italiano |
"Mi chiamo Liliana Segre, sono nata
a Milano nel 1930 e a Milano ho sempre vissuto. La mia famiglia era ebraica
agnostica, cioè non frequentavamo il Tempio o ambienti ebraici. Io
ero una bambina amatissima, vivevo in una bella casa della piccola borghesia,
insieme a mio padre e ai miei nonni paterni, in quanto la mia mamma era morta
poco dopo la mia nascita. Mi ricordo la sera di fine estate del 1938: avevo
fatto la prima e la seconda elementare in una scuola pubblica del mio
quartiere, quando mio padre cercò di spiegarmi che siccome eravamo
ebrei, non sarei più potuta andare a scuola. Quel momento ha
segnato una cesura tra il prima e il dopo; era difficile per mio padre, con un
sorriso commosso, spiegarmi quel fatto: io che mi sentivo così uguale a
tutte le altre bambine, invece ero considerata diversa. Mi ricordo la fatica di
dover cambiare scuola e di non dover dire mai niente nei primi giorni nella
nuova scuola di quella che io ero al di fuori delle mura scolastiche. Le
bambine con le quali ero stata a scuola nei primi due anni, quando le
incontravo per strada, mi segnavano e dicevano che io non potevo più
andare nella loro scuola in quanto ero ebrea. Io sentivo e vedevo quelle
risatine e non capivo perché facessero così. Mi ricordo come
cambiò la nostra vita: ad esempio suonavano alla porta, mia nonna andava
ad aprire ed io dietro di lei; erano dei poliziotti che venivano a controllare
i documenti. Mia nonna, piemontese, li faceva accomodare in salotto e offriva
loro dei dolcetti e questi rimanevano spiazzati, in quanto dovevano trattarci
da «nemici della patria»; noi che nella nostra famiglia avevamo avuto
mio zio e mio padre ufficiali nella Prima Guerra Mondiale, loro che si
ritenevano italiani, patrioti. Loro non sapevano cosa fare con una signora
così affabile e gentile; mia nonna mi mandava fuori della stanza, ma io
stavo dietro la porta ad origliare per sentire cosa dicevano questi poliziotti,
ma avevo anche molta paura.
Gli anni di persecuzione si snodarono uno dopo l'altro, le leggi razziali
fasciste erano così umilianti, perché avevano deciso che questa
minoranza (35.000 - 37.000 ebrei italiani di allora) fosse declassata a cittadini
di serie B. Era difficile essere cittadini di serie B, in una zona grigia
come la nostra; la solitudine si faceva tangibile vedendo coloro che finora
erano stati amici, allontanarsi da noi, perché è sempre facile essere
amici di chi è sulla cresta dell'onda, ma non di quelli che sprofondano
inesorabilmente. Mi ricordo che non venivo più invitata alle festicciole
delle amiche, alcuni genitori dicevano alle lie di non invitarmi alle loro
feste, a casa loro. Mi ricordo che queste cose che vedevo, le leggevo con una
maturità inadatta alla mia età; mi ricordo che non potevamo
più ascoltare la radio, dovevamo chiedere il permesso per fare tutto;
la cameriera che seguiva mio nonno, che era ammalato del morbo di Parkinson,
non potevamo più tenerla. Erano molte le cose che non potevamo fare,
proibite, e ci venivano indicate in un modo sottile, sotterraneo e
universalmente accettato. Ho letto poi da adulta tante cose che allora non
sapevo, per esempio del silenzio colpevole di tutto il popolo universitario
italiano: quando i professori dell'università italiana di allora videro
mandare via dei professori ebrei per la colpa di essere nati ebrei, invece di
scendere in strada a gridare il loro disgusto (molti di questi ebrei furono poi
chiamati in America, tanta era la loro professionalità ed esperienza),
nessuno fece sentire la propria voce, anzi fu molto interessante prendere i
posti lasciati liberi; ci fu questo silenzio-assenso che faceva parte del
grande trionfo del fascismo di quegli anni; e non importa se, finita la guerra,
tutti quelli che incontravo per strada mi venivano a dire: «Noi eravamo
anti-fascisti, noi abbiamo fatto scappare molti ebrei» . ci fu qualcuno
antifascista, e qualcuno ha fatto scappare molti ebrei, ma la maggior parte
andava in piazza Venezia ad applaudire quello che gridava più forte.
Questo silenzio colpevole intorno a noi fu la cosa più grave di tutte:
perché davanti a delle leggi così discriminanti, un popolo che sa
ragionare con la propria testa, non fa come le pecore che vanno dietro il
gregge, anche se questo va a finire in un fosso.
Allo scoppio della guerra, gli italiani vivevano in una situazione precaria,
gli ebrei italiani in una situazione ancora più difficile.
Mi ricordo che quando nell'ottobre del 1942 iniziarono i bombardamenti su
Milano, tutti i Milanesi cercarono di fuggire, come noi che ci rifugiammo in un
paese della Brianza, dove non c'era una scuola adatta a me, in quanto c'era
solo una scuola pubblica: a 12 anni ho smesso di andare a scuola. Quindi
stavo sempre a casa, curavo mio nonno che adoravo, mio nonno che era ammalato
(quando vedo il Papa che in tv trema con la sua debole mano, mi viene in mente
mio nonno). Mio nonno non era più autosufficiente ed io vivevo vicino a
lui: piangeva, non aveva più le forze per riprendersi, lui che era stato
attivissimo, aveva portato il benessere alla nostra famiglia, si rendeva conto
dello sfacelo che stava succedendo intorno a sé. Io inventavo storie
fantastiche, gli facevo da infermiera e sentivo la radio e capivo quello che stava
succedendo in tutta Europa: ero diventata una esperta dei bollettini di guerra.
Capivo come l'esercito nazista stava mettendo in ginocchio tutta l'Europa e
stava avanzando e che quindi gli ebrei venivano trattati in quel modo disumano
che ancora noi non conoscevamo. Nell'estate del 1943, subito dopo la
caduta del fascismo (l'8 settembre), i nazisti divennero padroni dell'Italia
del nord, e alle leggi razziali fasciste severe si sovrapposero le leggi di
Norimberga che avevano nel loro testo quelle due paroline «SOLUZIONE FINALE»,
di cui ancora nessuno capiva il significato.
Mi ricordo che mio padre decise che avremmo dovuto cambiare identità,
comprò una carta d'identità falsa; mi ricordo lo strazio
di una famiglia onesta e normale che si recuperava una carta d'identità
falsa. Mi ricordo che dovevo imparare il mio nuovo nome e cognome, le mie nuove
generalità che avrebbero potuto essere la mia salvezza . ma il mio
cervello si rifiutava di impararle. Non riuscivo a memorizzare quei dati che non
erano i miei e che mi facevano nata a Palermo, con un altro cognome. Con quella
carta falsa fui ospite di due famiglie cattoliche eroiche che mi nascosero. Mio
padre, con quella carta falsa, ogni tanto mi veniva a trovare ed era sempre
più disperato perché non sapeva cosa fare: era stanco, esaurito da 5
anni di persecuzione con la responsabilità di una ragazzina di 13 anni e
di vecchi genitori, mia nonna stava diventando pazza, e mio nonno stava sempre
peggio. Ad un certo punto riuscì dalla questura di Como, ando un funzionario,
ad avere per i propri genitori un permesso che diceva che Olga e Giuseppe
Segre, visto il loro stato fisico, potevano risiedere nella loro casa sotto la
custodia di gente cattolica, perché impossibilitati a nuocere al grande Reich
Tedesco. Evidentemente non erano impossibilitati a nuocere al grande Reich
Tedesco, perché nel mese di Maggio, quando già noi eravamo ad Auschwitz,
furono denunciati, arrestati, deportati e uccisi per la colpa di essere nati
ebrei.
Avuto questo permesso al quale ancora si credeva, perché era stato rilasciato
dalla questura di Como, mio padre, aiutato da alcuni amici, decise che io e lui
saremmo fuggiti in Svizzera. Eravamo non lontani dal confine svizzero e
tentammo questa fuga grottesca e per certi versi nata male fin dall'inizio. Era
il 7 dicembre 1943, quando noi tentammo questa fuga verso la Svizzera.
Mi ricordo come fuggivo nella notte, correndo e tenendo la mano di mio padre su
quelle montagne. Era una fuga in cui mi sentivo una eroina . mi sembrava una
avventura fantastica sulla montagna, con i contrabbandieri che ci dicevano di
andare più veloci se non volevamo essere presi; ma io ero fiduciosa, con
la mia mano nella mano di mio padre, a due passi dalla Svizzera, dove ci
sarebbe stata la libertà. All'alba del 7 dicembre passammo il confine e
ci sembrava impossibile avercela fatta e quando fummo al di là su questa
cava di sassi, guardavamo la montagna ed eravamo felici, ci abbracciavamo, io,
mio padre e due cugini che si erano uniti a noi. Ma la sentinella che ci prese
in custodia in quel boschetto, ci accomnò al comando di polizia del
paese più vicino del Canton Ticino (esiste ancora adesso e si chiama
Arzo), e dopo una lunga attesa dentro il comando, senza un bicchiere d'acqua,
senza una parola da parte di nessuno, ci ricevette nel suo ufficio un ufficiale
svizzero e ci disse, con disprezzo: «Ebrei impostori, non è vero che
succede tutto quello che accade in Italia, in Svizzera non c'è posto per
voi» e ci rimandò indietro con le guardie armate che ci scortavano. E'
stato quell'ufficiale svizzero a condannare a morte 4 persone, delle quali solo
io mi sono salvata. Seppi dopo che 28.000 persone che avevano chiesto
ospitalità in Svizzera furono respinte, rimandate indietro.
Nel pomeriggio di quella giornata interminabile, sotto una pioggerellina
battente, noi tentammo di tornare in Italia passando per quella rete che
delimita la terra di nessuno tra due stati; appena toccai la rete suonò
l'allarme, vennero dei finanzieri italiani in camicia nera e fummo arrestati.
Il giorno dopo entrai da sola nel carcere femminile di Varese, avevo 13
anni e ho subito quell'iter consueto che subisce un arrestato: fotografie,
impronte digitali, e mi ricordo i miei passi tra le lacrime in quel corridoio
lungo con quella secondina gelida alle spalle che poi mi spinse malamente nella
cella a me destinata. Era una cella grande dove c'erano altre donne ebree. Sono
stata 6 giorni dentro il carcere di Varese e piangevo disperata, perché non
sapevo quello che mi sarebbe successo; poi nel carcere di Como e poi
tutte le famiglie furono riunite nel grande carcere di Milano che si
chiama San Vittore. E' fatto come una stella: un corpo centrale con dei
raggi; uno di questi era adibito agli ebrei. Non c'erano divisioni tra uomini e
donne, io e mio padre potevamo stare insieme nella stessa cella; rimanemmo
lì 40 giorni. Ero felice di stare a San Vittore, in una cella nuda e
spoglia, ma insieme a mio padre. Ogni 4 o 5 giorni la Gestapo chiamava tutti
gli uomini per degli interrogatori e io rimanevo sola nella mia cella a
piangere senza una spalla sulla quale appoggiarmi: sapevo che li picchiavano e
li torturavano. Furono giorni speciali, ma un pomeriggio entrò un
tedesco nel raggio ed elencò 605 nomi: eravamo uno dei tanti trasporti
che partivano dall'Italia"
"Noi tutti ci preparammo a
partire; ci furono distribuiti dei cestini di carta con sette porzioni di
gallette, sette di mortadella, sette di latte condensato. Perché sette? Perché
sette? Come facevo a guardare mio papà? Come facevo a chiedergli la
ragione di quello che ci stava accadendo?In quelle ultime ore a San Vittore
tacevo, ma ogni tanto mi allontanavo da lui, correvo come una pazza su fino
alle grandi celle comuni dell'ultimo piano per vedere tutta quella gente
sconosciuta che si preparava a partire, con gesti uguali. Era la deportazione
annunciata, ne facevo parte anch'io, la principessa del mio papà. La
mattina dopo, era il 30 gennaio 1944, una lunga fila silenziosa e
dolente uscì dal quinto raggio per arrivare al cortile del carcere. Attraversammo
un altro raggio di detenuti comuni. Essi si sporgevano dai ballatoi e ci
buttavano arance, mele, biscotti, ma, soprattutto, ci urlavano parole di
incoraggiamento, di solidarietà e benedizioni! Furono straordinari.
Furono uomini che, vedendo altri uomini andare al macello solo per la colpa di
essere nati da un grembo e non da un altro, ne avevano pietà. Fu
l'ultimo contatto con esseri umani"
"Portati alla stazione centrale, nei sotterranei erano preparati dei vagoni:
a calci e pugni fummo caricati dalle SS e dai loro servi. Come si sta dentro un
vagone? Il viaggio è un momento importantissimo - chiave della
prigionia; il viaggio durò una settimana; eravamo sprangati dentro un
vagone dove non c'era niente, con un secchio per i nostri bisogni, che ben
presto si riempì; non c'era luce, non c'era acqua, c'eravamo solo noi
con la nostra umanità dolente. Io, insieme agli altri, vissi tre fasi: la
fase del pianto; la seconda fase, quella surreale: gli uomini pii si
riunivano al centro del vagone pregavano e lodavano Dio; era un momento di
tensione fortissima che ci teneva uniti, mentre altri uomini ci portavano a
morire. La terza fase è quella del silenzio: persone coscienti
che andavano a morire; noi lo sentivamo che sarebbe stato così. Non
c'era più niente da dire. Gli occhi che comunicavano al vicino: «Sono
qui con te, ti voglio bene!», ma non c'era più niente da dire, non c'era
più bisogno di parlare. Furono gli ultimi miei giorni con mio padre, e
devo dire che la fase del silenzio è quella che è stata di
massima trasmissione tra noi; poi a questo silenzio così importante,
c'è quel rumore osceno e assordante degli assassini intorno a noi,
quando arrivati a quella stazione preparata per noi, dai nostri assassini,
già da anni, Birkenau - Auschwitz: la porta si apri e con grande
violenza fummo tirati fuori tutti. C'era una folla immensa: scendevamo dai
vagoni, smarriti, non sapevamo cosa fare, perché c'erano le SS con i loro cani,
i prigionieri adibiti a dividerci, ad ammucchiare i nostri bagagli; le SS con i
loro occhi gelidi e i loro sorrisini ( straordinari i loro sorrisini), avevano
un ghigno con il quale ci dicevano: «State calmi, calmi, adesso vi dobbiamo
solo registrare e poi le famiglie saranno riunite». Le donne con i bambini da
una parte, e gli uomini dall'altra. Lasciai per sempre la mano di mio padre
e non lo rividi mai più, e fui messa in fila con le altre donne.
Certo non lo sapevo che non l'avrei più rivisto, che era un momento
così determinante della mia vita. Ed ecco che i nostri assassini
perpetrarono il delitto massimo del momento, cioè facevano l'atroce
selezione, perché così feroce non la facevano più. Loro nella
loro organizzazione teutonica, avevano in mano la lista del numero dei
deportati, sapevano quanti uomini e donne contenevano i vagoni appena arrivati,
sapevano quanta forza lavoro desideravano far rimanere nei lager, e decisero
quel giorno che sarebbero rimaste una trentina di donne e una sessantina di
uomini. Io fui scelta, non so perché, mentre tante donne, ragazze andarono direttamente
al gas. Noi scelte guardavamo con una certa invidia quelle che andavano via con
i camion; c'erano dei camion dove venivano caricate tutte le persone che da
lì andavano direttamente al gas. Noi in quel momento, stravolte dal
viaggio, con i piedi sulla neve, non sapere cosa fare di noi, e ci sembrava una
grande fortuna per quelle che venivano portate via con i camion. Io, con le
altre donne, fui avviata a piedi nella sezione femminile del campo di
concentramento di Birkenau ad Auschwitz: una città immensa dove c'erano
60.000 donne di tutte le nazionalità, era una babele di linguaggi, in
quanto c'erano le polacche, le ungheresi, le cecoslovacche, le greche, le
francesi, olandesi, le belghe, pochissime italiane. Là dove erano
passati i nazisti avevano fatto queste retate spaventose, portando i
prigionieri ad Auschwitz. Ci guardavamo intorno, noi ragazze scese da quel
treno dove ancora qualcuno ci chiamava amore, tesoro, guardavamo quel posto con
muri grigiastri, fili spinati elettrizzati e ci chiedevamo ma dove siamo, quale
posto è, stiamo sognando, è un incubo da cui ci sveglieremo non
è possibile. Poi il dramma nella prima baracca: fummo denudate,
mentre i soldati passavano sghignazzando, questi non ci guardavano come donne,
perché per le leggi di Norimberga gli ariani puri non si dovevano accoppiare
con donne di razze inferiori, per cui non ci trattavano come donne, ma come
pezzi, delle persone schiave delle quali prendersi gioco. Fummo denudate, ci
portarono via tutto, della nostra vita precedente non ci rimase nulla;
lì venivamo rasate dappertutto sempre davanti ai soldati sghignazzanti e
poi ci tatuarono un numero: il mio è 75190 e io lo porto con
grandissimo onore perché è una vergogna per chi lo ha fatto.
Se voi pensate che tre anni fa il sindaco di Milano ha invitato i padroni dei
cani, che amano le loro bestie, a tatuare sulla zampa un numero, così
qualora il cane si perdesse, il padrone lo potrebbe ritrovare.
Beh, anche allora i nostri padroni ci volevano tenere sott'occhio e questo
numero che fa parte di noi sopravvissuti è più importante del
nostro nome. In questo sono riusciti i nostri assassini, perché, mentre in quel
momento con quel numero volevano sostituire la nostra identità di
persone e farci diventare dei numeri, sono riusciti a far sì che questo
numero sia così profondamente inciso nella nostra carne da essere
diventato simbolo di noi stessi: noi siamo essenzialmente quel numero, perché
chi ricorda Auschwitz perché c'è stato, non dimentica mai.
Rivestite di stracci con un fazzoletto in testa, con gli zoccoli ai piedi, ci
guardavamo l'una con l'altra: non eravamo già più quelle scese
dal treno due ore prima, eravamo già delle cose diverse, eravamo
già quelle nullità che loro volevano noi fossimo. Il dramma della
prima baracca non fu nulla rispetto alla seconda dove delle ragazze francesi
che erano lì da 15 giorni ci spiegarono dove eravamo arrivate: ci
spiegarono cos'era quell'odore di bruciato che permeava sul campo: è
l'odore della carne bruciata, perché qui gasano e poi bruciano nei forni. Noi
ci guardavamo l'una con l'altra e tra noi pensavamo che quelle erano pazze, ma
che cosa stanno dicendo che qui bruciano le persone. Ci mostrarono la ciminiera
in fondo al campo dicendoci che lì bruciavano le persone e dicendoci che
si chiamava crematorio. Noi non volevamo credere loro, ma poi ci spiegarono
perché la neve era grigia e c'era la cenere, che eravamo diventate schiave e
che per un sì o per un no potevamo andare anche noi al gas, che non
dovevamo mai guardare in faccia i nostri assassini, che dovevamo imparare in
tedesco il nostro numero il più in fretta possibile, solo così
potevamo sopravvivere. Come si fa a vivere in queste condizioni? Sopportare
tutto questo?
Perché l'uomo è fortissimo e questo io l'ho sperimentato. Io ero
una ragazzina di 13 anni, non avevo nessuna particolarità, semmai ero
una ragazzina viziata, cresciuta in una famiglia che aveva fatto in modo di
preservarmi da tutti i problemi della vita; la forza che c'è in ognuno
di noi è grandissima, ed è di questa che noi dobbiamo far tesoro.
Tutti i ragazzi devono credere in questa forza, perché se loro crederanno di
avere questa grandissima forza psichica più che fisica, allora non
diranno male di nessuno, della famiglia, della scuola, della società se
non riescono a fare qualcosa. Ognuno di noi è un mondo e se si impegna
può assolutamente fare della sua vita o un capolavoro o anche una
piccola vita normale che se sarà onesta e per bene sarà comunque
un capolavoro.
Noi abbiamo scelto la vita: certamente chi ha scelto la vita e soprattutto di
non farsi abbattere da queste disgrazie terribili, è stato aiutato a
mantenersi con la mente sveglia, perché da quel momento e per mesi il corpo
è diventato scheletro, per mesi abbiamo visto morire le nostre
comne, per mesi abbiamo visto calare le nostre forze, abbiamo visto i nostri
assassini torturare, fare esperimenti e trattare con un'inumanità che
non credevamo possibile al mondo (che degli esseri umani fossero capaci di fare
delle cose del genere ad esseri simili, colpevoli solo di essere nati). Abbiamo
scelto la vita. Io avevo scelto, senza avere una spalla in cui piangere o
qualcuno che mi consigliasse, avevo scelto di non essere lì, di
estraniarmi, sì il mio corpo era lì, veniva picchiato e
torturato, aveva fame, era dimagrito, aveva freddo, aveva paura, ma il mio
spirito no, la mia mente no: io ero quella di prima, quando correvo sulla
spiaggia, quando coglievo un fiore sul prato, quando ero seduta nella mia casa
con le persone care vicino a me. Io non volevo essere lì, mi rendevo
invisibile, cercavo di non guardare in faccia i miei persecutori e
vigliaccamente non mi voltavo mai a guardare indietro tutti i cadaveri, gli
scheletri fuori, pronti per essere bruciati, non guardavo le comne in
punizione, non guardavo la fiamma del forno che bruciava, io guardavo solo i
miei zoccoli, li potrei disegnare anche adesso; guardavo i miei piedi perché
non volevo assolutamente guardarmi intorno, non volevo essere lì, non
volevo che i miei persecutori si impadronissero anche del mio spirito.
Nel campo tra le prigioniere amicizia e fratellanza erano morte quasi subito,
perché quando non si ha nulla è molto difficile essere fratelli ed
essere amici. Parlavamo solo di mangiare, eravamo delle ragazze affamate, che
avevamo inventato delle ricette che oggi si chiamerebbero virtuali e
soprattutto avevamo inventato una torta enorme, straordinaria, grande come una
casa, che avrebbe potuto stare sul piazzale dove avvenivano le esecuzioni, le
impiccagioni e che avrebbe sfamato con la sua panna, con il suo cioccolato, con
la sua crema, tutte le prigioniere e tutte avremmo scavato questa torta. Questi
erano i nostri discorsi legati al pensiero fisso di mangiare. Noi per essere
diventati scheletri mangiavamo delle cose che facevano parte di una dieta ben
studiata per ridurci così, e per una sopravvivenza di pochi mesi. Alla
mattina, con la frustata e con l'appello, ci veniva dato sulla scodella senza
cucchiaio che dovevamo condividere in 5 o 6, con l'ammalata, con quella con le
croste, un sorso di una bevanda che non sapeva né di te, né di caffé, era una
cosa strana, forse una specie di tisana, indescrivibile perché, per fortuna,
non ho mai più sentito una cosa del genere nella mia vita. Era una cosa
molto voluta, perché era calda; poi uscivamo, nel gelo della Polonia d'inverno,
vestite di stracci e stavamo in piedi una o due ore per l'appello, a seconda di
quello che volevano i nostri aguzzini. Poi uscivamo dal campo, io ero stata
fortunata ad essere scelta per diventare operaia - schiava in una fabbrica dove
si costruivano munizioni; una fabbrica che esiste ancora che si chiama UNION,
e che in tempo di pace faceva automobili, in tempo di guerra munizioni per
mitragliatrici. Io ebbi la grande fortuna di essere scelta per quel lavoro,
nonostante non sapessi fare nulla; fui scelta per un lavoro di fatica che mi
permise però di lavorare al coperto. Eravamo 700 ragazze di tutte le
nazionalità (700 del turno di giorno, 700 del turno di notte). Uscivamo
la mattina dal campo, dopo l'appello e raggiungevamo a piedi la fabbrica che si
trovava nella città di Auschwitz. Mi ricordo le ragazze violiniste,
prigioniere nel lager, facenti parte della famosa orchestrina ed erano
obbligate a suonare delle allegre marcette sia che il comando uscisse per andare
a morte oppure per andare a lavorare. Era strano vedere queste violiniste
suonare delle marcette allegre piangendo. Noi facevamo questo tragitto con le
guardie vicine che ci obbligavano a marciare, cantando canzoni tedesche"
"Sentivamo sulla strada dei rumori familiari:suono di campane, di aerei di passaggio, ma eravamo dimenticati dal mondo fuori dal campo. Se incrociavamo dei giovani della Hitlerjugend, questi ci sputavano addosso e ci insultavano"
"Quando iniziai a capire non
volevo credere che dopo averci tolto tutto, l'odio, il fanatismo fossero tali,
da permettere alle loro menti di comandare al cervello di dire delle parole di
quel tipo. Io allora li odiavo profondamente quei ragazzi e sentivo nei loro
confronti qualcosa di forte, di prepotente che quasi mi facevo paura; negli
anni mi sono accorta, nella mia maturità di donna di pace, che quel
sentimento si è tramutato in pietà, ad avere pena. Quando scoprii
che era molto meglio essere stata vittima o lia di vittima, piuttosto che
carnefice, fu un momento molto importante nella mia vita, fu un momento di
maturazione psicologica non indifferente nel mio percorso di donna di pace.
Allora, invece, li odiavo profondamente.
Poi arrivavamo in fabbrica e lavoravamo tutto il giorno; alla sera tornavamo
indietro e vedevamo la fiamma con il fumo"
"Le sorveglianti donne
erano ancora più crudeli degli uomini; avevano potere di vita e di morte
sulle prigioniere e si scatenavano su di noi con ingiustificata violenza.
Vivevo con una incessante paura, mi chiudevo sempre di più in me stessa,
cercando di essere invisibile. Sul mio corpo di adolescente la pelle era
cascante e le ossa sporgevano da tutte le parti. Non sapevamo che giorno e che
ora fosse, non potevamo avere notizie di nessun genere. Vivevamo in assoluta
promiscuità, senza rimanere un attimo sole. Dormivamo in 5, 6 per
giaciglio, utilizzando i nostri zoccoli come cuscino. Ci servivamo dei
gabinetti in 20, 30 contemporaneamente e, senza un cucchiaio, dovevamo
inghiottire a sorsate, come animali, la zuppa orrenda che ci veniva data una
volta al giorno. La lotta per la sopravvivenza era senza quartiere: le
prigioniere affamate e disperate avrebbero fatto qualunque cosa per un pezzo di
pane. Passavano i mesi e noi obbedivamo ciecamente agli ordini, poiché volevamo
vivere. Cercavamo di non perdere almeno il nostro cervello. Io tentavo
di sdoppiarmi, immergendomi in un mondo irreale e mi sforzavo di non vedere
e di non sentire. Di non vedere i cadaveri nudi e scheletriti, ammucchiati in
attesa di essere bruciati; di non vedere le punizioni, la fiamma del camino, la
neve sporca, i fili spinati percorsi da corrente elettrica. Di non sentire di
notte le grida, i fischi, i comandi urlati; i racconti delle altre prigioniere
sulle atrocità viste o subite"
"Tre volte passai la selezione nell'anno che trascorsi ad Auschwitz.
Non era la selezione della stazione. Erano delle selezioni annunciate, di cui
noi sapevamo a che cosa andavamo incontro. Ecco che le Kapò ci
chiudevano dentro le baracche e poi a gruppi ci portavano nella sala delle
docce, tanto cara ai nostri assassini, e lì tutte nude, in fila indiana,
dovevamo attraversare la sala e uscire attraverso un'uscita obbligatoria, dove
un piccolo tribunale di tre persone ci guardava, come le mucche al mercato,
davanti, dietro, in bocca, se avevamo ancora i denti, se eravamo abili al
lavoro e poi un piccolo gesto gelido che voleva dire «vai». Io mi ricordo come
attraversavo quella sala: il cuore mi batteva come un pazzo e io mi dicevo:
«non voglio morire, non voglio morire . » e rimanevo lì, non avevo il
coraggio di guardarli in faccia, mi atteggiavo ad indifferenza; mi ricordo la
prima volta che passai la selezione che il medico (uno dei tre assassini era
medico), mi fermò e con un dito mi toccò la pancia, dove due anni
prima avevo fatto l'operazione dell'appendicite e dissi: «Adesso, perché ho la
cicatrice sulla pancia, questo mi manda a morte», e invece lui tutto
sorridente, mostrava ai suoi colleghi assassini la cicatrice, dicendo che
questo medico italiano era una bestia, aveva fatto male la cicatrice. "Questa
ragazza la vedrà sempre questa cicatrice, mentre io la faccio
sottilissima e se anche una donna è nuda, questa cicatrice non si vede
più". Poi mi fece un segno, con il quale mi indicava che io potevo andare
avanti con la mia cicatrice sulla pancia, e io avevo fatto quei due passi che
mi separavano dall'uscita, provando una felicità immensa; non mi
importava niente di dove ero, di cosa mi era successo, dell'orrore di cui
facevo parte, ero viva. Ma una volta fui vigliacca e orribile quando fermarono
dietro di me, Janine, una ragazza francese che lavorava con me alla
macchina in fabbrica; la macchina, qualche giorno prima, le aveva tranciato due
dita. Durante la selezione, lei, che era nuda, aveva coperto la ferita con uno
straccio, ma certamente l'assassino lo vide subito, e senza neanche fiatare
fece segno alla scrivana (una prigioniera come noi), di prendere il numero. E
io sentii dietro di me che fermarono Janine, che lavorava con me da diversi
mesi, ma io non mi voltai; io fui spaventosa e Janine fu portata al gas per la
sola colpa di essere nata ebrea. Janine era una ragazza francese, di 22 - 23
anni, voce dolce, occhi azzurri, capelli biondi. Io non mi voltai, non mi
comportai come i prigionieri di San Vittore; ma non potevo più
sopportare distacchi, io ero viva.
Alla fine di gennaio del 1945, fummo, da un momento all'altro, obbligati
a lasciare il campo di Auschwitz e a cominciare quella marcia,
giustamente detta della morte, che attraverso la Polonia e la Germania
portava i prigionieri che ancora stavano in piedi su verso il nord e man mano
si avvicinavano i russi. Noi da un po' sentivamo il rumore della guerra che si
avvicinava, ma non sapevamo niente, perché noi da un anno non avevamo
più sentito la radio, visto un giornale, non avevamo né un calendario,
né un orologio, non sapevamo mai che ora fosse, che giorno fosse. Ad un certo
punto i nostri assassini decisero di far saltare il campo di Auschwitz per non
far trovare nulla ai russi e per far andar via noi prigionieri.
Lessi poi, che i prigionieri ancora vivi che si misero su quelle strade
d'inverno, fummo 56.000. Fu una cosa epocale: cortei infiniti di prigionieri
scheletriti che si snodavano su queste strade tedesche, di notte soprattutto,
seguiti dalle guardie con i cani.
Non so come ho fatto! (oggi ho un nipote, Edoardo che ha l'età
che io avevo allora, e lo vedo così acerbo, così fragile e vedo i
miei li preoccupati che tutto vada bene, che si copra quando fa freddo). Mi
vedo su quella strada e mi vedo nonna di me stessa: quella ragazzina di allora
aveva l'età che ha mio nipote oggi. Il cervello comandava alle gambe di
camminare; non si poteva cadere, perché chi cadeva veniva finito dalle guardie.
Io non mi voltavo a vedere quelli che cadevano; facevo una fatica enorme a
camminare, non avrei mai potuto aiutare nessuno. Quando qualcuno cadeva, si
sentiva quel rumore sordo della fucilata alla testa; mi ricordo i bordi della
strada insanguinati. Camminavamo di notte attraverso cittadine e strade deserte
e come pazze ci gettavamo sui letamai e ci rubavamo l'una con l'altra i rifiuti:
bucce di patate crude sporche di terra, ossi spolpati . uno schifo. E ci
riempivamo come pazze lo stomaco, sapendo che il giorno puntualmente dopo
vomito e diarrea ci avrebbero atteso; ma non importava, intanto lo stomaco si
riempiva in quel momento e il cervello poteva comandare di camminare alle
nostre gambe. Furono molte notti, altri letamai, altre stelle in cielo.
Arrivammo nel lager di Ravensbrück, ma ripartimmo dopo 5 giorni per raggiungere
un sottocampo che si chiamava Marchow nel nord della Germania; era un
piccolo campo dove non si lavorava, e dove invece, non come ad Auschwitz, dove
finito un lager ne cominciava un altro, lì vedevamo fuori dal lager cosa
c'era. C'erano prati, in quanto era arrivata anche lì la primavera
incredibilmente; questo dono straordinario di cui godiamo ogni anno, senza
accorgersene, questa terra che sboccia alla vita. Eravamo delle larve, eravamo
ragazze dure, miserabili, ragazze che non sentivano neanche più la fame,
non sentivamo neanche più le botte, eravamo degli esseri ancora
attaccati alla vita per miracolo e se la guerra da lì a poco non fosse
finita, di certo saremmo morte. Mi ricordo insieme ad altre due ragazze
italiane, che sono sopravvissute anche loro: una è Luciana Sacerdoti di
Genova e l'altra è Graziella Coen di Roma, che adesso sta in Sud Africa,
che pur nella nostra miseria, eravamo ancora in piedi, mentre la maggior parte
non si alzava più dai propri giacigli. Nelle prime ore del pomeriggio,
non mi ricordo se si allentasse la sorveglianza o se avessimo il permesso di
uscire dietro la baracca, uscivamo e prendevamo quel tiepido sole dell'Europa
del nord. Io avevo avuto un ascesso terribile sotto l'ascella
sinistra in quei giorni, tagliato con le forbici e non certamente curato
come normalmente si cura un ascesso; stavo molto male per i dolori che avevo al
braccio, e mi ricordo che tiravo giù il misero straccio di giacca che
avevo e mettevo questo mio braccio massacrato al sole tiepido: mi sembrava che
qualcuno avesse detto che questo metodo faceva bene.
Passavano, al di là del filo spinato, dei soldati francesi
prigionieri di guerra, che avevano lavorato per 5 anni nelle fattorie tedesche
e che quindi non erano diventati scheletri come noi; passavano e vedevano
queste ure indistinte da lontano, giorno dopo giorno, ci chiamavano e in
francese ci chiedevano chi fossimo. Noi in coro, perché nessuna di noi aveva
abbastanza voce per rispondere, urlavamo che eravamo delle ragazze ebree
italiane. Loro stupiti, non potevano credere che eravamo ragazze, perché
eravamo così orribili, degli scheletri senza forma, con le occhiaie
profonde, senza più femminilità. Furono i primi, dopo i detenuti
di San Vittore, ad avere pietà di noi; e giorno dopo giorno,ci dicevano:"
"'Non morite! La guerra sta per finire. I nostri aguzzini la stanno perdendo, arrivano i russi da una parte e gli americani dall'altra.' Noi rientravamo nelle baracche e dicevamo a quelle che veramente erano ormai alla fine: 'Ci hanno detto: non morite! Noi lo ripetiamo a voi: non morite! La guerra sta per finire'. Era una gioia troppo grande, noi che eravamo abituate alla fame al freddo, alle botte, all'aver perduto tutto, alla paura costante, non eravamo preparate a una gioia così grande come quella. Era vero: gli aguzzini stavano perdendo la guerra e nel giro di pochi giorni portarono via tutto da quel campo"
"I soldati
francesi che sentivano la radio, giorno dopo giorno, ci davano queste notizie
meravigliose che i russi e gli americani erano vicinissimi. Sentivamo rumori
sopra di noi, aerei che volavano, sentivamo cannonate e ci chiedevamo cosa
sarebbe successo di noi; pensavamo che ci avrebbero ucciso perché non possono
farci trovare così. Vivevamo con un'ansia terribile quei momenti, non
sapendo cosa stessero per fare i nostri persecutori, e loro portavano via tutto
dal campo: portavano via scrivanie, documenti, registri . e mentre prima erano
con noi sempre implacabili e crudeli, tra loro ora nervosi. Noi li spiavamo e
non volevamo morire, ma volevamo vedere questo momento tanto atteso ed
insperato. Sognavamo di uscire da quel cancello, di strappare
quell'erba, quelle foglie, di mettercele in bocca, di sentire il sapore della
clorofilla. E questo avvenne, in quei giorni di fine aprile, proprio l'ultimo
giorno di aprile, aprirono quel cancello e ancora prigioniere, con le guardie
vicine, quelle che ancora stavano in piedi, uscimmo da quel cancello e
veramente strappavamo l'erba, le foglie e ce le mettevamo in bocca, non
potevamo mandarle giù, ma sentivamo che era un sapore speciale, diverso,
sognato e improvvisamente: un miracolo! Noi ragazze nulla, noi ragazze
schiave fummo testimoni della storia che cambiava davanti ai nostri occhi ed
era una visione incredibile perché vedemmo i civili tedeschi uscire dalle loro
case (fino ad allora erano rimasti sferragliati all'interno, senza darci
mai un pezzo di pane, un bicchiere d'acqua, senza mai degnarci di uno sguardo),
e caricavano tutto sui carri perché volevano andare verso la zona americana,
mentre lì fu poi zona russa, e volevano andare verso gli americani. Noi
non capivamo niente e le nostre guardie che camminavano insieme a noi, buttavano
via le divise, le armi, si mettevano in borghese, in mutande, mandavano via i
cani che erano stati proprio il simbolo del potere del soldato SS, i cani
andavano e poi tornavano e non capivano più niente. Noi eravamo
sbalordite, con i nostri occhi, con la nostra debolezza, con le gambe che non
reggevano più, vedevamo la storia che cambiava davanti a noi ed era una
visione apocalittica, straordinaria, incredibile. Si mettevano in mutande e
buttavano via quella divisa che aveva terrorizzato gli eserciti di tutta
Europa; quando anche il comandante di quell'ultimo campo vicino a me, mi
sfiorava, si mise in mutande, quell'uomo alto, sempre elegantissimo, crudele
sulle prigioniere inermi e buttò la divisa sul fosso, la sua pistola
cadde ai miei piedi ed io ebbi la tentazione fortissima di prenderla e
sparargli. Io avevo odiato, avevo sofferto tanto, sognavo la vendetta: quando
vidi quella pistola ai miei piedi, pensai di chinarmi, prendere la pistola e
sparargli. Mi sembrava un giusto finale di quella storia, ma capii di esser
tanto diversa dal mio assassino, che la mia scelta di vita non si poteva
assolutamente coniugare con la teoria dell'odio e del fanatismo nazista; io
nella mia debolezza estrema ero molto più forte del mio assassino, non
avrei mai potuto raccogliere quella pistola, e da quel momento sono stata
libera.
Vedemmo arrivare gli americani e fu una visione festosa, incredibile, perché
questi ragazzi americani che venivano dalle prime linee, erano ragazzi
bellissimi e vidi la prima jeap americana con la stella bianca. Questi ragazzi
buttavano dal camion, senza distinguere se eravamo prigionieri, soldati, civili
tedeschi perché ancora ne sapevano poco, sigarette, cioccolato, frutta secca e
quel giorno che era il primo maggio io mi ricordo che rivetti addosso
un'albicocca secca, squisita e me la misi subito in bocca e il giorno della
liberazione è legato per me al sapore dell'albicocca secca.
Vidi poi il giorno dopo, unirsi le due armate vincitrici ed era una cosa molto
particolare vedere arrivare i camion con questi soldati così pronti a
montare mense e ospedali da campo e a darci cibo buono. L'armata russa
passò di corsa ed era composta da ufficiali a cavallo senza sella, carri
armati cigolanti, che fungevano da cucine improvvisate e tiravano dietro capre,
bestiame vario; era così differente rispetto l'armata americana
così ben organizzata. Furono dei giorni particolari; poi passarono 4
mesi prima di essere divisi a seconda della nazionalità e sempre gli
americani ci organizzarono per farci tornare nelle nostre case. Quando arrivai
a Milano, la mia casa era chiusa.
Spero che almeno uno di quelli che hanno ascoltato oggi questi ricordi di vita
vissuta li imprima nella sua memoria e li trasmetta agli altri, perché quando
nessuna delle nostre voci si alzerà a dire «io mi ricordo», ci sia
qualcuno che abbia raccolto questo messaggio di vita e faccia sì che 6
milioni di persone non siano morte invano per la sola colpa di essere nate,
se no tutto questo potrà avvenire nuovamente, in altre forme, con altri
nomi, in altri luoghi, per altri motivi. Ma se ogni tanto qualcuno sarà
candela accesa e viva della memoria, la speranza del bene e della pace
sarà più forte del fanatismo e dell'odio dei nostri assassini."
"A noi restava questa grande, straordinaria, terribile esperienza: il dolore, che non passerà mai, di aver avuto Auschwitz nella nostra vita. E il dovere di testimoniare di quello che è stato, noi che abbiamo avuto salva la vita, per tutti quelli che non possono più parlare"
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