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VERGA: TRA IL REALISMO ROMANTICO E IL NATURALISMO ZOLIANO
Risulta evidente la profonda differenza che separa il verismo verghiano dal naturalismo di Zola, che è pure un punto di riferimento per gli scrittori italiani della nuova scuola. Nei romanzi di quest'ultimo non esiste nulla di simile all'originalissima tecnica verghiana della "regressione" nel punto di vista del mondo popolare rappresentato. La "voce" che racconta nei Rouyon-Macquart riproduce sempre il modi di vedere e di esprimersi dell'autore, del borghese colto, che guarda dall'esterno e dall'alto la materia. E questa voce narrante interviene spesso con giudizi sulla materia trattata sia impliciti, che espliciti. Si prenda ad esempio il secondo modulo di Germinal, in cui viene rappresentata la scena in cui li di un minatore fanno toeletta prima di recarsi al lavoro, ragazzi e ragazze insieme, in totale promiscuità. È evidente che qui l'autore, sottolineando la mancanza di pudore dei giovani e dà un giudizio da un suo punto di vista, secondo il suo codice morale borghese, sul comportamento di quell'ambiente proletario, che ha un codice tutto diverso. Tra il narratore ed i personaggi vi è un distacco diretto ed il primo lo fa sentire esplicitamente. Questo
Nel Verga verista non avviene mai: in un caso del genere egli avrebbe raccontato la scena dal punto di vista dei minatori stessi, cioè non avrebbe affatto sottolineato la mancanza di vergogna, perché la voce narrante interna a quel mondo e partecipe della sua visione, non l'avrebbe minimamente percepita.
Vi è inoltre una netta distinzione fra il piano del narratore e quello dei personaggi: il gergo è impiegato solo se e dove sono i personaggi popolari ad esprimersi, con il discorso diretto o l'indiretto libero. Le zone dove è il narratore a parlare presentano al contrario un linguaggio letterario e colto, da cui spesso traspare il giudizio del narratore sulla degradazione di quell'ambiente. L'impersonalità zoliana è quindi profondamente diversa da quella di Verga: per Zola l'impersonalità significa assumere il distacco dello "scienziato" che si allontana dall'oggetto, per osservarlo dall'esterno e dall'alto; per Verga invece significa immergersi, eclissarsi nell'oggetto.
Queste tecniche narrative così lontane sono evidentemente la conseguenza di due poetiche e di due ideologia radicalmente diverse. Zola interviene a commentare e a giudicare, dall'alto del suo punto di vista "scientifico", perché crede che la scrittura letteraria possa contribuire a cambiare la realtà ed ha piena fiducia nella funzione progressiva della letteratura, come studio dei problemi sociali e stimolo alle riforme. Dietro la regressione di Verga nella realtà rappresentata vi è invece il pessimismo di chi ritiene che la realtà data sia immodificabile, che la letteratura non possa in alcun modo incidere su di essa, e che quindi lo scrittore non abbia "il diritto di giudicare" e debba limitarsi alla riproduzione oggettiva del dato.
Restano ancora da individuare le radici sociali di posizioni ideologiche e letterarie così diverse dei due scrittori, di solito collocati in un comune clima culturale.
Zola ha fiducia nelle possibilità della letteratura di incidere sul reale perché è uno scrittore borghese democratico, che ha di fronte a sé una realtà dinamica, una società già pienamente sviluppata dal punto di vista industriale. Di conseguenza lo scrittore progressista, in un simile ambiente,si sente il portavoce di esigenze ben vive intorno a lui e sa di potersi rivolgere ad un pubblico in grado di recepire il suo messaggio e di reagire ad esso.
Il rifiuto verghiano dell'impegno politico della scrittura, l'affermazione della pura letterarietà dell'opera e la scelta dell'impersonalità come carattere fondamentale della nuova arte realista rimandano invece ad una situazione economica, sociale e culturale ben diversa da quella francese. Verga è il tipico "galantuomo" del sud, il proprietario terriero conservatore, che ha ereditato la visione fatalistica di un mondo agrario arretrato ed immobile, estraneo alla visione dinamica del capitalismo moderno, e ha di fronte a sé una borghesia ancora pavida. Tale fatalismo poteva trovare conferma nella realtà attuale dell'Italia, in cui gli inizi dello sviluppo capitalistico, lungi dal modificare le condizioni subumane delle masse popolari, non faceva che ribadirne l'esclusione e l'oppressione e rendere ancor più dura la loro vita. Lo scrittore poteva facilmente concludere che nulla era mutato realmente, dietro la facciata delle intense trasformazioni e ricavare la convinzione che nulla mai può mutare in assoluto nella storia degli uomini, che la legge della sopraffazione è un dato universale e necessario e che, quindi, la letteratura può solo portare a conoscere la realtà, non a modificarla. Ed è inevitabile che anche gli influssi positivistici assorbiti dal clima culturale europeo, agendo in un simile terreno, non spingessero ad un'interpretazione ottimistica e progressiva della realtà, come era nel loro carattere originario, ma anzi col ferreo determinismo fornissero semmai una giustificazione filosofica alla convinzione che la realtà sociale è un prodotto semmai naturale e come tale non potrà mai essere modificata.
I due più grandi scrittori dell' '800 sono Manzoni e Verga vissuto l'uno nell'età romantica, l'altro negli anni della delusione successiva all'unità d'Italia. Senza Manzoni, non ci sarebbe stato il romanzo in Italia, ma senza Verga non si sarebbe sviluppato nel nostro paese il romanzo moderno. Manzoni ricorre ancora al narratore onnisciente, che guida dall'alto la narrazione e consoce passato, presente e futuro dei suoi personaggi. Il Verga dei grandi romanzi veristi rinuncia alla prospettiva onnisciente: il punto di vista narrativo, rigorosamente dal basso, coincide con quello dei personaggi. È questa la rivoluzione stilistica di Verga: per la prima volta nella storia del romanzo italiano si abbandona un atteggiamento di dominio ideologico e di giudizio dall'alto con la seguente caduta delle tradizionali gerarchie narrative. L' impersonalità verghiana comporta infatti una radicale rinuncia: l'autore non manifesta più direttamente i propri sentimenti e le proprie ideologie; assume invece l'ottica narrativa, l'orizzonte culturale, il linguaggio dei suoi stessi personaggi. Nello stesso tempo per la prima volta il popolo non è visto con distacco né giudicato da una prospettiva moralistica e populistica, ma diventa protagonista determinando la prospettiva stessa del racconto. Un mondo nuovo, di particolari umili e concreti, il mondo della vita materiale e dell'esistenza quotidiana delle masse contadine, entra di prepotenza nella l,letteratura italiana. È questa la rivoluzione tematica di Verga.
Con lui comincia lo strano ma non certo casuale destino dei maggiori narratori italiani dell'età moderna e contemporanea.
Le coraggiose scelte narrative di Verga verista nascono da una crisi storica. È uno degli ultimi rappresentanti della generazione romantico-risorgimentale e ne vive drammaticamente le contraddizioni. Il protagonismo culturale e ideologico degli intellettuali, tipico dell'età romantica, e ancora percepibile nelle prime opere verghiate, si rivela impossibile nella nuova Italia dominata dall'interesse economico e dal potere delle banche e delle imprese industriali. Occorre rinunciarvi e limitarsi ad un compito di documentazione scientifica: se talora una denuncia è ancora percepibile, essa tuttavia deve restare del tutto implicita. Di qui l'adesione al Verismo e l'impersonalità. Quest'ultima non è solo un espediente stilistico ma il risultato di tale crisi storica e di tale rinuncia.
Se nei Malavoglia un filo di simbolismo romantico convive con il pessimismo materialistico dell'autore, in Mastro Don Gesualdo siamo in presenza di un'ottica integralmente critico-negativa, di un realismo duro e corrosivo, che non concede spazi di speranza. Verga d'altronde aderisce al Positivismo in modo originale: ne valorizza al massimo gli elementi materialistici e deterministici e ne rifiuta gli aspetti fiduciosi e ottimistici.
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