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Turi Gemmellaro: quando Felice ritrovò suo padre militare yankee
'Avevo quattordici
anni e dunque, sebbene apprezzassi l'enorme gravità del momento, tutto
mi sembrava un'avventura quando, - ricorda Turi Gemmellaro,
pensionato, ex istruttore di scuola guida noto anche quale ex batterista jazz -
terminati i tragici e devastanti bombardamenti, l'arrivo dei militari alleati
divenne uno spettacolo. Quei mezzi corazzati, quei camion modernissimi, quei
Caterpillar da favola, quelle camionette piene di militari che ci strizzavano
l'occhio e ci regalavano, lanciandoli, biscotti e dolciumi mi facevano sognare
ad occhi aperti. Ma un giorno, credo che fosse l'8 agosto, vissi un'esperienza
che non dimenticherò mai. Ero con alcuni amici in fondo al corso
Umberto; assistevamo all'ingresso nel paese di una autocolonna, quando una
camionetta improvvisamente si bloccò: un militare statunitense fissò
lo sguardo su uno di noi, Felice, e rimase quasi impietrito. Felice, da parte
sua, lo fissava sul volto che a stento appariva sotto il casco e nella divisa
mimetica, quasi fulminato. Io guardavo incuriosito: l'ufficiale non batteva
ciglio, Felice neanche. Dopo qualche istante, l'ufficiale saltò giù
dalla camionetta e si ritrovò Felice fra le braccia, aggrappato quasi al
collo. I due rimasero impalati in quell'abbraccio in assoluto silenzio per un
paio di minuti, dopodiché scoppiarono in lacrime: Felice aveva ritrovato suo
padre, che mancava da Bronte da circa sei anni, da
emigrato negli States. Quando si sciolsero, si
allontanarono, avviandosi verso casa, dialogando in stretto dialetto brontese'.
Ma scopri che anche Turi Gemmellaro ebbe un suo filo
diretto con i 'liberatori'. 'Poichè feci
presto ad imparare la lingua parlata dai soldati americani, divenni la mascotte
degli ufficiali e dei soldati che prestavano servizio nel distaccamento dell'Amgot, l'amministrazione locale cioè del governo
alleato che aveva sede nel corso Umberto, di fronte al collegio Capizzi, nello stabile di proprietà della famiglia Saitta. Io collaboravo insieme ai due interpreti ufficiali
Fiammetta di Maletto, che conosceva la lingua inglese
e veniva utilizzato anche quale dattilografo, e Nunzio Faia
di Bronte (futuro comandante dei vigili urbani), che
conosceva pure bene la lingua parlata negli States. I
comandanti erano i capitani Renal e Russel, inglesi, nonchè lo
statunitense Ceni, capo della polizia militare, che mi voleva sempre al
fianco'.
'Durante i bombardamenti, nei giorni dell'occupazione del paese, - ricorda
Gemmellaro - con la famiglia, prima di riparare a Dagala 'Nchiusa, ci rifugiavamo
quasi sempre nella galleria del treno e rischiai la pelle quando, allorché ci
barricammo dentro il tunnel, per paura delle possibili rappresaglie da parte
dei Tedeschi in fuga, percepimmo che un drappello appunto germanico aveva posto
delle mine dinanzi alla galleria, per annientarci. Ci salvò la pelle una
misteriosa donna - forse una spia - che conosceva la lingua tedesca e,
impietositasi per la nostra sorte imminente, si diede a trattare la nostra
salvezza, supplicando e supplicando il comandante di quelle SS. Il suo
intervento fu provvidenziale: le mine furono rimosse e quei Tedeschi si
allontanarono. Ma il loro capo poco dopo fu ritrovato morto suicida. Chissà,
forse l'avevano accusato di tradimento, per averci salvato la vita'.
Don Giuseppe Zingali: Che sfizio sparare i razzi luminosi dalla Colla!
'Nell'agosto del '43
ero in vacanza a casa, da seminarista a Catania. E, dopo una breve permanenza
nel Seminario d'emergenza di San Giovanni La Punta, - chi parla è
l'illustre reverendo Giuseppe Zingali, 85 anni
condotti alla grande ed oggi occupati anche quale rettore del Collegio Capizzi - ormai alla vigilia di essere nominato sacerdote.
La famiglia si era trasferita a monte Chiuso, ma io preferivo restare in paese,
curioso di assistere alla ritirata delle truppe italo-tedesche
ed all'avanzata di quelle alleate. Il mio punto di riferimento era il collegio Capizzi, allora retto da don Portaro;
ma facevo sede a casa mia, per trasferirmi nel traforo della Colla, nei momenti
del pericolo. Avevo anche scelto una sorta di osservatorio sul ponte della
Colla, da dove si assisteva alle operazioni di guerra in posizione
privilegiata, anche se obiettivamente pericolosa; perciò gli amici mi davano
del pazzo. Ad esempio, ricordo l'eroica resistenza di un cannone tedesco
presidiato da un piccolo drappello di uomini che tenne a bada ingenti forze
alleate (bloccate nel noccioleto di don Calanna) per circa ventiquattro ore sostando su una collina
sopra Maniace, finchè
gli alleati non decisero di intervenire con aerei mitragliatori, che
annientarono l'ostacolo riuscendo così a riprendere la marcia'.
'La zona era disseminata di bossoli, polvere da sparo, armi e mezzi
danneggiati, per cui i pericoli erano infiniti. Molti di quei reperti
sembravano giocattoli e noi - da incoscienti - maneggiandoli rischiavano la
pelle. Ricordo che don Napoli perse una mano Bronte
intanto era in balìa degli sciacalli d'ogni
razza. Ricordo che una sera, rientrando a casa, trovai che era occupata da
militari alleati. Non feci a tempo a sorprendermi: mi chiesero scusa e se ne
andarono'.
Lei, padre Zingali, pare che fosse comunque un
giovanotto un po' bizzarro, o - se permette - un piccolo gianburrasca.
Così la descrivono i coetanei. 'Ha ragione. Pensi che, quando -
durante i bombardamenti - scappai verso Dagala 'Nchiusa per trovare rifugio nella Cappella di padre Ardizzone, durante una incursione aerea preferii lasciare
quel ricovero, commentando candidamente: 'Se devo morire, è meglio che
lo faccia all'aria aperta!'. Ma, mentre osservavo quella scena drammatica, mi
accorsi che un piccolo aereo mitragliatore alleato era caduto in quella zona.
Corsi per tentare di dare soccorso al pilota, però mi accorsi che quel
poveretto era già morto carbonizzato. Era riconoscibile soltanto per una
scarpetta rossa. Ma fui subito attirato dalla pistola lanciarazzi del suo
corredo, che era rimasta intatta. Per noi quelle pistole erano un miraggio:
riuscivano letteralmente ad illuminare il cielo nelle notti più buie. La
presi e me la diedi a gambe. Ricordo che la mostrai poco dopo - fiero del
trofeo -. ad un amico del cuore, Pippo Immormino;
accadde però che, da inesperto qual ero, mentre la maneggiavo, partì
un colpo ed a Pippo volò il berretto! Ma il colpaccio lo feci il 5
agosto, quando avvisai gli amici che - a partire dalle 22 - avrebbero potuto
assistere ad uno spettacolo senza precedenti: dal ponte della Colla avrei
sparato un razzo luminoso ogni cinque minuti Cosa non accadde! Io lanciavo
un razzo ogni 5' ed il Paese andava sempre più in subbuglio, finché
qualcuno non fece la spia, avvertendo i carabinieri. Prima che esaurissi i
razzi in dotazione, mi vidi addosso i militari, pronti a sequestrare quella ambitissima pistola'.
'In precedenza, era invece accaduto che, durante una esercitazione a bassa
quota, era caduto nella piana che porta al fiume un bimotore tedesco. Mi
trovavo in zona ed accorsi: il pilota era morto, il copilota era invece vivo,
ma non potei soccorrerlo perché era incastrato fra i rottami del velivolo. In
pochi minuti arrivarono i soccorsi tedeschi: il ferito venne liberato e
trasportato via in ambulanza; un camion portò via il cadavere. Feci a
tempo a raggiungere il paese, per avvisare dell'accaduto gli amici: quando tornammo
in zona dopo meno di un'ora, erano spariti anche i rottami del velivolo'.
Alfio Di Francesco: Sono ritornato con la pleurite ed una Croce di Guerra
'Nel '43 ero
militare di leva a Militello; mi avevano mobilitato
strappandomi alla mia attività di contadino. - a parlare è Alfio
Di Francesco, 80 anni - ma contrassi la pleurite e finii nell'ospedale militare
numero 207 a Caltagirone, dove occupavo il letto
numero 74 ed ottenni due mesi di convalescenza. Pertanto rientrai a Bronte, peraltro dopo un viaggio abbastanza periglioso.
Ricordo che un giorno, ai primi di agosto, passeggiavo lungo il corso, quando
due militari tedeschi che sostavano dinanzi all'ospedale sito nel collegio Capizzi, mitragliarono due aerei ricognitori statunitensi.
Poi, rivolti agli astanti, sghignazzarono, orgogliosi. Non l'avessero mai
fatto! Gli aerei americani ritornarono in un batter d'occhio, bombardando a
tappeto il paese'.
'Terminata la convalescenza, avrei dovuto fare ritorno nel mio
battaglione, frattanto trasferitosi in ritirata a Messina. Mi presentai
pertanto alla caserma dei carabinieri, per ottenere il nullaosta a viaggiare.
Ma lì, mentre il capitano Riga mi cercava per avviarmi a Messina, un
carabiniere mi faceva cenno di fuggire, compenetrandosi nei rischi che avrei
corso se fossi tornato al fronte. Pertanto, mentre un infermiere, Mario Cassani, scandiva a ripetizione il mio nome, 'volai' verso
l'ospedale del collegio Capizzi, chiedendo del
capitano Grillo, che conoscevo. Fu per me la salvezza: mi concesse altri due mesi
di convalescenza. Non sapevo come ringraziarlo: gli regalai tutto ciò di
cui disponevo: due pani ed un litro d'olio'.
Ma la guerra di Di Francesco non era finita:
'Dopo l'armistizio ed il trasferimento del fronte bellico nel continente,
- precisa l'interessato - il governo Badoglio mi richiamò alle armi,
aggregandomi alla quinta Armata Usa. Così da 'nemico' degli alleati
divenni loro alleato. Ho combattuto a Monte Castello ed a Monte Belvedere. Mi
hanno congedato alla fine del 1946 a Vipiteno, da artigliere di montagna. Di
quell'esperienza conservo una Croce di Guerra, assegnatami dalle forze armate
brasiliane'.
Francesco Gardano: Quel benedetto pane tanto sospirato che ci vennero a sequestrare
'Nel '43, mi creda, erano momenti difficilissimi anche nella soluzione dei problemi apparentemente più futili. - L'interlocutore è Francesco Gardano, 76 anni, contadino pensionato - Quando in camna si presentarono i primi dodici apparecchi americani, bombardando gli accampamenti delle SS, fu subito massima emergenza. Mio fratello, che era rimasto a Bronte, si trovò a dover fronteggiare il problema della morte del nonno: ò le esequie con due pani, che allora costavano appunto a peso d'oro. Noi, con i tre asini dei quali disponevamo, finimmo per cercare di raggiungere il centro abitato, per reperire del frumento; ma fu una gita a vuoto, poichè i brontesi erano letteralmente spariti, rifugiandosi nelle grotte. Tutti i mulini erano chiusi ed era davvero una situazione drammatica'.
'Finalmente trovammo aperto il mulino adiacente alla Cartiera, ma riuscimmo ad acquistare soltanto diciotto chili di frumento, che pure costituivano un bottino prezioso. Rientrammo nella casa di camna, dove, per macinare quel frumento, utilizzammo un improvvisato mulinello di pietra, sul principio tecnico del macinacaffè. Dopodiché cercammo finalmente di panificare. Ma, quando il prodotto stava per essere sfornato, si presentarono alcuni militari tedeschi del vicino accampamento adiacente al fiume nel Vallone San Cristoforo di fronte al giardino Saitta, e ci sequestrarono quel tanto sospirato pane, che c'era pur costato tanti rischi ed altrettanta fatica'.
Don Biagio Calanna: Quella dieta a base di fave crude
Don Biagio Calanna, 76 anni, ha ricordi nitidi di quei giorni tremendi dell'agosto '43: 'Ero da due giorni in vacanza a Bronte ed abitavo con la famiglia in via Angelo Gabriele. Non stavo quasi nei panni per la gioia di avere ritrovato parenti ed amici, quando nel giorno della Madonna del Carmelo, una bomba caduta nel tardo pomeriggio davanti alla chiesa del Soccorso, ci gettò nello stato di massima prostrazione. Il giorno successivo, all'alba, fuggimmo, carichi di masserizie per trovare rifugio in camna. Ci fermammo a Bolo, credendo di poter fare rientro immediato in paese. Ma il nostro esilio si protrasse poi forzatamente per oltre un mese'.
'I problemi quotidiani erano cento, mille. Dovevamo nutrirci con ciò che ci donava la natura: mangiavamo more acerbe che non potevamo lavare per mancanza d'acqua, fave crude, lenticchie, pere e frutta varia che reperivamo in zona. Mamma pressava perché tornassimo in paese, nella speranza di poter vivere più civilmente, ma papà si opponeva a tale ipotesi, temendo il peggio. Quando finalmente rientrammo, trovammo la piazza Spedalieri letteralmente distrutta. A casa, la porta era spalancata, ma fortunatamente tutto era a posto'.
Antonina Longhitano: Lutti, mutilazioni, la fame. Era questo il '43
Antonina Longhitano, 83 anni, rievoca i giorni terribili dell'agosto '43 con grande lucidità e precisione di particolari: 'Il primo nostro rifugio fu la fuga in camna, in località Buzzitti, poi al Passo dello Zingaro. Ma ovunque il problema fondamentale era la nutrizione, che non potevamo assicurarci, neanche limitandola ad un semplice tozzo di pane. Appunto il pane, che pure potrebbe sembrare il bene di consumo più facilmente reperibile, divenne presto oro per pochi ricchi: il frumento lo si doveva macinare con il mulinello in pietra e dunque sparì presto dal commercio anche nel mercato nero'.
'A Buzzitti, se non ricordo male il 5 agosto, fummo mitragliati nove volte in un giorno; due bombe ci distrussero anche la casa. Insomma, ci stanarono. Disperati, tornammo a Bronte in piena notte, inerpicandoci lungo la strada ferrata della Circumetnea, fino alla chiesa di San Vito. Facemmo a tempo a cucinare delle fave che avevamo lasciato in un magazzino, quando una bomba cadde nei pressi di casa, uccidendo una mia sorella e due parenti. Una mia nipote, Biagia Messineo, tuttora vivente, perse una gamba; la ricoverarono nell'ospedale militare sito nel collegio Capizzi'.
'Distrutti nel fisico e nel morale, com'è facilmente intuibile, fuggimmo ancora, ricoverandoci in una grotta in contrada Ciavarelli, nella strada che porta alla zona San Nicola. Quindi ci ritrovammo a Buzzitti, in una grotta-ricovero zeppa di gente disperata, assalita dai pidocchi e dalla fame. Per fortuna, allorché gli Americani si impadronirono della zona, mettendo definitivamente in fuga i Tedeschi e quando i militari italiani si erano dispersi, una certa serenità tornò a prendere il sopravvento e così - dopo una breve permanenza prima alla Placa Torre e poi al Passo dello Zingaro - potemmo rientrare a casa in paese. Ma i lutti e le mutilazioni come avremmo potuto dimenticarli, peraltro in un momento di gravi difficoltà per la sopravvivenza?'.
Maria Agostina Minissale: Rifocillammo due soldati tedeschi augurando loro 'buona fortuna
Gli acciacchi non cancellano le sembianze d'una donna che doveva essere sicuramente splendida nel viso e nel corpo, d'una mamma-regina che ha il merito di aver messo al mondo dodici li. Maria Agostina Minissale, 84 anni, è una delle rarissime abitanti di un piccolo agglomerato urbano di Bronte nella zona alta, sovrastante la galleria della Circumetnea, che s'è via via spopolata per drastiche ragioni strettamente naturali ed anche per la piaga dell'emigrazione. Vive ancora in quella linda casetta nella quale abitava nel '43, quando il paese nei primi giorni di agosto venne bombardato a tappeto e ricorda: 'Fummo presi di sorpresa da quella improvvisa, massiccia incursione aerea e, quando cadde la prima bomba, fuggii da casa, ricoverandomi con i bambini sotto quell'albero di fichi (che indica; n.d.r.): eravamo in diciotto! Allorché un'altra bomba centrò la zona del Soccorso e giunse l'eco sinistra di numerosi morti, decidemmo di scappare verso la Sciara, dove ci fermammo sotto un grande albero di ulivo; di giorno, dovevamo stare tutti raccolti sotto quella occasionale protezione, per evitare di essere scoperti dagli aerei mitragliatori americani, che ci braccavano anche nel timore che con noi fossero militari italiani o tedeschi'.
'Di notte - prosegue la signora Minissale - cercavamo di trasferirci in luoghi più protetti. Ed in effetti un buon rifugio lo trovammo più in alto nella montagna limitrofa, nella cappella del Santissimo Crocifisso, appartenente a padre Sanfilippo. L'acqua andavamo a raccoglierla in un pozzo dello Scialandro, sia per dissetarci: era un agosto particolarmente caldo; sia per lavare i panni di una mia bambina, Angela, nata da pochi mesi. Mangiavamo lenticchie, fave e more anche acerbe. Mio marito, per disperazione, cercava di tornare in paese per cercare del cibo, ma tornava puntualmente a mani vuote. Pertanto ci trasferimmo a Monte Chiuso, fermandoci in una casetta che disponeva di un pozzo: ma grande fu la delusione, quando scoprimmo che quel pozzo era totalmente a secco di acqua. E, per quanto disperati, riuscimmo anche a rifocillare due poveri soldati tedeschi che, da autentici disperati, erano in fuga: indicammo anche loro la via da percorrere, per raggiungere (a piedi) i Nebrodi e Messina, augurando loro 'buona fortuna'. Ma chissà quale sorte è toccata loro'.
'Poi rientrammo, ma per me furono momenti particolarmente difficili. Affetta da anemia, mi ammalai e, trasportata distesa su una scala, quasi fosse una barella, dormii su una littorina abbandonata, prima di tornare a casa, che trovammo pressoché intatta anche se tutto intorno erano macerie. Ricordo che la popolazione era disperata: svendeva la biancheria, per assicurarsi un tozzo di pane. Chi possedeva le scarpe, le nascondeva nei posti più impensati, come anche i camini, per paura di rappresaglie. Furono davvero giorni tremendi per tutti'.
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