetistici e pronuncia un solenne 'Verrà un giorno'. Non completa la frase: don Rodrigo glielo impedisce, penetrato dentro da un segreto terrore: scaccia il frate con parole in cui si mescolano paure inespresse, volgarità, minacce. La missione di padre Cristoforo si è risolta in un fallimento. Porta con sé i segni della vittoria morale, ma anche la certezza che ormai per don Rodrigo si tratta di un puntiglio, di un punto d'onore, da cui egli non si smuoverà: qualcosa sicuramente tenterà. Gliene dà conferma un vecchio cameriere del signorotto, che in segreto l'informa che si sta macchinando qualcosa di irregolare e di perverso. È un segno della provvidenza per il frate. Intanto a casa di Lucia si mette in moto con la solita fervida immaginazione Agnese. Ha un piano per realizzare il matrimonio. Sa che esiste e che resta valido il matrimonio per sorpresa: se i due promessi in presenza del curato, anche senza il suo consenso, e di due testimoni pronunciano la formula del matrimonio, questo è legittimo anche sul piano religioso. Renzo si attacca con entusiasmo a questa proposta. I testimoni sono subito trovati: i fratelli Tonio e Gervasio. Non c'è in un primo tempo il consenso di Lucia che vorrebbe prima parlarne a padre Cristoforo: se la cosa è lecita, non c'è ragione di non parlarne a lui. Ma Agnese non vuole che la cosa venga detta a lui. La discussione viene interrotta dal ritorno del frate.
Tornato dal palazzotto di don Rodrigo, Fra Cristoforo giunge di nuovo a casa di Lucia e comunica ad Agnese e ai due promessi che, malgrado il suo intervento, don Rodrigo non intende cambiare atteggiamento. Renzo reagisce con rabbia. Uscendo, il frate raccomanda di inviare qualcuno al convento il giorno successivo, per avere nuove informazioni. Renzo, irritato dalle notizie appena ricevute e dall'opposizione di Lucia al progetto di matrimonio di sorpresa, dà in escandescenze. Alla fine Lucia cede e accondiscende (a malincuore) al piano della madre. Renzo torna infine a casa. Agnese e Renzo stabiliscono insieme i dettagli del piano di matrimonio di sorpresa, mentre Lucia resta in disparte. Seguendo le indicazioni di fra Cristoforo, Agnese invia poi al convento Menico, un ragazzino suo parente. Per tutta la mattinata, dei loschi uri vestiti da viandanti e da pellegrini si aggirano nelle vicinanze della casa di Lucia, curiosando anche all'interno dell'abitazione. Dopo lo scontro con padre Cristoforo, don Rodrigo, furibondo per non esser riuscito ad intimorire il frate e turbato per quel 'Verrà un giorno', cammina per il palazzo al cospetto dei ritratti dei suoi avi, che sembrano rimproverarlo per la sua debolezza. Per dimenticare l'episodio il nobile esce, scortato dai bravi, per una passeggiata trionfale, durante la quale egli viene ossequiato da tutti. Tornato al palazzotto, egli viene però deriso dal conte Attilio; risentito, raddoppia allora la posta dell'infame scommessa. Dopo una notte di sonno tranquillo, don Rodrigo, dimenticati i timori suscitati in lui da fra Cristoforo, predispone con il capo dei suoi bravi, il Griso, un piano per rapire Lucia. I bravi, guidati dal Griso, cominciano le loro ricognizioni in casa di Lucia (gli strani uri visti nella casa sono i bravi travestiti). Tornati al palazzotto, il Griso dà le ultime istruzioni ai suoi comni. Il vecchio servitore si avvia alla volta del convento per riferire al frate circa il previsto rapimento di Lucia. Nel frattempo alcuni bravi hanno già occupato le posizioni concordate ed altri si avviano a farlo. Dopo aver preso con Agnese e Lucia gli ultimi accordi per il matrimonio di sorpresa, Renzo, assieme a Tonio e a Gervaso, si reca all'osteria e qui incontra tre individui (sono tre bravi di don Rodrigo) dal comportamento minaccioso. Renzo, durante la cena, chiede all'oste informazioni sui tre, ma l'oste finge di non conoscerli; al contrario, egli fornisce ai bravi diverse notizie su Renzo e i suoi amici. Usciti dall'osteria, Renzo, Tonio e Gervaso, vengono seguiti da due bravi, che si arrestano però, vedendo arrivare gente di ritorno dai campi. I tre passano poi a chiamare Agnese e Lucia per dare il via al matrimonio a sorpresa, e insieme si recano alla canonica, dove Tonio bussa alla porta dicendo a Perpetua di voler saldare un debito. Ancora una volta, il modulo si conclude sul momento culminante della scena, e invita a proseguire la lettura.
Quella sera don Abbondio stava gustando un po' di tranquillità dopo le agitazioni dei due giorni precedenti, era immerso nella lettura di un libro e aveva incespicato nel nome di un filosofo greco di cui nulla sapeva. A questo punto Perpetua annuncia la visita di Tonio e Gervasio: Tonio voleva are il debito che aveva col curato e ottenere il pegno da togli. L'ora era tarda, ma era bene profittare dell'occasione: Tonio quei soldi poteva sciuparli nell'osteria. Da questo pensiero indotto don Abbondio, nonostante la diffidenza, lo lascia entrare ed ammette nello studio. Dietro, ma lui non se ne avvede, ci sono Renzo e Lucia: Agnese si è portata via Perpetua attirandola con l'argomento, per Perpetua sempre molto sensibile, del mancato matrimonio con uno dei tanti pretendenti. Quando don Abbondio alza la testa per consegnare la Polizza a Tonio, si vede davanti Renzo e Lucia: Renzo riesce a pronunciare la formula: non vi riesce Lucia travolta dal tappeto del tavolino che il curato le scaglia addosso. La confusione ora è generale: la candela è caduta per terra e s'è spenta: tutto è nel buio e nel buio i due promessi cercano di guadagnare la porta, Tonio di riprendersi la ricevuta, e Gervasio di uscire dal marasma creandone altro. Dalla stanza attigua dove s'è barricato il curato invoca l'aiuto del campana io Ambrogio, il quale improvvisamente destato suona a martello le campane svegliando il paese e sollecitandone l'aiuto contro il misterioso nemico. Intanto Menico torna a casa dal convento e quando si avvicina alla casa di Agnese è bloccato dai bravi di don Rodrigo, che erano penetrati nella casa ma l'avevano trovata vuota. A questo punto comincia il suono delle campane: ritenendosi scoperti i bravi fuggono. Scappano anche Renzo e Lucia: scappa verso il curato Perpetua e dietro le è Agnese. Il paese è in preda ad una grande agitazione: don Abbondio invita tutti a tornare a casa: il pericolo è finito. Menico sfuggito ai bravi informa Agnese, Lucia e Renzo che in casa ci sono i bravi: seguano il consiglio di padre Cristoforo che li attende nella chiesa del convento. Lucia ed Agnese si recheranno con una sua lettera di raccomandazione a Monza: saranno ospitate in un convento; Renzo con altra lettera si recherà a Milano presso il convento dei cappuccini. Comincia così il viaggio di dispersione dei tre.
A Monza dove sono giunti trasportati da un barocciaio i tre si separano: Renzo prosegue solo per Milano. Agnese e Lucia bussano alla porta del convento di suore indicato dal frate a cui li ha presentati padre Cristoforo. Sono presentate non alla badessa ma ad una suora, suor Gertrude, che in convento gode di particolari privilegi, anche perché, lia di grandi aristocratici, per eredità conserva sul convento dei diritti feudali. E qui il Manzoni si ferma nella presentazione di questa strana suora che già attraverso il primo colloquio con le nostre due donne evidenzia atteggiamenti scontrosi accanto a gesti gentili ed affettuosi. Era lia di un principe di origine snola, stanziatosi a Milano: molto ricco, ma interessato anche, secondo le consuetudini della società, a conservare intatta la proprietà all'erede maschio. in conseguenza della legge non scritta detta del maggiorasco, tutti i beni dovevano passare a questi: per gli altri li non c'era che il convento, il sacerdozio. Gertrude fin dall'infanzia era stata destinata al convento e vi viene rinchiusa quando è ancora una bambina. Qui tutte le suore collaborano a persuaderla della bontà di una scelta monacale; tutte la servono e la esaltano. Quando torna a casa prima di pronunciare i voti definitivi e manifesta la sua intenzione di non diventare monaca, trova tutto ostile: freddo, anzi gelido ed autoritario il padre; fredda la madre, tutti cospirano a renderle impossibile l'esistenza. Una piccola avventuretta con un gio gliela presentano come un grave delitto, una macchia, a lavare la quale non giova che il suo assenso a tornare al convento e a farsi suora.
Quando Gertrude, cinicamente sottoposta ad un'autentica tortura psicologica, avverte che per lei non c'è posto nella sua casa ed esprime in termini poco chiari il proposito di tornare in convento) la cosa è accolta con grande entusiasmo dalla famiglia. Con estrema rapidità si sfrutta il momento. Portata in convento fa domanda di essere definitivamente accolta nel monastero. C'è una prova da superare: Gertrude deve sostenere un esame con il padre guardiano che deve stabilire che la decisione è autenticamente spontanea e libera e non condizionata da pressioni esterne. Gertrude non ha il coraggio di dire la verità e tra grandi festeggiamenti si trova suora per sempre. Vittima del sopruso, della frode, del ricatto, come non seppe perdonare, così non seppe cercare nella fede le grandi consolazioni che si concedono a tutti gli infelici. Continuò a rammaricarsi con se stessa, ad avvertire le suore come strumenti dell'inganno, a vedere dappertutto una realtà sociale da cui era esclusa e che l'esclusione contribuiva a rendere gradevole, anzi veramente felice. La sua vita di suora conosce l'altalena delle passività e delle ribellioni, l'insoddisfazione e la ricerca di una persona a cui appoggiarsi e in cui trovare fiducia. Non certo le dava se non provvisorie consolazioni il sapersi di grande famiglia, come anche i privilegi di cui godeva nel convento. La sua vita mutò radicalmente, quando cedendo alle pressioni e alla corte di un giovane scellerato, Egidio, che abitava accanto al convento, si lasciò da lui sedurre divenendone l'amante. Per un po' una sorta dì gioia le diede l'illusione di aver trovato ciò che cercava. A volte però cadeva in stati d'animo di prostrazione e di abbattimento. Ma scivolò via via dal peccato al delitto. Un giorno una suora conversa minacciò di rivelare ai superiori la tresca amorosa: poco dopo sve. Era stata uccisa da Egidio e sepolta vicino al convento. È passato un anno dopo questi fatti, quando Lucia bussa alla porta del convento, si raccomanda alla generosità della suora cui era dato il titolo distintivo di 'signora' e viene accolta nel monastero.
Durante tutta la sera don Rodrigo ha vegliato, più che mai agitato, ha atteso l'arrivo del Griso, la cui missione invece è fallita. Il Griso torna a palazzo insieme coi suoi bravi che si muovono come un branco di segugi con le code ciondoloni. Al padrone che lo rimprovera aspramente e lo accusa di inefficienza il Griso fa una relazione di tutti i fatti. Ora bisogna pensare a mettere un riparo a tutte le conseguenze: le autorità amministrative del paese vengono subito bloccate con una discreta visita ammonitrice dei bravi. Il conte Attilio che ha vinto la scommessa, ma che ormai condivide il punto d'onore di don Rodrigo (in casi come questo, di fallimento, è in gioco tutto l'onore della famiglia) subodora che dietro tutto il fatto ci deve essere la mano di fra Cristoforo: questi è il personaggio da allontanare. Se ne incaricherà lui a Milano, dove si appresta a tornare: lì c'è il loro conte zio, molto potente: da lui otterranno l'aiuto per il trasferimento del frate. Il Griso viene a sapere dalle chiacchiere di paese che Lucia e Agnese si sono rifugiate a Monza e che Renzo si è diretto a Milano, fuga che provoca la rabbia di don Rodrigo ('Fuggiti insieme!'). Al Griso viene ordinato di recarsi a Monza per aver notizie più chiare su Lucia. Renzo, intanto, è giunto a Milano. Le prime impressioni che riceve dalla città sono confuse ma tutte tendono a convincerlo che a Milano è scoppiata una sommossa. Lungo la strada per cui entra, una lunga strada stranamente deserta di gente, vede lunghe strisce bianche di farina; più in là delle bozzette di pane. Intanto vede ire davanti a sé un uomo quasi schiacciato dal peso di un sacco di farina, dietro gli è la moglie che porta un pancione smisurato colmo di farina, chiude la processione un ragazzetto con un cesto sulla testa, colmo di pani che egli, muovendosi, semina per la strada. L'impressione però non lo distoglie dal suo primo proposito, quello di recarsi nel convento dei cappuccini per chiedere di padre Bonaventura, a cui deve consegnare la lettera di raccomandazione di padre Cristoforo. Non lo trova e perciò decide di andare a vedere cosa succede in città.
Effettivamente Milano era una città in rivolta. Gli animi erano esasperati e dalle lamentele si era passati ai fatti che si erano precisati come assalti ai forni. Non era solo la città, ma tutto il territorio lombardo soggetto agli Snoli a soffrire la fame, ad essere investito dalla carestia. C'erano all'origine dei fatti naturali: c'era stata una grande siccità, molte terre poi erano state abbandonate dai signori, la guerra del Monferrato e di Mantova per la successione ai Gonzaga, attraverso lo spreco che è proprio degli eserciti e attraverso le razzie distruttive compiute dai mercenari, procurava perdite e dissennato consumo di un bene fattosi raro: ma erano anche responsabilità degli uomini al potere con la loro insipienza e la loro incapacità di concreti provvedimenti. Questi avevano potenziato e complicato le situazioni imposte dalle avversità naturali. Il governatore don Gonzalo, tutto preso dalla guerra, conduceva l'assedio alla città di Casale e si disinteressava di Milano; il vice governatore Ferrer era un demagogo. Prima pose un calmiere al pane obbedendo alle richieste dei fornai; poi, premuto dalla protesta popolare, abbassò il prezzo del pane. La mattina in cui Renzo giunse a Milano era stato ordinato l'aumento del prezzo del pane. Una folla di proporzioni sempre più vaste si raccolse prima in piazza Duomo. La scintilla della rivolta viene data da un ragazzo di fornaio che porta il pane in casa dei signori: è il primo assalto. Di qui si passa al vicino forno delle grucce. A questo punto interviene la polizia: il capitano di giustizia, affacciatosi ad una finestra per invitare la folla a tornare alla calma e a casa, viene raggiunto da un sasso alla fronte che lo costringe ad una rapida ritirata. Il forno è assaltato e saccheggiato. Dalle parole che sente, Renzo comprende che il responsabile della mancanza di pane è il vicario di provvisione, addetto agli approvvigionamenti della città. Renzo è ormai uno della folla e dalla stessa è trascinato fin in piazza del duomo. A questo punto come obbedendo ad un perentorio ordine la folla si scarica verso la casa del vicario. Renzo vi è in mezzo.
Il vicario aveva cominciato a sentire le conseguenze della sommossa. sulla sua tavola non era arrivato il pane fresco e lui stava facendo una digestione agra e stentata. D 'un tratto sente venire delle voci, poi la voce possente della folla che si muove con il ritmo di un torrente inarrestabile. I servitori provvedono a chiudere porte e finestre e a barricarsi in casa: il vicario, preso da paura, si raccomanda a tutti e crede di trovare salvezza in soffitta. Renzo che, ormai, è entrato dentro la psicologia della folla e si accorge che questa si muove per una richiesta di giustizia, parteggia per essa, ma non è d'accordo quando sente alzarsi delle voci che chiedono la morte del vicario. E ad alta voce dice la sua disapprovazione: scambiato per un partigiano dei vicario, si sottrae alla folla solo perché l'attenzione generale è attratta dalla voce che dice che sta per arrivare il cancelliere Ferrer, l'amico del popolo: viene, dicono, a portare in carcere il vicario. Ferrer si affaccia agli sportelli della carrozza distribuendo sorrisi e gesti affettuosi di saluto: a tutti dà ragione, al cocchiere in snolo consiglia fretta e prudenza. Renzo che, dalla folla, ha saputo che Ferrer è l'uomo della giustizia, un uomo che va bene anche per lui che ha subito da poco una grave ingiustizia, si dà da fare per creare spazio alla carrozza di Ferrer. Si trova a lui vicino, recita la parte del protagonista, fa da battistrada. Ferrer, giunto alla porta del palazzo del vicario, si fa aprire e senza che la gente s'avveda fa entrare nella carrozza il vicario ed inizia il viaggio di ritorno. Stavolta le cose vanno più rapidamente: i sorrisi si sprecano, la folla è più che mai certa che le cose stanno per cambiare. L'angoscia è tutta concentrata nel vicario che, in fondo alla carrozza, dice che vuoi tirarsi via dalla politica per andare a vivere in una montagna, in una grotta, a far l'eremita.
La folla ora non è più compatta: si dirada e si ricompone in piccoli capannelli a commentare e a prevedere. Si parla dell'accaduto, delle ragioni che vi stanno sotto, si manifestano propositi di ritorno per il giorno seguente. Renzo che per la nuova e straordinaria esperienza vissuta in quelle ore vive come in una sorta di eccitazione, quasi di ubriachezza, al centro di un crocchio prende la parola e dal fatto milanese risale al fatto personale: parla ad alta voce di ingiustizia, di prepotenze di certi tiranni, del tutto dissimili da Ferrer, manifesta propositi di vendetta e di pulizia, avanza la proposta del tutto rivoluzionaria dell'alleanza di tutto il popolo per la restaurazione della giustizia. Tutti applaudono. Ma ormai è buio: la gente si dispone a tornare a casa. Renzo da uno che gli si è messo alle costole e che gli si dimostra premuroso (è un informatore della polizia) si fa accomnare in una trattoria vicina: li può mangiare e dormire. A tavola lo sbirro cerca di farlo parlare e di fargli dire nome e cognome: non c'era riuscito l'oste. Ma lui lo fa cadere in un tranello, favorito anche dal fatto che Renzo da uno stato di esaltazione passa, per il molto vino che beve, ad uno stato di effettiva ubriachezza. Sproloquia e nelle sue parole in modi oscuri ed incerti torna l'immagine di don Rodrigo, il persecutore, l'ingiusto e prepotente tiranno che lo ha indotto alla fuga dal suo paese. Finalmente l'oste riesce a portarlo in camera e a buttarlo sul letto.
L'oste, uno dei tanti osti del romanzo, quasi tutti furbi e portati alla difesa dei potenti e della Polizia, messo con fatica Renzo a letto, evitato quindi il pericolo che la sua trattoria diventi un covo di rivoltosi, si reca dalla polizia a fare denuncia di ciò che era successo da lui e della presenza di Renzo, descritto come una delle teste più calde, da controllare quindi ed arrestare. La polizia di Renzo aveva già nome e cognome, forniti da un finto spadaio che Renzo nella sua ingenuità aveva eletto a suo confidente. La mattina Renzo destato dal sonno profondo cagionatogli dal vino e dalle fatiche della tumultuosa giornata da un notaio criminale, da una sorta di commissario di polizia, che ha accanto alcuni birri. Arrestato e ammanettato viene avviato verso il carcere. Ma per la strada incontra gruppi di persone che lo guardano con una certa Partecipazione. Furbescamente attira su di sé l'attenzione della gente, che si fa sotto il gruppo, e libera il prigioniero. Gli sbirri davanti al pericolo di essere linciati non oppongono resistenza e se la squagliano. Renzo ormai libero gira a vuoto per la città cercando la persona adatta che gli indichi la strada per Bergamo, dove vorrebbe avviarsi: lì c'è il cugino Bortolo e Bergamo inoltre non fa parte dello Stato di Milano.
Sfuggito agli sbirri, con incombente la minaccia di finire di nuovo nelle loro mani e con la prospettiva della fine che si riservava ai rivoluzionari, trattati peggio che i delinquenti, Renzo percorre le strade di Milano con animo preoccupato e diviso. Vorrebbe chiedere informazioni sulla via che conduce alla porta che immette sulla strada per Bergamo, ma teme di essere riconosciuto o di imbattersi in un nuovo birro. Alla fine ci riesce: e ottenuta l'informazione giusta, attraversa la porta senza che da parte delle guardie ci sia opposizione. Presa la strada che conduce a Bergamo, cerca di evitare il percorso principale: non si sa mai. Di conseguenza la marcia di avvicinamento a Bergamo o meglio al confine si fa lunga, nervosa, massacrante. Ha bisogno di mangiare e si ferma a Gorgonzola, in un'osteria che gli pare rassicurante. A Milano nello stesso tempo arriva un mercante, uno di quei rappresentanti di commercio che sono pieni di notizie e che frequentano sempre gli stessi posti. L'oste e gli altri commensali che inutilmente avevano cercato di ottenere informazioni da Renzo, ottengono notizie particolarmente minute e colorate dal mercante. C'è un punto del racconto che desta l'attenzione di Renzo: il mercante dice che dietro il tumulto c'era una congiura, che la mattina era stato ancora una volta tentato l'assalto della casa del vicario, che era stato saccheggiato il forno del Cordusio, che parecchi malintenzionati erano stati arrestati, che era stato preso un capo dei rivoltosi, ma che dopo, aiutato dai suoi, era riuscito a scappare. Ricercato Renzo sa che ora, se trovato e preso, non c'è per lui altro che la forca. Sono bocconi amari per lui, cui s'aggiunge la rabbia non solo di non essere stato capito ma di essere descritto come un delinquente, di quelli più colpevoli. Esce e s'avvia verso il confine, segnato dall'Adda: è tanto sconvolto che non chiede informazioni a nessuno. Si affida alla Provvidenza e parte.
Ora che si sa ricercato, Renzo non se la sente di passare per la via maestra. Il suo timore è che sbirri siano stati disseminati per la strada alla ricerca di presunti delinquenti. Prende una strada di camna. Cammina anche la mente che riepiloga gli ultimi avvenimenti e si ferma in particolare sul racconto del mercante, dalle cui parole lui usciva dipinto come un congiurato pericoloso, al servizio di potenze straniere. E, intanto, con le tenebre protettive e difensive aumenta l'ansia: Renzo comincia ad avvertire la stanchezza; non può avvicinarsi alle case isolate da cui vede filtrare la luce. Può essere ritenuto un malvivente. Anche i cani gli abbaiano contro. C'è un momento in cui, confuso tra l'intrico della vegetazione, ha un attimo di smarrimento e sta per essere preso dalla disperazione. Ma in quel momento sente la voce delle acque del fiume: è l'Adda. La notte la trascorre in una capanna abbandonata che aveva intravisto prima: vi si accomoda e il suo pensiero corre a padre Cristoforo, ad Agnese ed in particolare a Lucia, la creatura che lo aiuta e lo sorregge nel travaglio. La mattina presto si porta sull'argine: da un barcaiolo si fa traghettare sull'argine opposto. Ormai è nel territorio di Venezia e si sente come liberato dal peso dell'angoscia. A Bergamo cerca e trova il cugino Bortolo che lavora come dirigente in una fabbrica tessile. Bortolo riesce a trovargli un lavoro ed una prima sistemazione.
Lo stesso giorno in cui Renzo varcata l'Adda si rifugia a Bergamo, la polizia milanese che ha tutti i dati anagrafici di lui ne fa ricerca nel paese. La casa è messa a soqquadro: tra la meraviglia della gente che di Renzo ha un concetto diverso, si parla di lui come di un capobanda, un eversore, un manigoldo. L'unico fatto consolante è la notizia che si è messo in salvo. Se la gente che lo conosce resta sbalordita ed incredula, gode della notizia don Rodrigo che si vede improvvisamente liberato dell'importuna presenza del fidanzato di Lucia. Ma questa gli appare irraggiungibile: nel monastero dove lei s'è rifugiata non c'è possibilità di azione e di manovra per lui. Forse ci potrebbe riuscire, se facesse ricorso ad un potente feudatario vicino: ma costui è troppo potente ed esigente. Per il momento don Rodrigo soprassiede. Le notizie su Renzo fuggiasco e ricercato dalla polizia sorprendono anche Lucia ed Agnese che si rassicurano, quando da una lettera di padre Cristoforo vengono a sapere che Renzo ha trovato scampo e libertà a Bergamo. A questo punto Agnese decide di tornare a casa: Lucia resterà accanto alla signora di Monza, sotto la protezione della stessa. Agnese, prima di raggiungere il suo paese, passa per Pescarenico: ma nel convento non trova più padre Cristoforo: era stato trasferito a Rimini. A determinare il trasferimento di Padre Cristoforo ha una parte decisiva il conte Attilio, il quale, come ha promesso al cugino, si reca a sollecitare l'intervento politico del potente conte zio. Nel colloquio con lo zio le parti si invertono: non è lo zio a guidare i fatti ma lo spregiudicato e cinico nipote, che con il suo fare e coi suoi abili suggerimenti indica allo zio quali sono le strade che deve percorrere e nello stesso tempo ne rileva la boria, la superficialità, il servilismo. Dal colloquio Attilio ha la certezza che il conte zio riuscirà nel proposito di allontanare da Pescarenico padre Cristoforo.
Dietro il trasferimento del padre Cristoforo c'è lo zampino astuto del conte Attilio, anche lui attento al prestigio della famiglia messo in pericolo dalla fuga di Lucia e quindi dall'insuccesso del tentativo di sequestro. E poiché nel fallimento della bella impresa avviata da don Rodrigo è coinvolta direttamente o indirettamente tutta la famiglia, il conte Attilio pensa di fare ricorso a colui che della famiglia è il personaggio di maggiore spicco, il conte zio, che fa parte del Consiglio segreto dello Stato, una grande autorità, ma soprattutto un devoto servo del potere snolo, ed una testa molto decorata ma sostanzialmente piena di vento. Qualche giorno dopo il colloquio col nipote, il conte zio invita a pranzo a casa sua il padre provinciale dei cappuccini. Il colloquio tra i due è un capolavoro di abilità e di finezza diplomatica: ambedue sono attenti a mollare per qualche parte e a salvare l'essenziale. Cede soprattutto il padre provinciale, il quale capisce che non può mettersi contro la potenza di una famiglia quando è stato offeso il suo onore. Opera quindi con discrezione e accogliendo il suggerimento del conte zio, per sopire e troncare, manda via con urgenza il padre Cristoforo da Pescarenico a Rimini con l'ordine di non interessarsi più dei fatti del paese da cui parte. È un piccolo trionfo per don Rodrigo che si vede spianata la strada verso Lucia. C'è però l'ostacolo del convento e soprattutto quello dell'essere la giovane donna protetta da una suora che appartiene a potente famiglia milanese. C'è una strada, ma è rischiosa. Può riuscirvi un potente feudatario che ha il suo castello non lontano dal territorio su cui impera don Rodrigo. Era un uomo di non comuni qualità e forza: il suo vangelo era di fare ciò che era vietato dalle leggi senz'altro gusto o interesse che quello di governare, e di essere temuto dagli altri. La sua vita era disseminata di violenze, di morti anche per commissione, di delitti: intorno a lui abitava la paura che di lui aveva anche lo Stato che si guardava bene dal fargli guerra. A costui don Rodrigo decide di rivolgersi anche se la cosa gli costa tanto sul piano del prestigio e anche se, in conseguenza del servizio ottenuto, lui da allora si deve avvertire come un dipendente del potente signore, che il Manzoni chiama Innominato.
Il modulo si apre con la descrizione del castello dell'Innominato, una sorta di tetra fortezza in cima ad un monte: difficile l'accesso: dall'alto il padrone ne controlla ogni via. Ad esso si accosta don Rodrigo accomnato dal fedele Griso: i due subiscono l'umiliazione di vedersi disarmare e non fiatano. Questa è la legge del castello. Nel colloquio don Rodrigo esalta le difficoltà dell'impresa, quella del ratto di Lucia, anche per giustificare la propria impotenza fallimentare. L'Innominato accetta l'impresa, quasi internamente stimolato da una voce che lo induce, da un lato, a respingere le abituali forme di vita che caratterizzavano l'esistenza, dall'altro ad accogliere su di sé la responsabilità delle azioni tanto più fervidamente, quanto più apparivano impossibili. Dentro la coscienza dell'Innominato da un certo tempo si svolgeva un conflitto che egli non ancora era riuscito a chiarire nei suoi termini. A dare esecuzione all'impresa è dato incarico al più abile dei suoi bravi, il Nibbio. A Monza il signore ha un punto di appoggio: da lui dipende quell'Egidio che era l'amante di Gertrude. Con autentica sofferenza questa è costretta a dare il suo assenso e con un finto motivo spedisce fuori del convento Lucia. Tre uomini sono accanto ad una carrozza: sono i bravi bell'Innominato. Lucia nonostante la sua resistenza è rapita e messa sulla carrozza. Tutto si è svolto con l'efficienza rapida propria a autentici professionisti del crimine. L'ordine era di portarla al castello, dove l'aspetta l'Innominato, stavolta più turbato ed agitato del solito. A dare per così dire il benvenuto a Lucia viene mandata una vecchia che abitava nel castello; dagli uomini che praticava e dalla vita che faceva era portata alla cieca obbedienza, ad aver paura di coloro che comandavano. A questa donna è dato l'incarico di rincuorare Lucia che, durante il trasporto in carrozza, aveva tanto pianto ed implorato da gettare lo scompiglio anche nell'animo duro e corazzato del Nibbio.
Al padrone che gli chiede un resoconto dell'impresa il Nibbio, dopo avergli assicurato che tutto si era svolto secondo i piani, riferisce del suo turbamento provocatogli dalle lacrime e dalle implorazioni della donna. Vorrebbe per simili imprese essere sostituito. La cosa ingenera nell'Innominato il desiderio di vedere e di parlare con questa contadina appetita da don Rodrigo e capace di creare turbamenti in un uomo abituato al delitto e alla impietosità come il Nibbio. Forse quella donna, si dice, possiede qualcosa di particolare. Il colloquio con Lucia segna una progressiva ritirata dell'Innominato che non si aspettava non tanto le lacrime e gli inviti alla pietà ma tanta dignità, tanta fermezza e tanta capacità di risposte precise. Ne resta turbato. Ed il turbamento aumenta e progredisce quando ritorna nella sua stanza, per farsi vera ed autentica crisi di coscienza durante la notte. E poiché è uomo intero e non ama occultarsi o prendere le strade comode, affronta fino in fondo il tema del suo dibattito interiore. Risale dall'attuale delitto a tutti i delitti che contrassegnano la sua esistenza, il suo fortissimo desiderio di primeggiare, il suo gusto del potere. E tutto questo gli appare insensato, senza un vero fine. Tutta la vita diventa su questo sfondo una sempre più rapida corsa verso la morte. E dopo la morte c'è il nulla o un altro mondo? E a questo mondo di verità e di giustizia e di pace lui come s'è preparato? Non lo agita e lo preoccupa la paura dell'aldilà, ma il bisogno di dare un senso a tutta la vita. Forse il segreto della vita è nelle parole che su Dio aveva sentito nell'infanzia e in quelle che gli sono state dette sulla sera da Lucia. Fissa tra le molte affermazioni di Lucia la sua attenzione su una: Dio perdona tante cose, per un'opera di misericordia. Anche per lui quindi Dio potrebbe rivelare, se richiesto, il suo volto misericordioso. All'alba, dopo la notte insonne, lo sorprende il lieto rumore prodotto dallo scampanio che giunge dai paesi sottostanti. Vuol saperne la ragione e a questo scopo vi manda uno dei suoi uomini.
In paese, così riferisce al ritorno il bravo, era giunto in visita pastorale il cardinale Federigo Borromeo: per questo il paese era tutto infesta e per questo vi accorreva tanta gente dalle camne e dai borghi vicini. Tanta festa per un uomo! E per quali ragioni? Che cosa di non comune possiede quell'uomo che lo fa tanto amare? Al contrario, quando lui, l'Innominato, passa per le strade, intorno si fa il deserto. Dalla gente è sì temuto ma anche escluso. Di qui l'insorgenza in lui del desiderio di vederlo e di parlargli. E, cosa insolita, senza scorta annata si avvia verso il paese e la casa del curato di cui è ospite il cardinale. La gente al vederlo gli fa ala. Il fatto genera dello scompiglio anche nel sacerdote che fa da segretario al cardinale. Questi, nonostante i consigli contrari, decide di accoglierlo. Il cardinale Federigo della grande famiglia milanese dei Borromei, nipote del cardinale Carlo che poi era stato santificato, apparteneva alla categoria di quegli uomini rari che spendono la vita nella ricerca e nell'esercizio non del bene ma del meglio. Uomo di grande carità e modestia, interamente votato al suo dovere di guida religiosa della diocesi dì Milano, con l'opera e con l'esempio era un costante punto di riferimento per tutti ed un modello di sacerdote per i preti della sua diocesi. Era anche uomo di grande dottrina e cultura: proteggeva le arti e le lettere, era anche scrittore lui stesso e aveva fondato una grande biblioteca con annessa una galleria d'arte, tuttora esistenti. Era insomma un esemplare non comune di vita che congiungeva sapientemente intensità morale, eroismo religioso, cultura vasta anche se non esente dai limiti che ad essa giungevano dai tempi. Credette per esempio nelle streghe e negli untori.
Superate le perplessità del cappellano crocifero, il cardinale accoglie festosamente, e quasi scusandosi di non aver preso lui l'iniziativa, l'Innominato. Nulla del comportamento del cardinale è meno che composto, c'è in lui il segno di quella superiorità che si fa amare. L'abitudine dei pensieri benevoli e solenni, la pace interiore, la gioia continua d'una speranza ineffabile gli danno bellezza e fascino. Il cardinale vede con prontezza che nel cuore dell'Innominato s'è aperto un conflitto, una grande crisi che non può avere altro punto di arrivo che il riaccostamento alla Chiesa, la conversione. E qui siamo al punto culminante della crisi. L'Innominato sospinto dalle affettuose parole del cardinale piange e ne accetta l'abbraccio. Si trovano così abbracciati l'uomo incontaminato e l'uomo abituato a portare le armi della violenza e del sopruso. La crisi che lo tra vagliava da tempo e che durante la notte insonne stava per indurlo alla disperazione e al suicidio, ora si risolve: l'Innominato manifesta la volontà di liberare Lucia. A rendere più facile e meno la cosa si incarica di ciò una donna, moglie del sarto del paese, accomnata anche da don Abbondio, il quale certo quel giorno si sarebbe dato malato, ove avesse potuto immaginare verso quali cose rischiose era avviato. In paese era andato per le pressioni della solita Perpetua. E poiché il destino di don Abbondio è quello di dover chinare la testa su cui si abbattono fendenti pesanti, ci va, al castello, ma la mula su cui è fatto salire, nonostante gli si assicuri che è mansueta, fa di tutto per procurargli altre paure. Le più gravi sono quelle che gli vengono dal mutismo concentrato dell'Innominato. Il cardinale gli ha assicurato che ormai il signorotto è pentito e convertito. Ma è proprio certo? E che cosa potranno fare i bravi malcontenti della soluzione? Finalmente si arriva al castello.
Lucia s'era destata da poco dal sonno profondo in cui era caduta dopo aver fatto alla Madonna il voto di castità, se fosse stata liberata e restituita a sua madre. Grande è la sua gioia al mattino, quando sente di essere libera. L'Innominato si affretta a chiederle perdono. Con la stessa lettiga con cui la donna era venuta al castello, anche Lucia si avvia in paese. La discesa è tormentosa per don Abbondio, che sembra il centro di attrazione di tutti i guai. La mula, nonostante i tentativi di farla camminare al centro del sentiero, scende lungo l'orlo: sotto c'è il vuoto. Tutto sembra collaborare a fare di lui nolente un missionario, tutto sembra avviano al martirio. E non c'è solo la mula testarda a tormentarlo, ma anche il pensiero di don Rodrigo, che non potendo sfogarsi contro il cardinale, potrà riversare su di lui tutta la sua collera. Quando è in fondo alla valle, decide di tornare subito al suo paese. Decisamente non è uomo nato per le avventure. Ma più cerca di scansarle, più queste vanno in cerca di lui. Lucia è ospitata e rifocillata dalla moglie del sarto. Intanto si manda a chiamare Agnese. Nel pomeriggio, all'improvviso, giunge nella stessa casa del sarto il cardinale: vuole fare una visita a Lucia. Ottiene anche altre informazioni su Renzo e su don Abbondio che non aveva voluto sposare i due promessi. Queste ultime notizie le dà Agnese. Quando si allontana, il sarto che è un po' letterato e aveva sognato da sempre l'incontro con un uomo di cultura, non sa dire altro al cardinale che un banale 'Si uri!'. Questa uraccia lo accomnerà per tutta la vita. Intanto l'Innominato nel castello riunisce tutti i bravi e ad essi comunica il suo proposito di cambiare vita. Ed il cambiamento doveva avere effetto immediato: ogni ordine scellerato veniva cassato: coloro che se la sentivano di mutare vita e di seguirlo nella nuova dimensione umana, sarebbero stati suoi graditi comni. Gli altri potevano andarsene dopo aver ciascuno ottenuto ciò che gli spettava. La sera accanto al letto recita una preghiera, quella già detta durante l'infanzia e che si era miracolosamente depositata nella sua memoria.
Don Rodrigo non aveva ancora interamente gustata la gioia del trasferimento di padre Cristoforo che su di lui si abbatte la notizia della conversione dell'Innominato e della conseguente liberazione di Lucia. La gente presto ricostruisce la trafila che conduce a lui: nulla altro può fare che scappare a Milano, inseguito dalla vergogna dell'insuccesso. Si allontana dal paese la sua ombra minacciosa e vi approda in visita il cardinale, sempre festosamente accolte, tanto più perché nel miracolo da lui compiuto vi è implicata una loro paesana. L'unico uggioso in tanta festa è don Abbondio, che fa i doveri di ospite in modo inappuntabile. Però è sull'attenti; il cardinale sarà stato informato da qualcuno sulle sue responsabilità nella vicenda dei due promessi? Sembra dall'atteggiamento del cardinale di poter dedurre che nulla egli sappia. L'attenzione del vescovo ora si sposta verso Lucia: è affidata alle cure e alla protezione di certa donna Prassede, donna di consistente ricchezza e potenza, che si offre di fare del bene alla giovine. Il cardinale dà il suo assenso. E così Lucia qualche tempo dopo, deve spostarsi ancora una volta: stavolta starà in casa di donna Prassede. Le cose si schiariscono per Lucia che ancora nulla dice alla madre del voto fatto alla Madonna. Ma la tempesta si addensa sul capo di don Abbondio. Il cardinale ha saputo e al curato in un colloquio chiede conto del suo operato. Ma al curato sembra che le cose non potessero andare diversamente: egli era stato minacciato di morte da don Rodrigo e questa era per lui ragione più che mai persuasiva ad indurlo in stato di necessità. Il cardinale oppone che dovere di ogni sacerdote è di affrontare anche la morte per l'attuazione del proprio ideale. Ma don Abbondio oppone che le cose potevano andare nel verso del cardinale, solo se non si doveva fare conto alcuno della vita. Ma cosa ci si può guadagnare a fare il bravo contro gente che ha la forza e che non vuoi sentir ragioni? Ma allora, aggiunge il cardinale, dimenticate di esservi impegnato in un ministero che vi impone di stare in guerra con gli interessi dei potenti, dei peccatori? E per difendere i poveri, i diseredati, i parrocchiani che erano sotto la vostra custodia cosa avete fatto? Li avete amati fino al sacrificio o li avete abbandonati al potente, all'ingiusto, al sopraffattore?
Don Abbondio non trova argomenti da opporre alle incalzanti e sempre religiosamente concrete domande del cardinale. C'è un'altra accusa contro di lui: quella di non avere sposato i due promessi ricorrendo a pretesti. È tutto vero e lui, il curato, dentro di sé non ha altro da dire che mandare qualche parola di condanna alle donne che non hanno saputo frenare la loro lingua. Ma insomma, conclude il curato, cosa avrei potuto fare in una situazione come quella? Prima, risponde il cardinale, doveva fare il suo dovere e sposarli, poi avrebbe potuto chiedere l'intervento del suo vescovo (la stessa cosa che aveva a lui suggerito Perpetua). Ma Federigo non vuol fare l'inquisitore: ha capito di quale stoffa sia il curato e pur non perdonando lo comprende e lo conforta a sperare e lo esorta alla resistenza in nome dei grandi valori della religione: la vita nostra deve essere misurata e valutata non sullo sfondo delle cose terrene ma di quelle eterne dell'aldilà. Dall'Innominato intanto giunge al cardinale una lettera con cento scudi: dovranno servire per la dote di Lucia. Ma questa, messa alle strette, ora rivela alla madre il voto: la esorta alla pazienza e a mandare la metà della somma a Renzo. Del quale Renzo nello Stato di Milano nessuno sa nulla: neanche il cardinale riesce ad avere notizie precise. Il fatto si è che la polizia dì Milano aveva incaricato quella di Venezia di fare ricerca del noto delinquente. Renzo, avvertito, aveva per suggerimento del cugino Bortolo cambiato residenza e cognome: si faceva chiamare Antonio Rivolta.
La guerra per la successione del ducato di Mantova, che aveva visto di giorno in giorno l'Italia settentrionale coinvolta nella guerra europea che prende il nome di guerra dei trent'anni, impegnava del tutto l'attenzione del governatore don Gonzalo. Temeva questi che anche Venezia volesse scendere in campo contro la Sna: bisognava cercare di distoglierla facendo la voce forte contro la Repubblica veneta. E l'occasione fu fornita a don Gonzalo dalla notizia che Renzo si era rifugiato nel territorio bergamasco. Di qui la finzione delle ricerche condotte per accertare se Renzo era veramente a Bergamo. Era una formalità: Renzo diventò una pratica burocratica. Il potere, di lui non s'accorse, perché era sola un pretesto. Ma Renzo, pur cambiando residenza e nome, continuava a nascondersi: sapeva per esperienza che del potere politico non ci si poteva fidare. Una sola cosa lo tormenta: quella di mettersi in contatto con Agnese e Lucia. Riesce a trovare una fidata trafila e un giorno riceve insieme con una lettera di Agnese cinquanta scudi: Lucia, era detto nella lettera, non poteva sposarlo più perché aveva fatto voto di castità. Si mettesse il cuore in pace e attendesse agli affari suoi. Cosa che Renzo si dichiarò non disposto a fare. Il suo unico proposito ora sarebbe stato di indurre Lucia al matrimonio. Lucia, intanto, aveva trovato ospitalità in casa di donna Prassede, una donna che poco poteva sul marito, don Ferrante, un intellettuale che da lei si difendeva chiudendosi tra i suoi libri. Così donna Prassede sfogava la sua volontà di strafare e la sua voglia di fare del bene ad ogni costo (ma il bene coincideva stranamente col suo concetto piuttosto storto di bene) alle persone come Lucia che si erano lasciate traviare. Non altrimenti si poteva e doveva spiegare l'innamoramento della giovane per uno come Renzo che per poco era sfuggito alla forca e che sicuramente doveva essere un poco di buono, se era ricercato dalla polizia. Pensiero dominante di donna Prassede era di liberare la mente di Lucia dall'immagine di Renzo e perciò a lei parlava spesso e in termini duri ed ingiusti: Lucia per forza di cose doveva difenderlo da tanta aggressività e così il suo Renzo se lo confermava sempre più dentro. E sempre più intensamente l'immagine di lui l'assediava, sempre come risultato dei metodi educativi di donna Prassede. Nulla c'era da temere dal marito di lei, don Ferrante, un letterato di grande classe: aveva tanti libri e la sua attenzione si fermava su scienze come l'astrologia e la duellistica, dove era diventato un'autorità. Era il tipo di letterato astratto, inutile, formalistica, che non sa legare scienza e realtà, cultura e società.
Per tutto l'anno 1629 fino
all'autunno la situazione politica generale non subì particolari
modificazioni. Dopo il tumulto di S. Martino l'abbondanza sembrò tornata
a Milano. Ma fu questione di pochi giorni: tornò il calmiere del pane
con un prezzo più alto in rapporto alla rarefazione del grano. La poca
farina che doveva essere amministrata con provvedimenti di equa distribuzione
fu sprecata e lo Stato non seppe importare dall'estero grano a sufficienza. Si
era creduto che con l'impiccagione di quattro uomini ritenuti responsabili del
tumulto le cose trovassero sistemazione. Invece le cose peggiorarono: ma non ci
fu tumulto, quasi la gente istintivamente avvertisse la impossibilità di
radicali miglioramenti e di trasformazioni. La fame fiaccò anche i
più generosi. La carestia temuta durante i mesi autunnali ed invernali
si presentò con il suo volto devastatore. Dappertutto botteghe chiuse,
le strade un corso incessante di miserie, accattoni sempre più numerosi,
potenziati dai molti disoccupati, sempre più numerosi coloro che,
vestiti di cenci, smagriti, emaciati, a volte incapaci di reggersi in piedi,
chiedevano l'elemosina. Anche gente che era stata bene e aveva goduto di un
certo agio ora sembrava schiacciata dalla fame. L'aspetto più doloroso
era offerto dalla gente di camna che la fame aveva cacciato di casa: ora
accovacciati alle cantonate o in lunghe processioni i contadini provavano
l'impossibilità per la città di provvedere a loro. Sempre più
numerosi si fecero i morti. Pochi gli aiuti da parte delle anime più
attente e generose. Eroica l'azione del cardinale che incarica giovani ed
attivi preti a dare assistenza ai più colpiti. Ma si tratta sempre di
toppe. Ci voleva l'azione dello Stato che, invece, fu del tutto assente o
inadeguata. Contro il parere del Tribunale della Sanità che temeva
dall'ammassamento in brevi spazi lo scoppio di un 'epidemia, si decise di
aprire il Lazzaretto. Lì la gente trovava un minimo di assistenza
alimentare: vi furono condotti a forza anche quelli che si opponevano al
ricovero. Ma la morte per contagio assunse proporzioni rilevanti: di qui la
decisione di rimandare fuori gli affamati. Finalmente giunse la primavera e
qualcosa si cominciò a trovare.
Ma un'altra e durissima batosta si abbatté sulla popolazione. Dato che gli
Snoli non riuscivano ad aver ragione dei Gonzaga
di Mantova, l'Impero germanico alleato della Sna mandò un corpo di
spedizione di mercenari feroci, che attraversavano i territori anche degli
amici e degli alleati con la stessa efficacia distruttiva delle cavallette.
All'arrivo dei lanzichenecchi la gente della fascia territoriale investita dal
loro passaggio scappò di casa cercando riparo verso le montagne. E le
sofferenze non erano finite.
All'arrivo devastatore dell'esercito dei lanzichenecchi, alleato degli Snoli politicamente e militarmente, ma autentica bufera per la popolazione esposta al saccheggio impunito e a ogni forma di violenza, anche la gente del paese di don Abbondio scappa verso territori ritenuti più sicuri. Deve fuggire anche lui: e Perpetua lo sollecita ad uscire dal torpore e a dare una mano d'aiuto, invece che a riempire la casa di lamenti improduttivi e a dipingersi come da tutti abbandonato. Agnese suggerisce un rifugio sicuro: il castello dell'Innominato. Prima di partire Perpetua ha sepolto sotto un albero le poche ricchezze della casa: si ritiene furba anche lei. Al solito non è d'accordo con il suo gesto don Abbondio. In viaggio si fermano a fare visita al sarto e alla sua famiglia: ne vengono accolti con molta festa. Li accoglie con signorile gentilezza anche l'Innominato. Il quale ha predisposto il castello a difesa contro i lanzichenecchi. non dovrebbero passarci se non gruppi di sbandati o di ritardatari. Nel castello c'è molta gente e questo fatto preoccupa don Abbondio che in questo fatto vede come un invito ai lanzichenecchi. Lo preoccupa anche il fatto che I 'Innominato si metta disarmato a capo dei suoi ex bravi e vada a scongere un gruppo di lanzichenecchi che si era troppo avvicinato al castello. Ma quella che domina dappertutto qui è la ura dell'Innominato ormai convertito e interamente volto ad imprese in difesa dei deboli e di lotta all'ingiustizia. Tutti coloro che ora, spinti dalle forze tedesche, si rifugiavano da lui lo ammiravano e lo guardavano estatici. Lui non stava mai fermo: dentro e fuori del castello era sempre in moto a vedere, a farsi vedere, a mettere ordine e a sorvegliare e a dare coraggio.
Il tempo che trascorre in sicurezza nel castello, don Abbondio se lo rovina per la paura che lo assedia e lo perseguita: dovunque vede minacce alla sua salvezza. Se non può per prudenza parlare e lamentarsi cogli altri, si sfoga con Perpetua e con Agnese che un po' lo sopportano, un po' lo rimproverano. Non gli manca nulla: l'Innominato lo rispetta. Ma lui ha bisogno di lamentarsi contro le due pettegole che l'hanno trascinato a tanto rischio. Gli sembra di essere tra due fuochi, dato che si è diffusa la voce che anche le truppe veneziane fanno delle scorri bande non meno devastatrici di quelle dei lanzi. Agnese e Perpetua trascorrevano il tempo lavorando per la comunità. Intanto veniva sfilando il grande corteo delle truppe tedesche in marcia verso Mantova. Ultime a passare furono le truppe di Galasso. Torna la sicurezza, e la gente torna alle proprie case. L'ultimo a partire, quasi strappato dal castello che ora gli dava tanta sicurezza, è don Abbondio con le due donne. Ad Agnese l'Innominato regala un mucchietto di scudi. Man mano si avvicinano al proprio paese trovano tutto segnato dalla furia dei soldati. A casa tutto messo a soqquadro, tutto insudiciato, il gruzzolo nascosto è sso. E questo fatto dà motivo di nuovo contrasto tra il curato e Perpetua.
Si ritira l'esercito ma lascia dietro di sé oltre che le devastazioni un segno negativo di paurosa potenza distruttiva: la peste che allora sembrava essere costantemente presente all'interno degli eserciti. Le prime vittime furono accertate nel territorio di Lecco. Un soldato italiano militante nell'esercito tedesco la porta a Milano. Primo ad accorgersene e a darne l'allarme alle autorità sollecitando interventi precisi e rapidi; fu il protofisico (una sorta di Ministro della Sanità) Ludovico Settala: ne aveva diretta esperienza essendo passato indenne per quella del 1576. La gente sembra mettersi la testa dentro la sabbia e non ci crede: si dice che si tratta di un 'epidemia di varia natura dovuta alla carestia e agli strapazzi provocati dall'invasione dei lanzi. C'è una sorta di fuga dalla realtà. Si ha tanta paura delle parole che, invece di peste, si parla di febbre pestilenziale. Il governatore Ambrogio Spinola (don Gonzalo era stato sostituito), occupato dalla guerra, risponde alle autorità che facessero loro. lui ha cose più importanti cui pensare. Si riapre il lazzaretto che si vede ogni giorno di più colmare di malati: la maggior parte dei quali muore. Il lazzaretto, data l'insipienza e l'inefficienza dei poteri politici, affidato alla direzione ed amministrazione dei padri cappuccini: questi si adoperano eroicamente per i malati, molti prendono la peste, i più di loro muoiono. Ma la peste non è solo un male di per sé, non semina soltanto sofferenze e morte: scompiglia la vita mentale della gente e l'avvia verso le credenze più folli, verso Pirrazionalità. Non trovando la vera causa dell'epidemia, la gente inventa e dà credito ad alcune motivazioni e cause infondate: si pensa e crede che in giro vadano degli untori che, spinti da ragioni politiche o da perverse tendenze assassine, spargano e imbrattino di cose unte le cose e i luoghi pubblici. Chi ne è toccato, si prende la peste. Si credette di averne trovati alcuni che sottoposti a tortura si dissero colpevoli: furono avviati a morte e là dove c'era la casa di uno, fu eretta una colonna col compito di ricordare alle generazioni seguenti l'infamia di così efferato gesto.
Le autorità politiche si svegliano e chiedono l'intervento del governatore: almeno le spese per i provvedimenti sanitari le sostenga lo Stato snolo. Il governatore risponde che non ci può fare nulla: lui è impegnato nella guerra in modi esclusivi. Ci pensi il vice governatore Ferrer. E questi con tutte le altre autorità non sa altro proporre che il ricorso al soprannaturale: si aspetta il miracolo. E perciò si fanno pressioni sul cardinale perché autorizzi e guidi una solenne processione. Il cardinale non vorrebbe, ma poi cede. La processione si svolge ampia e solenne per le strade principali della città: vi partecipano tutti i cittadini che ancora si reggono in piedi: i malati si attendono soluzione improvvisa e positiva del morbo. Ma il contagio favorito dall'ammassamento scatena in forme ancora più drammatiche la forza della peste: i malati aumentano in modo impressionante. Alla fine, di peste morranno i due terzi della popolazione. Più esposti alla morte furono i bambini, i vecchi, le donne. Nel lazzaretto è un via vai di malati che vi sono fatti affluire e di morti che vengono avviati alle fosse comuni. La città è attraversata da carri guidati dai monatti, incaricati della raccolta dei malati: si tratta di gente che ha avuto la peste e ne è immunizzata. Si abbandonano a ruberie, a violenze, a scene orgiastiche. La popolazione superstite vive nello stato d'animo di chi si vede costantemente e misteriosamente minacciato da un nemico subdolo e potentissimo. Tutti vivono nella paura: dappertutto si crede di vedere degli untori. E il livello intellettuale si abbassa a tal punto che perfino persone di alto sentire come il cardinale o il Tadino vi credono.
La peste la prende anche don Rodrigo: se la scopre addosso una sera tornando da un festino dove aveva celebrato ironicamente il morto conte Attilio. Chiede aiuto al Griso perché chiami un medico: il Griso chiama invece i monatti. Che lo portano al lazza retto. Ma prima del padrone muore fulminato dalla peste anche il Griso. Di peste s'ammala anche Renzo, ma la forte, contadinesca fibra lo salva: superata la convalescenza decide di far ritorno al suo paese in cerca di Lucia. Nessuno in tanta confusione si curerà di lui e dei suoi conti con la Giustizia. Salutato il cugino Bortolo, riattraversa l'Adda e si affaccia al suo paese. Dovunque imperano i segni della morte, dell'abbandono, della sofferenza. Incontra Tonio in camicia che dice cose senza senso: la malattia lo aveva reso idiota e fatto somigliare stranamente al fratello folle. Da una cantonata vede avanzare una cosa nera; è don Abbondio che ha perduto Perpetua: è mal messo ma si preoccupa della presenza di Renzo. per lui sorgente di guai. Di Agnese sa che si rifugiata a Pasturo, di Lucia dice che è a Milano in casa di don Ferrante. Altro non sa; una sola cosa vorrebbe: che Renzo torni al più presto dond'è venuto. Renzo passa anche accanto alla sua vigna: ormai ridotta a una marmaglia di piante, di vilupponi arrampicati, di rovi, di un guazzabuglio di steli. Pare anch'essa investita e disgregata dalla peste. A sera trova rifugio in casa di un amico. L'indomani decide di recarsi a Milano in cerca di Lucia.
Per entrare a Milano Renzo non incontra particolari difficoltà: basta una moneta per ottenere il rapido consenso della guardia. Se fuori di città ciò che intristisce la camna, parte incolta e tutta arida, dentro la città impressionano il silenzio e i segni desolanti della peste, che come potenza distruttiva travolge ogni cosa lasciando dietro di sé cadaveri e cenci. Proposito principale di Renzo di pervenire alla casa di don Ferrante alla ricerca della sua Lucia. Non ha con sé che indicazioni generiche. Un passante, a cui con buona educazione chiede informazioni, lo allontana con mal garbo con gli occhi stralunati e imbracciando e minacciando con un nodoso bastone: lo aveva ritenuto un unto re. L'attenzione di Renzo è poi richiamata dalle invocazioni di una donna circondata dai suoi bambini e chiusa e sequestrata in casa dall'esterno: ritenendola portatrice di peste, gli amministratori l'avevano chiusa, come si fa per la quarantena e l'avevano dimenticata. Rischiava di morire di fame. Renzo le porge il poco pane di cui dispone: si incarica di avvertire qualcuno. Poco dopo incontra un prete che finisce di confessare un malato. A lui affida la donna e gli chiede informazioni sull'ubicazione della casa di don Ferrante. Ma via via che scorre lungo i quartieri della città, da quelli periferici a quelli del centro, Renzo si imbatte in scene raccapriccianti di dolore e di morte: dovunque fetore di cadaveri, visioni di solitudine e di abbandono, serrati tutti gli usci di strada, per tutto cenci, e segni di un progressivo imbarbarimento delle menti e dei costumi. quando Renzo arriva in città, questa aveva per la peste perduto i due terzi della popolazione. Le strade erano deserte: i pochi che per necessità le percorrevano prendevano tutte le cautele per evitare il contagio e per scansare incontri con i favoleggiati untori. Carri guidati da monatti erano adibiti alla raccolta dei malati o dei cadaveri. Ad un monatto una povera madre consegna il corpo esanime di una sua liola: l'adagia lei stessa nel carro raccomandando che la si lasci così. Poco dopo si affaccia ad un balcone con in braccio un 'altra bambina, anche lei segnata dalla peste. Vincendo la commozione Renzo si avvia verso la casa cercata: alla finestra si affaccia una donna che gli annuncia che Lucia non c'è, che è stata portata al lazzaretto. E nulla altro risponde a Renzo, che voleva notizie più precise e teneva indeciso la mano sul martello della porta: lo stringeva e lo storceva. Il gesto non sfugge ad una donna che passava, una sorta di strega che lo addita alla folla come untore. Preso in mezzo dalla piccola folla Renzo prima minaccia col coltello, poi salta su un carro di monatti che stava passando. I monatti lo prendono sotto la loro protezione: la folla si dissolve scaricando la propria rabbia impotente in gesti che minacciano ancora il presunto untore. Renzo su quel carro si trova ora dentro le forme più sconvolgenti e turpi della peste: e non sono solo i cadaveri buttati sui carri a dare l'impressione di qualcosa di infernale, ma anche i monatti che si abbandonano ad una sorta di sadico compiacimento per la molta gente che muore e cantano canzonacce e bevono e si danno a forme di diabolica orgia. Ad uno di loro Renzo appare un povero untorello, uno che certamente non può essere un unto re. Non ne possiede secondo il monatto i fieri requisiti. Ormai sono al lazzaretto: Renzo ringrazia e si congeda. Dentro il lazzaretto ciò che colpiva era la folla dei malati, sui quali la peste, anche se sopravvivevano, lasciava a volte segni spaventosi di degradazione. Il gruppo che più impressiona è quello degli alienati mentali, degli istupiditi. Una scena improvvisa è quella di un cavallo non domo con sulla groppa un cavaliere, un appestato impazzito: dietro corrono i monatti: tutto poi si ravvolge in un nuvolo di polvere.
L'aria si fa sempre più afosa, il cielo si copre di una coltre di umidità greve, quando Renzo entra nel lazzaretto: un insieme di capanne e di fabbricati posticci, alzati per la circostanza, accanto ad altri in muratura. L'impressione è quella del covile segnato da un vasto brulichio prodotto da sani e malati, da serventi e da folli, impazziti per la peste, da gente variamente indaffarata. Su tutto domina l'organizzazione imposta dai cappuccini ed è, il loro, un ordine esemplare sempre tenendo conto che bisogna amministrare, confortare, curare o avviare al cimitero ben sedicimila appestati. La visione generale è quella che insorge da un luogo che è un condensato, un contenitore di grandi sofferenze su cui incombe l'aria ed il cielo nebbioso. Il primo gruppo di malati, collocati a parte, dentro un recinto, è quello dei bambini allevato da nutrici e da capre: alcuni sono neonati ed hanno bisogno di costante cura ed attenzione. Molte donne guarite dalla peste provvedono alla cura dei bambini: ma anche le capre, quasi consapevoli della grande sofferenza, offrono mansuete il proprio latte ai bambini. È uno spicchio di umanità che intende sopravvivere e resistere nonostante tutto sembri avviare a morte o a disperazione. E proprio in un atteggiamento di padre che si cura dei propri piccoli Renzo intravede dopo tanto tempo la cara immagine di padre Cristoforo. Affettuoso l'incontro tra i due. Il padre dopo essere stato per anni a Rimini, per pressioni esercitate sui superiori ha ottenuto di essere richiamato a Milano e di essere adibito al servizio dei malati. Renzo gli fa un succinto riassunto delle sue avventure e dice di essere nel lazzaretto in cerca di Lucia. Potrebbe essere, se è ancora viva, nel recinto assegnato alle donne: è proibito entrarvi. Ma il padre lo autorizza date le buone intenzioni che lo animano. Ma Lucia sarà viva? Se non dovesse essere viva, Renzo si dice pronto a fare vendetta su don Rodrigo, che è all'origine di tutte le disavventure sue e di Lucia. E a questo punto padre Cristoforo lo redarguisce e alla legge di vendetta contrappone la legge cristiana del perdono e della carità. Lui, che ha fatto l'esperienza dell'assassinio di un uomo, sa quanto arida sia la strada della vendetta e quanto allontani da Dio e quindi dall'umanità la ricerca di una giustizia che impone morte per morte. La vera giustizia è la carità che compensa la morte di un uomo con la crescita ideale di nuova umanità. Renzo convinto si dice disposto al perdono del suo avversario. E il frate lo conduce in una capanna dove gli mostra don Rodrigo moribondo: ecco come si è ridotto colui che voleva farsi padrone dell'altrui vita! E il padre non sa decidere se in quelle condizioni il signorotto sia per un castigo o per un atto di misericordia della divinità.
Allontanatosi dal letto di morte di don Rodrigo, con animo molto commosso, con la commozione che ci prende quando pressati dall'impressione dei morti o dei moribondi ci ripieghiamo a pensare a noi e al senso di tutta la vita, Renzo riprende lungo il lazzaretto la sua ricerca di Lucia: come cercare un ago in un liaio. Al centro, quasi punto di riferimento e di convergenza, la cappella a pianta centrale, con un portico che girando intorno lascia la vista dell'altare da qualunque posizione ci si volga verso di esso. intanto la processione dei guariti o avviati a guarigione, comincia a riunirsi intorno, guidata dal padre Felice, che si volge ai malati o convalescenti e li saluta prima che essi tornino alle loro case, alle solite occupazioni. Sono i sopravvissuti di una epidemia terribilmente devastatrice: con quali sentimenti i guariti guarderanno ora alla vita? Con la coscienza, dice padre Felice, che essi la vita ottenuta come dono dalla divinità l'impieghino in opere che siano alla stessa accette. Si aiutino tutti e si avvertano fratelli: la sofferenza conceda a tutti i salvati il senso della fugacità dell'esistenza con la congiunta consapevolezza che la legge del mondo dovrebbe essere quella dell'amore. Finita la processione, Renzo si avvia nei reparti riservati alle donne: quando sembra avviato a disperazione, postosi accanto ad una capanna ne sente venire una voce inconfondibile: quella di Lucia. L'ha ritrovata e con la solita generosa impetuosità vorrebbe che le cose tornassero come prima. Il voto, che ancora Lucia insiste di voler rispettare, a lui sembra il frutto di una mente turbata, quindi una cosa sconclusionata. Contro la recisa, fermissima opposizione di Lucia, non c'è altri che possa sciogliere la difficoltà, che padre Cristoforo. il quale, chiamato, ascolta da Lucia tutta la storia del voto, comprende che si tratta di gesto nobile ma viziato all'origine: era stato fatto senza tenere conto che lei s'era promessa a Renzo e in momenti di grande agitazione. Se lei consente, dal voto può essere sciolta. E così padre Cristoforo pronuncia la formula di scioglimento ed insieme dà ad ambedue un avvertimento ed un consiglio: possono tornare come promessi sposi ai pensieri di una volta ma si ricordino che la vita deve essere spesa nella ricerca del bene e che le sofferenze patite devono disporli ad un 'allegrezza raccolta e tranquilla. Così si congeda il frate, ormai con nel volto i segni della morte imminente. Lucia resta nella capanna ad assistere la mercantessa che le si è affezionata. Renzo decide dì partire subito e di andare alla ricerca di Agnese. il tempo che era prima afoso e nebbioso e percorso da rumori di tuoni, ora sembra voler precipitare in forma di burrasca.
Renzo ha da poco varcato l'ingresso del lazzaretto, che il tempo quasi sciogliendosi dalla gravezza da tempo imperante sulla città si risolve in un forte temporale. L'acqua veniva a secchie. Ma Renzo non si lascia frenare o distogliere: una nuova, fervida, alacre vita sembra essersi ridestata in lui e lo spinge infaticabile verso il proprio paese. Deve ordinare parecchie cose e deve ormai preparare tutto per l'arrivo di Lucia: allora si penserà al matrimonio. Cammina tutta notte e al mattino si trova in casa dell'amico che, quasi avvertendo anche lui la liberazione da un incubo, sorride al vedere Renzo ridotto così malamente. Lo fa mangiare e si fa raccontare per filo e per segno tutte le avventure degli ultimi giorni. Asciugato e riposato il giorno dopo Renzo si reca a Pasturo: vi trova Agnese e anche a lei racconta di Lucia e dello scioglimento del voto. Poi sempre a piedi ed incontenibile va a Bergamo per Bortolo e per cercare casa: sposato intende trasferirvisi. Infine torna al paese e vi trascorre alcuni giorni ora chiacchierando con Agnese ora lavorando il poderetto di lei. Renzo manifesta il proposito di vendere la sua vigna e la sua casa. Lucia, intanto, con la mercantessa ormai guarita, si trasferisce nella casa di questa. Da lei Lucia viene a sapere di Gertrude e della turpe vita che conduceva al monastero. Sa anche della morte dei suoi ospiti, donna Prassede e don Ferrante. Questi era morto come un eroe della scienza: si era convinto che la peste era dovuta ad un influsso, avverso, delle stelle e quindi non prese alcuna precauzione: un giorno si mise a letto e vi morì con un ultimo sguardo alle stelle, della cui dottrina aveva creduto di nutrirsi.
È la stagione dei ritorni: primo a giungere in paese è stato Renzo; da Pasturo torna Agnese, ora torna anche Lucia accomnata dalla mercantessa, comna di capanna dentro il lazzaretto. Grande è la gioia generale. La famiglia Tramaglino ora può costituirsi. E per prendere accordi Renzo si reca da don Abbondio: ritiene di dover trovare porte spalancate ma non ha fatto i conti con la paura del curato che, finché ritiene o induce che don Rodrigo è ancora vivo, sente incombere la minaccia di cui si erano fatti messaggeri i due bravi da lui incontrati durante la passeggiata pomeridiana. Don Abbondio ha ancora delle obiezioni da fare, delle difficoltà da frapporre. Dice che esita per il bene di Renzo. A sciogliere il nodo giunge al castello-palazzotto di don Rodrigo il marchese che ne è l'erede. Il signorotto è morto. Don Abbondio è come liberato; diventa cordiale, generoso, scherza: un grosso peso gli si è tolto dal petto. Il nuovo proprietario dei beni che furono di don Rodrigo è persona dolce, umana, vuol compensare in qualche misura i due promessi acquistando ad un prezzo da lui maggiorato i loro pochi beni. Finalmente si celebra il matrimonio e il marchese invita gli sposi a pranzo nel suo palazzo: lui si pone in una stanza con don Abbondio, in un'altra gli sposi. Buono sì, ma sempre marchese! Segue poi il viaggio nel nuovo paese, nel bergamasco, dove Renzo si trasforma in piccolo imprenditore. Ma il suo piacere è attenuato dall'amarezza che gli danno i nuovi compaesani che non trovano di loro gusto Lucia, fatta centro di tante avventure. L'avevano ritenuta una creatura magicamente bella: ed invece è una giovane donna come tante altre. A liberare Renzo dai disgusti c'è un secondo trasferimento in altro paese: dove insieme con Bortolo acquista una piccola filanda. Qui le cose migliorano sotto ogni aspetto. La famiglia è più unita e Renzo più sereno. I bambini che nascono sono la gioia di Agnese. Di tutta questa a volte tumultuosa vicenda quale il sugo? I due coniugi d'accordo conchiudono che i guai ci sono e non si possono evitare: solo la fiducia in Dio li addolcisce e li rende utili per una vita migliore.
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