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Nasce a Milano nel 1785 da un padre
di recente nobiltà, Pietro Manzoni, e da
Giulia Beccaria (lia del celebre Cesare Beccaria, autore Dei delitti e delle pene, contro la pena
di morte e le torture). Il matrimonio era stato d'interesse, in quanto il
patrimonio dei Beccaria era in dissesto. Peraltro
Giulia non solo era più giovane di 26 anni, ma nutriva anche idee
borghesi, più progressiste di quelle aristocratiche del marito, dal
quale infatti si separerà nel 1792, unendosi a Carlo Imbonati
e trasferendosi a Parigi.
Il lio Alessandro iniziò a studiare presso collegi religiosi (somaschi e barnabiti), ma a 16 anni scrive un poemetto, di
ispirazione giacobina, Il trionfo della
libertà, dimostrando che l'educazione religiosa ricevuta in quei collegi
non aveva avuto alcun effetto su di lui. La sua prima formazione intellettuale
fu piuttosto razionalistica e illuministica, anticlericale e antidispotica,
influenzata dalle idee che l'impresa napoleonica trapiantò in Italia. In
particolare, egli ha ben chiaro, sin dall'inizio, che il poeta deve avere una
funzione pedagogica o educativa, pratica e moralizzatrice, strettamente legata
alle vicende storiche.
Morto l'Imbonati, Giulia torna in Italia nel 1805 e
propone al lio, che accetta, di seguirla a Parigi. In questo periodo,
l'opera più significativa del Manzoni è
il Carme in morte di Carlo Imbonati, ove si esalta la
funzione dell'arte volta alla formazione dell'uomo morale (disposto al
sacrificio, interiormente libero, virtuoso, ecc.) e dove si rifiuta nettamente
la mitologia in uso in molta poesia del suo tempo.
A Parigi, dal 1805 al 1810, Manzoni frequenta i
circoli letterari e culturali in cui domina la filosofia razionalista e
materialista del Settecento, stringe amicizia con Fauriel
(uno dei promotori del Romanticismo in Francia) che lo avvia allo studio della
storia, e sposa nel 1808 Enrichetta Blondel, di
religione calvinista, che lo porterà, in seguito, a rivedere i suoi
giudizi critici verso la religione, tanto che (aiutato anche dalle
conversazioni con due insigni religiosi giansenisti dell'epoca), nel 1810 il Manzoni decide di convertirsi al cattolicesimo,
coinvolgendo in questa decisione anche la moglie.
Appena convertito, il Manzoni decide di lasciare per
sempre Parigi (vi ritornerà per alcuni mesi, per curarsi da una forma di
esaurimento nervoso) e, rientrato a Milano, vi rimane quasi ininterrottamente
dal 1810 alla morte. Il padre, morto nel 1807, gli aveva lasciato in
eredità tutti i suoi beni. Praticamente la sua vita non ha più
date importanti che non siano quelle della pubblicazione delle sue opere. Tutti
gli scritti giovanili precedenti alla conversione vengono da lui rifiutati.
A Milano il Manzoni si pone dalla parte del
Romanticismo e della corrente politica liberale favorevole all'unificazione
nazionale. Nel 1815 scrive Il Proclama di Rimini, esaltando l'iniziativa di
Gioacchino Murat che da Napoli aveva risalito col suo
esercito la penisola invitando gli italiani (che però non risposero) a
combattere contro gli austriaci per l'indipendenza nazionale (il tentativo poi
fallì miseramente). Alla caduta di Napoleone rifiuta di rendere omaggio
agli austriaci, rientrati a Milano. Anzi, nel 1821, quando si sparge la notizia
dei moti rivoluzionari piemontesi (cosa che per un momento fece credere che il
principe sabaudo Carlo Alberto fosse sul punto di liberare
La maggior parte delle opere del Manzoni viene
scritta nel giro di 15 anni: dal 1812 (in cui inizia la composizione degli Inni
sacri: La resurrezione, Il nome di Maria, Il natale,
La passione e La pentecoste [quest'ultima è la
più importante]), al 1827 (in cui conclude la stesura dei Promessi sposi).
Oltre alle due liriche politiche suddette del 1821, scrive due tragedie: Il
conte di Carmagnola (dedicato al Fauriel):
protagonista di questa tragedia è Francesco Bussone,
conte di Carmagnola, condottiero di ventura del primo
Quattrocento. Dopo aver servito Filippo Visconti, signore di Milano, egli
passò al servizio di Venezia, rivale di Milano, non sentendosi
sufficientemente ricompensato. Inflisse al Visconti una dura sconfitta, ma la
sua generosità verso i vinti lo rese sospetto ai veneziani che con
l'accusa di tradimento lo giustiziarono. Il Manzoni
è convinto che il Carmagnola fosse innocente e
vittima di una congiura. Ma il senso della tragedia sta piuttosto nel giudizio
negativo su quella 'politica' che non tiene conto dei valori etici, e
su quella 'politica' municipalistica e
regionale in nome della quale gli italiani da secoli avevano rinunciato
all'unificazione nazionale.
L'altra tragedia è l'Adelchi (dedicata alla moglie Enrichetta): essa ha
per oggetto l'ultimo periodo della dominazione longobarda in Italia, dal
ripudio che il franco Carlo Magno fece della moglie Ermengarda (lia del re
longobardo Desiderio) alla resa longobarda di Verona, dove si era rifugiato
Adelchi, fratello di Ermengarda. Secondo la storia Desiderio fu deportato in Francia,
mentre Adelchi fuggì a Costantinopoli: il Manzoni
invece li fa morire entrambi). I protagonisti della tragedia sono Ermengarda,
che, vittima innocente di manovre politiche, non si rassegna al divorzio,
essendo ancora innamorata del marito, e che muore di consunzione nel monastero
in cui era stata reclusa; e Adelchi, il cui dramma interiore è
completamente inventato dal Manzoni: Adelchi infatti
si dibatte fra le sue aspirazioni ideali alla giustizia (non sopporta l'offesa
arrecata alla sorella), le sue aspirazioni alla pace (è contrario alla
politica di conquista del padre, anche se per obbedienza lo asseconda), e le
sue convinzioni religiose (essendo cristiano, nella tragedia, non vuole
combattere contro i Franchi, anch'essi cristiani). Nella tragedia Adelchi muore
perché si rende conto che nella storia c'è poco spazio per i
sentimenti/desideri/valori umani. L'eroe cristiano deve resistere con l'esempio
personale e la sua forza morale agli attacchi del 'male'
(ingiustizia, oppressione, ecc.), ma può sperare che il suo eroismo gli
venga riconosciuto solo al cospetto di Dio. Nell'importante coro Dagli atri
muscosi, dai Fori cadenti, Manzoni esprime un
giudizio fortemente negativo su quegli italiani che si lasciano dominare dagli
stranieri senza reagire o che sperano d'essere liberati da uno straniero con un
altro straniero (il riferimento agli austriaci e borboni
del suo tempo era evidente).
Oltre a queste due tragedie si devono ricordare le due importanti Lettere sul
Romanticismo indirizzate a Chauvet e a Massimo
d'Azeglio (vedi più avanti) e le Osservazioni sulla morale cattolica, in
cui vengono esaltati i principi e il valore della morale evangelica, contro la
tesi del Sismondi che riteneva la religione cattolica
fonte di molti mali della società moderna.
Nel 1827, dopo la prima edizione dei Promessi sposi, il Manzoni
per qualche tempo con la famiglia si reca a Firenze, allo scopo di correggere
secondo l'uso toscano la lingua usata per il romanzo. In effetti, finché
scriveva liriche e tragedie, rivolgendosi a un pubblico molto colto, il Manzoni aveva potuto usare il linguaggio tradizionale senza
porsi particolari problemi (se non quello della chiarezza e dell'aggancio alla
realtà). Ma quando intraprende la stesura del romanzo, destinato al
vasto pubblico, il problema della lingua diventa subito fondamentale. Egli
aveva bisogno di una prosa narrativa facilmente comprensibile, in grado di
superare il distacco tra lingua parlata e scritta. La tradizione però
non gli offriva alcun valido aiuto. Nel caso della Francia, ad es., il dialetto di Parigi si era imposto a tutta la
nazione. L'Italia invece non aveva una capitale e Roma era la patria del
latino. Di qui l'esigenza di ricercare quella città che con la sua
lingua (parlata e scritta) avesse esercitato almeno per alcuni secoli una
specie di 'egemonia culturale' sul resto della nazione. La sua scelta
cadde su Firenze, cioè sul fiorentino usato dalle persone colte. Ed
è così che nasce con i Promessi sposi la prosa narrativa moderna
dell'Italia.
La prima versione del romanzo s'intitolava Fermo e Lucia (1812) ed è
molto diversa dalla seconda e definitiva edizione, pubblicata tra il 1840 e il
'42. ½ è una certa differenza di contenuto (oltre che ovviamente di
stile) persino tra la prima edizione del 1827 e la seconda: in quest'ultima la severità morale e religiosa è
attenuata (ad es, le due ure di don Rodrigo e
della monaca di Monza sono descritte con colori meno accesi). Nell'ultima
edizione apparve in appendice
Dopo il
Nel 1848, scoppiata la rivoluzione delle Cinque giornate di Milano, incita i
tre li maschi a prendervi parte e benché uno di essi fosse caduto
prigioniero e ostaggio degli austriaci, firma un appello a tutti i popoli e
principi italiani perché aiutino i milanesi. Gli austriaci poi rioccupano la
città e per quanto cercassero di inaugurare un governo più mite
(ad es. speravano che il Manzoni accettasse una loro
decorazione), il suo atteggiamento di aperta opposizione non venne mai meno.
Nel 1849 viene eletto deputato nel collegio di Arona
in Piemonte, ma rifiuta il seggio perché non si sentiva tagliato per la
politica. Nel 1859, liberata
Nei quattro Sermoni il poeta
satireggia la corruzione dei costumi familiari, la sfrontatezza delle persone
arricchite, la facile e ambigua fortuna degli ambiziosi favoriti dalla corrotta
vita politica. In morte di Carlo Imbonati il poeta
immagina apparirgli in sogno il conte il quale dopo aver parlato del mondo
pieno di malvagità ed aver dichiarato il suo amore per Giulia Beccaria indica al giovane quali norme di vita deve tenere
sempre presenti: modestia, dignità, e possesso della virtù.
Gli Inni Sacri del Manzoni sono in totale cinque
più un piccolo frammento, essi sono:
Il Conte di Carmagnola,
la vicenda è posta nel '400 all'epoca delle contese tra Venezia e Milano
e s'incentra sulla ura di un capitano di ventura del tempo Francesco Bussone, conte di Carmagnola,
già a servizio dei visconti di Milano e passato poi alle dipendenze
della repubblica di Venezia. La tragedia inizia appunto con l'elezione del Carmagnola a condottiero delle forze venete non senza
contrasti e sospetti da parte del Senato che anzi li acuiscono dopo la vittoria
ottenuta nella battaglia di Maclodio contro i
milanesi per l'eccessiva generosità mostrata dal condottiero verso i
prigionieri tanto che il Carmagnola viene richiamato
a Venezia e lì condannato a morte.
Adelchi è ambientata in Italia nel periodo della dominazione Congobarda e dei conflitti con i franchi di Carlo Magno. La
storia inizia quando Ermenguarda lia di Desiderio
re dei longobardi ritorna presso il padre Pania perché ripudiata dallo stesso
Carlo Magno. Un ambasciatore di quest'ultimo intima
il re straniero di liberare i territori pontifici occupati, ma desiderio
accanto al suo lio Adelchi trascina gli italiani in una feroce guerra, ma
Carlo Magno ha la meglio contro Desiderio attaccandolo sulle Alpi e a
scongerlo.
Marzo 1821, fu composta per i moti
del
Il 5 Maggio fu composta in tre giorni nel luglio 1821 quando arrivò a
Milano la notizia della morte di Napoleone. Il 5 Maggio rappresenta uno dei
vertici più alti della poesia Manzoniana.
Manzoni è il rappresentante più significativo del movimento romantico italiano. In lui si realizza la sintesi delle idee illuministiche con quelle cristiane. ½ è quindi il rifiuto del materialismo ateo di Foscolo e Leopardi, ma non quello delle idee illuministiche di giustizia, libertà, uguaglianza, fraternità, le quali però vengono per così dire 'battezzate' da una religiosità cattolico- giansenista, non dogmatica, ma critica, aperta alle idee democratiche e laiche del suo tempo, austera e rigorosa sul piano morale.
L'idea religiosa dominante è quella di provvidenza, grazie alla quale anche il male -secondo il Manzoni- può essere ricompreso in una visione più globale della storia. Il dolore che gli uomini soffrono a causa delle ingiustizie/oppressioni non può mai essere disperato se si ripone fiducia nella provvidenza divina. Chi vuole compiere il male è guardato dal Manzoni non con disprezzo ma con ironia, appunto perché il credente sa in anticipo che il corso della storia non può essere modificato dalle singole azioni negative degli uomini. Ovviamente per il Manzoni gli uomini non devono attendere passivamente la realizzazione del bene, ma devono avere consapevolezza, nel mentre cercano di vivere con coerenza il loro ideale evangelico di giustizia, che la realizzazione del bene dipenderà dai tempi storici della provvidenza più che dalla loro volontà. Senza questa consapevolezza gli uomini tenderebbero ad attribuire a loro stessi la causa di ogni bene, il che li porterebbe facilmente a ricadere nel male.
Sul piano poetico, Manzoni rifiuta categoricamente ogni mitologia, ogni fantasia che non abbia riscontri reali, ogni imitazione pedissequa dei classici greco-romani. Accetta la fusione della storia con la poesia (di qui ad es. il concetto di 'romanzo storico'), perché se la storia racconta la verità oggettiva degli avvenimenti, la poesia può raccontare la verità soggettiva dei singoli protagonisti. La letteratura deve avere - questa è la sua formula più riuscita - l'utile per scopo, il vero per soggetto e l'interessante per mezzo. L'invenzione deve essere limitata all'integrazione del dato storico. Il vero storico - per il Manzoni - è sempre quello che desta maggior interesse. L'arte quindi avrà un valore educativo se sarà finalizzata alla comprensione della verità storica (soprattutto la verità del popolo, degli strati sociali più umili, che fanno la storia). Scopo del drammaturgo/poeta/romanziere è quello di saper trarre dal vero reale il vero ideale, senza alterare i fatti storici, ma riservandosi uno spazio (il coro) in cui poter parlare personalmente, rendendosi interprete dei sentimenti morali dell'umanità.
Nel teatro Manzoni propone l'abolizione delle unità aristoteliche di tempo e luogo, salvando solo quella di azione. Le due unità erano rigorosamente rispettate nel teatro italiano perché si credeva, in tal modo, di poter salvaguardare il principio di verosimiglianza dell'azione degli attori. Trasportare da un luogo all'altro gli avvenimenti o prolungare l'azione aldilà di un giorno, si pensava che togliesse allo spettatore la convinzione (l'illusione) di essere direttamente coinvolto per 2 o 3 ore nell'azione degli attori. Il Manzoni invece dà per scontato che lo spettatore sappia di assistere a una finzione (il teatro stesso di per sé è illusione), per cui lo spettatore - secondo lui - non ha difficoltà ad accettare il susseguirsi d'avvenimenti concatenati che accadono in tempi e luoghi diversi. Naturalmente il drammaturgo, per poter tenere ben legati avvenimenti così separati, deve scegliere quelli più significativi, perché solo così lo spettatore potrà sentirsi coinvolto emotivamente nell'azione. Manzoni parla della sua riforma drammatica nella Lettera allo Chauvet.
Tuttavia, poco dopo aver scritto i Promessi sposi, il Manzoni nega l'utilità del romanzo storico, sostenendo che la verità che la storia ci fa conoscere è sufficiente; per cui o si fa storia o si fa invenzione.
Il Manzoni era partito bene con quelle sue idee giacobine e ateo-illuministiche, ma la conversione al cattolicesimo ne ha ostacolato fortemente lo sviluppo.
Probabilmente egli aveva capito, a Parigi, che cultura e politica devono marciare insieme per essere entrambe vere, autentiche, ma siccome il suo personale temperamento gli impediva di condividere, sino in fondo, in maniera partecipata, le idee e le esigenze della politica democratica e rivoluzionaria, egli preferì puntare la sua attenzione sulla cultura, trasferendo su questa le qualità realistiche di quella politica più vicina alle aspirazioni popolari.
Conseguentemente la sua letteratura diventò, allo stesso tempo, realistica e poetica, storicistica e romanzata. Connubio, questo, che al Manzoni piaceva e dispiaceva, proprio perché egli si rendeva conto che con esso non si potevano soddisfare appieno le esigenze del vero. Esigenze che possono e debbono essere soddisfatte coll'impegno politico attivo, a favore della democrazia, oltre che coll'impegno culturale e sociale. Il Manzoni - come noto - si limitò a circoscrivere ideologicamente tale impegno alla valorizzazione del 'vero storico', volgendo sì lo sguardo al presente, ma come intellettuale culturalmente, non politicamente impegnato.
La sua esperienza, ancora una volta, ha dimostrato i limiti della religione, che sono appunto quelli di negare valore, da un lato, alla politica rivoluzionaria, giustificando, dall'altro, l'oppressione esistente. Di qui il suo accentuato moralismo, la sua idea paternalistica di 'provvidenza', la sottile quanto fastidiosa ironia nei confronti del 'male' e di chi cerca di opporvisi con mezzi propri, senza rimettersi nelle mani di dio. Al Manzoni tuttavia bisogna riconoscere un pregio, quello di non aver mai abbracciato le idee clericali del suo tempo.
Il tardo Settecento è un
momento particolarmente felice per la vita culturale di Milano:
Gli intellettuali, per lo più di estrazione nobiliare o alto-borghese,
sono chiamati a collaborare: ricevono incarichi di responsabilità e a
volte sono accreditati consulenti per migliorare la legislazione e controllare
l'opportunità di scelte fondamentali, in ambito monetario o nei rapporti
commerciali.
Pietro Verri (1728-l797) è un esempio convincente di questa
ura di intellettuale calato nella vita civile: chiamato a far parte nel 1770
della Giunta per la riforma fiscale, ottiene l'abolizione degli appalti privati
nella riscossione delle imposte. Come presidente del Magistrato camerale (l'equivalente
della direzione finanziaria), si sforza di riorganizzare meglio l'apparato
fiscale. Intanto si diffondono in Europa nuove idee che egli enuclea nelle Meditazioni
sull'economia politica (1771).
Il movimento culturale dell'Illuminismo (così chiamato perché gli
intellettuali confidano unicamente nel lume della Ragione) nasce in Inghilterra
e si sviluppa rapidamente in Francia, Italia e nel resto dell'Europa. Gli
illuministi esaltano una cultura operativa, che propugna lo sviluppo della
scienza e delle tecniche. Ricordiamo che l'opera più significativa di
questo movimento, l'Enciclopedia (in 17 volumi pubblicati tra il 1751 e
il 1772, più altri volumi successivi di tavole), riceve dai suoi
ideatori e organizzatori, Denis Diderot
(1713-l784) e Jean Baptiste
d'Alembert (1717-l783), un significativo
sottotitolo: Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri,
da parte di un'associazione di letterati. Ad essa collaborano, con articoli
e interventi sulle varie voci, i nomi più prestigiosi della Francia del
tempo: Voltaire (1694-l778), Jean-Jacques
Rousseau (1712-l778), Charles
de Secondat, barone di Montesquieu
(1689-l755), Claude-Adrien Helvétius
(1715-l771), Étienne de Condillac
(1715-80), Paul-Henry D'Holbach
(1723-89), il naturalista George-Louis Buffon (1707-88), gli economisti Robert
Turgot (1727-81) e François
Quesnay ( 1694-l774).
Si diffondono i giornali, sul modello dello Spectator
(1711) dell'inglese John Addinson,
strumento di informazione destinato al largo pubblico, e dello spregiudicato Tatler ('Il Chiacchierone') di Richard Steele.
A Milano questa cultura, proiettata verso il progresso, attenta ai problemi
concreti dell'uomo, pronta a intervenire nella gestione del pubblico interesse,
trova attenti interlocutori. Nasce, così
Il Romanticismo entra in Italia
attraverso la garbata mediazione di una grande 'operatrice
culturale', madame de Stäel (1766-l817).
Il suo articolo, Sulla maniera e l'utilità delle traduzioni, esce
nel gennaio del 1816 sulla Biblioteca italiana, periodico milanese
promosso e divulgato a cura del governo austriaco.
La scrittrice francese invita gli italiani ad aprire i propri orizzonti, a
guardare anche alla produzione d'oltr'Alpe e, in
particolare, agli sviluppi della cultura in Inghilterra, Germania e Francia,
dove ormai si sta diffondendo il Romanticismo. Subito si infiamma il dibattito
fra i critici della proposta della Stäel e i suoi
sostenitori, come Pietro Borsieri (1786-l852), autore
dell'articolo Intorno all'ingiustizia di alcuni giudizi letterari italiani
(1816) e Ludovico Di Breme (1780-l820) che scrive Avventure
letterarie di un giorno (1816), ma non mancano in primo piano gli amici del
Manzoni, come Ermes Visconti e Giovanni Berchet. Questi, nella Lettera semiseria di Giovanni
Grisostomo (dicembre 1816), elabora il manifesto del Romanticismo italiano.
In tono elegante e vivace polemizza contro i classicisti, che ripetono sempre
gli stessi moduli poetici, imitando i modelli antichi, fanno della poesia mezzo
di diletto, piuttosto che di educazione, ignorano il sentimento, si rivolgono a
una categoria ristretta di 'addetti ai lavori'.
Invece il Romanticismo propugna un'arte diretta a un ampio pubblico borghese,
mira a riprodurre i problemi degli uomini, calati nella realtà, si
propone una funzione importante, perché vuole educare le menti e i cuori.
Anche Alessandro Manzoni
vi aderisce con entusiasmo, ma non si pronuncia per iscritto. Conosciamo le sue
idee sul questo movimento dalla lettera Sul Romanticismo, inviata al
marchese Cesare D'azeglio nel 1823 e pubblicata senza
il suo consenso nel 1846. Egli ritiene assurdo l'uso della mitologia,
massicciamente presente nella poesia neoclassica, perché crea una letteratura
d'evasione, elaborata secondo l'imitazione acritica, pedissequa e anacronistica
dei classici. Invece l'opera d'arte deve essere educativa, cioè deve
aiutare l'uomo a conoscere meglio se stesso e il mondo in cui vive. In questo
testo Manzoni elabora una formula che mette a fuoco
la sua concezione poetica: l'opera letteraria ha 'l'utile per iscopo, il vero per oggetto e l'interessante per mezzo'.
È questa un'affermazione non nuova nella forma, ma certamente nuova
nella sostanza. L'utile coincide con la moralità in senso cristiano ed
è il fine stesso della poesia tesa alla formazione delle coscienze;
l'interessante viene a coincidere con la scelta stessa dell'argomento da
trattare, che deve restare nell'ambito della meditazione sull'uomo, sulla sua
vita e sul suo rapporto con
In pratica considera il Romanticismo come un rinnovamento dei moduli espressivi
e dei temi propri della letteratura, poiché si indirizza a un pubblico vasto.
In modo particolare sottolinea le peculiarità del Romanticismo lombardo,
che, erede dell'Illuminismo, non lo sconfessa ma ne approfondisce e sviluppa le
tematiche. Aperta all'Europa, Milano, ex capitale della napoleonica Repubblica
Cisalpina, ospita intellettuali e periodici che non intendono sconfessare
I classici sono letti con ammirazione e costante interesse, ma non più
imitati, perché l'opera d'arte nasce strettamente congiunta con lo spirito di
un'epoca, che è irripetibile. Infine anche
L'esempio più evidente delle strette interrelazioni tra i due movimenti
culturali, in Lombardia, è proprio Manzoni, un
grande romantico, nipote di un grande illuminista, Cesare Beccaria.
Ma c'è di più: il Romanticismo lombardo porta avanti, senza
nasconderlo, un preciso intendimento patriottico-risorgimentale
che emerge dalle ine del periodico Il Conciliatore. È un
foglio azzurro che viene pubblicato due volte la settimana a Milano, dal 3
settembre 1818 al 17 ottobre 1819: viene sostenuto economicamente dal conte Luigi
Porro Lambertenghi (1780-l860) e dal conte Federico
Confalonieri (1785-l846), che collaborano anche
con interventi redazionali. Lo dirige il piemontese Silvio Pellico e
scrivono articoli Giovanni Berchet, Ludovico Di Breme, Pietro Borsieri, Ermes
Visconti. Collaboratori occasionali sono grandi nomi dell'economia, come
Melchiorre Gioia, Gian Domenico Romagnosi (1761-l835)
e Giuseppe Pecchio (1785-l835), storici come il ginevrino Sismonde de Sismondi (1773-l842), scienziati come il medico-letterato
Giovanni Rasori (1766-l837).
Manzoni ne rimane estraneo, troppo assorbito dalla
sua attività creativa, che in quegli anni è davvero intensa.
Segue, però, con attenzione e partecipazione, condividendone il
programma. Il titolo del periodico, 'Conciliatore', non è
casuale: nasce dall'intenzione di mettere in comune gli sforzi dei circoli
intellettuali milanesi per dare alla letteratura forza ed efficacia, per
elaborare un valido progetto culturale, sociale e politico: inevitabile,
quindi, proprio alla luce dell'evidente intento patriottico, che intervenga
l'occhio vigile della censura austriaca, la quale lascia ben poca vita al
giornale. L'impegno sociale del Conciliatore, che mira alla
'pubblica utilità', istruendo i Milanesi sulle innovazioni che
in Europa segnano il progresso in tutte le branche del sapere (dalla pedagogia
all'agricoltura, dalle istituzioni alla medicina, dalle scienze naturali alle
loro applicazioni tecniche), lo pongono sulla linea del Caffè,
del quale, peraltro, i 'conciliatori' si considerano eredi e
prosecutori.
Naturalmente il giornale si presenta come espressione di una cultura italiana.
Per esempio, il problema della coltivazione della vite in Toscana non risulta
meno interessante di quello dei bachi da seta in Lombardia. C'è quanto
basta per indurre l'Austria a sopprimere il giornale e costringere al silenzio
i collaboratori con l'intimidazione o la deportazione: tra questi ricordiamo
Silvio Pellico, il quale riporta le memorie della sua prigionia nel carcere asburgico dello Spielberg nel
libretto Mie prigioni (1832), che fece grande scalpore e
rappresentò per l'Austria una notevole sconfitta.
Gli anni del 'periodo
creativo' del Manzoni sono caratterizzati da
grandi eventi storici che si ripercuotono sulla Lombardia, lasciando tracce
profonde. Il crollo di Napoleone, e la restaurazione sui troni degli antichi
sovrani, 'spazzati via' dalla conquista francese, porta
Manzoni abbraccia gli ideali patriottici e
risorgimentali, auspicando l'indipendenza e l'unificazione delle regioni
italiane: esprime le sue idee soprattutto nelle quattro appassionate Odi
civili. Proprio il Cinque maggio, che non ha un carattere militante
patriottico, perché non invita all'azione, rappresenta una riflessione sul
rapporto fra l'uomo e la storia. Manzoni introduce il
concetto di provvida sventura, affermando che le sconfitte, come l'esilio di
Napoleone, avvicinano l'uomo alla fede e gli fanno conquistare qualcosa di
molto più alto e prezioso, la salvezza dell'anima.
Con la scrittura delle tragedie Il conte di Carmagmola
e Adelchi, si rafforzano proprio due concetti che diventeranno il
fondamento della poetica manzoniana: la provvida sventura e il vero storico.
Nella Lettre à monsieur Chauvet
sur l'unité de temps et de lieu dans
la tragédie, pubblicata nel 1823, il Manzoni
offre un vero saggio di metodologia. Egli sostiene che l'unità d'azione
non corrisponde a un singolo avvenimento, ma a molti avvenimenti, anche lontani
nel tempo e nello spazio; essi, però, sono collegati da rapporti interni
(come quello di causa ed effetto). Collante che garantisce l'unità
dell'azione è, per Manzoni, il vero storico
ossia rispetto per i fatti e riproduzione fedele delle caratteristiche dei
personaggi, così come ci sono state tramandate dalla storia e
puntualizzate in seguito a una severa ricostruzione preliminare. Sentiamo l'eco
dell'insegnamento dello Schlegel che costituisce il
punto fondamentale della poetica manzoniana: il rispetto della verità
storica è garanzia della validità morale ed estetica dell'opera
d'arte: l'unità d'azione, dunque, nasce dalla capacità dello scrittore
di cogliere i nessi tra gli eventi e rintracciarne il senso più alto. Si
noterà anche che non è estranea, soprattutto in quest'ultima implicazione, la visione religiosa
dell'autore.
Del Romanticismo il Manzoni è indubbiamente uno tra i maggiori esponenti
a livello europeo, anche se spesso gli viene attribuito un legame con la
corrente settecentesca dell'Illuminismo, il movimento antagonista per
eccellenza della corrente romantica. In effetti vi sono parecchie analogie tra
alcune ideologie del poeta e gli illuministi, dovute specialmente agli
intellettuali di quel periodo che frequentò giovanissimo, per il resto,
la formazione che ebbe in seguito, è strettamente romantica.
Intanto per l'originalità e l'unicità dei componimenti, che non
lasciano spazio solo ed esclusivamente a fredde strutture razionali definite,
né la loro esistenza presuppone un preciso scopo strumentale; tutte le opere
nascono sotto la spinta di particolari sentimenti, siano essi rabbia,
tristezza, felicità, voglia di libertà, amore per la patria.
Oltre a questo, l'uomo di cultura romantico, non appartiene più alla
cosiddetta classe aristocratica, o meglio, non solo alla classe privilegiata,
bensì alla borghesia, la classe emergente che ha trovato nel sapere il
suo riscatto da una società che voleva gli uomini disposti e inquadrati
secondo certi canoni che impedivano loro qualunque tentativo di uscirne fuori.
Il borghese non accetta un'esistenza delimitata e razionale, ma si lascia
guidare dal sentimento: lotta per la libertà perché riconosce di averne
il diritto, ama la patria perché la sente propria, ha un'istruzione perché solo
così può continuare a riguardarsi e difendere ciò che gli
spetta.
Inutile sottolineare che il Manzoni incarna l'ideale
del Romanticismo da ogni punto di vista, anche Umberto Saba,
in seguito, ne sottolineò l'unicità definendolo il poeta
'onesto', unica eccezione per l'interesse storico.
L'importanza della storia nel Romanticismo crebbe in modo impressionante tra i
letterati, ma egli sembrò non interessarsi; infatti non fu mai un grande
storico, non ebbe mai gli interessi profani dei 'colleghi'. Piuttosto
la storia costituì il campo delle osservazioni morali, il paragone
dell'agire umano, la storiografia manzoniana è molto particolare per una
diffusa religiosità che lo conduce intendere e spiegare il male, la
perversità e le calamità. Naturalmente i romantici consideravano
inspiegabile l'origine del bene e del male così come ritenevano Dio
l'Essere esistente a priori, dunque la pretesa del Manzoni
era inammissibile.
La varietà di definizioni che il Romanticismo acquistò, è
dovuto ,in parte, anche alla diversità di stile dei suoi appartenenti,
sia in Italia, sia in tutta Europa, ecco perché ogni paese può benissimo
affermare di possedere un proprio Romanticismo indipendente, che con gli altri
condivide solamente alcuni punti di riferimento, identici per tutti.
Sicuramente si deve tantissimo a questa corrente, un solo secolo ha modificato
scuole di pensiero dalle radici millenarie, a volte calibrandone meglio
l'ottica e allargando gli orizzonti alla modernità dei tempi attuali, e
si deve riconoscere anche un grande merito a molti intellettuali che, proprio
come il Manzoni, sono stati i precursori e i
promotori del cambiamento.
Nell'Europa del primo Ottocento,
invece, il romanzo si è affermato pienamente da circa un secolo. Compare
in Francia nel 1678 con la commovente vicenda della Princesse de Clèves narrata da madame de
Nei Promessi Sposi le partenze i viaggi, le separazioni, le ricerche, gli
incontri fortuiti sono piuttosto frequenti e, alla base, sta il meccanismo
tipico dei romanzi d'avventura. D'altra parte il filosofo francese Jean-Jacques Rousseau, nel
romanzo La nouvelle Eloïse (1761),
riprende il tema dell'amore contrastato dal senso del dovere, costruendo un
modello insuperabile di eroina romantica nella ura di Giulia, lia
obbediente e moglie fedele al quale, fatte le debite riserve, potremmo
accostare quello di Lucia. Il tema del viaggio, del naufragio, delle
difficoltà a cui l'uomo, con la scienza, sa porre rimedio, tornano in Robinson Crusoe
(1719) dell'inglese Daniel Defoe, mentre il
motivo dell'ingiustizia e della malvagità del nobile che si accanisce su
un giovane povero emerge in Tom Jones (1749) di Henry Fielding.
Inutile dire che tutti questi romanzi si risolvono con un lieto fine: l'intrigo
viene smascherato e il perseguitato riceve la giusta dose di ricompensa,
proprio come nei Promessi Sposi, benché nel romanzo manzoniano esista una
componente che manca in tutti gli altri: la visione religiosa. Abbiamo dovuto
anticipare questa osservazione per evitare false interpretazioni. Nel Settecento,
all'interno del filone 'gotico', compaiono romanzi 'neri',
in cui gli eroi si muovono su sfondi tenebrosi di castelli popolati da forze
misteriose e sovrumane, ostacolati da malvagi che evocano potenze ultraterrene:
è questo il contenuto del Castello di Otranto (1764) dell'inglese
Horace Walpole,
in cui emerge la ura della fanciulla che, a causa della persecuzione del
nobile prevaricatore, non può sposare il giovane che ama. La monaca
(1796) del francese Dénis Diderot,
narra le peripezie di una giovane che entra in convento, forzata dalla
famiglia: non possiamo non pensare alla celebre vicenda manzoniana della monaca
di Monza, anche se la storia di questo personaggio è recuperata dalle
cronache secentesche del Ripamonti. Il monaco
(1796 ), di Mattew Gregory Lewis, rappresenta il tipico esempio di romanzo gotico in
cui orrore, erotismo, suspense e violenza si mescolano, avvincendo il lettore.
Non dimentichiamo che anche nei Promessi Sposi non mancano rapimenti e colpi di
scena, e compaiono personaggi che potrebbero ben essere definiti
'oppressori'.
Il grande scrittore tedesco Wolfgang Goethe (1739-l842) suggerisce al Foscolo il tema dell'amore
infelice nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis con il romanzo I dolori
del giovane Werther (1774), che racconta la storia di un amore impossibile
per la bella Carlotta. Tuttavia nell'altro suo romanzo, Gli anni di
apprendistato di Wilhelm Meister
(1795) offre un valido spunto anche per Manzoni.
L'analisi goethiana della formazione del giovane,
infatti, non è estranea all'ideazione del personaggio di Renzo che, nel
corso del romanzo, matura e arricchisce la sua esperienza, sino a consolidare
una personalità sicura.
Dedicata a Napoleone. Scritta dal 17 al 19 luglio 1821, cioè subito dopo ch'era giunta a Milano la notizia della morte di Napoleone, avvenuta appunto il 5 maggio.
L'ode è stata scritta da Manzoni in soli tre giorni (17-l9 luglio 1821) subito dopo
la notizia della morte di Napoleone, giunta a Milano il 16 luglio, che doveva
provocare nel Poeta una notevole impressione che creò quello sgomento
che sempre coglie gli uomini quando muoiono i Grandi che sembrano
indistruttibili, una certa commozione che nel Manzoni
si traduce nella meditazione sulla vita e sulla morte, sulla fragile
transitorietà delle glorie umane e terrene, sulla dolorosità
della solitudine, acuita dal ricordo delle grandezze passate e
dall'ansietà di un desiderio, talvolta potente, di un aiuto che non
arriva (Napoleone che scruta l'orizzonte lontano sul mare), e infine la
pacificazione nella Benefica Fede, con una preghiera 'a speredere ogni ria parola' superando la condizione
umana contingente nell'attesa di raggiungere il premio / che i desideri avanza.
Possiamo dividere l'ode manzoniana, composta da 18 sestine per complessivi
versi
Entrambe cominciano con la realtà presente della morte di Napoleone (Ei
fu al v. 1, E sparve al v. 55), di un Napoleone che
è solo uno dei due centri costitutivi dell'ode (l'altro è Dio).
Ciò che colpisce l'immaginazione e la spiritualità del Manzoni non è la ura di Napoleone, dominatore
degli eventi a cavallo fra il Settecento e l'Ottocento, o la storia dei fatti o
delle idee di quegli anni, quanto il silenzio e la solitudine vissuti
nell'isola di Sant'Elena, e la possibilità di
un profondo pentimento maturato nella meditazione sulla sua vita passato e di
un affidamento alla pietà di Dio all'avvicinarsi della fine dei propri
giorni.
Il poeta rimane muto ripensando agli ultimi attimi della vita di un uomo che il
Fato aveva voluto arbitro della storia e di tanti destini umani, di un uomo che
si era posto lui stesso come Fato/arbitro dei destini dei popoli e che racchiuse
in sé le aspettative di un'epoca; e allora non può che ripensare a
quando potrà esistere nuovamente un uomo altrettanto decisivi per i
destini umani, che, calpestando la sanguinosa polvere del mondo e della vita,
lascerà nella storia un'orma altrettanto grande.
E quegli ultimi attimi sono fusi nell'ansietà di un naufrago, oppresso
dalla solitudine e dal peso delle memorie e delle immagini che si affollano
nella memoria; e da quel naufragio lo salverà solo la benefica Fede nel
Dio che atterra e suscita / che affanna e che consola.
L'ode fu scritta da Manzoni in occasione dei moti carbonari piemontesi del
1821, quando l'atteggiamento riformistico e liberale del giovane Carlo Alberto,
erede al trono piemontese e Reggente in attesa dell'arrivo del Re Carlo Felice
di Savoia, che sembrava stesse per varcare il Ticino ed entrare con le armi in
Lombardia per aiutare i patrioti a liberare il Lombardo-Veneto
dall'oppressivo dominio austriaco, aveva acceso le speranze dei liberali e di
coloro che aspiravano all'unificazione dei vari stati italiani sotto un'unica
bandiera. Ma le speranze vennero ben presto vanificate sia dall'intervento di
Carlo Felice che della polizia austriaca, che procedette a una dura repressione
nella quale furono coinvolti, tra gli altri, Silvio Pellico e Federico Confalonieri. L'entusiasmo di quei giorni venne quindi
subito stroncato dagli eventi, ma l'ode rispecchiò profondamente uno
spirito che non verrà mai soffocato e che ha rappresentato uno degli elementi
politici e culturali fondamentali dell'Ottocento, elemento che, dopo circa trentanni di discussioni e approfondimenti, che toccarono
non solo le sfere della politica e del diritto, ma anche quella della religione
(pensiamo ad esempio al Neoguefismo), a partire dal
Nate in un periodo di importanti
avvenimenti politici e sociali, le Odi Civili rappresentano la sintesi del
pensiero manzoniano, cioè gli ideali di democrazia, libertà e
giustizia, ereditati dalla corrente illuminista e mantenuti caparbiamente per
tutta la vita. Dal movimento romantico il Manzoni
acquisì il grande patriottismo che caratterizza entrambe le sue opere,
anche se fu sempre legato ad una religiosità molto forte che
contribuì a rafforzare le sue concezioni di vita, discostandosi
completamente dalle credenze ottocentesche negative degli altri letterati
dell'epoca. La sua fede, infatti, aderente ai contenuti positivi che il Vangelo
presenta, non transige nel rispettarle.
Il suo 'modus vivendi',dunque, non poteva che gettare le basi di un
nuovo concetto, di cui egli ne è il rappresentante assoluto: la
'provvida sventura'.
Pur sembrando, in apparenza, la non-via d'uscita che condanna l'uomo alla
disperazione eterna, è in realtà l'unico mezzo di salvezza per
coloro che desiderino essere in grazia di Dio e meritare il suo perdono. Nelle
Odi ne ricorrono esempi eclatanti, in particolar modo il 'Cinque Maggio':
mentre in 'Marzo 1821' viene messo maggiormente in rilievo l'amor di
patria, esplicitato dalla dedica introduttiva al Koerner,
il patriota tedesco morto a Lipsia combattendo contro Napoleone, il 'Cinque
Maggio', invece, può considerarsi l'opera più completa e
geniale del Manzoni.
In primo luogo dal punto di vista dei contenuti: vari e numerosi. Il necrologio
introduttivo, i flashback che contribuiscono a rievocare la grandezza delle
imprese, fino ad un'indagine psicologica e ad una possibile interpretazione del
pensiero del Bonaparte, quindi l'applicazione del
vero storico e poetico, comune a tutti gli scrittori romantici.
In secondo luogo, la fama procuratagli: il clamore suscitato dall'avvenimento,
rese il componimento noto e diffusissimo, anche grazie al Goethe,
che la tradusse per condividerne la bellezza dei versi con i letterati
tedeschi. In terzo luogo, la conferma della sua genialità: le fonti
storiche affermano che l'autore, turbato dalla notizia, la compose in meno di
tre giorni ; la vastità e la complessità, l'impiego di termini e
strutture poetiche alquanto ricercati, inducono a riflettere sulle effettive
capacità poetiche del Manzoni, che , a quanto
pare, sono davvero incommensurabili. Per tutti i motivi enunciati, 'Marzo
1821' non può certo considerarsi alla stregua del 'Cinque
Maggio', che è certamente la più famosa, ma che in fin dei
conti non è da meno per quanto riguarda la scelta lessicale, metrica e
semantica. E' notevole come anche in questo contesto la ura di Napoleone
abbia un ruolo di spessore, che, da un certo punto di vista, può essere
riconosciuto come il vero protagonista delle Odi, sotto due aspetti nettamente
contrapposti: l'oppresso esule, l'oppressore imperatore. Il rapporto
'oppresso-oppressore' è un altro concetto che ricorre spesso
nelle opere manzoniane: dalle Odi, alle tragedie, al romanzo più
popolare 'I Promessi sposi'. L'oppresso è colui che è
costretto, spesso con la violenza, a subire la volontà altrui, sia esso
un semplice signorotto (Don Rodrigo) o l'imperatore dei francesi in persona
(Napoleone): è sempre destinato a riscattarsi e a vincere l'oppressore,
che finisce per are con la vita ed essere condannato alla dannazione, a meno
che non intervenga la 'Provvida sventura' per salvarlo. L'oppresso
confida in Dio e nella fede, ed è questa la sua forza. 'Marzo
1821', per questo aspetto, assume un valore educativo: è uno
stimolo per capire l'importanza della libertà e trovare il coraggio di
lottare per affermarla ad ogni costo. Il popolo deve essere parte attiva,
perché esso costituisce la nazione, non deve sperare passivamente
nell'intervento altrui, proprio perché affidarsi ad esterni, è segno di
poca intraprendenza, quindi di incapacità nell'autogestirsi,
precludendo così un'eventuale futura indipendenza nazionale. Per questo
è vitale, innanzitutto, acquisire una nuova mentalità, sentendosi
tutti cittadini di un solo paese, e solo dopo cementare quest'unione
senza distinzioni, da nord a sud. Forse in fondo l'intento del Manzoni consisteva proprio nell'aiutare sia i suoi
concittadini, sia l'intera nazione, anche se lo spunto che lo spinse alla
composizione fu la delusione personale procuratagli dal Bonaparte:
venuto in Italia come alleato, se ne impadronì con prepotenza per
annetterla al suo impero; non è allora casuale la scelta del Koerner come simbolo dell'indipendenza. Nonostante tutto,
l'ode è più che mai piena di ottimismo, qui espresso come
concetto di unità, mentalità piuttosto all'avanguardia per
un'epoca in cui niente lasciava prevedere il futuro di un unico suolo italiano,
di una sola etnia con usanze, costumi e religione identiche, data la scompattezza all'interno dei singoli stati e le condizioni
sociali impossibili. Senza ombra di dubbio, comunque, la poesia che il Manzoni prende in considreazione,
è quella 'utile' moralmente e semanticamente,
con le sue basi di verità e con le forme che hanno il compito di
coinvolgere il lettore. In tutti i suoi lavori, il poeta non si è mai
allontanato da questo stile, perché, in fin dei conti, il significato nascosto
in ognuna delle sue opere, è la commiserazione della fragilità e
della miseria umana, contrapposta alla celebrazione della Provvidenza divina.
La fortuna del Manzoni
nelle ine di critica letteraria comincia già all'epoca della sua
giovinezza, quando Vincenzo Monti e Ugo Foscolo apprezzano il poeta in erba. I
Promessi Sposi riscuotono un grande successo e nell'arco di un anno sono stampate
tredici edizioni, alcune delle quali in tedesco, francese, inglese.
Il critico che contribuisce a far conoscere veramente l'opera del Manzoni in Italia è Francesco De Sanctis
che dedica all'autore un intero corso nel 1877. Detrattore del Manzoni è il poeta Giosue Carducci, che lo taccia di
conformismo borghese, mentre il filosofo e critico Benedetto Croce afferma che
il romanzo manzoniano non contiene poesia, ma è opera oratoria, Antonio Gramsci (1891-l937) accusa Manzoni
di paternalismo nel suo atteggiamento verso gli umili, nel saggio Letteratura e
vita nazionale (1950), conglobato nei Quaderni dal carcere (1972).
I prosecutori della ricerca di De Sanctis e di Croce
sono, a tutt'oggi, gli interpreti più acuti
dell'opera manzoniana. Attilio Momigliano, Luigi
Russo e molti altri, cercano di evidenziare, accanto ai vari temi e al
significato dei personaggi, l'unità poetica e il messaggio
fondamentalmente umano dell'opera manzoniana. Michele Barbi progetta nel 1939
un'edizione nazionale delle opere del Manzoni e,
negli anni Cinquanta, attua un'edizione critica delle tre redazioni del
romanzo, per consentire ai critici utili esami ativi. Gli studiosi
più recenti (G. Petrocchi, L.
Firpo, L. Caretti, G. Vigorelli, D. De Robertis, V. Spinazzola, D. Isella, E. Raimondi,
M. Vitale, M. Corti, U. Eco) si sforzano di illustrare anche i rapporti fra Manzoni e la cultura italiana ed europea del suo tempo,
valutando in quale misura essi siano filtrati attraverso l'opera letteraria.
Natalia Ginzburg, ne La famiglia Manzoni (1983), ha ricostruito, attraverso gli
epistolari, il complesso e variegato 'ambiente' manzoniano,
costituito dai familiari, dagli amici e dai collaboratori.
Alessandro Manzoni
inizia a scrivere I Promessi Sposi il 24 aprile 1821, mentre si trova con la
famiglia nella bella villa di Brusuglio, immersa
nella camna, a pochi chilometri da Milano. Sono tempi difficili: in
città la polizia austriaca sta arrestando, uno a uno, i patrioti
affiliati alla società segreta della Carboneria. L'anno prima è
stato arrestato Pietro Maroncelli e ora sono in corso
i processi nei quali sono anche implicati i collaboratori del Conciliatore,
tra cui il direttore del giornale, Silvio Pellico (1789-l854).
Molti di loro sono amici e conoscenti di Manzoni che
spera, nel suo rifugio, di non essere coinvolto né chiamato a subire estenuanti
interrogatori.
Ha con sé alcuni libri: le Storie milanesi di Giuseppe Ripamonti (1573-l643) e il saggio di Melchiorre Gioia
(1767-l829) Sul commercio di commestibili e caro prezzo del vitto, dove
legge il passo di una grida (legge emanata dal Governatore di Milano, chiamata
così perché veniva gridata nelle strade da pubblici ufficiali, al fine
di informare i cittadini, spesso analfabeti) del Seicento, che commina pene
severe a chi impedisca la celebrazione di un matrimonio.
Nell'arco di quaranta giorni Manzoni stende di getto
l'introduzione e i primi due moduli del romanzo che, in realtà, sta
enucleando nella mente da alcuni anni e che rappresenta una vera e propria
sfida, per la sua novità formale e di contenuto. Ricostruire il processo
di ideazione, stesura e revisione di questo capolavoro significa aprire anche
uno spaccato sulla vita culturale dell'Ottocento e calarsi in quell'affascinante fase della cultura italiana che segue e
sorregge le prime fasi del processo di unificazione nazionale.
Secondo l'opinione del direttore dei musei manzoniani di Lecco, prof. Gianluigi Daccò, quando il Manzoni disse nel suo romanzo d'essersi ispirato a vicende storiche trovate nel manoscritto di un anonimo, diceva la verità, solo che il protagonista di quelle vicende era un suo trisavolo, di nome Giacomo Maria, vissuto nella zona di Lecco nella prima metà del Seicento. I documenti si trovano nell'archivio di famiglia dello scrittore.
Ecco la storia, che praticamente
inizia verso il 1610. Lecco e
Nell'Archivio di Stato sono presenti gli atti di due lunghe e complesse vicende giudiziarie. Una riguarda il procedimento per omicidio contro Giacomo Maria, accusato di aver fatto assassinare un Arrigoni, per una questione di donne. Nell'altra l'imputato è sempre Giacomo Maria, ma l'accusa questa volta degli Arrigoni è quella di essere un untore, cioè di aver mandato in giro dei monatti a ungere persone o cose con materiale infetto, per distruggere la famiglia degli Arrigoni (la peste a Milano e a Lecco era scoppiata nel 1630). · Fu il Senato di Milano che, preoccupato del diffondersi della peste, incaricò il giureconsulto Marco Antonio Bossi di condurre una dettagliata indagine. Tre monatti furono arrestati e, sottoposti a tortura, confessarono chi era il mandante. Al termine del lungo processo essi furono condannati e giustiziati, ma Giacomo Maria, grazie alle sue protezioni, riuscì a cavarsela. Il tribunale aveva deciso un supplemento di indagini dalle quali poi risultò ch'egli era stato vittima della rivalità degli Arrigoni. I quali però non si arresero e nel 1640 riuscirono finalmente a spuntarla sul Manzoni.
Ora le analogie col romanzo sono molto evidenti:
Manzoni idea I Promessi Sposi leggendo una grida del
Seicento, riportata da Melchiorre Gioia. È la stessa trascritta nel
terzo modulo del romanzo, circa le pene a cui va incontro chi impedisca la
celebrazione di un matrimonio. 'Sai che cos'è stato che mi diede
l'idea di fare I Promessi Sposi? È stata quella grida che mi venne sotto
gli occhi per combinazione, e che faccio leggere, appunto, dal dottor
Azzecca-garbugli a Renzo dove si trovano, tra l'altro, quelle penali contro chi
minaccia un parroco perché non faccia un matrimonio. E pensai, questo sarebbe
un buon soggetto per farne un romanzo (un matrimonio contrastato), e per finale
grandioso la peste che aggiusta ogni cosa!', scriverà il Manzoni, anni dopo, al liastro Stefano Stampa.
Sono anni di lavoro intenso. Così Pietro Citati lo immagina intento nel
suo sforzo creativo: 'Fu il periodo più felice della sua vita:
l'unico, forse, felice ch'egli conobbe Era incuriosito e divertito da quello
che raccontava, e per la prima volta scoprì la gioia di proporre
avventure, di sciogliere intrighi, di giocare con i fatti persino la nevrosi
e gli incubi sembrarono allentare per qualche tempo la loro presa sopra di
lui'.
Come arriva al romanzo? Quali sono le urgenze interiori che lo avvicinano a
questo tipo di produzione, pressoché assente in Italia, considerata anzi con
una sorta di sufficienza dagli intellettuali, perché orientato verso un
pubblico borghese di non 'addetti ai lavori'?
In realtà Manzoni capisce che né la lirica
civile né il teatro soddisfano quel bisogno di comunicare 'ad ampio
raggio' che è una sua aspirazione profonda. Anzi, i personaggi del
teatro si trasformano quasi in simboli, si innalzano in una sfera astratta che
coinvolge la meditazione esistenziale: Adelchi è un eroe, chiuso nel
cerchio sublime del suo pessimismo. Quanti lettori possono riconoscersi in lui,
pur condividendone, i princìpi e le
aspirazioni?
Il romanzo, invece, si presenta al largo pubblico con un linguaggio più
semplice, una narrazione avvincente, personaggi verosimili per le loro
umanissime reazioni. Il genere del romanzo è l'immagine letteraria della
classe borghese che rappresenta un pubblico non d'élite
e tuttavia desideroso di letture.
Grazie a Fauriel, durante il secondo soggiorno
parigino, Manzoni ha conosciuto le opere dello
scozzese Walter Scott: con lui si parla di romanzo
storico perché le vicende sentimentali dei protagonisti sono calate in periodi
storicamente ben definiti e per lo più nel Medioevo, ricostruito con una
certa attendibilità. Ivanhoe è, all'interno della feconda
vena narrativa dello Scott, il romanzo più
celebre, pubblicato nel 1820. Come si può notare facilmente leggendolo, Ivanhoe
è impostato sulla contrapposizione di buoni perseguitati e di cattivi
persecutori, i quali troveranno il giusto castigo. L'amore, a lungo mortificato
e quasi annullato dalla prepotenza dei 'cattivi', alla fine si
risolve in nozze benedette. Alessandro Manzoni
comprende le enormi potenzialità letterarie contenute nel romanzo. In
Italia questo esperimento non è ancora compiuto. Circola solamente il
romanzo epistolare di Ugo Foscolo Ultime lettere di Jacopo Ortis (1817),
dal carattere parzialmente autobiografico, dove al tema dell'amore si unisce quello
della patria asservita allo straniero. Jacopo, deluso nelle speranze di sposare
l'amata e deluso perché con il trattato di Campoformio
del 1797
La prima stesura dei Promessi Sposi
è molto diversa dall'edizione definitiva, che vedrà la luce quasi
vent'anni dopo, nel
La novità che balza subito all'occhio è il fatto che sono
protagonisti personaggi di origine umile e l'ambientazione è di tipo
rurale. Niente cavalieri né damigelle, tornei, imboscate e duelli all'ultimo
sangue, ma solo situazioni che, trasposte in epoche diverse, potrebbero vedere
coinvolto chiunque. Certo non mancano vicende eccezionali, come la peste, la
guerra, il rapimento della protagonista, una clamorosa conversione: tuttavia Manzoni le presenta con estrema verosimiglianza. Infatti
crede nella necessità di rifondere, nel romanzo, il vero storico e
l'invenzione poetica: lo scrittore pensa che la letteratura, per avere
carattere educativo, non può rinunciare a proporsi come momento di
conoscenza e stimolo alla riflessione. Perciò deve prospettare
personaggi, vicende, situazioni, considerazioni, scene, dialoghi e soliloqui in
cui il lettore si possa riconoscere.
Come mai la scelta degli umili come protagonisti? E perché proprio un romanzo
storico? Sicuramente non è estranea la concezione cristiana del Manzoni e la sua opinione che la storia sia fatta dalla
gente comune, dalla massa popolare, piuttosto che dalle élites
al potere. Naturalmente si tratta di una narrazione, nella quale una vicenda
d'amore è inserita in un contesto illustrato con precisione e sul quale
l'autore si documenta con cura puntigliosa. A questo punto torniamo ancora una
volta al felice binomio di verità e fantasia che dà al romanzo
realismo e universalità.
Spieghiamoci meglio: l'ambientazione rigorosamente studiata e i tipi umani
scelti dall'autore rimandano alla realtà. I protagonisti non sono
creature eccezionali, ma gente semplice come se ne trova ovunque e in ogni epoca.
I personaggi 'storici', ossia quelli ricavati dalle cronache, sono
riprodotti senza che mai siano falsate (o 'romanzate') le fonti
storiche, ma proprio questi personaggi acquistano una suggestione straordinaria
quando l'autore cerca di illuminare la loro psicologia e immagina ciò
che le cronache non possono dire, ossia il loro dramma interiore, il fastello
di irrequietezze, di paure, di contraddizioni, le riflessioni, i compromessi
che li portano a scelte e decisioni sofferte. L'autore li ricostruisce dall'interno,
inventa il processo spirituale che li ha resi quelli che tramandano gli
storici. Per questa operazione letteraria deve fare appello alla sua arte
poetica, alla sua sensibilità, e, perché no?, anche alla sua esperienza
personale: chi potrebbe negare che, per ricostruire la faticosa conversione
dell'innominato, Manzoni non abbia ripensato alla
'sua' conversione?
Un'altra domanda: perché proprio il Seicento? Si può rispondere,
ricordando il patriottismo profondo del Manzoni. Nel
secolo della dominazione snola sul Milanese, egli ravvisa molte analogie con
il suo tempo, in cui
Il romanzo non soddisfa affatto
l'autore che lo dà in lettura agli amici Visconti e Fauriel.
Quest'ultimo gli suggerisce alcuni tagli sostanziali,
per modificare una struttura poco equilibrata, in alcune parti prolissa e
fuorviante. A questo punto, però, l'autore comprende che non si tratta
soltanto di scrivere una bella storia capitata in passato, di comporre un
romanzo che sappia divertire e intrattenere il lettore: sente dentro di sé
l'urgenza di trasmettere un messaggio universale e di dare alla sua opera
quella funzione educativa, già obiettivo dei suoi capolavori precedenti.
Occorre, quindi, guadagnare in sobrietà e chiarezza, dando ai personaggi
quel carattere particolare che consente di farsi portavoce di un'esperienza di
vita.
Nel 1825 i quattro volumi sono ridotti a tre, dall'intreccio più agile e
organico. Nel 1827 ecco l'edizione (detta 'ventisettana')
dei Promessi Sposi - Storia milanese del secolo XVII scoperta e rifatta da
Alessandro Manzoni: duemila copie sono esaurite
nell'arco di due mesi. Già il titolo è notevolmente suggestivo:
l'autore, infatti, si presenta nelle vesti di scopritore e rifacitore,
nel milanese in uso ai suoi tempi, di un antico manoscritto secentesco,
composto da un misterioso autore anonimo: non è un espediente molto
originale, se pensiamo che già Ludovico Ariosto l'ha usato per l'Orlando
furioso (1532) e Miguel de Cervantes
se ne è servito per il Don Chisciotte
(1605-l6015).
Che cosa è cambiato dal Fermo
e Lucia ai Promessi Sposi? Qualcosa di molto sostanziale. Non solo, infatti, i
personaggi modificano il loro nome (Fermo Spolino
diventa Renzo Tramaglino, filatore di seta, come
ricorda il cognome; Lucia Zarella si chiama Lucia Mondella; fra Galdino, il cappuccino che protegge i
fidanzati, assume il nome di padre Cristoforo; il Conte del Sagrato riceve la
misteriosa denominazione dell'innominato, Marianna De Leyva
diventa l'anonima monaca di Monza), ma sono introdotti tagli decisi alla
narrazione. Le vicende dei due personaggi storici per eccellenza (perché sono
il frutto di una pignola consultazione delle cronache del tempo), ossia
l'innominato e la monaca di Monza, sono sfumate e ridotte. Di queste ure il
lettore non conosce tutti gli antefatti, ma soltanto le notizie fondamentali:
in compenso è approfondito lo scandaglio psicologico, a tutto vantaggio
della poeticità e suggestione della loro personalità. Infatti la
storia della fanciulla monacata per forza nel Fermo e Lucia è
così vasta da costituire davvero 'un romanzo nel romanzo', che
spiazza il lettore e gli fa dimenticare il filo centrale della narrazione.
Inoltre, subito dopo l'interminabile odissea della monaca, ecco apparire il
tenebroso Conte del Sagrato, anche lui con una lunghissima biografia alle
spalle, vero excursus in cui il lettore si immerge nel mondo violento dei
sicari secenteschi. Però ne deriva un grosso inconveniente: quando, dopo
ine e ine, rie il povero Fermo, che poi è il protagonista,
sembra quasi un intruso piovuto non si sa da dove. A ciò si aggiunge,
come osservano gli amici di Manzoni, che emerge un
eccessivo compiacimento per gli aspetti truculenti, torbidi, violenti dei
personaggi. Per esempio l'autore illustra con esagerato realismo l'agguato del
Conte a un nemico sul sagrato della chiesa, oppure si dilunga nel descrivere
l'assassinio di cui la monaca si rende complice tra le mura del convento.
Tacendo i torbidi retroscena della monaca e lasciando intuire solamente il
passato dell'innominato, il romanzo acquista maggiore eleganza e
omogeneità stilistica, mentre i personaggi risultano più
misteriosi, interiormente ricchi, sfaccettati, verosimili e forti di una
incredibile capacità di ricreare la suspense.
Solo don Rodrigo rimane immutato, anzi, risulta peggiore. Sembra che Manzoni voglia davvero fare di lui l'incarnazione del male
di tutto un secolo. Nel Fermo e Lucia, infatti, egli è scosso da una
vera passione per la ragazza e vive una tremenda crisi di gelosia nei confronti
di Fermo. La sua persecuzione, in fondo, nasce da un sentimento che potrebbe,
se non giustificarla, renderla umanamente comprensibile. Nella redazione
successiva, invece, gli ostacoli che frappone alle nozze nascono da una futile
scommessa stipulata con il cugino Attilio, superficiale e prepotente come lui.
Alcune scene ad effetto, come la morte di don Rodrigo, che impazzisce per il
contagio della peste e si getta in una furibonda cavalcata nel lazzaretto,
vengono riequilibrate, smorzate nella suspense, a tutto vantaggio dell'armonia
della narrazione.
Anche dal punto di vista strutturale I Promessi Sposi risultano in parte
modificati, con lo spostamento di alcuni blocchi narrativi: i due episodi della
monaca di Monza e dell'innominato vengono distanziati con l'inserimento delle
avventure di Renzo nei tumulti di Milano.
Nell'edizione del Ventisette il Manzoni attua anche
tagli decisi nelle parti più specificatamente metodologiche e
storiografiche: abolisce la dissertazione sul problema della lingua del romanzo
e toglie tutta la documentazione dei processi agli untori (presunti
responsabili della diffusione della peste a Milano) che ha rinvenuto negli atti
riportati dalle cronache milanesi. Questa documentazione, peraltro di grande
interesse, verrà enucleata e rielaborata nella Storia della colonna
infame, pubblicata nel
Non mancano, infine, le aggiunte: poche, ma utili per infondere al romanzo quel
tono di realismo, arricchito da un umorismo sottile che tempera la
drammaticità di alcuni episodi. Per esempio l'autore inventa il
soliloquio di Renzo che, in fuga verso Bergamo, sta cercando un facile guado
dell'Adda. È un capolavoro di introspezione psicologica: chi non ha mai
parlato da solo, in maniera concitata e aggressiva, quando ha rimuginato fra sé
un torto subito?
Uno dei primi entusiasti recensori del romanzo è Wolfgang
Goethe, ma seguono rapidamente giudizi molto positivi
di scrittori francesi come Stendhal (1783-l842), Alphonse de Lamartine e di autori
che languiscono nelle carceri austriache, come Silvio Pellico ('quanto
consola il vedere in Manzoni il cristiano senza
pusillanimità, senza servilità, senza transazioni co' pregiudizi dell'ignoranza', scrive dallo Spielberg nel 1829).
Gli anni compresi tra il 1827 e il 1840 sono dedicati a una attenta revisione
linguistica dell'opera. L'autore è da tempo interessato alla questione
della lingua , che in Italia è dibattuta sin dal XIII secolo: se ne
occupa Dante Alighieri (1265-l321) nel De vulgari eloquentia, se ne
occupano importanti trattatisti del Cinquecento. Infatti gli Italiani, divisi
politicamente, si sentono uniti nella cultura e nell'Ottocento aspirano a una
lingua letteraria che sia nazionale. La tradizione addita nel fiorentino
l'idioma più raffinato della penisola.
Perciò il Manzoni, che vuole fare del suo
romanzo un'opera italiana, e non lombarda, mobilita la famiglia, per trasferirsi
a Firenze qualche tempo. Ha bisogno di 'orecchiare' il toscano
parlato dalle classi colte, per frequenti e determinanti correzioni al
linguaggio della narrazione
Tredici persone, tra cui cinque
domestici, stipate in due carrozze, nel luglio 1827 intraprendono il viaggio
per quella che il Manzoni chiama una
'risciacquatura in acqua d'Arno'. Nel capoluogo toscano Manzoni riceve un'accoglienza festosa, mentre lo stesso
granduca Leopoldo II lo convoca a corte.
Gli intellettuali che si raccolgono nel Gabinetto scientifico-letterario di
Giampiero Viesseux vedono nel Manzoni
il rappresentante più accreditato del Romanticismo nostrano. Il suo
romanzo non è l'unico nel panorama italiano, poiché negli anni di
pubblicazione dei Promessi Sposi sono dati alle stampe altri romanzi storici,
scritti sul modello delle opere di Walter Scott:
proprio a Firenze escono, di Francesco Domenico Guerrazzi
(1804-l873), La battaglia di Benevento, L'assedio di Firenze e Beatrice
Cenci. Ricordiamo anche Marco Visconti, di Tommaso Grossi
(1790-l853), Ettore Fieramosca, di Cesare
D'Azeglio, Margherita Pusterla di Cesare Cantù (1804-l895).
Eppure nessuno si sognerebbe di negare il primato ai Promessi Sposi. A Firenze
Alessandro Manzoni si lega d'amicizia con Giuseppe
Giusti e Gino Capponi, mentre conosce, senza trarne grande piacere, Giacomo
Leopardi (1798-l837) e Giambattista Niccolini
(1782-l861). Conosce anche una fiorentina 'verace', Emilia Luti, che lo segue a Milano, come istitutrice della nipotina
Alessandra D'Azeglio, diventa la sua più fedele collaboratrice nel
faticoso lavoro di revisione linguistica che porterà all'edizione del
1840. Quando uscirà l'edizione illustrata dei Promessi Sposi, il Manzoni gliene regalerà una copia con questa dedica:
'Madamigella Emilia Luti gradisca questi cenci
da lei risciacquati in Arno, che Le offre, con affettuosa riconoscenza,
l'autore'.
Fermo restando che nella Quarantana rimane inalterata
la trama e non sono affatto modificati i personaggi, vediamo di mettere a punto
in che cosa consiste questa revisione linguistica. Nel Fermo e Lucia il Manzoni ha usato una lingua derivata dalla sua abitudine a
scrivere in poesie e in parte anche tradotta dal francese. Ne è derivato
(sono parole sue!) un 'composto indigesto di frasi un po' lombarde, un po'
toscane, un po' francesi, un po' anche latine' cui, nella Ventisettana, viene sostituito il toscano letterario, con
l'aiuto del Vocabolario milanese-italiano di Francesco Cherubini, il Dizionario
francese-italiano e il Vocabolario della Crusca, nell'edizione 1729-38.
È un toscano libresco che non soddisfa l'autore, il quale crede nel
romanzo come genere letterario che si orienta a un lettore dinamico, calato
nella sua epoca, operativo, incisivo nella società e non certo
'topo di biblioteca'. Il viaggio a Firenze e la collaborazione della Luti hanno proprio lo scopo di 'insegnare' al Manzoni l'uso del fiorentino 'borghese', parlato
dalle persone colte, con le sue sfumature ironiche, la sua spigliatezza, la sua
armonia e musicalità. L'autore vuole superare il divario tra lingua
parlata e lingua scritta. Non è un capriccio, ma sente che è in
gioco un elemento importante circa il futuro del popolo italiano: 'per
nostra sventura - aveva scritto anni prima al suo amico Fauriel
(in una lettera del 9 febbraio1806) - lo stato dell'Italia divisa in frammenti,
la pigrizia e l'ignoranza quasi generale hanno porto tanta distanza tra la
lingua parlata e la scritta che questa può dirsi quasi morta'. Si
tratta di portare a dignità letteraria la lingua d'uso.
Il suo obiettivo, si è detto, è di raggiungere un pubblico vasto,
di non elevata cultura ma sinceramente interessato. D'altra parte è
proprio per questo pubblico che ha scritto il romanzo, genere letterario tenuto
in scarsa considerazione dagli intellettuali italiani che, prima dei Promessi
Sposi, ancora lo ritengono proprio di persone poco acculturate.
L'opera del Manzoni mostra l'assurdità di
questo pregiudizio, ma l'autore deve compiere il grosso sforzo di aprire una
strada, anche sul piano del linguaggio, poiché deve inventarlo. Dopo tredici
anni di rimaneggiamenti, finalmente l'editore Redaelli
di Milano può far uscire I Promessi Sposi a dispense, nella sua
redazione definitiva. La pubblicazione si conclude nel 1842, riscuotendo un
grande successo grazie, ovviamente, anche alla forma linguistica, in cui Manzoni riesce a superare la discrepanza tra lingua scritta
e lingua parlata e appronta lo strumento espressivo tanto atteso dai Romantici
per una letteratura nazional-popolare. Non di rado l'autore dialoga con il
pubblico, chiamandolo 'i miei venticinque lettori' o interrogandolo giovialmente su qualche problema, presentato in modo
ironico. È un modo di costruire un rapporto immediato, che contribuisce
a sottolineare l'intento educativo del romanzo, finalmente riconosciuto nella
sua dignità di genere letterario a tutti gli effetti. I critici
sottolineano la vivacità dei dialoghi, la pluralità dei registri,
che passano dal tono amichevole e colloquiale a quello solenne e persino oratorio
(per esempio del cardinal Borromeo).
Manzoni sa introdurre una garbata ironia laddove la
tensione emotiva si fa troppo opprimente, ma sa anche assumere la
severità dello storico che riferisce avvenimenti con l'indicazione delle
fonti. Non meno importante è la capacità mimetica dell'autore che
sa mettere in bocca ai personaggi esattamente le parole e il tono giusto, quasi
suggerendo al lettore anche l'intuizione del gesto che lo accomna. Quando il
conte, zio di don Rodrigo, un 'pezzo grosso' del Consiglio segreto,
accoglie nel suo studio il padre provinciale, responsabile dei cappuccini del
ducato, per decidere la sorte di padre Cristoforo, il Manzoni
dice che 'il magnifico signore fece sedere il padre molto reverendo'
(cap. XVIII) e l'ampollosità della frase sottolinea la
cerimoniosità dei due interlocutori.
Quando don Ferrante, nobile e ricco intellettuale milanese che ospita Lucia,
viene presentato al lettore, l'autore sottolinea, circa i rapporti con la
moglie impicciona : 'Che, in tutte le cose, la signora moglie fosse la
padrona, alla buon'ora; ma lui servo, no' (cap.
XXVII), sottolineando, con la vivacità della negazione, la dimensione
patetica in cui si inserisce il personaggio. E così, tanto per
sottolineare un toscanismo, è da notare questa espressione: alla domanda
di Lucia se rivelerà a padre Cristoforo il progetto di forzare don
Abbondio con il matrimonio 'a sorpresa', '- Le zucche! - '
(cap. VII), risponde Renzo, frase che equivale a un 'Fossi matto!',
ma ha sicuramente un'incisività, una pregnanza e un'arguzia molto
maggiori.
La lingua manzoniana sa adattarsi alla psicologia dei personaggi: sa farsi
allusiva laddove due 'politiconi' organizzano una piccola congiura;
sa diventare appassionata ma non priva di humour quando narra le peripezie di
Renzo in fuga; sa assumere il tono severo di chi, senza giudicare, non
condivide scelte educative improntate all'orgoglio e all'egoismo; sa rispettare
talune caratteristiche del personaggio, come la reticenza di Lucia a
corrispondere verbalmente al fidanzato; sa evocare l'allucinazione dell'incubo,
nel sogno di don Rodrigo appestato, sa trasmettere il sollievo di chi ha
finalmente ritrovato chi cercava; sa riportare con lucidità cronache del
passato; sa descrivere, con pochi tratti sobri e aggettivi 'mirati',
paesaggi che sono lo specchio dello stato d'animo dei personaggi.
È necessario sottolineare l'importante scelta artistica che sta alla
base di questa 'nuova' lingua manzoniana. Prima dei Promessi Sposi il
linguaggio veniva modulato secondo l'imitazione dei classici, sulla base della
loro autorità. Il romanzo, invece, propone nella redazione definitiva
una lingua viva che ha, però, dignità letteraria. Il criterio che
il Manzoni segue per coniare questa lingua è
quello, per usare le sue parole, dello 'scrivere come il parlare',
per la realizzazione di una prosa duttile, comunicativa, attuale e italiana.
Sì, perché nelle intenzioni più riposte del 'patriota' Manzoni c'è anche questa esigenza, che costituisce
un significativo contributo nel processo di unificazione nazionale. Se con la
'Ventisettana' lo scrittore presenta un
romanzo indirizzato al pubblico milanese, con la 'Quarantana'
realizza l'ambizioso progetto di parlare a un pubblico italiano.
La vicenda si svolge in Lombardia
tra il 1628 e il 1630, al tempo della dominazione snola. A don Abbondio,
curato di un piccolo paese posto sul lago di Como, viene imposto di non
celebrare il matrimonio di Renzo Tramaglino con Lucia
Mondella, della quale si è invaghito Don
Rodrigo, il signorotto del luogo. Costretti dall'arroganza dei potenti a
lasciare il paese natale con l'aiuto del buon frate Cristoforo, Lucia e la
madre Agnese si rifugiano in un convento di Monza, mentre Renzo si reca a
Milano con il vago proposito di ottenere in qualche modo giustizia. Don Rodrigo
fa rapire Lucia dall'Innominato, un altro signore prepotente e rotto a tutti i
delitti, ma la vista della fanciulla così ingiustamente tormentata e
l'arrivo del cardinale Borromeo provocano al losco
sicario una crisi di coscienza: invece di consegnare la fanciulla a Don
Rodrigo, l'Innominato la libera. Intanto Renzo è arrivato a Milano
mentre il popolo tumultua per la carestia e, scambiato per uno dei capintesta della sommossa, è costretto a fuggire a
Bergamo.
Potremmo definire 'a cannocchiale' la struttura dei Promessi Sposi, per l'ampliamento della prospettive che, dai primi moduli chiusi nell'ambito ristretto del paese dei protagonisti, coinvolge spazi sempre più ampi e fatti storici di portata europea.
Potremmo aggiungere che la struttura a cannocchiale implica anche una struttura 'ad anello', poiché la storia parte dal borgo, si snoda lungo una serie di direttrici spaziali che coinvolgono l'intero ducato di Milano, ma ritorna al borgo, dove le nozze vengono finalmente celebrate, con due anni di ritardo sul programma iniziale. Proviamo a visualizzare il percorso:
moduli |
I-VIII |
|
IX-XVII |
XVIII-XXXVI |
XXXVII-XXXVIII |
Avvenimenti di Renzo |
Nozze mancate al borgo |
Renzo: Milano e poi Bergamo |
Guerra - Carestia - Peste |
ritorno al borgo |
|
Avvenimenti di Lucia |
Lucia a Monza |
Lucia al castello dell'innominato |
Lucia a Milano e al lazzaretto |
nozze al borgo |
|
Come si può notare l'intreccio,
(ossia la disposizione degli avvenimenti scelta dall'autore) è piuttosto
complesso, perché tiene conto della necessità di elaborare flash-back
che illustrino al lettore alcuni antefatti. Perciò non sempre coincide
con la naturale sequenza dei fatti, che si chiama fabula. Lo vediamo, ad
esempio, nei punti in cui l'autore racconta la vita di alcuni personaggi. Nel IV
modulo viene illustrata la giovinezza di padre Cristoforo e un tragico
episodio, fondamentali per comprenderne il carattere e le scelte importanti che
stanno alla base del suo atteggiamento in difesa degli umili. Allo stesso modo
due moduli (il X e l'XI) raccontano la lunga serie di maneggi che riescono a
costringere Gertrude alla clausura nel convento di Monza; la storia dell'innominato
viene sintetizzata (cap. XIX) per meglio illustrare la portata della sua
'conversione', mentre la vita del cardinal Borromeo
viene proposta (cap. XXII) quasi come il modello di comportamento cristiano. Si
aggiungono le digressioni circa le condizioni del Milanese nel Seicento, la
situazione sociale, le classi e il sistema di governo. Ancora la narrazione
viene interrotta per spiegare la causa dei tumulti per il caro-pane, la causa
della calata dei lanzichenecchi, il diffondersi della peste tra l'ignoranza,
l'incompetenza e la superstizione sia della popolazione che degli addetti alla
tutela della salute pubblica.
Nei confronti della vicenda l'autore si propone come narratore onnisciente,
ossia al di sopra della storia, già al corrente di 'come
andrà a finire' e quindi in grado di formulare giudizi,
sdrammatizzare con toni pacati, intervenire ironizzando sulle reazioni emotive
dei personaggi. La sua è una focalizzazione
zero, in quanto, essendo al di fuori degli avvenimenti, e osservandoli
criticamente, come un regista che dirige l'allestimento di una scena, non
assume il punto di vista di alcun personaggio, ma valuta con
imparzialità.
Talvolta l'autore interviene direttamente, apostrofando il pubblico:
'Pensino ora i miei venticinque lettori' (cap. I) oppure
esprimendo un chiaro giudizio morale: 'Il principe (non ci regge il cuore
di dargli in questo momento il titolo di padre)'. (cap. X); o ancora
come quando introduce l'ironia (che corrisponde a un giudizio, pur sfumato e
temperato) per sottolineare la denuncia di Agnese all'arcivescovo delle scuse
addotte da don Abbondio per rimandare le nozze: 'non lasciò fuori
il pretesto de' superiori che lui aveva messo in
campo (ah, Agnese!)' (cap. XXIV).
Quella dell'autore però, non è l'unica voce narrante del romanzo:
non dimentichiamo la finzione del manoscritto. Infatti Manzoni
immagina di trascrivere un libro elaborato da un Anonimo e, all'occasione, si
trincera dietro le responsabilità di quello. Per esempio, quando non
vuole rivelare il nome dell'innominato (che, in tal modo, risulta più
misterioso e suggestivo), dice, riferendosi anche alla località in cui
sorge il castello: 'Tale è la descrizione che l'anonimo fa del
luogo: del nome, nulla; anzi, per non metterci sulla strada di scoprirlo, non
dice niente del viaggio di don Rodrigo'. Infatti il signorotto sta
recandosi dall'innominato per chiedergli di rapire Lucia dal convento di Monza.
Capita, però, che l'autore si cali nei personaggi, assumendone il punto
di vista: non è la posizione prevalente, ma ogni tanto succede che il
narratore adotti una focalizzazione interna. Lo
notiamo nei monologhi di Renzo in fuga: 'Io fare il diavolo! Io ammazzare
tutti i signori! Un fascio di lettere , io!' (cap. XVII).
I rapporti fra i personaggi si
uniformano a quello che è lo schema consolidato nel romanzo storico e
nel romanzo d'avventura: accanto all'eroe (Renzo) e l'antagonista (don
Rodrigo) e l'oggetto del desiderio (Lucia) che li contrappone. Ecco, poi, una
folta schiera di sostenitori, dell'una o dell'altra parte, i 'buoni'
e i 'cattivi'. Tuttavia, il discorso si complica perché la notevole
capacità di penetrazione psicologica del Manzoni
impedisce ai personaggi di assumere connotazioni nette, definite, unilaterali:
nessuno (salvo, forse, don Rodrigo e il suo luogotenente, il bravo Griso) è 'completamente cattivo', mentre
nemmeno un sant'uomo come il cardinal Federigo
risulta perfetto: anche lui, infatti, ha qualche difettuccio e commette errori.
Così troviamo dei 'cattivi' che si trasformano, come
l'innominato che assume, agli occhi della popolazione, l'aspetto d'un santo
energico, grande nel bene come lo è stato nel male.
Analogamente la condotta di eroi positivi come Renzo non va immune da errori e
da ambiguità (si ubriaca, parla a vànvera),
mentre nel passato di un campione della carità e del perdono come padre
Cristoforo campeggia un omicidio.
Inoltre non è semplice stabilire 'da che parte stanno' alcuni
aiutanti, perché la loro personalità si evolve nel corso della storia.
Tornando all'innominato, notiamo che inizialmente è aiutante di don
Rodrigo (rapisce Lucia per lui!), ma poi, ravvedutosi, non vede l'ora di
liberare la ragazza!
E la monaca di Monza? Comincia schierandosi a difesa della sicurezza di Lucia e
poi, per cause di forza maggiore, si fa complice del suo rapimento! Quanto a
don Abbondio, nonostante i suoi sforzi di essere neutrale, di fatto sostiene
gli squallidi propositi di don Rodrigo. Ecco uno schema:
Eroe: Renzo |
Antagonista: don Rodrigo |
Oggetto del desiderio: Lucia |
|
Aiutanti dell'Eroe: Padre Cristoforo, Agnese, Perpetua, Bortolo, don Ferrante, donna Prassede, il sarto e sua moglie, Federigo Borromeo, l'innominato, ecc. |
Aiutanti dell'Antagonista: Griso, conte Attilio, Nibbio, i bravi, l'innominato, conte zio, monaca di Monza, ecc. |
Potremmo comunque raggruppare i
personaggi secondo lo schema vittima-oppressore, anche questo molto usato nel
romanzo del Settecento e dell'Ottocento: le azioni sono collegate secondo la
logica che regge tutto l'intreccio dei Promessi Sposi: Renzo e Lucia sono le
vittime, mentre Don Rodrigo l'oppressore. I suoi 'alleati'
(innominato, cugino Attilio, conte zio) con i bravi e tutti i
'parassiti' (Azzecca-garbugli, podestà di Lecco) che siedono
alla sua tavola, sono gli aiutanti dell'oppressore.
Invece ure come padre Cristoforo, il cardinal Borromeo,
Agnese e persino l'energica Perpetua, governante di don Abbondio, o gli amici
al paese, come Tonio e il fratello 'tocco' Gervaso, possono
annoverarsi fra gli aiutanti delle vittime. Renzo e Lucia, infine, hanno anche
dalla loro alcuni personaggi che li ospitano, danno protezione, lavoro,
sicurezza, come il cugino Bortolo che abita a Bergamo e la coppia di nobili
milanesi (don Ferrante e donna Prassede, anche se molto a modo loro) che
accoglie Lucia dopo la sua liberazione. Possiamo visualizzare quanto si
è detto in questo schema:
Vittime: |
Oppressori: |
Aiutanti delle
vittime: |
Aiutanti dell'oppressore: |
Ospiti delle
vittime: |
|
I personaggi, poi, possono essere
ulteriormente suddivisi in due categorie: statici e dinamici, da intendere non
solo nel senso che nel corso della storia non mutano e restano fedeli a se
stessi nel corso del tempo, ma anche della staticità o dinamicità
rispetto allo spazio, se cioè restano fermi in un determinato luogo o
sono portati dalle vicende a decidere autonomamente di spostarsi (in questo
senso Lucia è statica perché 'viene spostata' contro la sua
volontà e diviene dinamica solo alla fine quando decide insieme al
marito di abbandonare il paesello per andare a Bergamo, ma anche qui con una
buona dose di staticità, perché in fondo segue il marito).
Sono personaggi statici, (o piatti) quelli che non modificano la propria
personalità nel corso della narrazione, come don Abbondio, definito
'eroe della paura' e considerato da Luigi Pirandello
veramente 'umoristico'. Egli, infatti, proprio perché si comporta in
una maniera diversa da come si dovrebbe comportare un normale parroco, non
solamente diverte il lettore, che sorride alle sue eccessive paure, alla sua pavidità di coniglio, al suo egocentrismo, alle sue
ansie per la propria tranquillità, alle meschinità messe in atto
per non compiere scomodi doveri, ma anche riflette sulle proprie piccinerie: in
fondo don Abbondio è il personaggio nel quale meglio si riflettono i
difetti degli uomini e, soprattutto, le paure e gli egoismi dei mediocri.
Lucia è un altro personaggio che rimane fedele a se stessa. Il Manzoni ne fa, riguardo a talune vicende, una specie di
strumento della Provvidenza Divina. La sua presenza al castello
dell'innominato, alcune parole che dice impulsivamente, circa il perdono di
Dio, che viene concesso anche solo per un'opera di misericordia, hanno un
effetto dirompente sul truce signore, in crisi di identità e, ancora
inconsciamente, desideroso di mutar vita, stanco di commettere violenze contro
innocenti. Lucia, con la sua umiltà, sembra veicolo della luce della
Grazia Divina, ma non tutti i personaggi sanno accoglierla. Anche la monaca di
Monza, infatti, si affeziona alla ragazza e si consola al pensiero di poterle
fare del bene, lei che conduce, benché religiosa, un'esistenza colpevole.
Tuttavia non ha il coraggio di andare fino in fondo nel suo sforzo di
rinnovamento e, a differenza dell'innominato, non riesce a far tesoro del buon
influsso che emana la presenza della fanciulla.
Anche don Rodrigo è un personaggio statico: lo troviamo sempre nel suo
palazzotto, dal quale dirige le operazioni per far modulare Lucia; a un certo
punto, vista la sua impotenza, è costretto a spostarsi nel castellaccio
dell'innominato per chiedere aiuto, e alla fine viene letteralmente trascinato
al lazzaretto, dove finisce la sua miserabile esistenza: in questo senso lo
possiamo definire come il simbolo dell'eterna staticità del male nella
sua essenza. Ai personaggi statici (o piatti), si contrappongono i personaggi a
tutto tondo, o dinamici, ossia quelli che si evolvono e cambiano nel corso
della narrazione, come l'innominato oppure Renzo. Il dinamismo di Renzo non
riguarda soltanto la sua trasformazione da giovane ingenuo in accorto
imprenditore, attraverso le numerose peripezie a Milano, durante i tumulti e
poi all'epoca della peste. Renzo è dinamico anche perché le circostanze
lo portano a percorrere, a piedi, chilometri e chilometri. Attraverso la sua
persona, l'azione narrativa stessa acquista dinamismo e si sposta da un luogo
all'altro del Milanese: è legittimo definire una vera Odissea, quella
del giovane che, convinto di lasciare il paesino per trovare ospitalità
a Milano per qualche tempo, si trova al centro di fatti più grandi di
lui. Inseguito dagli sbirri, che lo credono una spia responsabile dei tumulti,
fugge in direzione di Bergamo. Non è un percorso facile, il suo!
Ricercato dalla polizia, deve 'dribblare' astutamente la
curiosità di osti e avventori nelle taverne dove si ferma a riposare,
deve trovare un riparo per la notte e guadare l'Adda. Poi, quando l'anno
successivo torna al paese in cerca di Lucia, viene a sapere che si trova a
Milano, ospite di una nobile famiglia. Eccolo ancora nel capoluogo lombardo,
scambiato prima per un untore e poi per un monatto, e in questa veste raggiunge
Lucia che è ricoverata al lazzaretto: anche in questo luogo di dolore
non mancano avventure. Ritrovata la fidanzata, comincia un andirivieni tra il
paese, Bergamo (dove torna per allestire la casa) e Pasturo, dove Agnese si
è rifugiata per evitare il contagio. Quanto camminare! Ma non è
soltanto un espediente per dare movimento all'azione. I viaggi di Renzo hanno
un significato più profondo, perché questo personaggio è davvero
una guida, per il lettore. In sua comnia subisce l'ingiustizia di don Rodrigo
e del dottor Azzecca-garbugli, si cala nei tumulti di Milano e vi partecipa
come testimone oculare, con lui si commuove e inorridisce di fronte alla
condizione degli appestati, e gioisce della forza della pioggia purificatrice,
come se vivesse in prima persona gli avvenimenti, osservando i fatti attraverso
gli occhi del giovane. Lo notiamo da molte osservazioni di Renzo:
'Spiccava tra questi, ed era lui stesso uno spettacolo, un vecchio mal
vissuto, che, spalancando due occhi affossati e infocati,
contraendo le grinze a un sogghigno di compiacenza diabolica [] agitava in
aria un martello, una corda, quattro gran chiodi, con che diceva di voler
attaccare il vicario a un battente della sua porta, ammazzato che fosse' (cap.
XIII). La rappresentazione non è soltanto viva e interessante, ma
trasmette anche l'indignazione del giovane, che emerge dal giudizio contenuto
nelle espressioni 'mal vissuto' e 'compiacenza diabolica'.
Inoltre la commozione del giovane, di fronte alle sofferenze dei malati,
contagia il lettore e gli fornisce le coordinate per 'muoversi'
anch'egli, in quella tragedia, con un preciso stato d'animo.
Un'ultima osservazione circa i personaggi storici. Sono ure fortemente
suggestive: l'innominato è modulato sull'immagine di Bernardino Visconti,
feudatario di Ghiara d'Adda, di cui parlano le
cronache milanesi del Seicento. Si sa che, per merito di Federigo Borromeo, cambiò vita e, dopo aver congedato i suoi
bravi, visse onestamente gli ultimi anni della sua esistenza.
La monaca di Monza era Marianna De Leyva, lia di
don Martino, costretta alla monacazione con il nome di suor Virginia. Anch'ella
si pentì, come narrano gli storici e, dopo aver subito un processo a
causa delle sue malefatte (tresche amorose e un omicidio), venne murata viva e
morì in odore di santità. Questi due personaggi sono
'rivisitati' liricamente dal Manzoni.
Ciò che di loro tramandano le cronache viene illuminato poeticamente e
viene messo in luce quanto la storia non può dire: le segrete speranze,
i timori, le pressioni psicologiche, il disagio esistenziale, il bisogno di
amore, di bontà, di chiarezza nella vita, di dialogo aperto con i propri
simili, lo sforzo di non lasciarsi sopraffare dalla prepotenza altrui.
Anche il gran cancelliere Antonio Ferrer,
protagonista di una delle più vivaci sequenze durante i tumulti di
Milano, viene presentato con le sue caratteristiche storiche ma anche nelle sue
connotazioni psicologiche. Operando con la fantasia l'autore immagina il suo
atteggiamento umile e cortese di fronte alla folla in rivolta e gli pone in
bocca frasi in due lingue: in snolo dice ciò che pensa veramente, in
italiano pronuncia frasi di circostanza per ammansire i Milanesi inferociti:
'è vero, è un birbante, uno scellerato' dice alla
gente, ma subito, chinato sul vicario di provvisione che sta portando in salvo,
mormora in snolo: 'Perdone, usted' (cap. XIII).
Le cronache non riportano questo particolare che colora di tinte fortemente
ironiche tutta la vicenda: l'autore ha fatto appello alla sua immaginazione, a
quella che chiama invenzione e che serve a compenetrare il vero storico per
dare ai personaggi l'umanità che non rimane impressa nelle ine delle
fonti.
Il critico ottocentesco Francesco De Sanctis
(1817-l883), in particolare nel saggio I Promessi Sposi, pubblicato nel
La riflessione sul Seicento, però, non è solamente dettata
dall'interesse di Manzoni per la storia. Manzoni vuole aiutare i suoi contemporanei a prendere
coscienza degli squilibri politico-sociali, delle gigantesche ingiustizie e
dell'inefficienza burocratico-amministrativa che ha
frenato in passato, ma frena anche al presente, il processo di crescita
economica della Lombardia insieme all'unificazione nazionale degli stati
italiani. È un invito agli intellettuali del primo Ottocento a
riflettere sulla necessità di un ricambio di classe al potere: la
borghesia sembra la più idonea a superare la crisi, a promuovere una
nuova realtà, nella quale i diritti civili siano rispettati e le energie
popolari possano proficuamente esplicarsi, senza soprusi, violenze, privilegi
mortificanti, intrallazzi.
Don Rodrigo
Signorotto invaghitosi di Lucia che, solo per capriccio, vuole avere per sé. Egli rappresenta l'espressione umana e il simbolo del suo secolo; non riveste una carica particolare, ma è uno dei tanti nobilotti dell'epoca, uno qualsiasi. Il suo carattere, per niente deciso e fermo, riflette passivamente e fedelmente le magagne e le ingiustizie sociali dell'epoca in cui è chiamato a vivere. Di lui non viene data una descrizione vera e propria, né fisica né morale, sebbene sia lui il responsabile di tutta la vicenda; noi lo conosciamo attraverso i simboli e gli attributi della sua forza e della sua autorità, il suo palazzo, i suoi servi e le sue azioni. Cattivo genio di tutta l'azione, sicuro che la sua posizione sociale e gli appoggi di persone influenti gli garantiscono l'impunità, conosce solo una legge, quella del più forte. Pur essendo malvagio, non ha il coraggio delle sue azioni, preoccupato dalle conseguenze che esse hanno. Dopo le minacce di Padre Cristoforo, probabilmente rinuncerebbe volentieri al piano malvagio, ma persevera solo per questione di puntiglio e orgoglio vedendosi costretto a ricorrere all'aiuto di chi è più malvagio di lui, di chi veramente sa fare il male, l'Innominato. Purtroppo la conversione di quest'ultimo capovolge la vicenda e Don Rodrigo sarà cpstretto ad andarsene, a nascondersi, fino a quando la peste non lo coglierà e lo condurrà alla morte nel lazzaretto di Milano.
Curato del paese di Renzo e Lucia, dovrebbe unirli in matrimonio ma, minacciato da Don Rodrigo, cerca di evitare a tutti i costi di celebrare le nozze e lo farà solo alla fine del romanzo, quando ogni pericolo sarà svanito. La vita di Don Abbondio si svolge tutta nell'orbita di Don Rodrigo e sotto l'influsso del suo principale difetto, la paura. La sua storia non è altro che la storia della sua paura e di tutte le manifestazioni attraverso le quali essa si rivela. Gretto, meschino, egoista fino all'impossibile, non è uomo cattivo, ma nemmeno buono; egli vive come in un limbo tormentato dalla paura; vede ostacoli e insidie anche dove non ci sono e l'angoscia e la preoccupazione di riuscire ad uscirne indenne lo rende incapace di prendere posizione tra il bene e il male. Anche quando, per un breve attimo, le parole del Cardinale, sembrano risvegliare in lui una luce, questa non riesce a giungere agli strati superiori della sua coscienza. Il suo carattere, oltre a creare vari spunti di comicità, non è privo di una certa grettezza che egli rivela per la soddisfazione dello scampato pericolo.
La monaca di Monza, che accoglie Lucia nella sua fuga dal paese natio per sfuggire a Don Rodrigo, è un personaggio che l'autore descrive ampiamente come se nel racconto della vita della donna egli cerchi in qualche modo di trovare una giustificazione al male da lei fatto e al male che ancora farà. La vocazione imposta e non scelta rende Gertrude donna infelice e soggetta a peccare ma allo stesso tempo in ogni suo gesto si ravvisa come un senso di colpevolezza che serpeggia in mezzo ai grovigli e alle passioni che agitano il suo spirito. E' proprio questo sordo conflitto tra abiezione e senso di colpa che danno al personaggio della Monaca di Monza la sua tragicità. Ella non ha ancora superato i problemi che aveva da bambina, problemi nati dal vedersi negare la vita cui era destinata per la sua indole e dal non essere stata capace di lottare per far valere i suoi desideri. L'invidia che provava da bambina per le sue comne più fortunate di lei la prova ancora per chi, come Lucia, conduce una vita nel mondo a lei precluso e tale invidia la porta a compiangersi e a vendicarsi come può, usando la sua autorità e compiendo il male.
Numerose sono le tematiche del
romanzo: spicca, in primo piano, il tema del rapporto fra libertà e
condizionamento, in cui si innestano i motivi dell'amore, della prevaricazione,
della paura, che concorrono a sviluppare quello unificante del matrimonio
mancato. La libertà è il valore su cui si incardina la morale
cristiana, ma viene cancellata da disvalori, primo
fra tutti il conformismo (come quello di don Abbondio e di Gertrude, per i
quali si parla giustamente di 'cadute senza riscatto', e soprattutto
di donna Prassede, alla quale Manzoni riserva alla
fine una stoccata cattiva: 'Di donna Prassede, detto che è morta,
è detto tutto').
Importante è anche il tema del contrasto fra ideale e reale, ossia fra
come dovrebbe essere la società e come, invece, di fatto è. Ecco,
allora, ire i motivi del privilegio che tocca solo a una piccola
categoria di persone, dell'ingiustizia che colpisce tutti coloro che patiscono
l'oppressione dei privilegi altrui, della violenza nell'ambito sociale,
politico e anche familiare, della mancanza di moralità che nasce dal
mancato rispetto delle più elementari norme evangeliche.
A questo punto il pessimismo di Manzoni, insieme a un
certo senso latente e sommesso di condanna si allenta nel tono bonario
dell'ironia, soprattutto nei punti in cui smaschera le piccole astuzie degli
umili (che non sortiscono effetto, come il matrimonio a sorpresa) oppure si
colora di amarezza quando denuncia le ipocrisie dei politici come il conte zio
o Ferrer e diviene denuncia aspra quando constata
come anche i valori più sacri, quali la paternità, siano
inquinati dall'orgoglio, che porta alla menzogna, alla coercizione (si pensi al
padre di Gertrude), allo stravolgimento dei valori della famiglia e della
società.
Il tema più significativo, però, quello su cui poggia il
messaggio manzoniano, si riferisce alla visione religiosa della vita, in cui
domina il leit-motiv del romanzo, ossia l'opera della Provvidenza di Dio nella
storia e nelle umane vicende. Il pessimismo manzoniano emerge nella
constatazione della presenza del male, dell'irrazionalità dell'agire umano,
della forza dirompente degli egoismi in contrasto. Pure
Sbaglia don Abbondio quando, esultante, definisce
In questo senso, anche se termina con la celebrazione delle nozze, il romanzo
di Manzoni non presenta l'idilliaco 'lieto
fine' dei romanzi storici tradizionali. Infatti, a ben vedere, la conclusione
della storia si pone al modulo XXXVI, quando padre Cristoforo scioglie Lucia
dal voto che ha fatto la notte trascorsa nel castello dell'innominato, secondo
il quale rinuncia alle nozze. In tal modo la ragazza può seguire la voce
del cuore e anche Renzo vede finalmente rimosso l'ultimo ostacolo. I due si
congedano da padre Cristoforo, commossi dalle sue ultime parole, che suonano
alle loro orecchie come un testamento spirituale e che invitano a perdonare
'sempre, sempre! tutto, tutto!'.
Gli ultimi due moduli, con i preparativi del matrimonio, la celebrazione e la
sintetica narrazione degli anni di vita coniugale, sono un completamento della
storia: il momento essenziale, invece, è rappresentato dal ritrovarsi
dei due giovani con sentimenti immutati e una capacità rafforzata di
accettare la volontà di Dio nella loro vita.
Il 'lieto fine' dei Promessi Sposi, semmai, non consiste nel rito
delle nozze, ma in quella sorta del 'decalogo' con cui Renzo, ormai
marito, padre e imprenditore di successo (ha impiantato, come abbiamo detto, un
redditizio filatoio a Bergamo) attua un bilancio di quei due anni travagliati e
avventurosi. Constata che si è fatto una dura esperienza di vita che lo
mette in grado di dare buoni consigli ai li, quando cresceranno. Invece
Lucia osserva che, per quanto la riguarda, non si è mai messa nei guai,
ma 'son loro che son
venuti a cercar me'. Allora, insieme, gli sposi giungono alla conclusione
che, di fronte alle tribolazioni, bisogna confidare in Dio e sperare che le
sofferenze migliorino la vita. È un finale senza idillio, come osservano
i critici, ma coerente con la tensione religiosa che percorre tutta la
narrazione.
Il tema religioso, insieme con la scelta di porre gli umili ('genti
meccaniche e di piccolo affare', li definisce l'Anonimo) a protagonisti
della storia, rappresenta sicuramente l'elemento di grande novità del
romanzo. Non solo balzano alla ribalta due contadini, ma anche le ure
importanti (un arcivescovo, un potente feudatario, politici ed esponenti delle
gerarchie ecclesiastiche, un avvocato, un podestà, un nobilotto con parenti importanti) sono valutati sulla base
della posizione che assumono nei confronti di quelli. Infine flagelli e
pubbliche calamità (come peste, rivolte, guerra e carestia), assumono rilievo
perché creano il contesto in cui si pongono le avventure dei protagonisti.
È una scelta rivoluzionaria e un coraggioso rovesciamento di valori
letterari, che il Manzoni attua, convinto e sorretto
dal messaggio evangelico. Questo, d'altra parte, appare diluito tra le ine
come il tessuto connettivo della narrazione; affiora spesso ma con discrezione
e a volte si incarna in personaggi 'minori' di notevole interesse.
Valga, tra tutti, quella modesta ma splendida ura che è il servitore
di don Rodrigo: e nel V modulo ad accogliere padre Cristoforo in visita
al palazzotto di don Rodrigo. L'aiuto che egli dà al frate è
fondamentale anche per lo svolgimento della storia, perché lo informa del
progetto di rapire Lucia, in seguito al quale il cappuccino organizza la fuga
dei giovani dal paese e innesca il meccanismo che dà luogo alle vicende
della seconda sezione. Non a caso padre Cristoforo lo definisce 'un
filo' della Provvidenza.
L'uso del paesaggio nei Promessi Sposi
è un elemento tecnico molto importante che porta alla soluzione di un
problema fondamentale: come far capire al lettore in profondità l'anima
dei personaggi dando nel contempo una collocazione spaziale in campo aperto
alla vicenda (il campo aperto si contrappone al campo chiuso rappresentato da
una casa o addirittura una stanza), ed è descritto sempre con molta
sobrietà. Rappresenta spesso il commento alle vicende e lo specchio
dello stato d'animo dei personaggi. La celebre descrizione di Quel ramo del
lago di Como offre al lettore le coordinate spaziali della vicenda e la
inquadra in un alone di poesia. I segni della carestia, che ha aggredito anche
gli abitanti delle camne, sono evidenziati all'inizio del modulo IV con la
rappresentazione dei contadini che seminano con parsimonia e preoccupazione,
con la ragazzetta che conduce una mucca magra e le sottrae erbe commestibili,
da portare alla famiglia. L'Addio ai monti, a conclusione del modulo VIII
sottolinea la struggente nostalgia di Lucia che si allontana da luoghi cari,
prendendone congedo con strazio, mentre il cielo luminoso, che accoglie Renzo
dopo aver guadato l'Adda all'alba e aver conquistato la libertà (cap.
XVII), sembra la promessa di un futuro sereno. La valle cupa e le montagne
brulle su cui incombe il castello dell'innominato sono un'introduzione alla
comprensione della sua violenza, mentre il cielo che lo sovrasta pare fungere
da interlocutore, quasi da coscienza per il tiranno (cap. XX). E quando egli,
dopo la notte drammatica in cui le parole di Lucia gli hanno suggerito una
possibile soluzione al disagio della sua vita, si affaccia alla finestra, vede
la valle chiara allietata dallo scampanio e il cielo grigiastro percorso da
nuvole leggere: paiono simboleggiare il suo passato che si va sfaldando, per
lasciar spazio alla luce della Provvidenza Divina (cap. XX).
Molte sono le indicazioni di paesaggio che sembrano conurare aspetti della
vita degli uomini. Quando Renzo torna al suo paese, devastato dalla peste e
dalla calata dei lanzichenecchi, trova la sua vigna distrutta e infestata dalle
erbacce: segno tangibile del disordine morale dei tempi (cap. XXXIII). Invece
il paesaggio greve, oppresso dall'afa nella Milano distrutta dalla peste e
l'acquazzone gioioso che toglie il contagio (cap. XXXVI), non soltanto
sottolineano un'atmosfera, ma traducono in termini concreti un diffuso stato
d'animo: al languore e alla spossatezza della disperazione si sostituisce una
gioiosa speranza, quasi un senso di purificazione e di rinnovamento. In alcuni
casi, più che di paesaggio si può parlare di ambientazione. Lo
notiamo nelle scene di villaggio, nella descrizione dell'interno delle case, in
quel 'brulichio' che riempie le strade al crepuscolo e dà la
misura della vita, la sera in cui Renzo organizza il matrimonio a sorpresa (cap.
VII). Anche il palazzotto di don Rodrigo, cui si arriva per una stradetta che attraversa il villaggio dei bravi, pare
visualizzare il male come frutto di mediocrità, egoismo, opacità
intellettuale, piattezza morale e staticità spirituale. A guardia della
massiccia costruzione stanno due bravi e due carcasse di corvi, mentre le
finestre sbarrate, l'urlo dei mastini all'interno e il vociare dei convitati al
banchetto del padrone non sono meno volgari dell'aspetto degli abitanti del
villaggio: 'omacci tarchiati e arcigni []
vecchi che, perdute le zanne, parevan sempre pronti
[] a digrignar le gengive; donne con certe facce maschie, e con certe
braccia nerborute []' (cap. V). Non è propriamente una
descrizione di paesaggio, ma rimanda a un ambiente con una precisa connotazione
spirituale e, dunque, è coerente col modo in cui il Manzoni
intende il paesaggio, come riflesso e elemento per capire le alterne vicende
umane.
Il paesaggio nei Promessi Sposi
svolge una duplice funzione: oltre a quella solita di localizzazione dei fatti
del romanzo, in quest'opera esso serve anche a
sottolineare e specificare gli stati d'animo, i sentimenti e il carattere dei
vari personaggi. Il romanzo si apre con una presentazione molto efficace
dell'ambiente in cui si svolgono i fatti, l'abilità del Manzoni è grande anche in questo caso, infatti, le
descrizioni sono così vive che sembra quasi di trovarsi in quei luoghi,
di poterli toccare!
Nel II modulo lo scrittore ci immerge subito nella vita dei suoi personaggi,
descrivendoci le vie del paese e le case dove essi vivono. Proprio in questo
modulo l'ambiente comincia ad entrare a far parte dello spazio psicologico
del romanzo: ne è un esempio la descrizione della passeggiata di don Abbondio
che cerca di evitare i sassi che incontra sul suo cammino, da queste poche
parole ci è già possibile capire il carattere del personaggio.
Proseguendo nella lettura il Manzoni ci preannuncia
quello che sarà uno dei temi principali della seconda parte del romanzo,
la peste: notevole è la descrizione del paesaggio che accomna fra
Cristoforo dal convento di Pescarenico alla casa di
Lucia. Uno dei passi più noti del romanzo è 'l'addio
monti': Lucia, allontanandosi dal suo paese su una barca, ripensa al
paesaggio che sta abbandonando e, data la grande malinconia di Lucia, anche
l'ambiente sembra malinconico, triste e nostalgico, sottolineando così
lo stato d'animo di Lucia.
La descrizione del 'palazzotto di don Rodrigo' e del
'castellaccio dell'Innominato' è assolutamente indispensabile
al profilo psicologico dei due personaggi: al primo si giunge attraversando un
'mucchio di casupole' all'interno delle quali si possono intravedere
attaccati al muro schioppi, tromboni, zappe, rastrelli, cappelli di lia,
reticelle e fiaschetti da polvere, che paragonati a moschetti, sciabole e
partigiane del castellaccio sono un po' ridicoli.Il
comico paragone tra le due residenze continua ancora, infatti, il palazzotto,
che si trova sulla cima di un poggio, si raggiunge tramite una viuzza a
chiocciola, mentre al castellaccio sito a cavallo di una valle angusta e
uggiosa si arriva percorrendo una terribile strada tutta a gomiti e a
giravolte.
Infine da notare è la descrizione che il Manzoni
fa della natura durante il viaggio di Renzo da Milano a Bregamo,
sul suo percorso egli si addentra in un bosco, locus orridus della letteratura di tutti i tempi; il bosco
è come una metafora della situazione in cui si trova Renzo, è,
infatti, il labirinto del suo carattere. I caratteri predominanti del bosco
sono la paura, la confusione, l'abbandono, e questi sono anche i sentimenti che
Renzo prova in questo momento.
Nel romanzo possiamo individuare sei descrizioni di paesaggi:
Apertura
del romanzo sulla scena in cui inizia la vicenda: 'Quel ramo del lago di
Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti'.
L'infelicità dell'apertura del romanzo si riduce al ritmo un po' pesante
e solenne delle primissime linee: ben presto si riconosce in questa descrizione
lo stile riposato, attento, un po' minuto che già si era notato
nell'Introduzione. Ma questa topografia della scena dei Promessi Sposi ha un
andamento lento come non si troverà in nessun'altra
parte del libro. Come inizio di romanzo può sembrare poco attraente;
eppure c'è in esso una doppia giustificazione: la familiarità
affettuosa dello scrittore che, per aver passato tanto tempo in quei luoghi, vi
vedeva tanta parte di sé; e, dietro alla sua, la famigliarità
abitudinaria di don Abbondio che, fino a questo fatale 7 novembre, aveva sempre
posato pacatamente lo sguardo su ogni angolo di quel paesaggio nella sua
passeggiata serale. Queste ine sono già l'ultima ina serena della
vita di don Abbondio, in un romanzo tutto turbamenti e mutamenti.
La costruzione del periodo è notevole per la distribuzione armonica
delle singole parti ricongiungendo chiaramente la fine ('in nuovi golfi e
nuovi seni') all'inizio ('tutto a seni e a golfi') e lascia
l'impressione di un motivo pittorico musicalmente compiuto.
Descrizione della passeggiata abitudinaria di don Abbondio, subito dopo la descrizione del paesaggio: 'dopo la voltata, la strada correva dritta, forse una sessantina di passi, poi si divideva in due viottole, a foggia d'un ipsilon'. Qui la descrizione della passeggiata si ferma in un'attentissima descrizione topografica prima, ritrattistica poi. La sosta ha una sua ragione poetica: questo è lo scenario dell'avvenimento capitale della vita di don Abbondio, che gli rimarrà nella mente per sempre.
Apertura del modulo con l'immagine di carestia tanto frequente a quei tempi: comunica immediatamente l'animo triste del frate che osserva la scena 'Il cielo era tutto sereno: di mano in mano che il sole si alzava dietro al monte, si vedeva la sua luce scendere giù per i pendii. La scena era lieta; ma ogni ura d'uomo che vi apparisse, rattristava lo sguardo e il pensiero'. La descrizione di questo mattino d'autunno ha l'andamento di un'osservazione oggettiva, di una fedele pittura. Il Manzoni non mira ad altro che a mettere il quadro sotto gli occhi: forse i paesaggi sono il miglior esempio della convinzione del Manzoni che l'arte è lo studio e la riproduzione del vero. Il passo degli uomini nei campi segna il passaggio dall'intonazione riposata a quella malinconica: i periodi si susseguono staccati, con pause fra l'uno e l'altro e interne, che danno un'impressione di silenzio e di pena. Con questo occhio quieto e triste il Manzoni fa sentire la malinconia e l'oppressione attraverso gli atteggiamenti e la modulazione del periodo. Lo stesso effetto ha su padre Cristoforo: 'Questi spettacoli accrescevano, a ogni passo, la mestizia del frate'.
Fra Cristoforo giunge al paese di don Rodrigo e ne osserva lo squallore: 'Appiè del poggio giaceva un mucchietto di casupole, abitate dai contadini di don Rodrigo. La gente che si incontrava erano omacci tarchiati ed arcigni, con un gran ciuffo arrovesciato sul capo; vecchi che, perdute le zanne, parevano sempre pronti a digrignar le gengive'. In tutta questa descrizione d'ambiente, quello dei vecchi è il particolare più efficace; c'è dentro tutto il ribrezzo verso la malvagità degli anziani. In questo paesaggio solo guardando i volti dei contadini traspare la cattiveria e la violenza dei seguaci di don Rodrigo. 'Le rade e piccole finestre che davan sulla strada, chiuse da imposte sconnesse, erano però difese da grosse inferriate. Due grand'avvoltoi, con l'ali spalancate, e co' teschi penzoloni, erano inchiodati ciascuno sur un battente del portone; e due bravi, sdraiati sur una delle panche facevano la guardia'. Il Manzoni non fa il ritratto di don Rodrigo; ma questa vile fortezza ne tiene vantaggiosamente le veci: particolarmente la porta, contrassegnata da due avvoltoi (e non aquile) e guardata da due bravi sdraiati - un misto di minaccioso e volgare, dove si vedono la boria e la prepotenza ed insieme la sua bassezza -. Ma il quadro si impone anche per se stesso, per quel pennelleggiare largo e potente, per quella simmetria tra macabra e volgare.
'Andò addirittura alla casetta di un certo Tonio; e lo trovò in cucina, che, con un ginocchio sullo scalino del focolare, e, tenendo, con una mano, l'orlo d'un paiolo, messo sulle ceneri calde, dimenava, col matterello ricurvo, una piccola polenta bigia'. È la più ampia scena domestica, anzi paesana, incontrata finora. Si svolge con una linea affettuosa, pittoresca, ma sopra tutto pensosa. Sono descritti tutti i particolari - Tonio nell'atteggiamento di far la polenta-, la vivacità delle ure - 'tre o quattro ragazzetti con gli occhi fissi'-, il gusto del colore che traspare dall'immagine della polenta scodellata - 'e parve una piccola luna, in un gran cerchio di vapori'-. Ma il quadretto è immerso nell'aria del tempo, e quindi impregnato di mestizia: come quello del principio del modulo quarto, che è anch' esso fatto di particolari modesti, ma tutto velato di malinconia. Sono, l'uno in un interno famigliare, l'altro nell'aperta camna, i riflessi della miseria del secolo. Il passo 'Ma non c'era quell'allegria. Sopravvivere' ha la stessa intonazione dei tratti del modulo IV 'La scena era lieta; ma ogni ura d'uomo che vi apparisse, rattristava il pensiero' . In questi brani troviamo quell'intonazione di malinconia raccolta e meditativa che ritorna ogni volta che il Manzoni si deve fermare sulle tribolazioni o sulle sciagure degli uomini.
'Ton, ton, ton: i contadini balzano a sedere sul letto; i giovinetti sdraiati sul fienile, tendono l'orecchio, di rizzano. Molte donne consigliano, pregano i mariti,di non moversi, di lasciar correre gli altri.' La scena si allarga e si popola, rapidissima; il ritmo cambia. Anche qui un senso vivissimo della vita del villaggio: i giovani nel fienile, i mariti a letto, i più animosi con le forche e gli schioppi. E, insieme, una psicologia veloce ma accorta, intonata alla concitazione della scena: le donne timorose, i poltroni che sembrano compiacenti.
'e la luna, entrando per lo spiraglio, illuminò la faccia pallida, e la barba d'argento di padre Cristoforo, che stava quivi ritto in aspettativa'. La luna fornisce al Manzoni in questo modulo il motivo fondamentale della dominante quiete disturbata, gli ispira quadri d'incanto (anche la faccia di fra Cristoforo imbevuta di pallore lunare) e pensose tristezze, e finisce per restare l'unica, solitaria, sovrana nota del paesaggio, per distendere il suo silenzio su tutto ed accomnare con la sua malinconia quella della giovane fuggiasca che, posato il braccio sulla sponda della barca, posata sul braccio la fronte, come per dormire, piange segretamente.
'il lago giaceva liscio e piano, e sarebbe parso immobile, se non fosse stato il tremolare e l'ondeggiar leggiero della luna, che vi si specchiava dal cielo.Si distinguevano i villaggi, le case, le capanne'. Questa ina dell'Addio è una sommessa armonia di suoni e di tinte: ne viene un'impressione di silenzio e di lenta, malinconica pace. Tutto sembra traduzione della realtà in parole: è il solito Manzoni, sempre fedele al vero, la solita precisione che chiude il varco al sentimentalismo e sembra lasciar parlare le cose.
'il palazzotto di don Rodrigo.': adagio, naturalmente, il motivo si è accostato all'anima della protagonista. I passeggeri sono silenziosi, dopo tanti spaventi: ma stanno con la testa voltata indietro, e guardano i monti ed il paese. La notte è chiara, tutto si distingue; e il pensiero, senza parole, corre sui luoghi da cui è nata la vicenda: il palazzotto di don Rodrigo, che sembra ancora minacciare, e via via, con una dolcezza e tristezza crescente, il paesello, la casetta, la chioma folta del fico e la finestra della camera da cui Lucia sarebbe andata a sposarsi. Sotto tutto c'è una nota di dolore che continua nell'atteggiamento finale di Lucia - posò il braccio sulla fronte - finchè due sole parole scoprono il sentimento: e pianse segretamente. Le parole dell'Addio non appartengono a Lucia, ma il ritmo è il suo, della sua anima semplice e pura, dolente ma rassegnata e serena; e sua è la trepidazione dell'ignoto e il religioso sospiro di promessa.
È notevole come il Manzoni riesca, con un paesaggio, a comunicare al lettore i sentimenti ed i particolari visivi come se anche egli fosse proprio lì, ad osservare la triste scena di povertà e carestia insieme a fra Cristoforo nel quarto modulo, o sulla sponda del lago, spettatore della partenza di Lucia dal suo paese. Non si limita però a mettere sotto gli occhi una attenta descrizione, ma aggiunge aggettivi o parole che evidenziano il sentimento predominante nella scena. In questo studio del vero c'è qualcosa di 'santo'. Nei passi salienti il paesaggio, a prima vista, ha un aspetto domestico, ma sottintende un animo semplice e più elevato: conservando un preciso disegno, libero da ogni infiorettatura (come ha sottolineato nell'Introduzione), evidenzia il sentimento dei personaggi sullo sfondo della natura, che sembra sempre in armonia col loro pensiero.
'I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi' ('I Promessi Sposi' modulo II). Il Manzoni, con tono dolente e pacato, per guidare ad una riflessione morale i suoi lettori (per giunta valida per ogni tempo e non solo per il secolo XVII) si serve della storia, reale e immaginaria, per chiarire quanto ognuno di noi sia responsabile con le proprie azioni anche degli altri. A voi il giudizio.
Sin dalle prime ine de 'I
promessi sposi', il Manzoni ci presenta una
società soverchiatrice, violenta, dove le questioni (come dice lo stesso
don Abbondio, durante il colloquio con Renzo) non si discutono in termini di
torto o di ragione, ma in termini di forza. I principali responsabili di questa
drammatica situazione, sono, sempre secondo l'Autore, i vari signori e
signorotti locali, i quali, disponendo di un'elevata influenza sulle
istituzioni giudiziarie e protetti da piccoli eserciti personali di bravi,
eludono con facilità le gride per far valere
il proprio potere d'oppressione sulla popolazione. Il clima d'ingiustizia e di
violenza è quindi determinato dall'ancora forte potere feudale,
personificato nella ura di don Rodrigo, e dalla totale inefficacia
dell'apparato giudiziario snolo, la cui organizzazione burocratica, lenta e
macchinosa, non riesce a garantire ai cittadini la protezione necessaria.
Così, l'unica 'giustizia' rispettata è quella di don
Rodrigo e di quelli che, come lui, dispongono della violenza come strumento di
dominio. Ma non basta. Anche gli intellettuali, uomini di chiesa come no, sono
asserviti alla causa del potere, e sono costretti ad accettarne le logiche di
sfruttamento. Don Abbondio, l'Azzecca-garbugli, uomini comuni, persone di per
sé innocue, lontane dal sangue e dalla violenza, divengono, insieme alla stessa
cultura che possiedono, le vittime e gli strumenti dell'oppressione. Appare
quindi chiaro, a questo punto, il senso delle parole del Manzoni:
gli oppressori, non si limitano a esercitare la violenza sui deboli, ma
coinvolgono nelle loro logiche anche uomini prima estranei al terribile sistema
dell''ingiustizia organizzata'.
Oltre però agli intellettuali che diventano uno strumento nelle mani del
potere, macchiandosi di delitto, le parole dell'Autore si riferiscono anche a
un altro tipo di induzione alla violenza e all'odio: quella che i quotidiani
episodi d'oppressione suscitano nella povera gente. Dalla base della piramide
sociale, si vedono salire infatti, oltre alle lacrime dei deboli sfruttati,
anche le loro parole di rabbia, di odio, di indignazione, di vendetta. Ed
è a questo proposito che il Manzoni scrive la
sua massima: 'I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in
qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono,
ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi'.
Infatti, dopo aver appreso la verità, e cioè che il suo
matrimonio con Lucia è impedito dal volere di don Rodrigo, la prima
reazione di Renzo è quella di progettare tremendi propositi di vendetta.
Improvvisamente, la ura di Renzo si stravolge, e quel giovane 'pacifico
e alieno dal sangue' che era, si trasforma in un aspirante assassino.
Avrebbe voglia di farla finita e, pur con i suoi scarsissimi mezzi, di affogare
nel sangue la boria di don Rodrigo. Nella sua mente vorticano improvvisamente
turpi progetti di morte: agguati, omicidi, vendette. La sua metamorfosi, veloce
e drammatica quanto disperata, colpisce il lettore e lo spinge a riflettere
sulle parole dell'autore. È il circolo vizioso dell'odio e della
violenza (il forte opprime il debole che impara ad odiare a sua volta) che trasforma
la storia umana, e non solo quella del Seicento, in una immensa carneficina, in
una grande valle di rabbia e oppressione. Ma a questo punto interviene il tema
della provvidenza divina, tanto caro al Manzoni, che
fornisce il modo per spezzare il circolo che aggiunge male al male. Così
come l'immagine di Lucia riporta la ragione nella mente di Renzo e lo riconduce
sulla sua strada, così come la sua ferma fiducia in Dio e nella
giustizia divina, riporteranno la luce nell'oscurità dei biechi pensieri
di Renzo, la provvidenza promette al debole la redenzione e il riscatto
dall'oppressione, a patto che sia lui, il primo a interrompere il circolo di
sangue, non rispondendo alla violenza con altra violenza (nel Vangelo, Cristo
stesso dice: 'Se ti danno uno schiaffo, tu non rispondere, ma porgi
l'altra guancia'). Lucia stessa griderà allarmata a Renzo, sentiti
i suoi propositi: 'No, no, per amor del cielo! Il Signore c'è anche
per i poveri; e come volete che ci aiuti, se facciam
del male?'. In queste parole, il Manzoni ci
lascia un profondo messaggio, la fiducia nella giustizia divina come unico
mezzo di ribellione alle logiche della violenza che, in ogni minimo sopruso,
alimentano lo spettro del male che aleggia su tutta la storia umana.
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