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LA CONGIURA DI CATILINA
Tutti gli uomini che si studiano di superare ogni altro vivente, con somma energia conviene si adoprino per non trascorrere la vita nel silenzio, come le bestie che la natura fece chine in terra e solo ubbidienti agli impulsi del ventre. Ora, tutta la nostra forza risiede nell'animo e nel corpo; dell'animo usiamo il potere, del corpo l'ubbidienza; quello abbiamo in comune con gli Dèi, questo con gli animali. Perciò mi sembra più giusto cercare la gloria con la forza dell'ingegno che con quella delle membra, e poiché la vita di cui fruiamo è breve, rendere durevole quanto più possibile la memoria di noi. Infatti la gloria della ricchezza e della beltà è fragile e fugace, la virtù dura splendida e eterna.
Ma a lungo tra i mortali vi fu aspra contesa se la gloria militare provenisse dalla forza del corpo o dal valore dell'animo. Infatti prima d'intraprendere bisogna decidere, e quando tu abbia deciso, si deve rapidamente operare. Così entrambe le cose, di per sé difettose, necessitano ciascuna dell'aiuto dell'altra.
Dunque all'inizio i re - ché sulla terra questa fu la prima denominazione del potere - secondo inclinazioni diverse esercitavano alcuni l'ingegno, altri la forza fisica; allora la vita degli uomini trascorreva senza cupidigia; a ciascuno bastava il suo. Ma poi, quando in Asia Ciro, in Grecia gli Spartani e gli Ateniesi, presero a sottomettere città e nazioni, a reputare che la gloria più grande risiedesse nel potere più grande, allora infine alla prova dei fatti si riconobbe che in guerra la supremazia spetta all'ingegno. Che se la forza d'animo di re e comandanti valesse così in pace come in guerra, le umane vicende si conterrebbero con maggior equilibrio e costanza, non vedresti tutte le cose mutare e rimescolarsi. Poiché il potere facilmente si conserva con le doti dell'animo che all'inizio lo generarono. Ma quando l'inerzia si diffonde in luogo dell'efficienza, la sfrenatezza e l'orgoglio in luogo dell'equità e della continenza allora la fortuna cambia insieme con i costumi. Così il potere si trasferisce sempre dal meno capace al migliore.
L'agricoltura, la navigazione, l'arte edilizia obbediscono all'ingegno. Ma molti mortali, schiavi del ventre e del sonno, trascorrono ignoranti e incolti la vita, simili a viandanti. Ad essi senza dubbio contro natura il corpo è piacere, l'animo un peso. Vita e morte di costoro io ritengo alla pari, poiché dell'una e dell'altra si tace. Mentre certamente, infine, mi sembra vivere e godere della vita quello che, intento a qualche attività, cerca la gloria di un'illustre impresa e di una nobile occupazione.
Ma in così grande quantità di opere, la natura mostra ad ognuno un diverso cammino. È bello giovare allo Stato; anche non è disdicevole il bene esprimersi, è lecito acquistare fama in pace o in guerra; molti hanno ottenuto gloria operando, molti narrando le imprese altrui. Quanto a me, sebbene non pari gloria segua chi scrive e chi compie le imprese, tuttavia mi sembra oltremodo arduo scrivere storie: primo perché bisogna equiparare le parole ai fatti, secondo perché, nel riprovare i delitti, i più riterranno le tue parole dettate da malevolenza, e nel narrare il grande valore e la gloria dei buoni, ognuno accoglierà di buon animo ciò che crede di poter agevolmente operare, ma ciò che è al di sopra crederà falso come parto di fantasia.
Ora, fin da giovane, come i più, fui tratto da ambizione alla vita pubblica, e ivi incontrai molte avversità, poiché invece della modestia, della parsimonia, del valore, regnavano sfrontatezza, prodigalità, avidità. Sebbene il mio animo disprezzasse tutto ciò, inesperto tuttavia fra tanti vizi, la mia fragile età, sedotta dall'ambizione, veniva mantenuta in un clima di corruzione, e sebbene dissentissi dai pravi costumi degli altri, tuttavia la medesima cupidigia di gloria mi tormentava esponendomi come gli altri alla maldicenza e all'invidia.
Dunque, allorché l'animo trovò posa fra tante tribolazioni e pericoli, e decisi di trascorrere il resto della mia vita lontano dalle cure pubbliche, non pensai di consumare un tempo prezioso nell'inerzia e nella pigrizia, né spenderlo dedicandomi all'agricoltura o alla caccia, attività da schiavi; ma tornato alla mia passione d'un tempo da cui mi aveva distolto la mala ambizione, decisi di narrare le gesta del popolo romano per episodi, così come mi risultavano degne di memoria, tanto più che avevo l'animo scevro da speranze, timori, passioni politiche.
Dunque narrerò in breve, con quanta più verità potrò, la congiura di Catilina; poiché tale fatto stimo sopra tutti memorabile per l'eccezionalità del delitto e del rischio. Ma prima di cominciare il racconto, mi corre l'obbligo di esporre qualcosa sull'indole di costui.
L'argomento stesso sembra richiedere, poiché l'occasione mi ha richiamato ai costumi della città, di riprendere le cose più da lontano, ed esporre in breve gli istituti degli avi in pace e in guerra, in qual modo abbiano governato la repubblica, e quanto grande l'abbiano lasciata, e come con lenta decadenza il più bello e il migliore degli Stati sia diventato il più sciagurato e corrotto.
La città di Roma, secondo la tradizione, ebbe per fondatori e primi abitanti i Troiani, che vagavano in incerte sedi, profughi sotto la guida di Enea, insieme con gli Aborigeni, popolo agreste, senza leggi né magistrati, libero e indipendente. Questi, dopo che si raccolsero fra le stesse mura, diversi di razza, di lingua, di costumi, appare incredibile ricordare con quanta rapidità si fondessero: così, in breve tempo, la concordia di una turba dispersa e nomade fece una città. Ma dopo che il loro Stato si accrebbe di cittadini, di costumi, di terre, e apparve prospero e vigoroso, allora, come per lo più accade nelle cose umane, dalla ricchezza sorse l'invidia. Allora re e popoli vicini sperimentarono la guerra: pochi degli amici portarono aiuto; gli altri atterriti si tenevano lontano dai pericoli. Ma i Romani, sempre attivi in pace e in guerra, sempre in moto, sempre pronti, si esortarono a vicenda, affrontarono il nemico, con le armi difesero la libertà, la patria, la famiglia. Poi, respinto con il valore il pericolo, portavano aiuto ad alleati e ad amici, e con l'accordare, più che con il ricevere benefici, si guadagnavano le amicizie. Avevano un governo legittimo, il capo aveva titolo di re. A vantaggio dello Stato consultavano uomini scelti, di cui il vigore fisico era indebolito dagli anni, ma l'ingegno valido per la saggezza: questi, per età e somiglianza di ufficio, erano chiamati «padri». Poi, quando il potere regio, sorto in principio per conservare la libertà e ingrandire lo Stato, degenerò in una superba tirannide, mutarono sistema di governo, si diedero due capi che avessero potere annuale: in tal modo pensavano che l'animo umano non potesse più insolentire senza freni.
Ora, in quel tempo, ognuno cominciò a sollevare le sue aspirazioni e a mettere maggiormente in mostra il suo ingegno. Infatti i re hanno in maggior sospetto i buoni che i malvagi, e sempre incute loro timore il valore altrui. Ma conquistata la libertà, è incredibile a dirsi la rapidità con cui la città si accrebbe: tanto la percorse il desiderio di gloria. In primo luogo la gioventù, non appena adatta alle armi, con strenua fatica apprendeva in campo l'arte della guerra; li prendeva brama di belle armi e di destrieri, più che di cortigiane e di festini. Dunque per tali uomini non v'era fatica insolita, non luogo aspro o arduo, non nemico terribile in armi: il valore domava tutto. Ma il più ardente conflitto per la gloria era fra loro stessi, ognuno anelava colpire un nemico, scalare un muro, essere scorto mentre compiva tale impresa. Queste ritenevano essere le ricchezze, questo il buon nome, questa la grande nobiltà. Avidi di gloria, erano liberali di danaro; volevano grande fama, oneste ricchezze. Potrei ricordare in qual luogo il popolo romano con una piccola schiera abbia messo in fuga ingenti forze nemiche, quali roccaforti naturali abbia conquistato in battaglia, ma ciò mi distrarrebbe troppo dall'argomento.
Ma per certo su ogni cosa
domina
Dunque i buoni costumi prosperavano in pace e in guerra: v'era massima concordia, nessuna avidità, il giusto e l'onesto valevano presso di loro non più per legge che per natura. Liti, discordie, rivalità rivolgevano contro i nemici; i cittadini non contendevano tra loro se non per la gloria. Nei sacrifizi agli Dèi erano generosi, in casa parsimoniosi, fedeli con gli amici. Con queste due qualità, l'audacia in guerra, l'equità in pace reggevano se stessi e lo Stato. Di ciò ho queste due prove inconfutabili: in guerra punivano più severamente coloro che combattevano il nemico senza averne ricevuto l'ordine, o richiamati indietro avevano tardato a uscire dalla battaglia, piuttosto che i disertori o i battuti che avevano lasciato il posto; invece in pace esercitavano il comando più con la bontà che con il timore, e ricevuta un'offesa preferivano perdonare che punire.
Ma come con travaglio e giustizia lo Stato crebbe, grandi re furono domati in guerra, nazioni barbare e grandi popoli furono sottomessi con la forza, Cartagine rivale di Roma perì dalle fondamenta, aperti ai vincitori tutti i mari e le terre, la fortuna cominciò a incrudelire e a rimescolare tutto. Quelli stessi che avevano sopportato travagli e pericoli, situazioni incerte e aspre, trovarono nella quiete e nelle ricchezze, beni fino allora desiderabili, peso e miseria. Crebbe la cupidigia, prima di danaro, poi di potenza: ciò fu, per così dire, alimento d'ogni male. Infatti l'avidità sovvertì la lealtà, la probità, i buoni costumi; in luogo di essi insegnò la superbia, la crudeltà, trascurare gli Dèi, avere tutto per venale. L'ambizione spinse molti a divenire mendaci, ad avere una cosa sulle labbra, un'altra chiusa nel cuore, far conto dell'amicizia e dell'inimicizia non del merito, ma dell'utile, essere buoni in volto più che nell'animo. Queste iatture dapprima crebbero lentamente, e furono talvolta punite; poi, quando il contagio dilagò a guisa di pestilenza, la città fu sconvolta, il governo, prima sommamente giusto e buono, diventò crudele e intollerabile.
Ma dapprima l'ambizione più che l'avidità tormentava l'animo degli uomini, poiché è tuttavia un vizio, ma alquanto più vicino alla virtù. Infatti sia l'uomo valoroso sia l'ignavo desiderano gloria, onore, potere; ma il primo li persegue per la giusta via, l'altro, poiché manca di buoni mezzi, cerca di raggiungerli con inganni e menzogne. L'avidità reca in sé la brama di denaro, che mai nessun saggio ha desiderato: essa, quasi imbevuta di veleni perniciosi, effemina il corpo e l'animo virile; è sempre infinita e insaziabile, non è sminuita né dall'abbondanza né dalla penuria. Ma dopo che Silla, conquistato con le armi il potere, da buoni inizi riuscì a malvagità, tutti si diedero a rapine, a ruberie, a desiderare chi una casa, chi una fattoria, e i vincitori a non avere né misura né moderazione, a compiere contro i cittadini azioni turpi e crudeli. A ciò aggiungi che Silla, per rendersi fido l'esercito che aveva guidato in Asia, contro il costume degli avi lo aveva tenuto nelle mollezze e nel lusso eccessivo. Luoghi ameni e deliziosi avevano facilmente ammorbidito nell'ozio l'animo fiero dei soldati. Ivi per la prima volta l'esercito del popolo romano si avvezzò a fornicare, a bere, ad ammirare le statue, i quadri, i vasi cesellati, a strapparli ai cittadini privati o alle comunità a spogliare i templi, a violare il sacro e il profano. Dunque quei soldati, ottenuta la vittoria, non lasciarono nulla ai vinti. E certo se una condizione fortunata mette a prova l'animo dei saggi, tanto meno quelli di corrotti costumi potevano moderarsi nella vittoria.
Dopo che le ricchezze cominciarono ad essere in onore, e la gloria, il potere, la potenza a seguirle, il valore cominciò a infiacchirsi, la povertà ad essere tenuta in conto di disonore, l'integrità ad essere ritenuta malevolenza. Dunque, dopo le ricchezze, la lussuria, l'avidità insieme con la superbia invasero i giovani; rapinare, dissipare, stimare poco il proprio, desiderare l'altrui, senza distinzione vergogna e pudicizia, promiscui l'umano e il divino, nulla avere di ponderato e di moderato. Vale la pena, quando abbia conosciuto case e ville a guisa di città, visitare i templi degli Dèi che i nostri avi, uomini devotissimi, fecero costruire. Ma essi abbellivano i santuari con la pietà, le loro case con la gloria, e ai vinti null'altro strappavano che la licenza di nuocere. Questi, di contro, uomini vilissimi, per colmo di scelleratezza, strapparono agli alleati i diritti che uomini fortissimi sebbene vincitori, avevano lasciato loro, come se nell'arrecare offesa dovesse propriamente consistere l'esercizio del potere.
Infatti perché ricordare cose da nessuno credibili se non da chi le ha viste, monti spianati, mari interrati da molti privati cittadini? Per essi mi pare che le ricchezze fossero divenute un trastullo; infatti si affrettavano a sperperarle vergognosamente invece di investirle onestamente. Né con minore violenza li aveva presi la libidine dello stupro, della gozzoviglia e di altri piaceri; uomini soggiacevano in atti di femmina, donne facevano scempio d'ogni pudore; per ingozzarsi frugavano dovunque in terra e in mare; dormivano prima di aver sonno; non aspettavano la fame, la sete, né il freddo, né la stanchezza, ma con raffinata mollezza ne prevenivano l'arrivo. Tutto ciò, dissipato il patrimonio, stimolava la gioventù al delitto: gli animi ingolfati nei vizi, non resistevano facilmente alle passioni; perciò con tanta maggior profusione si abbandonavano al guadagno e allo sperpero.
Fin dalla prima giovinezza, Catilina aveva avuto amori delittuosi, con una vergine nobile, con una Vestale, e altre esperienze di tal fatta contro l'umano e il divino. Infine, preso d'amore per Aurelia Orestilla, di cui mai nessun uomo dabbene trovò nulla da lodare se non la bellezza, poiché ella esitava a sposarlo per timore del liastro in età già adulta, si ritiene con certezza che egli assassinatolo, abbia reso la casa libera per le nozze scellerate. Ciò mi sembra la principale ragione per cui affrettò la congiura. Infatti quell'animo impuro, nemico degli Dèi e degli uomini, non trovava pace né nel sonno né nelle veglie; tanto il rimorso devastava quell'animo inquieto. E ancora, esangue il colorito, torvi gli occhi, il passo ora rapido ora lento, insomma nel volto e nell'aspetto aveva i segni della follia.
Quanto ai giovani che aveva adescato, di cui ho detto più sopra, in molti modi li istruiva nel crimine. Da essi traeva e prestava falsi testimoni e falsari: li abituava al disprezzo della lealtà, della fortuna, del pericolo; poi, quando aveva consunto la loro reputazione e l'onore, ordinava loro altri maggiori delitti. Se nel presente non v'era occasione di mal fare, aggrediva e sgozzava gli innocenti come colpevoli; certamente perché mani e animi non intorpidissero nell'ozio, preferiva essere malvagio e crudele senza motivo.
Fidando su tali alleati e amici, poiché inoltre i debiti crescevano in tutto il paese, e i più dei veterani di Silla, sperperato oltre le loro possibilità, memori delle antiche prede e della vittoria passata si auguravano la guerra civile, Catilina concepì il disegno di soggiogare la repubblica. L'Italia priva di eserciti; Cn. Pompeo impegnato in guerra in terre remote; egli con grande speranza nella sua candidatura al consolato; di nulla preoccupato il Senato, dovunque calma e sicurezza, ma erano certamente tutte opportunità per Catilina.
Pertanto, verso le Calende di giugno, sotto il consolato di L. Cesare e G. ulo, comincia a chiamare a uno a uno i suoi accoliti, esorta gli uni, sperimenta gli altri; vanta le proprie risorse, l'impreparazione dello Stato, i grandi vantaggi di una congiura. Dopo che ebbe saggiato ciò che voleva conoscere, raduna tutti i più indigenti e i più audaci. ½ si trovarono, dell'ordine senatorio, P. Lentulo Sura, P. Autronio, L. Cassio Longino, G. Cetego, P. e Servio Silla, li di Servio, L. Vargunteio, Q. Annio, M. Porcio Leca, L. Bestia, Q. Curio, inoltre dell'ordine equestre, M. Fulvio Nobiliore, L. Statilio P. Gabinio Capitone, G. Cornelio, poi molti delle colonie e dei municipii, notabili nella loro patria. Partecipavano inoltre alla congiura con un po' più di segretezza numerosi nobili, spinti più dalla speranza del potere che dalla miseria o da altre necessità. Del resto, la maggior parte della gioventù, specialmente la nobile, favoriva i disegni di Catilina; essi, che avevano la facoltà di vivere oziosi nel lusso e nella mollezza, preferivano al certo l'incerto, la guerra alla pace. Vi fu così in quel tempo chi credette che neanche M. Licinio Crasso fosse stato all'oscuro del complotto; poiché Cn. Pompeo, che egli odiava, era a capo d'un grande esercito, avrebbe voluto vedere accrescersi la potenza di chiunque contro di quello, fidando insieme che, se la congiura avesse trionfato, facilmente egli sarebbe divenuto il capo dei congiurati.
Ma anche in precedenza pochi uomini, tra i quali Catilina, avevano congiurato contro lo Stato; di tale congiura dirò quanto più veracemente possibile. Sotto il consolato di L. Tullio e di Manio Lepido, i consoli designati P. Autronio e P. Silla, processati in base alla legge sui brogli, erano stati condannati. Poco dopo a Catilina, accusato di concussione, era stata interdetta la candidatura al consolato, poiché non aveva potuto farsi candidare entro il termine prescritto. V'era in quel tempo Cn. Pisone, un giovane nobile di estrema audacia, bisognoso e fazioso, che la miseria e i malvagi costumi spingevano a sovvertire lo Stato. Comunicatogli il loro disegno verso le None di dicembre, insieme con lui Catilina e Autronio si apprestavano a uccidere in Campidoglio i consoli L. Cotta e L. Torquato nel giorno delle Calende di gennaio; impadronitisi essi dei fasci, avrebbero mandato Pisone con un esercito ad occupare le due Sne. Risaputasi la cosa, differirono ancora il progetto della sommossa alle None di febbraio. Questa volta macchinavano la strage non solo dei consoli, ma della maggior parte dei senatori. E se Catilina non si fosse troppo affrettato a dare il segnale ai complici davanti alla Curia, in quel giorno sarebbe stato perpetrato il più orrendo misfatto dopo la fondazione della città. I congiurati in armi non erano ancora sopraggiunti in numero sufficiente e ciò vanificò il progetto.
Catilina, come vide radunati quelli di cui ho detto poco fa, malgrado i numerosi e lunghi incontri che aveva avuto con ognuno di essi, tuttavia credendo opportuno rivolgere un appello e un'esortazione a tutti insieme, si ritrasse in un luogo appartato della sua casa, e ivi, allontanato ogni altro testimone, tenne un discorso di questa fatta:
«Se io non avessi bene sperimentato il valore e la lealtà vostra, l'occasione favorevole si sarebbe presentata invano; una grande speranza, il potere assoluto sarebbero invano nelle nostre mani, né io con spiriti ignavi e leggeri andrei a caccia dell'incerto in luogo del certo. Ma poiché, in molte e gravi circostanze, vi conobbi forti e a me fidi, perciò il mio animo ha osato intraprendere la più grande e la più nobile delle imprese, anche perché ho capito che avete beni e mali in comune con me: infatti volere e disvolere le medesime cose, questa insomma è ferma amicizia.
«Tutto quel che ho progettato, lo avete già udito separatamente. Ma l'animo mi si infiamma ogni giorno di più, quando considero quale sarà la condizione della nostra vita, se non saremo noi stessi a rivendicare la nostra libertà. Infatti, dopo che la repubblica è caduta nel pieno potere di pochi potenti, è a loro che re e tetrarchi ano i loro tributi, popoli e nazioni ano l'imposta; tutti noi altri, valorosi, prodi, nobili e non nobili, siamo stati volgo, senza credito, senza autorità, asserviti a padroni ai quali, se lo Stato valesse, avremmo incusso timore. Così tutto il credito, la potenza, l'onore, le ricchezze, sono presso di loro o dove essi desiderano; a noi hanno lasciato le ripulse, i pericoli, i processi, gli stenti. Fino a che punto, o valorosi, sopporterete ciò? Non è preferibile morire coraggiosamente, piuttosto che perdere una vita misera e senza onore, dopo essere stati ludibrio dell'altrui superbia? Ma in verità, per gli Dèi e gli uomini lo attesto, la vittoria è in nostra mano. In noi l'età vigoreggia, lo spirito è forte, al contrario presso di loro, per gli anni e le ricchezze, tutto è divenuto decrepito. Bisogna incominciare, il resto verrà da sé.
«Infatti quale uomo di indole virile può tollerare che essi trabocchino di ricchezze che profondono per edifici sul mare e spianare montagne, mentre per noi la sostanza familiare è insufficiente anche al necessario? Che essi colleghino due o più case alla volta, mentre noi non abbiamo un focolare in nessun luogo? Per quanto acquistino quadri, statue, vasi cesellati, demoliscano nuove costruzioni e ne edifichino altre, infine sperperino e dilapidino il danaro in ogni maniera, tuttavia con tutta la loro sfrenatezza non riescono ad esaurire le loro ricchezze. Noi invece abbiamo la miseria in casa, debiti fuori, un miserabile presente, un avvenire molto più aspro; infine che cosa ci resta oltre a un misero soffio di vita?
«Perché dunque non vi destate? Ecco, ecco quella
libertà cui spesso anelaste; e inoltre ricchezze, onore, gloria, vi sono
collocati davanti agli occhi;
Come udirono ciò, oppressi com'erano da ogni sorta di mali, senza beni, senza speranza, benché turbare l'ordine sembrasse già loro una grande ricompensa, tuttavia i più chiesero che egli esponesse quale fosse la condotta della guerra, quali ricompense otterrebbero combattendo, su quali risorse presenti e future potessero contare dovunque. Ed ecco allora Catilina promettere la cancellazione dei debiti, la proscrizione dei ricchi, magistrature, sacerdozi, rapine e tutto ciò che comporta la guerra e la sfrenatezza dei vincitori. Inoltre v'era Pisone nella Sna citeriore, e in Mauritania, con un esercito, P. Sittio di Nocera, partecipi della congiura: chiedeva il consolato G. Antonio, che egli sperava sarebbe stato suo collega: era suo intimo amico, e oppresso da ogni difficoltà; insieme con lui, da console, Catilina avrebbe cominciato l'azione. Oltre a ciò, egli colmava d'ingiurie tutti i buoni cittadini, elogiava, facendone il nome, ciascuno dei suoi, ad uno ricordava la povertà, ad un altro la cupidigia, ad altri i pericoli e l'ignominia che li minacciava, a molti le sue vittorie con Silla e il bottino che ne avevano riportato. Dopo che vide tutti gli animi ardenti, esortatili a sostenere la sua candidatura, congedò l'assemblea.
Tra i congiurati v'era Q. Curio, di nobile nascita, ma coperto di vergogne e di delitti; i censori lo avevano radiato dal Senato per infamia. La leggerezza di quest'uomo non era minore dell'audacia; non sapeva tacere ciò che aveva udito, né occultare egli stesso i suoi propri delitti; in breve, non ponderava nulla di ciò che diceva o faceva. Aveva un antico legame carnale con una dama dell'aristocrazia, Fulvia; essendole divenuto meno gradito perché, trovandosi in ristrettezze, poteva essere con lei meno prodigo, fattosi improvvisamente vanaglorioso, cominciò a promettere mari e monti e talvolta a minacciarla di spada se non fosse stata arrendevole con lui; insomma la incalzava più brutalmente del solito. Fulvia, appresa la causa dell'arroganza di Curio, non tenne certo segreto tale pericolo della repubblica, ma, senza citare la fonte, palesò a molti ciò che sapeva della congiura di Catilina, e il modo in cui l'aveva appreso.
Tale causa soprattutto accese lo zelo della gente per eleggere al consolato M. Tullio Cicerone. Infatti fino ad allora la nobiltà nella sua maggioranza ribolliva di gelosia, e credeva che il consolato quasi s'insozzasse se lo avesse ottenuto un uomo nuovo, anche se egregio. Ma quando il pericolo venne, la gelosia e la superbia passarono in seconda linea.
Dunque, tenute le elezioni, sono proclamati consoli M. Tullio e G. Antonio: ciò che aveva vibrato un primo colpo alla congiura. Ma tuttavia il furore di Catilina non ne era sminuito, bensì ogni giorno di più incalzava, depositava per tutta l'Italia armi in luoghi appropriati, portava a Fiesole, ad un certo Manlio, che fu poi il primo a dichiararsi per la guerra, denaro improntato sulla sua parola o su quella dei suoi amici. In quel tempo si dice che a Catilina si fossero associati uomini d'ogni risma, e anche donne che prima avevano sostenuto grandi spese facendo commercio del proprio corpo, e che poi, quando l'età aveva diminuito soltanto i guadagni, ma non il lusso, avevano contratto debiti enormi. Per mezzo loro, Catilina credeva di poter sollevare gli schiavi urbani, o incendiare la città, e alleare a sé oppure uccidere i loro sposi.
Tra di esse era Sempronia, che sovente aveva compiuto malefatte di un'audacia virile. Questa donna non poteva dolersi della fortuna, per la nobiltà, la bellezza, e inoltre per lo sposo e i li: esperta nelle lettere greche e latine, suonava la cetra e danzava con più raffinatezza di quanto si confacesse a una donna onesta, e possedeva molti altri talenti che sono strumenti di lussuria. Ma tutto le fu sempre più caro del decoro e della pudicizia; non discerneresti se facesse meno conto del danaro o della reputazione; una libidine così ardente da chiedere gli uomini più spesso che esserne richiesta. Spesso in passato aveva tradito la sua parola, negato con spergiuro un debito, era stata complice in un delitto; la lussuria e la miseria l'avevano precipitata nell'abisso. Ma possedeva un ingegno non spregevole: sapeva far versi, sollecitare scherzi, parlare con decoro, o mollezza, o procacia: insomma v'erano in lei molto spirito e fascino.
Impegnato in questi preparativi, Catilina chiedeva tuttavia il consolato per l'anno successivo, sperando, se fosse stato eletto, di manovrare Antonio a suo piacimento. E intanto non stava quieto, ma in tutti i modi tendeva insidie a Cicerone. A questi non mancavano tuttavia astuzia e scaltrezza per guardarsi. Infatti, fin dall'inizio del consolato, con molte promesse per mezzo di Fulvia aveva ottenuto che Q. Curio, di cui poc'anzi ho parlato, gli rivelasse i piani di Catilina. Per di più, pattuito uno scambio di provincia con il suo collega Antonio, l'aveva indotto a non schierarsi contro la repubblica, s'era circondato d'una guardia segreta di amici e di clienti. Venuto il giorno delle elezioni, Catilina, visto che né la sua candidatura né le insidie tese ai consoli nel Campo di Marte avevano sortito successo, decise di far guerra aperta e di ricorrere ad ogni mezzo estremo, poiché i suoi tentativi segreti s'erano risolti in vergognosi rovesci.
Dunque mandò G. Manlio a Fiesole e nell'Etruria circonvicina, un certo Settimio di Camerino nel Piceno, G. Giulio in Puglia, e, in più, altri in luoghi diversi dove credeva gli servissero meglio. Frattanto a Roma egli agiva comunque senza requie, macchinava attentati ai consoli, preparava incendi, presidiava luoghi opportuni con uomini armati, egli stesso sempre munito d'un pugnale, sempre a comandare, ad esortare che fossero pronti e all'erta, giorno e notte in movimento, desto, infaticabile al sonno e alla stanchezza. Infine, poiché tale frenesia non dà frutto, convoca di nuovo nel cuore della notte i capi della congiura in casa di M. Porcio Leca, e ivi rampognatili aspramente per la loro inerzia, li informa di aver mandato G. Manlio presso quelle bande che egli aveva riunito per prendere le armi, e anche altri in luoghi propizi per cominciare la guerra; egli stesso ardeva di raggiungere l'esercito, ma prima voleva sopprimere Cicerone che molto ostacolava i suoi piani.
Pertanto, rimasti tutti gli altri sgomenti e dubbiosi G. Cornelio, cavaliere romano, e con lui L. Vargunteio senatore, promessa l'opera loro, stabilirono per quella stessa notte, poco dopo, di introdursi con uomini armati presso Cicerone, come per salutarlo, e di tragerlo così di sorpresa nella sua casa. Curio, come comprese quale pericolo sovrastasse il console, immediatamente per mezzo di Fulvia informa Cicerone dell'agguato che gli si prepara. Così quelli, tenuti fuori della porta, si erano accollati invano una tale atrocità.
Frattanto Manlio in Etruria cercava di far ribellare la plebe, che la povertà e insieme il risentimento per le ingiustizie patite rendevano incline alla rivoluzione poiché sotto il dominio di Silla aveva perduto i campi e tutti i beni; inoltre reclutava predoni d'ogni genere, dei quali nella regione c'era gran copia, e anche alcuni coloni di Silla, ai quali i vizi e la prodigalità non avevano lasciato nulla delle loro grandi rapine.
Informato di ciò, Cicerone, angustiato da un duplice pericolo, poiché non poteva proteggere più a lungo la città di sua propria iniziativa, e non conosceva esattamente l'entità e i piani dell'esercito di Manlio, porta davanti al Senato la questione di cui s'era già prima impossessata la pubblica opinione. Pertanto, come suole accadere nelle situazioni estreme, il Senato emanò il decreto secondo il quale «i consoli dovessero provvedere a che nessuna sciagura incogliesse lo Stato». Tale potere, secondo la legge romana, è il massimo che sia concesso a un magistrato, levare un esercito, far guerra, reprimere in ogni modo alleati e cittadini, esercitare in patria e fuori la suprema autorità militare e civile, altrimenti, senza l'autorizzazione del popolo romano, il console non ha il diritto di nessuno di questi poteri.
Pochi giorni dopo, il senatore L. Senio lesse in Senato una lettera, che diceva essergli stata recapitata da Fiesole, nella quale era scritto che il sesto giorno prima delle Calende di novembre G. Manlio aveva preso le armi con una grande moltitudine. Nello stesso tempo, come suole accadere in tali circostanze, alcuni davano notizie di portenti e di prodigi, altri di complotti e di truppe in armi e di una sollevazione di schiavi a Capua e in Puglia. Allora, per decreto del Senato, Q. Marcio Re fu inviato a Fiesole, Q. Metello Cretico in Puglia e territori circostanti - entrambi erano generali vittoriosi alle porte della città, privati dall'onore del trionfo per calunnia di pochi avvezzi a trafficare con tutto, onore e disonore -; i pretori Q. Pompeo Rufo e Q. Metello Celere furono mandati, il primo a Capua, il secondo nel Piceno, con la missione di far leve per l'esercito, secondo che il tempo e il pericolo richiedevano. Inoltre, se qualcuno avesse fatto rivelazioni sulla congiura ordita contro lo Stato, avrebbe avuto, se schiavo, la libertà e centomila sesterzi, se libero, l'impunità e duecentomila sesterzi; parimenti fu decretato che le comnie di gladiatori fossero distribuite fra Capua e gli altri municipi a seconda delle loro singole facoltà di controllo, e che a Roma squadre di vigilanza pattugliassero tutta la città sotto la guida di magistrati minori.
Da tutto ciò la cittadinanza era turbata, l'aspetto della città mutato. Alla grande letizia e sfrenatezza prodotta da un lungo periodo di pace, seguì all'improvviso una generale mestizia: era tutto un affrettarsi, un trepidare, un diffidare di ogni luogo e persona, un non far guerra e non aver pace, un misurare i pericoli ciascuno dal proprio timore. Le donne, poi, che la grandezza dello Stato aveva disabituato al timore, si percotevano il petto, tendevano supplici le mani al cielo, commiseravano i lioletti, chiedevano e tornavano a chiedere, temevano tutto; dimentiche di orgoglio e mollezze disperavano di se stesse e della patria.
Ma il crudele animo di Catilina non cessava di perseguire il suo disegno, malgrado i preparativi di difesa, e il fatto che egli stesso fosse stato messo in stato d'accusa da L. Paolo, in virtù della legge Plauzia. Infine, per dissimulare o per discolparsi, si presentò in Senato, come se fosse lui ferito da una calunnia. Allora il console M. Tullio, sia perché intimorito dalla sua presenza, sia perché turbato dall'ira, tenne un discorso splendido e utile alla repubblica, che poi scrisse e pubblicò. Ma appena egli sedette, Catilina, com'era pronto a dissimulare tutto, col viso basso, la voce supplichevole, cominciò a implorare i senatori affinché non credessero di dover temere nulla da lui, rampollo di tale famiglia; fin dall'adolescenza aveva informato la vita in modo da poterne sperare ogni bene: non ritenessero che egli, un patrizio, che personalmente, oltre ai suoi antenati, aveva arrecato tanti benefici al popolo romano, avesse interesse a rovinare la repubblica, mentre la salverebbe M. Tullio, un inquilino della città di Roma. E aggiungendo egli a ciò altre ingiurie, tutti si diedero a strepitare e a chiamarlo nemico pubblico e parricida. Allora egli furibondo: «Ebbene, poiché attorniato da nemici sono spinto nell'abisso,» esclamò, «estinguerò con la rovina l'incendio che mi minaccia.»
Poi dalla Curia si precipitò in casa sua. Ivi, volgendo in sé molti pensieri, poiché gli attentati al console non riuscivano e ben comprendeva che la città era protetta contro gli incendi da squadre di vigili, credendo ottima iniziativa rafforzare l'esercito e, prima che venissero arruolate le legioni, prevenire il nemico con molti preparativi di guerra, nel cuore della notte con altri pochi partì per l'accampamento di Manlio. Ma a Cetego, a Lentulo e a tutti gli altri, di cui conosceva l'audacia risoluta, lascia l'ordine di accrescere con ogni mezzo la forza del partito, di affrettare l'agguato al console, di preparare massacri, incendi, e altre atrocità di guerra; egli stesso, dopo qualche giorno, con un grande esercito marcerebbe sulla città.
Mentre a Roma accade ciò, G. Manlio dal suo seguito manda una delegazione a Marcio Re con questo messaggio:
«Chiamiamo a testimoni gli Dèi e gli uomini, o generale vittorioso, che se abbiamo preso le armi, non è né contro la pace né per nuocere ad altri, ma perché le nostre persone fossero sicure dall'ingiustizia. Sventurati, indigenti per la violenza e la crudeltà degli usurai, siamo stati quasi tutti privati del focolare e tutti della reputazione e delle sostanze; a nessuno di noi secondo la pratica della legge degli avi fu concesso che, perduto il patrimonio, conservassimo libera la persona: tanta è stata la crudeltà degli usurai e del pretore.
«Spesso i nostri antenati, mossi a compassione della plebe romana, con propri decreti sovvennero alla sua miseria; e ultimamente, nei nostri tempi, in ragione della grandezza dei debiti, con il consenso dei buoni cittadini, i debiti in argento vennero ati in rame. Spesso la stessa plebe, spinta dal desiderio di dominare e per l'arroganza dei magistrati, si separò in armi dai patrizi. Ma noi non chiediamo potere né ricchezze, che producono guerre e ogni sorta di contesa fra i mortali, ma la libertà, che nessun vero uomo perde se non insieme con la vita. Scongiuriamo te e il Senato di provvedere a noi sventurati cittadini, di restituirci il presidio della legge, che l'ingiustizia del pretore ci ha strappato, e di non imporci la necessità di cercare il modo di vendere a più caro prezzo il nostro sangue e la nostra vita.»
Catilina, da parte sua, durante il viaggio scrisse una lettera alla più gran parte dei consolari e ad ogni più influente personaggio: assediato da false accuse, poiché aveva potuto resistere alla fazione dei suoi nemici, egli cedeva alla Fortuna, andava in esilio a Marsiglia, non perché si riconosceva colpevole d'un così gran delitto ma affinché la repubblica restasse tranquilla e dalla sua lotta contro la calunnia non nascesse una sedizione. Una lettera ben diversa Q. Catulo lesse in Senato, dicendola indirizzata a lui da Catilina. Eccone qui sotto una copia:
«Lucio Catilina a Q. Catulo. La tua lealtà sperimentata nei fatti, e a me preziosa nei miei grandi pericoli, dà fiducia alla mia raccomandazione. Perciò ho stabilito di non fornirti nessuna difesa della mia estrema decisione, ma, consapevole della mia innocenza, di darti una spiegazione dalla quale, in fede di Giove, si possa conoscere la verità. Esasperato al colmo dalle angherie e dalle offese, poiché privato del frutto delle mie attività e del mio travaglio non potevo conservare il rango della mia dignità, secondo la mia consuetudine ho assunto pubblicamente la causa degli sventurati; non perché non potessi far fronte coi miei mezzi ai debiti contratti a mio nome - a quelli contratti a nome d'altri farebbe fronte la liberalità di Orestilla con le sostanze sue e di sua lia -, ma perché vedevo colmati di onori uomini che non ne erano degni e sentivo me stesso messo in disparte da falsi sospetti. A questo titolo ho conservato la speranza, onorevole in rapporto alla mia attuale sciagura, di serbare intatta la mia residua dignità. Mentre vorrei scriverti di più, mi giunge notizia che si prepara la forza contro di me. Ora ti affido Orestilla, e la raccomando alla tua lealtà; proteggila da ogni oltraggio, te lo chiedo per i tuoi li. Addio.»
Catilina stesso, dopo aver soggiornato pochi giorni presso G. Flaminio in territorio aretino, il tempo di armare la gente di quel territorio già ribellata, si dirige all'accampamento di Manlio con i fasci e le altre insegne del comando. Risapute queste cose a Roma, il Senato dichiara Catilina e Manlio nemici pubblici, e fissa un giorno per la rimanente moltitudine, in cui ad ognuno, eccettuati i rei confessi di delitti capitali, fosse lecito deporre le armi senza punizione. Inoltre decide che i consoli facciano la leva militare, Antonio con l'esercito si affretti a incalzare Catilina, Cicerone resti a presidio della città.
In quel tempo, l'impero del popolo romano mi sembrò più che mai degno di commiserazione. Quello al quale dal tramonto al sorgere del sole ubbidivano tutte le genti domate dalle sue armi, e al cui interno affluivano pace e ricchezza, ritenute fra i mortali le più importanti fra le cose, s'imbatté nondimeno in cittadini che ostinatamente volevano rovinare se stessi e lo Stato. Infatti di tale moltitudine, malgrado i due decreti del Senato, non vi fu nessuno, fra tutti, che indotto dal premio rivelasse la congiura, né disertasse dal campo di Catilina: tanta la forza del male e, per così dire, della peste che aveva invaso l'animo della maggior parte dei cittadini.
E non solo quelli che erano complici della congiura avevano la mente stravolta, ma tutta intera la plebe, per cupidigia di novità, approvava le imprese di Catilina. Evidentemente faceva ciò secondo la sua consuetudine. Infatti, nello Stato, coloro che non hanno beni invidiano sempre i cittadini dabbene, esaltano i malvagi, esecrano il vecchio, bramano il nuovo, per odio della loro condizione desiderano un radicale mutamento, vivono senza pena di torbidi e di sommosse perché la miseria mette facilmente al riparo da ogni danno. Ma la plebe romana aveva davvero molte ragioni di gettarsi nel tumulto. Prima di tutto, coloro i quali dovunque emergevano per turpitudine e sfrontatezza, poi gli altri che avevano con vita svergognata dissipato il patrimonio, infine tutti coloro che un'ignominia o un delitto aveva scacciato dalla patria, tutti costoro erano confluiti a Roma come in una sentina. Poi, molti, memori della vittoria di Silla, poiché vedevano alcuni semplici soldati divenuti senatori, altri così ricchi da trascorrere il tempo in un lusso regale, ognuno, se prendeva le armi, sperava dalla vittoria le medesime cose. Inoltre la gioventù che nei campi con il lavoro manuale pativa la miseria, stimolata dalle largizioni pubbliche e private, aveva preferito l'ozio urbano a un lavoro ingrato. Essi e tutti gli altri vivevano del pubblico danno. Non c'era dunque da meravigliarsi se uomini bisognosi, di cattivi costumi, di sconfinata ambizione, facevano buon mercato dello Stato come di se stessi. Inoltre, coloro dei quali la vittoria di Silla aveva proscritto i parenti, strappato i beni, sminuito il diritto alla libertà, non attendevano certo con altro animo il successo della guerra. Poi, chiunque fosse di un partito diverso da quello del Senato, preferiva che fosse sconvolto lo Stato piuttosto che diminuita la propria influenza. È così che dopo molti anni il male aveva di nuovo invaso la città.
Infatti, dopo che i consoli Cn. Pompeo e M. Crasso ristabilirono la potestà tribunizia, uomini ancor giovani venuti in possesso di un'autorità così grande, con la violenza d'animo che l'età rinfocolava coi loro attacchi al Senato cominciarono ad agitare la plebe, poi con elargizioni e promesse ad alimentare l'incendio, e così diventare essi stessi famosi e potenti. A loro con tutte le forze si opponeva gran parte della nobiltà, sotto l'apparenza di difendere il Senato, in realtà per conservare i suoi privilegi. E infatti, per dire il vero in breve, dopo quei tempi, tutti coloro che sconvolsero lo Stato sotto onorevoli pretesti, alcuni come difendessero gli interessi del popolo, altri perché grande e piena fosse l'autorità del Senato, simulando il bene pubblico, lottavano ciascuno per il proprio potere. Né avevano moderazione o misura nel contendere; gli uni e gli altri esercitavano crudelmente la vittoria.
Ma dopo che Cn. Pompeo fu inviato alla guerra contro i pirati e contro Mitridate, le forze della plebe furono diminuite, crebbe la potenza dei pochi. In loro possesso le magistrature, le province ed ogni altra cosa; essi intoccabili, fiorenti, trascorrevano la vita senza timore, e tenevano gli avversari sotto la minaccia dei processi per ottenere che durante la loro magistratura non agitassero la plebe. Ma appena l'incertezza della situazione richiese speranza di rinnovamenti, l'antico spirito combattivo li rianimò. E se nel primo scontro Catilina fosse riuscito vittorioso o con pari sorte, certo una grande strage e calamità avrebbe oppresso la repubblica, e a quelli che avessero conseguito la vittoria non sarebbe stato lecito goderne a lungo, senza che venisse qualcuno più forte a strappare il potere e la libertà ad essi spossati e affranti.
Vi furono tuttavia molti, estranei alla congiura, che all'inizio partirono per raggiungere Catilina. Tra di essi Fulvio, lio di un senatore, che il padre fece riprendere in viaggio e ricondurre indietro, e uccidere.
Nello stesso tempo a Roma, secondo gli ordini di Catilina, Lentulo sobillava o faceva sobillare da altri tutti coloro che per costumi e fortuna riteneva adatti alla sovversione: e non soltanto cittadini, ma ogni sorta d'uomini, purché potessero servire alla guerra.
Inoltre Lentulo incarica un certo Umbreno di abboccarsi con gli ambasciatori degli Allobrogi e, se gli riesce, di spingerli ad allearsi a loro, ritenendo che essi oppressi da debiti pubblici e privati, e inoltre perché il popolo gallo è bellicoso per natura, potevano essere facilmente attratti a tale disegno. Umbreno, poiché aveva commerciato in Gallia, era noto alla maggior parte dei principi di quelle popolazioni, e a sua volta li conosceva. Pertanto, senza indugio, appena scorse nel Foro gli ambasciatori degli Allobrogi, chiesta loro qualche notizia sullo stato della loro città e fingendo d'impietosirsi della loro sorte, cominciò a chiedere quale esito sperassero a tanti travagli. Quando li vede lamentarsi dell'avidità dei magistrati, accusare il Senato perché in ciò non era loro di nessun aiuto, e aspettare come unico rimedio alle loro miserie la morte: «Ma io», disse, «se volete essere uomini, vi mostrerò il modo di scampare a codeste grandi sciagure.» Appena detto Ciò, gli Allobrogi, indotti in grande speranza pregarono Umbreno di avere compassione di loro: nulla v'era di tanto arduo e difficile che essi non avrebbero fatto con entusiasmo, purché liberasse dai debiti il loro popolo. Allora egli li condusse nella casa di D. Bruto, poiché era vicina al Foro, e grazie a Sempronia, non estranea al complotto; quanto a Bruto, allora era lontano da Roma. Inoltre mandò a chiamare Gabinio, affinché fosse maggiore autorità nel discorso: alla sua presenza, rivela la congiura, fa il nome degli affiliati, e aggiunge i nomi di molti d'ogni genere assolutamente innocenti, affinché maggior animo ne venisse agli ambasciatori; poi, avendo essi promesso l'opera loro, li congeda.
Ma gli Allobrogi rimasero a lungo incerti sulla decisione a prendere. Da una parte c'erano i debiti, l'ardore di guerra, una grande ricompensa nella speranza di vittoria; ma dall'altra, la superiorità di forze, l'assenza di rischi, in luogo di una incerta speranza, ricompense sicure. Valutando queste cose tra loro, infine vinse la fortuna della repubblica. Così svelarono tutta la trama come l'avevano appresa a Q. Fabio Sanga, il patrono consueto del loro popolo. Cicerone, risaputo il piano da Sanga, ordinò agli ambasciatori di simulare un ardente entusiasmo per la congiura, di avvicinare tutti gli altri complici, di fare ampie promesse, di adoprarsi affinché quelli si scoprissero il più possibile.
Verso la medesima epoca,
Ma gli Allobrogi, seguendo le istruzioni di Cicerone per mezzo di Gabinio si uniscono agli altri congiurati. A Lentulo, Cetego, Statilio, e così a Cassio, chiedono un giuramento scritto e sigillato da portare ai loro concittadini: altrimenti non potranno essere spinti a un impegno così grave. Tutti, di nulla sospettando, acconsentono. Cassio promette di unirsi tra breve a loro, e parte dalla città poco prima degli ambasciatori. Lentulo manda un certo Volturcio di Crotone, affinché gli Allobrogi, prima di rientrare in patria, scambiato con Catilina un reciproco pegno di fedeltà confermassero l'alleanza. Egli stesso dà a Volturcio una lettera per Catilina, di cui riproduco il testo qui sotto:
«Chi sono lo saprai da colui che ti ho mandato. Pensa al pericolo in cui ti trovi e ricordati che sei un uomo. Considera che cosa le tue condizioni richiedano, chiedi ausilio a tutti, anche ai più umili.»
A ciò aggiunge istruzioni orali: poiché dal Senato è stato giudicato nemico, per quale scrupolo rifiuterebbe l'aiuto degli schiavi? Nella città tutto è pronto secondo i suoi ordini; non esiti ad avanzare.
Ciò fatto, e fissata la notte in cui gli Allobrogi partissero, Cicerone, informato di tutto dagli ambasciatori, ordina ai pretori L. Valerio Flacco e G. Pontino di arrestare in un agguato sul ponte Milvio la comnia degli Allobrogi. Rivela loro tutta l'operazione per cui erano mandati; in quanto al resto, permette loro di agire secondo la necessità delle circostanze. Essi, uomini di guerra, disposti in silenzio i loro soldati, come era stato loro ordinato, bloccano segretamente il ponte. Dopo che gli ambasciatori con Volturcio giunsero in quel luogo e insieme dalle due parti sorse un clamore, i Galli, subito riconosciuto il piano, senza indugio si consegnano ai pretori. Volturcio dapprima esortò gli altri con la spada e si difese dalla massa; poi, come fu abbandonato dagli ambasciatori, prima supplicò molto per la sua salvezza Pontino, poiché era da lui conosciuto, infine, tremante e disperando della vita, si consegnò ai pretori come a nemici.
Terminato l'episodio, per mezzo di corrieri si dà sollecitamente notizia di tutto al console. E un tumulto dell'animo e insieme una letizia lo pervasero. Infatti si rallegrava vedendo che, smascherata la congiura, la città era stata strappata al pericolo; d'altra parte era angosciato, esitando su come bisognasse operare, essendo stati colti in un delitto tanto grave dei cittadini così ragguardevoli: il loro supplizio peserebbe su di lui, ma la loro impunità credeva che avrebbe significato la rovina della repubblica. Infine si risolse, e ordinò di convocare in sua presenza Lentulo, Cetego, Statilio, Gabinio, e ugualmente Cepario di Terracina, che si preparava a recarsi in Puglia per sollevare gli schiavi. Tutti gli altri vengono senza indugio, ma Cepario, uscito poco prima di casa, appresa la denuncia era fuggito dalla città. Il console, poiché Lentulo era pretore, lo prese egli stesso per mano e così tenendolo lo condusse in Senato; gli altri li fa condurre da corpi di guardia nel Tempio della Concordia. Ivi convoca il Senato, e tra gran folla di senatori fa introdurre Volturcio e gli ambasciatori, e ordina al pretore Flacco di portare il cofanetto contenente la lettera che egli aveva ricevuto dagli ambasciatori.
Volturcio, interrogato sul suo viaggio, sulla lettera, infine su quale fosse stato il suo piano e i motivi di esso, dapprima finge altri pretesti e dissimula l'esistenza della congiura; poi, quando fu invitato a parlare sotto la garanzia dello Stato, svela ogni cosa come s'era svolta, e spiega che egli, associato pochi giorni prima alla congiura da Gabinio e Cepario, non sapeva nulla di più degli ambasciatori, e solo aveva spesso sentito dire da Gabinio che P. Autronio, Servio Silla, L. Vargunteio e molti altri ne facevano parte. Le stesse cose attestano i Galli, smascherano Lentulo che si ostinava a negare, oltre che con la lettera, riferendo i discorsi che egli era solito tenere: dai libri sibillini la signoria di Roma era profetizzata per tre Cornelii: Cinna e Silla prima, egli era il terzo che il Fato designava al dominio sulla città; inoltre quello era il ventesimo anniversario dell'incendio del Campidoglio che spesso gli aruspici dai prodigi avevano predetto sarebbe stato insanguinato dalla guerra civile. Dunque, letta la lettera, avendo prima tutti riconosciuto il proprio sigillo, il Senato decreta che Lentulo, dimessosi dalla carica, e tutti gli altri, siano dichiarati in arresto in libera custodia. Pertanto Lentulo è affidato a P. Lentulo Spinther, che allora era edile, Cetego a Q. Cornificio, Statilio a G. Cesare, Gabinio a M. Crasso, Cepario - infatti costui era stato catturato in fuga - al senatore Cn. Terenzio.
Frattanto, scoperta la congiura, la plebe che prima, bramosa di mutamenti, favoriva fin troppo la guerra, cambiata idea, esecrava i piani di Catilina, portava alle stelle Cicerone, era tutta in gaudio e allegrezza come l'avessero strappata alla schiavitù. In realtà gli altri flagelli della guerra le avrebbero apportato più bottino che danno, ma l'incendio ritenevano crudele e smodato e a loro massimamente calamitoso, come a chi tutti i suoi averi ha negli oggetti d'uso quotidiano e nelle vesti.
Il giorno dopo fu condotto davanti al Senato un certo L. Tarquinio, che dicevano catturato in viaggio verso Catilina e ricondotto in città. Costui, affermando che avrebbe fornito notizie sulla congiura se gli si fosse pubblicamente assicurata l'impunità, ordinatogli dai consoli di rivelare ciò che sapeva, informa quasi delle stesse cose di Volturcio, dei preparativi d'incendi, del massacro dei nobili, della marcia del nemico; aggiunge di essere stato inviato da M. Crasso perché annunziasse a Catilina di non atterrirsi della cattura di Lentulo, di Cetego e degli altri affiliati alla congiura, ma anzi perciò tanto più si affrettasse a marciare sulla città, per rinsaldare l'animo degli altri e perché essi fossero più facilmente strappati al pericolo. Ma come Tarquinio fece il nome di Crasso, di nobile lignaggio, di sterminate ricchezze, di somma potenza, alcuni, ritenendo la cosa incredibile, altri, pur giudicandola vera, tuttavia, poiché in quella congiuntura un personaggio così potente sembrava doversi accarezzare anziché provocare, mentre la maggior parte gli erano obbligati per affari privati, proclamano a una voce falso il testimonio, e chiedono che sia sottoposto al giudizio del Senato. Allora il Senato, consultato da Cicerone, dichiara a ranghi folti che la denuncia sembrava falsa e il suo autore doveva essere incarcerato; né gli fosse consentito di deporre oltre. A meno che confessasse per suggerimento di chi aveva pronunciato una così grave menzogna. V'era in quel tempo chi riteneva il fatto una macchinazione di P. Autronio, affinché più facilmente chiamato in causa Crasso, per la comunità del pericolo gli altri fossero protetti dalla potenza di quello. Altri dicevano che Tarquinio era stato sobillato da Cicerone, affinché Crasso, secondo il suo costume, assunto il patrocinio dei malvagi non turbasse lo Stato. In seguito io stesso ho udito Crasso in persona dichiarare che quella denuncia infamante gli era stata inflitta da Cicerone.
Ma in quello stesso momento, Q. Catulo e G. Pisone, né con preghiere, né con il loro credito, né con danaro, poterono spingere Cicerone a fare falsamente il nome di Cesare per mezzo degli Allobrogi o di qualche delatore. Infatti entrambi nutrivano per quello una grande ostilità: Pisone in un processo per concussione era stato da lui attaccato per un supplizio ingiustamente inflitto a un Gallo transpadano; Catulo ardeva d'odio dopo la sua candidatura al pontificato, poiché egli, nel colmo dell'età, investito delle più alte cariche, era uscito sconfitto dal giovanissimo Cesare. Sembrava poi una circostanza opportuna il fatto che Cesare, per la sua straordinaria liberalità in privato e per la sua magnificenza nelle opere pubbliche, si era fortemente indebitato. Ma poiché non riescono a indurre il console a un crimine così grande, essi stessi singolarmente, dandosi d'attorno e seminando menzogne che dicono aver udito da Volturcio e dagli Allobrogi, riescono a suscitare contro Cesare un grande sfavore, fino al punto che alcuni cavalieri romani che erano di presidio in armi intorno al Tempio della Concordia, spinti sia dalla gravità del pericolo sia da mobilità d'animo, affinché il loro zelo verso la repubblica fosse più chiaro, minacciarono con le spade Cesare che usciva al Senato.
Mentre in Senato accadono queste cose, e si decide sulla ricompensa agli ambasciatori Allobrogi e a T. Volturcio, essendo risultata vera la loro denuncia, i liberti e pochi clienti di Lentulo, correndo in direzioni diverse, sollecitavano gli artieri e gli schiavi nei rioni a strapparlo di prigionia; altri cercavano l'aiuto dei capipopolo sempre pronti a turbare a prezzo la repubblica. Cetego poi, per mezzo di corrieri ai suoi schiavi e liberti, scelti e addestrati, li esortava a una prova di audacia, e cioè a farsi stuolo in armi e ad irrompere fino a lui. Il console, quando seppe che si macchinavano tali cose, disposti presidii secondo che il fatto e la circostanza lo richiedevano, convocato il Senato, lo consulta su cosa intendano fare di coloro che erano stati affidati in custodia. Ora, in una seduta precedente, il Senato, riunito a grande maggioranza, li aveva giudicati colpevoli di complotto contro lo Stato. Allora D. Giunio Silano, chiamato per primo a esprimere il suo parere perché in quel periodo era console designato, aveva proposto che i detenuti fossero messi a morte, e così anche L. Cassio, P. Furio, P. Umbreno, Q. Annio, se fossero catturati; ma egli in seguito, turbato dal discorso di Cesare, si era di nuovo pronunciato, questa volta a favore della proposta di Tiberio Nerone, il quale si era detto dell'avviso di rinviare la deliberazione sulla vicenda dopo aver rafforzato la guarnigione. Quanto a Cesare, quando venne il suo turno di esprimere il parere richiesto dal console, tenne all'incirca questo discorso:
«Tutti gli uomini che giudicano su casi dubbi, o padri coscritti, devono essere esenti da malevolenza, da ira, da pietà. L'animo non distingue facilmente il vero se è da esse offuscato, e mai nessuno servì insieme la passione e l'interesse. Se tendi lo spirito, esso ha tutta la sua forza; se domina la passione, essa ha il potere, l'animo nulla vale. Ho grande abbondanza di memorie, o padri coscritti, sulla quantità di cattive decisioni prese da re e popoli, spinti dall'ira o dalla pietà; ma preferisco parlare di quella che i nostri avi presero secondo probità e giustizia dominando la loro passione. Nella guerra di Macedonia che facemmo al re Perseo, la grande e opulenta città di Rodi, che aveva prosperato con l'aiuto dei Romani, ci fu infida e avversa. Ma dopo che, finita la guerra, si deliberò sui Rodiesi, i nostri avi, non volendo che alcuno li accusasse di aver fatto la guerra più per le ricchezze che per l'offesa ricevuta, li lasciarono impuniti. Ugualmente in tutte le guerre puniche, mentre i Cartaginesi durante gli intervalli di pace e le tregue compirono atroci misfatti, i nostri avi all'occasione non ne compirono di tali; cercavano di fare ciò che fosse degno di loro, piuttosto che giuste ritorsioni contro di quelli. Allo stesso modo dovete preoccuparvi, o padri coscritti, che non valga presso di voi l'offesa di P. Lentulo e di tutti gli altri, più della vostra dignità, e che non pensiate più alla vostra ira che alla vostra fama. Infatti se si cerca una pena degna dell'operato di quelli, approvo una misura senza precedenti; ma se la grandezza del delitto supera ogni immaginazione, sono dell'avviso che si debbano applicare loro le pene previste dalla legge.
«I più di quelli che hanno espresso il loro parere prima di me hanno deplorato con parole acconce e adorne la sventura della repubblica. Quale sarebbe la crudeltà della guerra, quale la sorte dei vinti: le vergini, i fanciulli rapiti, i li strappati dalle braccia dei genitori, le matrone sottoposte al capriccio dei vincitori, i templi, le case spogliate, ovunque perpetrati assassini, incendi, infine, tutto invaso dalle armi, dai cadaveri, dal sangue, dalle lacrime. Ma, per gli Dèi immortali, a che tendeva un tale discorso? Forse a rendervi ostili alla congiura? Certo chi non è stato turbato da una cosa tanto grave e atroce, lo sarà da un discorso! Ma non è così: e a nessun mortale i torti subiti sembrano lievi, molti anzi li stimarono più gravi del giusto. Ma la libertà d'azione non è uguale per tutti, o padri coscritti. Gli umili che vivono oscuri, se peccarono d'ira, pochi lo sanno: la reputazione e la fortuna sono pari. Quelli forniti di grande potere, che vivono in alto, compiono azioni esposte alla conoscenza di tutti i mortali. Così, più grande è la fortuna, meno grande è la libertà d'azione: non si deve favorire, né odiare e meno di tutto adirarsi. Quella che presso gli altri si dice iracondia, nell'esercizio del potere si chiama crudeltà e superbia. Per mia parte, o padri coscritti, ritengo ogni supplizio inferiore ai loro crimini. Ma i più dei mortali ricordano le ultime impressioni, e anche essendo in causa degli scellerati, si dimentica il loro delitto per discutere la loro pena, se sia stata un po' troppo severa.
«Certamente so che D. Silano, uomo forte ed energico, ha detto quel che ha detto per amore della repubblica, né in tale grave argomento lo hanno mosso favore o inimicizia: conosco l'indole e la moderazione di quest'uomo. Ma la sua proposta mi sembra non crudele - cosa infatti può farsi di crudele a tali uomini? -, ma estranea allo spirito del nostro Stato. Infatti di certo il timore e l'enormità dell'offesa ti hanno indotto, o Silano, che sei console designato, a proporre una pena sconosciuta alle nostre leggi. Del timore è superfluo discutere, soprattutto perché per lo zelo del nostro eminente console tanti presidii si trovano in armi. Della pena posso ben dire qualcosa, com'è nei fatti: che nel dolore e nelle miserie la morte è requie ai tormenti, non supplizio, e dissoluzione di tutte le sventure mortali; oltre essa non v'è luogo a gioia o ad affanni. Ma, per gli Dèi immortali, perché nella proposta non hai aggiunto che contro di essi si procedesse anche con la flagellazione? Forse perché la legge Porcia lo vieta? Ma altre leggi vietano che ai cittadini condannati si tolga la vita, e ingiungono che si infligga loro l'esilio. Forse perché la flagellazione è più grave della morte? Ma che può essa avere di troppo rigoroso e grave verso uomini convinti d'un delitto così grave? Se è invece perché questa pena è troppo lieve, come accordi il rispetto della legge in un dettaglio minore, mentre la trascuri in un punto essenziale?
«Ma, si dirà, chi biasimerà ciò che è stato decretato contro degli assassini della patria? L'occasione, il tempo, la fortuna, il cui capriccio governa le genti. Qualunque cosa accadrà, essi l'avranno meritata, ma voi o padri coscritti, considerate l'influenza della vostra decisione su altri. Tutti gli abusi sono nati da buone misure. Ma quando il potere pervenne agli ignari di esso, o a disonesti, quell'abuso straordinario, da colpevoli che lo meritavano, si applica a innocenti che non lo meritano. Gli Spartani, vinti gli Ateniesi, imposero trenta uomini per governare la loro repubblica. Costoro dapprima cominciarono a mandare a morte senza processo i peggiori criminali invisi a tutti: e il popolo a rallegrarsi di ciò, e che era giustamente accaduto. Poi, quando a poco a poco l'arbitrio crebbe, ecco costoro uccidere indiscriminatamente i buoni e i cattivi a loro capriccio, e a terrorizzare tutti gli altri. Così la città, oppressa dalla servitù, ò gravi pene per una stolta letizia. In giorni che ricordiamo, quando Silla vincitore fece sgozzare Damasippo e altri della stessa marmaglia che erano cresciuti per la sventura della repubblica, chi non lodava il suo operato? Dicevano giustamente soppressi dei criminali e dei faziosi, che avevano turbato la repubblica con la sedizione. Ma tale fatto fu l'inizio di una grande strage. Infatti, appena qualcuno bramava un palazzo, una villa, insomma addirittura un vaso o il vestito di un altro, si adoprava a farlo risultare nella lista dei proscritti. Così coloro per i quali la morte di Damasippo era stata una gioia, poco dopo venivano trascinati essi stessi al supplizio; né si smise di sgozzare prima che Silla colmasse tutti i suoi di ricchezze. Io non temo questo, con un console come M. Tullio, e di questi tempi; ma in una grande città molte e varie sono le indoli. In un altro tempo, con un altro console che abbia ugualmente in pugno un esercito, può credersi il falso come cosa vera. Se poggiando sul nostro precedente, un console per decreto del Senato snuderà la spada, chi gli porrà un limite, chi potrà moderarlo?
«I nostri antenati, o padri coscritti, non difettarono mai né di raziocinio né di audacia; né v'era superbia che impedisse loro di imitare istituzioni straniere, se erano buone. Dai Sanniti presero armi di difesa e di offesa; dagli Etruschi la maggior parte delle insegne delle magistrature; infine, ciò che presso alleati o nemici appariva utilizzabile, con grande zelo cercavano di realizzarlo in patria: preferivano imitare piuttosto che invidiare i buoni esempi. Ma nel medesimo tempo, imitando l'uso dei Greci, facevano battere con le verghe i cittadini, e sottoponevano i condannati alla pena capitale. Dopo che la repubblica crebbe, e per la moltitudine dei cittadini presero vigore le fazioni, si cominciò a sopraffare gli innocenti e a compiere abusi di tal genere. Allora furono promulgate la legge Porcia e altre leggi, con le quali fu permesso ai condannati l'alternativa dell'esilio. Ritengo, o padri coscritti, che questo sia argomento capitale contro la decisione di prendere provvedimenti inusitati. Certo il valore e la saggezza furono maggiori in costoro, che da piccola potenza fecero un così grande impero, piuttosto che in noi, che a stento conserviamo i beni acquistati per loro merito.
«Vorremo forse che essi siano liberati, e si rafforzi così l'esercito di Catilina? No davvero. Ma questo propongo: le loro ricchezze siano confiscate, essi si debbano tenere in catene nei municipi più forti e attrezzati, e nessuno poi ne venga a parlare in Senato o ne discuta con il popolo; chi avrà fatto diversamente, il Senato lo ritenga nemico dello Stato e della comune salvezza.»
Dopo che Cesare ebbe finito di parlare, gli altri consentivano con le parole dell'uno o dell'altro. Quando venne per M. Porcio Catone il turno di esprimere il suo parere, egli tenne un discorso di questa guisa:
«Di gran lunga diverso è il mio animo, o padri coscritti, quando considero la vicenda e i nostri pericoli, e quando fra me stesso valuto l'opinione di alcuni. Mi sembra che essi abbiano dissertato sul castigo per coloro che hanno preparato guerra alla loro patria, ai parenti, agli altari e ai focolari; ma la situazione ci ammonisce a premunirci contro di essi piuttosto che consultarci sulle condanne da infliggere loro. Infatti tu puoi punire tutti gli altri crimini quando sono stati commessi: questo invece, se non provvedi a non farlo accadere, quando sia accaduto imploreresti invano l'aiuto della legge: presa la città, nulla resta per i vinti. Ma, per gli Dèi immortali, mi rivolgo a voi che sempre aveste a cuore i palazzi, le ville, le statue, i quadri, piuttosto che la repubblica, se volete conservare quei beni, di qualunque genere siano, ai quali siete così attaccati, se volete dedicarvi tranquillamente ai vostri piaceri, destatevi infine, e prendete in pugno le sorti della patria. Non si tratta di tasse abusive o di angherie agli alleati: la libertà e la vita nostra sono in gioco.
«Sovente, o padri coscritti, ho parlato a lungo davanti al vostro consesso, spesso ho rampognato il lusso e l'avidità dei nostri concittadini, e per questa ragione molti mi si sono fatti nemici mortali. Per me, che non avrei mai perdonato a me stesso e al mio animo nessun delitto, non era facile perdonare ad altri le malefatte della loro passione. Ma sebbene voi non vi curaste di ciò, tuttavia la repubblica era salda: la prosperità tollerava la negligenza. Ma ora non si tratta di questo, se viviamo virtuosamente o viziosamente, né di quanto sia grande e magnifico l'impero del popolo romano, ma di sapere se questi beni, in qualunque modo li si consideri, resteranno nostri o cadranno insieme con noi in potere del nemico. E ora qualcuno mi viene a parlare di mansuetudine e di pietà? Già da tempo, invero, abbiamo disimparato il vero senso delle parole: poiché l'essere prodighi coi denari altrui si dice liberalità e l'audacia nelle ribalderie si chiama bravura, perciò la repubblica è ridotta allo stremo. Poiché tali sono i costumi, siano pure liberali con i beni degli alleati; siano pietosi con i ladri dell'erario: ma non largheggino con il nostro sangue, e mentre risparmiamo pochi scellerati, non mandino tutti i galantuomini in rovina.
«Con parole acconce ed eleganti Cesare ha poc'anzi dissertato di vita e di morte in questo consesso, stimando favole, io credo, le tradizioni relative agli inferi, secondo le quali i malvagi per cammino diverso dai buoni sono assegnati a luoghi tetri, selvaggi, spaventosi e sozzi. E così ha proposto di confiscare i beni dei colpevoli, e questi tenerli in prigione sparsi nei municipi, evidentemente per timore che, se restino a Roma, siano liberati a forza dai complici della congiura e dalla plebaglia prezzolata: quasi che i malvagi e gli scellerati si trovino nella città, e non in tutta Italia, e l'audacia non abbia più potere dove minori sono le forze della difesa. Perciò è sicuramente vana questa misura, se Cesare teme un pericolo da parte di quelli; se fra lo spavento di tutti egli solo non teme, tanto più importa che io e voi temiamo. Perciò, quando voi vi pronuncerete sulla sorte di Lentulo e degli altri, tenete per certo che deciderete anche dell'esercito di Catilina e di tutti i congiurati. Quanto più energicamente agirete voi, tanto più debole sarà il loro animo; se vi vedranno vacillare appena un poco, subito si ergeranno tutti pieni di ferocia.
«Non pensate che i nostri avi da piccola abbiano fatto grande la repubblica con le armi. Se fosse così, noi oggi la avremmo ancora più bella, poiché certo noi abbiamo maggiore copia di alleati e di cittadini, maggior numero anche di armi e di cavalli di quanti ne ebbero essi. Ma altre cose furono a renderli grandi, e che noi non abbiamo per nulla: attività in patria, giustizia nel governare all'estero, animo libero nel decidere, scevro da rimorsi e passioni. In luogo di ciò, noi abbiamo lusso e avidità, povere le finanze pubbliche, doviziose le private; lodiamo le ricchezze, aspiriamo all'ozio, nessuna distinzione fra i buoni e i malvagi; tutte le ricompense dovute alla virtù sono in mano all'intrigo. Né fa meraviglia; quando voi separatamente prendete decisioni ciascuno a proprio vantaggio, quando in casa siete servi del piacere, e qui del denaro e del favore, da ciò consegue che si faccia violenza allo Stato indifeso.
«Ma tralasciamo questo argomento. Cittadini della più alta nobiltà hanno congiurato per incendiare la patria; chiamano alla guerra un popolo gallo, il più ostile al nome romano; il capo dei nemici ci è sopra con un esercito: e voi ancora indugiate ed esitate nella punizione da infliggere a nemici catturati dentro le mura della città? Abbiatene pietà, vi propongo; sono ragazzi, errarono per ambizione; anzi di più, liberateli armati; purché questa vostra mansuetudine e pietà, se essi prendano le armi, non si mutino in rovina. Senza dubbio la questione è grave, ma voi non la temete. Anzi vi terrorizza: ma per inerzia e mollezza d'animo voi prendete tempo aspettando l'uno dopo l'altro, certamente confidando negli Dèi immortali che sempre nei più grandi pericoli salvarono questa repubblica. Ma non con voti o suppliche da femmine si ottiene il soccorso degli Dèi, bensì con le veglie, con l'azione, con le sagge decisioni, tutte le cose volgono al meglio. Quando ti sia dato all'inerzia e all'ignavia, invano imploreresti gli Dèi; sono irati e ostili.
«Al tempo dei nostri antenati, A. Manlio Torquato, durante la guerra gallica fece giustiziare suo lio perché contro gli ordini aveva attaccato il nemico, e quel giovane egregio ò con la morte la pena di un eccessivo coraggio; e voi osate indugiare nello stabilire la sorte dei più crudeli parricidi? Certamente tutta la loro vita trascorsa protesta contro questo loro delitto. Ebbene rispettate la dignità di Lentulo, se egli ebbe mai riguardo del suo pudore e della sua reputazione, degli Dèi e degli uomini; perdonate la giovinezza di Cetego, se non è la seconda volta che egli prende le armi contro la patria. E che dire di Gabinio, Statilio, Cepario, i quali, se avessero avuto mai scrupolo, non avrebbero architettato questo piano contro la repubblica? Infine, o padri coscritti, se potessimo, per Ercole, rischiare un errore, lascerei volentieri che voi foste corretti dagli eventi, poiché spregiate le parole. Ma siamo circondati da tutte le parti, Catilina con l'esercito ci serra la gola, altri sono nemici tra le mura, nel cuore della città, e nulla può prepararsi e decidersi in segreto: ragione di più per affrettarci.
«In conseguenza di ciò io propongo: poiché per nefando complotto di scellerati cittadini la repubblica è stata gettata nei più gravi rischi, e convinti su denuncia di T. Volturcio e degli ambasciatori Allobrogi essi stessi hanno confessato il proposito di stragi, incendi e altri turpi e crudeli atti contro i cittadini e la patria, sulla loro confessione, e come colti in flagrante delitto capitale, siano condannati a morte secondo il costume degli antichi.»
Dopo che Catone sedette, i consolari e con loro la maggior parte del Senato plaudono alla sua proposta e portano alle stelle la sua fermezza d'animo; gridando gli uni contro gli altri, si rimproverano la pusillanimità. Catone è proclamato grande e illustre: il Senato decide secondo la sua proposta.
Ma io, che molto ho letto e molto ho ascoltato le gloriose gesta del popolo romano in pace e in guerra, nel mare e sulla terra, per avventura ho voluto ricercare le cause che soprattutto hanno sostenuto tali imprese. Sapevo che spesso con una piccola schiera i Romani si erano scontrati con grandi eserciti nemici; avevo appreso che con esigue forze avevano fatto guerra a regni opulenti; oltre a ciò, avevano spesso sopportato i rovesci della fortuna; ma erano stati inferiori ai Greci nella parola, ai Galli nella gloria militare. Ebbene, alla mia lunga riflessione appariva chiaro questo, che lo straordinario valore di pochi cittadini aveva tutto operato, e per sua cagione la povertà aveva vinto sulla ricchezza, i pochi avevano superato la moltitudine. Ma dopo che il lusso e l'inerzia corruppero la città, la potenza della repubblica a sua volta fu tanto forte da resistere ai vizi dei suoi condottieri e magistrati; ma come si fosse isterilita partorendo, per lunghi periodi non vi fu più in Roma nessun uomo grande nella virtù. Tuttavia nella mia epoca vi furono due uomini di diversa indole ma di valore eminente, M. Catone e G. Cesare. E poiché l'argomento li ha posti sulla mia strada, non sono stato del parere di passarli sotto silenzio, ma voglio descriverli, per quanto io sappia, nel loro carattere e nei loro costumi.
Dunque, essi furono quasi uguali per nascita, per età, per eloquenza, pari la grandezza d'animo, e anche la gloria, ma di qualità differente. Cesare era stimato grande per liberalità e munificenza, Catone per integrità di vita. Il primo si era fatto illustre con l'umanità e l'inclinazione alla pietà, al secondo aveva aggiunto dignità il rigore. Cesare aveva acquistato gloria con il danaro, con il soccorrere, con il perdonare, Catone con il nulla concedere. L'uno era il rifugio degli sventurati, l'altro la rovina dei malvagi. Del primo era lodata l'indulgenza del secondo la fermezza. Infine Cesare s'era prefisso nell'animo di lavorare senza tregua, di vegliare, di trascurare i suoi interessi per dedicarsi a quelli degli amici, di non rifiutare nulla che meritasse di essere donato; per sé desiderava una grande potenza, un esercito, una guerra nuova in cui potesse risplendere il suo valore. Catone invece ambiva la misura, il decoro, ma soprattutto la severità. Non gareggiava in ricchezze con il ricco, in faziosità con il fazioso, ma in coraggio con il valoroso, in ritegno con il modesto, in integrità con gli onesti. Preferiva essere che sembrare buono, così, quanto meno cercava la gloria, tanto più quella lo seguiva.
Dopo che il Senato, come ho detto, si fu schierato con la proposta di Catone, il console, ritenendo che il meglio da farsi era prevenire la notte che incombeva, affinché nell'intervallo non accadesse nulla di nuovo, ordina ai triumviri di preparare tutto per il supplizio; egli stesso, disposti i corpi di guardia, conduce Lentulo nel carcere, altrettanto fanno i pretori con gli altri congiurati. V'è nella prigione, quando si sale un poco sulla sinistra, un luogo chiamato Tulliano, scavato di circa dodici piedi sotto il terreno. Lo chiudono muri da ogni parte e, sopra, una volta con archi di pietra; per lo squallore, le tenebre, il fetore, ha un aspetto sozzo e spaventoso. Lentulo, calato in questo luogo, secondo l'ordine impartito fu strangolato con un laccio dai carnefici. Cosí quel patrizio, della nobilissima famiglia dei Cornelii, che aveva esercitato in Roma il potere consolare, trovò una fine degna dei suoi costumi e dei suoi atti. Cetego, Statilio, Gabinio, Cepario, furono messi a morte nello stesso modo.
Mentre a Roma accadono
queste cose, Catilina forma due legioni con tutta la truppa che aveva condotto
con sé e con quella che Manlio già aveva; completa i ranghi delle coorti
in proporzione al numero dei soldati. Poi ripartisce ugualmente tutti quelli
che erano venuti nel campo, come volontari o alleati, e in breve tempo completa
il numero normale degli effettivi, mentre all'inizio non aveva più di
duemila uomini. Ma di tutti quei soldati, circa la quarta parte era armata
regolarmente; tutti gli altri, come il caso aveva armato ciascuno, portavano
aste o lanciotti, altri brandivano pali aguzzati in punta. Ma dopo che Antonio
cominciò ad avvicinarsi con l'esercito, Catilina marcia tra i monti;
muove il campo ora verso Roma, ora verso
Ma dopo che giunse nel
campo la notizia che la congiura era stata scoperta, e del supplizio inflitto a
Lentulo, a Cetego e agli altri che più su ho ricordati, la maggior parte
che era stata attratta alla guerra dalla speranza di rapine e dalla smania di
rivolgimenti, si disperde, gli altri Catilina li conduce a marce forzate per
aspre giogaie, nel territorio di Pistoia, con il proposito di rifugiarsi per
segreti sentieri nella Gallia Transalpina. Ma Q. Metello Celere era stanziato
nel Piceno con tre legioni pensando che per la difficoltà della situazione
Catilina meditasse proprio il piano che abbiamo sopra esposto. Dunque,
conosciuto da transfughi il cammino di lui, mosse in fretta l'accampamento e si
attestò proprio ai piedi dei monti, per dove quegli doveva discendere
nella sua rapida marcia verso
«So bene, soldati, che le parole non donano il coraggio, e che nessun esercito da ignavo diventa strenuo, né forte da timoroso per un discorso del comandante. Quanta audacia è nell'animo di ciascuno per natura o per indole, tanta suole rivelarsi in guerra. Si esorterebbe invano chi non è infiammato né dalla gloria né dai rischi; la paura gli occlude le orecchie. Ma io vi ho chiamati per darvi brevi consigli e insieme per svelarvi la ragione della mia scelta.
«Sapete certamente, soldati, quanta rovina ci
abbia arrecato la mollezza e la viltà di Lentulo, e in qual modo
l'attesa dei rinforzi dalla città m'ha impedito di marciare verso
«Quando vi guardo, o soldati, e rivolgo nel mio animo le vostre imprese passate, mi prende una grande speranza di vittoria. L'animo, l'età, il valore vostri mi infondono fiducia, e pure la necessità che rende forti anche i timorosi. Per di più l'angustia del luogo impedisce alla moltitudine dei nemici di circondarci. Che se la fortuna si rifiuterà di assecondare il vostro valore, badate di non perdere la vita invendicati, e piuttosto di lasciarvi prendere e trucidare come bestie, combattendo da uomini lasciate al nemico una vittoria insanguinata e luttuosa.»
Ciò detto, indugiato brevemente, fa suonare il segnale di battaglia e guida i ranghi schierati in un luogo pianeggiante. Poi, allontanati tutti i cavalli per dare più coraggio ai soldati con l'uguaglianza del pericolo, egli stesso, a piedi, dispone l'esercito secondo la natura del terreno e la qualità dei soldati. Infatti, poiché la pianura era fra i monti a sinistra e scoscendimenti dirupati a destra, stanzia otto coorti sul fronte, e raggruppa le altre in masse più serrate di riserva. Da queste preleva i centurioni, tutti soldati scelti e richiamati, e inoltre i meglio armati dei comuni soldati, e li pone in prima fila. Affida il comando della destra a G. Manlio, della sinistra a uno di Fiesole, egli con i liberti e i coloni si attesta presso l'aquila, che si diceva essere stata di Mario contro i Cimbri.
Dall'altra parte G. Antonio, sofferente di gotta, poiché non poteva partecipare alla battaglia, affida l'esercito a M. Petreio. Questi dispone sul fronte le coorti dei veterani arruolati contro l'insurrezione, e alle loro spalle il resto dell'esercito di riserva. Egli stesso percorrendo a cavallo le file, chiama per nome ogni soldato, li prega di ricordarsi che stanno lottando con predoni male armati, per la patria, per i li, per gli altari e i focolari. Uomo di guerra, poiché era stato nell'esercito più di trent'anni con grande gloria, tribuno, prefetto, legato, pretore, conosceva i più dei soldati e le loro imprese, e ricordandole infiammava i loro cuori.
Dopo aver passato tutto in rivista Petreio fa dare con le trombe il segnale della battaglia, ordina alle coorti di avanzare lentamente, lo stesso fa l'esercito nemico. Giunti là dove i ferentari devono attaccare combattimento, piegate le insegne contro il nemico, con altissimo clamore corrono gli uni contro gli altri, lasciano i giavellotti, si combatte con le spade. I veterani, memori dell'antico valore, incalzano acremente da presso: quelli, per nulla intimoriti, resistono, si combatte con estrema violenza. Intanto Catilina con la truppa leggera imperversa in prima linea, soccorre quelli in difficoltà, rimpiazza i feriti con truppe fresche, provvede a tutto, si batte egli stesso con vigore, spesso colpisce il nemico; eseguiva insieme il dovere di un soldato coraggioso e di un buon condottiero. Petreio, quando vede che Catilina contrariamente a quel che aveva creduto, combatteva con grande energia, lancia la coorte pretoria contro il centro dei nemici, e massacra quelli che riesce a scompigliare e che cercavano di resistere altrove; poi attacca gli altri da entrambe le parti. Manlio e il Fiesolano cadono tra i primi combattendo. Catilina, quando vede le sue truppe in rotta e se stesso rimasto con pochi uomini, memore della sua stirpe e della passata dignità, si getta dove i nemici erano più folti e ivi lottando è trafitto.
Terminata la battaglia, allora avresti veduto davvero quanta audacia e forza d'animo fossero state nell'esercito di Catilina. Infatti quel luogo che ognuno da vivo aveva occupato lottando, ora, perduta la vita, lo ricopriva con il suo cadavere. Pochi del centro, poi, che la coorte pretoria aveva disperso, giacevano un po' più lontano, ma tutti nondimeno colpiti di fronte. Catilina fu trovato lontano dai suoi, tra i cadaveri dei nemici, respirava ancora appena, recando impressa in volto la fierezza d'animo che aveva avuto da vivo. Infine, di tutta questa armata, nessun libero cittadino fu catturato in battaglia o in fuga: a tal punto ciascuno aveva risparmiato la sua vita al pari di quella del nemico. Né l'esercito del popolo romano aveva ottenuto una vittoria lieta o incruenta, infatti tutti i più valorosi o erano caduti in battaglia o ne erano usciti gravemente feriti. Molti poi che erano usciti dal campo per visitare il terreno di combattimento o far bottino, rivolgendo i cadaveri dei nemici, trovavano chi un amico, chi un ospite o un parente; vi furono anche alcuni che trovarono un nemico personale. Così per tutto l'esercito variamente si mescolavano la letizia, l'angoscia il cordoglio la gioia.
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