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Carpe diem: testi a confronto
"Cantare il piacere, e insieme la sua fugacità, è uno dei motivi eterni della poesia mondiale: da Mimnermo ad Alceo, a Catullo, a Omar Khayyam, al Poliziano e al Magnifico Lorenzo; ma la grandezza del poeta non è mai nel tema poetico, per quanta risonanza esso possa avere nel cuore degli uomini: è nel tono poetico, nell'atmosfera poetica inconfondibile che è creazione originalissima di ciascun poeta." (da "Pan", G.Perrotta)
Il confronto tra il carpe diem oraziano e quello di altri autori greci, latini o di età successiva ha la funzione di farci comprendere quale sia il reale messaggio del Venosino e, quali sfaccettature può assumere il tema della fugacità della vita e del bisogno di cogliere il piacere momentaneo.
Nella Grecia arcaica del VII secolo a.C., Mimnerno di Colofone, lamentava la fugacità della giovinezza rifacendosi ad una similitudine omerica del sesto libro dell'Iliade:
"Siamo come le foglie nate alla stagione florida
-crescono così rapide nel sole-:
godiamo per un gramo tempo i fiori dell'età,
dagli dèi non sapendo il bene, il male" ( fr.2, vv.1-4; trad. F.M. Pontani)
Mimnermo, lontano da filosofie epicuree, ricercava la felicità in un piacere quasi superficiale, destinato a durare un solo attimo e che reca gioia solo nel momento in cui si prova e non nel suo ricordo.
Nello stesso periodo, Alceo di Mitilene cantava la necessità di godere dei beni dei presente, delle gioie del vino e del simposio:
"Beviamo: a che attendere le fiaccole?
Dura un dito il giorno!" (fr. 346, v.1- trad.A. Porro)
Il poeta greco si rifaceva al piacere momentaneo, ma, la sua ricerca era semplice, priva di schemi mentre, Orazio arricchiva il suo carpe diem di valori simbolici, dandogli lo spessore di una meditazione esistenziale. Nel Venosino spirava "l'aurea mediocritas", in Alceo il fulgore delle armi e l'impeto della corsa all'apamento dei sensi.
L'invito a godere delle gioie dell'amore ed il senso della fragilità della vita è presente anche in Asclepiade di Samo (Ant.Palatina V,85) che scrisse:
"A me ti neghi: perché mai se, una volta nell'Ade,
nessuno troverai, fanciulla, che t'ami?
Ai vivi sono riservate le gioie d'amor: ché nell'Acheronte
polvere ed ossa, o fanciulla, resteràn di noi". (trad. L.Tortora).
In questa poesia, il piacere si connota nei termini di ricerca di apamento come in Mimnermo, ma, non vi sono limiti d'età.
Oltre che in Grecia, il tema del "carpe diem" ricorre tra i poeti neoterici. Uno di loro, Catullo, rivolgendosi alla donna amata, Lesbia, la invita a godere dei piaceri del presente affermando che la luce è breve, mentre, "nox perpetua est":
"Viviamo, mia
Lesbia, ed amiamo, i brontolii dei
vecchi troppo rigidi valutiamoli tutti
un solo centesimo. I giorni possano
tramontare e ritornare: noi quanto la
breve vita tramonta, siamo costretti
dormire una sola interminabile notte. Dammi mille, poi
cento, di seguito altri
mille, e poi ancora cento, quindi ancora
altri mille e ancora cento. Poi, quando ne
avremo sommate molte migliaia, li mescoleremo
tutti, perché nessuno
possa stringere in malie un numero di baci
così grande."
"Vivamus, mea Lesbia, atque amemus,
rumoresque senum severiorum
omnes unius aestimemus assis.
Soles occidere et redire possunt:
nobis cum semel occidit brevis lux,
nox est perpetua una dormienda.
Da mi basia mille, deinde centum,
dein mille altera, dein secunda centum,
deinde usque altera mille, deinde centum.
Dein, cum milia multa fecerimus
conturbabimus illa, ne sciamus,
aut ne quis malus invidere possit,
cum tantum sciat esse basiorum."
Il carpe diem di Catullo si serviva del ciclico ripetersi degli eventi a fronte della linearità del destino umano, infatti, l'autore pregava la sua amata Lesbia di donargli più piacere possibile, perché il tempo della vita che rimane loro, anche se sembra lungo, si accorcia ad ogni attimo che passa. Il trasporto che caratterizzava Catullo non era sicuramente quello di Orazio, che amò l'arte e la poesia più di uomini e donne e che fu guidato dall'"est modus in rebus". Il non pensare al domani era anche un modo di rimuovere il pensiero della morte, inscindibile da quello del tempo che fugge.
Oltre i limiti dell'età classica, il tema del carpe diem viene ripreso nell'umanesimo e nel rinascimento ed è teso a sottolineare il senso del limite che pervade e in qualche modo offusca la visione antropologica dell'homo faber fortunae suae. È da sottolineare che, mentre in Orazio la lirica nasce dalla riflessione e dalla triste rassegnazione, in età umanistica, la musa ispiratrice della maggior parte dei poeti è la voluttà.
Tra i versi più noti vi sono quelli di Lorenzo il Magnifico che, ne "Il trionfo di Bacco e Arianna", scrive:
"Quant'è bella giovinezza,
che si fugge tuttavia!
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c'è certezza.
~
Amiam ché non ha tregua
con gli anni umana vita e si dilegua.
Amiam: ché 'l Sol si muore e poi rinasce:
a noi sua breve luce
s'asconde, e 'l sonno eterna notte adduce. " (canzone di bacco versi, 1-l0)
Si noti come Il Magnifico, in questi versi, sembra aver ripreso l'Ode 1,11 del Venosino, tanto che: "che si fugge tuttavia" è la traduzione di "fugerit invida aetas" e "del doman non c'è certezza" è quella di "quam minum credula postero".
Orazio, seguace di Epicuro o di Aristippo?
Il Carpe diem oraziano, potrebbe indurre a credere che Orazio fosse un
epicureo, ma, come molti critici sostengono, il Venosino, in realtà,
aveva fede ad Aristippo di Cirene, discepolo di Socrate, un precursore di
Epicuro, e questo si nota dal fatto che il piacere per Orazio,
così come per Aristippo, è momentaneo, monocrono, mentre Epicuro
anela a giungere la divina atarassia.
Di conseguenza la felicità di Epicuro è contemplazione delle gioie passate e attesa delle gioie future, mentre, il piacere di Aristippo e di Orazio, risiede nel fugace.
Ammesse queste differenze, è tuttavia innegabile che il poeta delle odi si sia proposto di mettere in pratica i precetti di Epicuro, il quale suggeriva di cogliere i frutti della vita (è proprio questo il significato metaforico del carpe diem), ma, senza che venisse turbato l'equilibrio interiore dall'assalto dei sensi e delle conturbanti passioni. Contrariamente a quello che si può credere non era certamente agevole per nessuno, meno che mai per uno come Orazio poco disposto per natura a rinunziare a quei piaceri che venivano messi all'indice da Epicuro, mettere in pratica tali precetti. In effetti, gli epicurei non ricercavano il piacere assoluto e indifferenziato, ma costituivano al contrario quasi una congregazione monastica, e gli epicurei sceglievano di vivere appartati (questo è il senso del cosiddetto late biosas) col proposito di godere di quei pochi piaceri, che la loro ragione suggeriva loro di scegliere.
Fatte queste premesse, la morale oraziana, pur concentrandosi sul piacere istantaneo, è "una morale contraddittoria", in quanto non può prescindere dalla ricerca di un equilibrio interiore, che richiede un profondo senso della misura che solo la ragione può fornire, ma non è detto che essa riesca sicuramente nel suo compito di fornire al poeta una serenità imperturbabile.
La metriòtes e l'autàrcheia, non sono mai per Orazio un possesso saldo e definitivo e l'armonia intima è tensione dinamica, un equilibrio continuamente insidiato e da riconquistare, che non è, tuttavia, indenne da fenomeni di ansiosa inquietudine.
Questo spiega perché, in età matura, Orazio, pur senza rigettare i precetti degli epicurei, si appellasse anche ad un'altra filosofia, quella di Aristippo che, predicando la regola del modus, e suggerendo di vivere "in staccato", faceva pensare ad un più agevole modello di vita morale.
Così come si può notare nelle
pedagogia morale delle Satire, Orazio apprezzava la massima del cirenaico: "Un uomo giusto e misurato, che trovandosi
in mezzo a molti malvagi non si lasci fuorviare".
Nella Ep., I, 1, 18 Orazio, afferma: "Ora torno ai precetti d'Aristippo,
e mi sforzo di sottomettere le cose a me, non me alle cose", dimostrando in tal
modo di voler seguire la prima delle regole di vita dettate dal filosofo di
Cirene, il quale esortava a dominare attivamente e non essere dominati dagli
impulsi.
La regola per eccellenza che conquistò Orazio fu quella che prescriveva l'indipendenza personale, poiché contribuiva a fornirgli i mezzi del comportamento da tenere nei riguardi dei potenti e della sua astensione intellettuale nei riguardi del potere.[i]
Bibliografia
Cfr. Luciano Tortora, Fragmenta latinitatis, ine 388-390, Loffredo Editore, Napoli, 2004
Cfr. Paolo di Sacco, Scritture latine, Orazio e la morale occidentale, ine 68-74, Edizioni scolastiche Bruno Mondadori, Varese, 2003
Cfr. Paolo di Sacco, Mauro Serìo, Scritture latine, Dall'età augustea al tardo impero, ine 112-l13, 140, Edizioni scolastiche Bruno Mondadori, Torino, 2003
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