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La guerra civile - Cesare
LIBRO PRIMO
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Dopo che la lettera di Cesare fu consegnata ai consoli, si ottenne con difficoltà, nonostante la forte insistenza dei tribuni della plebe, che essa fosse letta in senato; non si poté invece ottenere che se ne discutesse ufficialmente. I consoli presentano una relazione sulla situazione dello stato. Il console L. Lentulo aizza il senato; promette di non fare mancare il suo sostegno allo stato, se i senatori vorranno esprimere il loro parere con coraggio e forza; ma se essi hanno riguardo per Cesare e ricercano il suo favore, come hanno fatto nei tempi passati, egli prenderà posizione nel proprio interesse senza sottostare all'autorità del senato; del resto anch'egli ha modo di trovare rifugio nel favore e nell'amicizia di Cesare. Con il medesimo tono si esprime Scipione: è intenzione di Pompeo difendere lo stato, se il senato lo asseconda; ma se il senato esita o agisce con troppa mollezza, invano implorerà il suo aiuto, se in seguito lo vorrà.
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Questo discorso di Scipione, poiché la seduta del senato si teneva in città e Pompeo era vicino, sembrava uscire dalle labbra dello stesso Pompeo. Qualcuno aveva espresso un parere più moderato, come in un primo tempo M. Marcello che, presa la parola in quell'intervento, sostenne che non era il caso di discutere della cosa in senato prima che si facessero in tutta Italia leve e si arruolassero eserciti, sotto la cui protezione il senato avrebbe osato decretare con sicurezza e liberamente il proprio volere; come M. Calidio, che proponeva che Pompeo tornasse nelle sue province, perché non vi fosse motivo di ricorso alle armi; Cesare temeva, egli diceva, che, essendogli state sottratte due legioni, Pompeo le trattenesse presso la città, tenendole di riserva con intenzioni ostili nei suoi confronti; come M. Rufo, che faceva suo il parere di Calidio, addirittura mutandone solo poche parole. Tutti costoro, travolti dalla clamorosa protesta del console L. Lentulo, erano oggetto di violenti attacchi. Lentulo dichiarò di non avere assolutamente intenzione di mettere in votazione la mozione di Calidio; Marcello, atterrito dalle clamorose proteste, ritirò la sua. Così la maggior parte dei senatori, trascinata dalle grida del console, dalla paura che suscitava la vicinanza dell'esercito, dalle minacce degli amici di Pompeo, pur controvoglia e per costrizione, approva la proposta di Scipione: che Cesare, prima di un dato giorno, smobiliti l'esercito; se non lo fa, risulti chiaro che egli ha intenzione di agire contro lo stato. Fanno opposizione i tribuni della plebe, M. Antonio e Q. Cassio. Subito si pone in discussione il veto dei tribuni. Vengono espressi pareri pesanti; quanto più ciascuno parla con arroganza e durezza, tanto più è colmato di lodi dagli avversari di Cesare.
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Conclusa verso sera la seduta del senato, tutta la classe dei senatori viene convocata da Pompeo fuori della città. Pompeo loda i risoluti e li incoraggia per l'avvenire, rimprovera e sprona quelli troppo esitanti. Da ogni parte, con la speranza di ricompense e di promozioni, vengono richiamati alle armi molti soldati delle vecchie truppe di Pompeo; sono richiamati in servizio molti soldati provenienti dalle due legioni consegnate da Cesare. La città si riempie di commilitoni di Pompeo, di tribuni, di centurioni, richiamati in servizio. Tutti gli amici dei consoli, i clienti di Pompeo e coloro che avevano vecchi rancori verso Cesare vengono radunati nel senato; le loro grida e il loro accorrere in massa atterriscono i più deboli, rassicurano gli incerti; ai più invero è sottratto il potere di deliberare liberamente. Il censore L. Pisone, e parimenti il pretore L. Roscio, si dichiarano disponibili ad andare da Cesare, per metterlo al corrente di questi avvenimenti; chiedono sei giorni di tempo per portare a termine la missione. Da alcuni viene anche proposto di inviare ambasciatori a Cesare, che gli espongano il volere del senato.
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A tutte queste proposte fa resistenza e opposizione l'intervento del console, di Scipione e di Catone. Vecchi rancori nei riguardi di Cesare e il dolore del suo insuccesso elettorale aizzano Catone. Lentulo è mosso dalla grande quantità di debiti, dalla speranza di avere un esercito e delle province e dai doni degli aspiranti al titolo di re. Tra i suoi si vanta di star per diventare un secondo Silla nelle cui mani ritornerà il potere supremo. Stimola Scipione una medesima speranza di governo di province e di comando di eserciti che, per legami di parentela, pensa di potere dividere con Pompeo; e nello stesso tempo lo stimolano il timore di processi e la propria vanità e l'adulazione dei potenti che in quel tempo avevano grandissima influenza nello stato e nei tribunali. Lo stesso Pompeo, incitato dagli avversari di Cesare e poiché non voleva che nessuno gli fosse pari per prestigio, si era del tutto allontanato dalla sua amicizia e si era riconciliato con comuni avversari, che, in gran parte, egli stesso aveva procurato a Cesare al tempo della loro parentela. Contemporaneamente, indotto dal disonore di avere trattenuto a sostegno della propria influenza e supremazia politica due legioni destinate all'Asia e alla Siria, manovrava affinché la contesa fosse condotta a un confronto armato.
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Per queste ragioni tutto viene fatto in fretta e confusamente. Non si dà tempo ai congiunti di Cesare di informarlo né viene concessa ai tribuni della plebe la possibilità di allontanare da sé il pericolo né di conservare il supremo diritto di veto, che L. Silla aveva loro lasciato; ma, dopo solo sette giorni, sono costretti a pensare alla propria incolumità, la qual cosa quei turbolentissimi tribuni della plebe dei tempi passati solevano prendere in esame e temere solo all'ottavo mese delle loro funzioni. Si giunge precipitosamente a quel gravissimo ed estremo decreto del senato, al quale prima mai si ricorse nonostante l'audacia dei relatori se non, per così dire, quando la città fu in mezzo alle fiamme e quando si disperò della salvezza di tutti: provvedano i consoli, i pretori, i tribuni della plebe e i proconsoli che sono vicini alla città affinché lo stato non subisca alcun danno. Ciò viene registrato con decreto del senato il 7 gennaio. E così nei primi cinque giorni in cui si poterono tenere le sedute del senato, dal giorno in cui Lentulo diede inizio al proprio consolato, fatta eccezione per i due giorni dedicati al comizio, si prendono gravissime e rigorosissime delibere nei confronti del potere militare di Cesare e di persone assai ragguardevoli, i tribuni della plebe. Subito i tribuni della plebe fuggono da Roma e si rifugiano presso Cesare. In quel tempo egli era a Ravenna e attendeva risposte alle sue così moderate richieste, sperando che, per un senso di umana moderazione, il conflitto si potesse risolvere pacificamente.
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Nei giorni successivi, le sedute del senato
si tengono fuori Roma. Pompeo presenta quelle medesime proposte che aveva fatto
conoscere per bocca di Scipione; loda la fermezza e la coerenza del senato;
enumera le sue forze; afferma di avere pronte dieci legioni; inoltre di avere
appreso e accertato che i soldati sono ostili a Cesare: non li si può
indurre a difenderlo o, soltanto, a seguirlo. Circa le altre questioni viene
proposto al senato quanto segue: si facciano leve in tutta Italia; Fausto Silla
sia mandato in Mauritania come propretore; sia data facoltà a Pompeo di
usare il denaro dell'erario pubblico. Si presentano proposte anche nei riguardi
del re Giuba: sia dichiarato alleato e amico. Marcello nega di potere per il
momento sottoscrivere la proposta. Filippo, tribuno della plebe, pone il veto
alla mozione relativa a Fausto. Vengono registrati i decreti del senato
riguardanti gli altri punti. A privati vengono assegnate le province, due
consolari, le altre pretorie. A Scipione tocca in sorte
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Cesare, venuto a conoscenza di questi
fatti, parla ai soldati. Rammenta gli affronti fattigli dagli avversari in ogni
tempo; e si duole che Pompeo, per invidia e gelosia della sua gloria, sia stato
da essi sedotto e corrotto, mentre egli stesso lo ha sempre aiutato nella
carriera e ne è stato il sostenitore. Lamenta che è stato
introdotto un precedente, insolito nello stato, cioè che il veto dei
tribuni, che negli anni addietro era stato ristabilito con le armi, con le armi
ora venga infamato e soffocato. Silla, pur avendo spogliato il potere dei
tribuni di ogni forza, tuttavia aveva lasciato libero il veto; Pompeo, che
sembra avere restituito i privilegi perduti, ha tolto anche quelli che i
tribuni hanno avuto in passato. Ogniqualvolta si decretò che i
magistrati provvedessero affinché lo stato non ricevesse alcun danno (e con questa
formula e con questo decreto il popolo romano veniva chiamato alle armi),
ciò fu fatto in caso di leggi perniciose, di azioni di forza dei
tribuni, di sommosse popolari, con l'occupazione di templi e di posizioni
dominanti; e rammenta che questi fatti del passato sono stati espiati con la
morte di Saturnino e dei Gracchi. In quel tempo nulla di questo fu fatto e
neppure pensato: non fu promulgata nessuna legge, non vi fu inizio di ricorso
al popolo, non venne fatta alcuna sommossa. Esorta i soldati a difendere dagli
avversari la reputazione e l'onore del comandante sotto la cui guida, durante
nove anni, hanno servito fedelmente lo stato e combattuto moltissime battaglie
con esito favorevole, hanno portato pace in tutta
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Cesare, conosciuta la disposizione d'animo dei soldati, si dirige con quella legione a Rimini e qui incontra i tribuni della plebe che presso di lui erano venuti a trovare rifugio; richiama dagli accampamenti invernali le rimanenti legioni con l'ordine di seguirlo. Lì giunge il giovane L. Cesare, il cui padre era luogotenente di Cesare. Costui, terminato il discorso su altri argomenti, per i quali era venuto, dichiara di avere per lui da parte di Pompeo messaggi di carattere privato: dice che Pompeo vuole scusarsi dinanzi a Cesare, che non prenda per offesa personale le azioni che egli ha compiuto per il bene dello stato; dice che alle amicizie personali egli ha sempre anteposto l'interesse pubblico. Anche Cesare, in considerazione della sua posizione, deve per il bene dello stato sacrificare il proprio interesse e il proprio risentimento e non adirarsi con gli avversari così violentemente da risultare, sperando di danneggiarli, di danno allo stato. Aggiunge poche considerazioni del medesimo tono che unisce alle scuse di Pompeo. Il pretore Roscio presenta a Cesare quasi i medesimi argomenti e con le medesime parole, dimostrando di essere stato ben istruito da Pompeo.
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Era chiaro che tutto ciò non serviva a cancellare le offese; tuttavia Cesare, approfittando di uomini adatti, tramite i quali poteva trasmettere il suo volere a Pompeo, chiede a entrambi, dal momento che gli hanno riferito le ambascerie di Pompeo, di non rifiutarsi di riferire a lui anche le sue richieste, per vedere se mai, con poca fatica, fossero in grado di sanare grandi controversie e liberare dal timore tutta l'Italia. Dice che egli ha sempre posto l'onore al primo posto, considerandolo più importante della vita. Che ha provato dolore perché, con atto oltraggioso, gli è stato strappato dagli avversari un privilegio concesso dal popolo romano e, privato di sei mesi di comando, egli è stato richiamato a Roma, benché il popolo avesse deliberato che nei prossimi comizi si ritenesse valida la sua candidatura, pur se assente. Tuttavia, per il bene dello stato, ha sopportato di buon grado questo danno; quando ha mandato una lettera al senato, chiedendo che tutti i comandanti venissero allontanati dagli eserciti, neppure questo ha ottenuto. In tutta Italia si fanno arruolamenti, sono trattenute le due legioni che gli sono state sottratte col pretesto della guerra contro i Parti; la popolazione è in armi. A che volgono tutte queste manovre se non a suo danno? Pur tuttavia egli è pronto a rassegnarsi e a tutto sopportare per il bene dello stato. Pompeo se ne ritorni nelle sue province, tutti e due congedino gli eserciti, tutti in Italia lascino le armi, il popolo venga liberato dal timore, siano garantiti al senato e al popolo romano liberi comizi e l'esercizio della cosa pubblica. Perché ciò si possa fare più facilmente e con patti sicuri, sanciti da giuramento, o Pompeo si avvicini o lasci che sia Cesare ad avvicinarsi; tutte le controversie si potrebbero dirimere tramite contatti diretti.
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Assuntosi l'incarico, Roscio insieme a L. Cesare giunge a Capua, dove trova i consoli e Pompeo; riferisce le richieste di Cesare. Dopo essersi consultati, danno una risposta e, tramite loro, per iscritto rimettono a Cesare le loro proposte, i cui punti principali sono questi: Cesare ritorni in Gallia; si allontani da Rimini, congedi l'esercito; Pompeo sarebbe andato in Sna quando egli avesse eseguito questi ordini. Nel contempo, fino a che non sarebbe stato certo che Cesare avrebbe mantenuto le sue promesse, i consoli e Pompeo non avrebbero interrotto gli arruolamenti.
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Era proposta ingiusta esigere che Cesare si ritirasse da Rimini e ritornasse nella sua provincia, mentre Pompeo conservava e le sue province e le legioni altrui; pretendere che venisse congedato l'esercito di Cesare, quando Pompeo faceva le leve; promettere di partire per la sua provincia e non fissare la data della partenza, così che, se anche, una volta terminato che fosse il proconsolato di Cesare, non fosse ancora partito, non sarebbe tuttavia apparso vincolato da alcuno scrupolo di mentire; inoltre il non fissare una data per l'abboccamento e il non promettere di incontrarlo facevano fortemente disperare dei propositi di pace. E così manda M. Antonio da Rimini ad Arezzo con cinque legioni; egli con due legioni si ferma a Rimini e qui si dispone a fare leve; con una coorte per città si impossessa di Pisa, Fano, Ancona.
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Informato nel frattempo che il pretore Termo con cinque legioni tiene Gubbio e che fortifica la città e che tutti gli Iguvini sono ottimamente disposti nei suoi confronti, invia Curione con tre coorti che aveva a Pisa e a Rimini. Venuto a conoscenza del loro arrivo, Termo, che non si fidava del consenso del municipio, ritira le coorti dalla città e si dà alla fuga. I suoi soldati, durante la marcia, disertano e se ne tornano a casa. Curione si impadronisce di Gubbio col massimo consenso di tutti. Conosciuti i fatti, confidando nei consensi dei municipi, Cesare ritira dai presidi le coorti della tredicesima legione e marcia su Osimo; questa posizione era tenuta da Azzio che vi aveva introdotto le coorti e faceva, mandando in giro senatori, leve in tutto il Piceno.
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Alla notizia dell'arrivo di Cesare, i decurioni di Osimo, in gran numero, si recano da Azzio Varo; gli dichiarano che non spetta a loro giudicare; che né loro né gli altri municipi possono accettare che il comandante C. Cesare, benemerito dello stato, autore di tante imprese, sia tenuto lontano dalla città e dalle sue mura; Varo, dunque, tenga conto del giudizio dei posteri e del proprio pericolo. Indotto da queste parole, Varo ritira dalla città il presidio che vi aveva introdotto e si dà alla fuga. Pochi soldati dell'avanguardia di Cesare, dopo averlo inseguito, lo costrinsero a fermarsi. Attaccata battaglia, Varo viene abbandonato dai suoi; una parte dei soldati se ne torna a casa; i rimanenti raggiungono Cesare. Viene fatto prigioniero e condotto insieme a quelli L. Pupio, centurione primipilo, che prima aveva avuto quel medesimo grado nell'armata di Cn. Pompeo. Cesare, poi, si congratula con i soldati di Azzio, lascia libero Pupio, ringrazia gli Osimati e promette di serbare il ricordo del loro operato.
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Giunta notizia a Roma di questi fatti, si diffuse all'improvviso un terrore tanto grande che il console Lentulo, che era andato ad aprire l'erario e a prelevare, secondo le disposizioni del senato, il denaro da dare a Pompeo, dopo avere aperto la sala in cui era conservata la riserva del tesoro pubblico, subito se ne fuggì da Roma. Si andava infatti falsamente dicendo che Cesare stava per sopraggiungere e che i suoi cavalieri erano vicini. Lentulo fu seguito dal collega Marcello e dalla maggior parte dei magistrati. Cn. Pompeo, partito da Roma il giorno prima, si dirigeva verso le legioni che aveva ricevuto da Cesare e che aveva stanziato a svernare in Puglia. Gli arruolamenti intorno a Roma vengono sospesi; a tutti risulta lampante che al di qua di Capua non vi è sicurezza. Solamente a Capua ci si rincuora e si ritrova il coraggio e si incomincia ad arruolare i coloni che, in conseguenza della legge Giulia, erano stati qui insediati. Vengono condotti in piazza i gladiatori della scuola gladiatoria di Cesare a Capua; Lentulo li rende risoluti con la speranza di libertà; fornisce loro cavalli e dà l'ordine di seguirlo. In seguito, criticato dai suoi per tale iniziativa biasimata da tutti, li divide, affinché fossero sorvegliati insieme agli schiavi delle comunità campane.
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Cesare, uscito da Osimo, attraversa tutto l'Agro Piceno. Tutte le prefetture di quella regione lo accolgono con grande entusiasmo e danno ogni sorta di aiuto al suo esercito. Giungono da lui ambasciatori provenienti anche da Cingoli, cittadina che era stata fondata da Labieno e costruita con il suo denaro, e gli assicurano una completa e diligente esecuzione degli ordini. Cesare fa richiesta di soldati; glieli inviano. Nel frattempo la dodicesima legione raggiunge Cesare. Alla testa di queste due legioni egli si dirige ad Ascoli Piceno. Questa città era occupata da Lentulo Spintere e dalle sue dieci coorti. Costui, alla notizia dell'arrivo di Cesare, fugge via dalla città e nel tentativo di trascinarsi dietro le coorti viene abbandonato da gran parte dei soldati. Rimasto con pochi uomini durante la marcia incontra Vibullio Rufo, che era stato mandato da Pompeo nel Piceno per rassicurare gli abitanti. Vibullio, venuto a conoscenza da lui della situazione del Piceno, si fa consegnare i soldati e lo congeda. Così pure raggruppa dalle regioni confinanti quante coorti può fra i soldati arruolati da Pompeo; fra questi raccoglie Lucilio Irro, in fuga da Camerino, con le sei coorti che qui egli aveva tenuto di presidio. Con i soldati raccolti, forma tredici coorti. E con esse, a marce forzate, giunge a Corfinio presso Domizio Enobarbo e gli annuncia che Cesare con le due legioni è vicino. Da parte sua Domizio aveva messo insieme circa venti coorti, raccogliendo uomini da Alba, dai Marsi, dai Peligni e dalle regioni confinanti.
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Dopo la modulazione di Fermo e la cacciata di Lentulo, Cesare fa ricercare i soldati che hanno disertato le file di Lentulo e ordina gli arruolamenti. Egli stesso, dopo un solo giorno di sosta per gli approvvigionamenti, marcia su Corfinio. Quando vi giunse, cinque coorti, che Domizio Marso in precedenza aveva inviato dalla città, stavano tagliando il ponte sul fiume distante dalla città circa tre miglia. Qui l'avanguardia di Cesare attaccò battaglia e in breve tempo i soldati di Domizio furono scacciati dal fiume e costretti alla ritirata in città. Cesare, fatto attraversare il fiume alle legioni, si fermò presso Corfinio e si accampò vicino alle mura.
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Domizio, venuto a conoscenza di come stavano i fatti, manda a Pompeo in Puglia, con la promessa di grandi ricompense, uomini pratici del posto con una lettera, per chiedere e supplicare di andare in suo soccorso: 'Con due eserciti, in luoghi stretti, è facile accerchiare Cesare e tagliargli l'approvvigionamento. Se Pompeo non viene in aiuto, egli stesso e più di trenta coorti e un gran numero di senatori e cavalieri romani si troveranno in pericolo'. Nel frattempo Domizio, dopo avere incoraggiato i suoi, dispone le macchine da guerra sulle mura e assegna a ciascuno di essi un suo settore per la difesa della città; ai soldati convocati in assemblea promette terreni di sua proprietà, quindici iugeri a ciascuno e in quantità proporzionale ai centurioni e ai soldati richiamati dal congedo.
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Frattanto viene annunciato a Cesare che gli abitanti della città di Sulmona, che dista da Corfinio sette miglia, desiderano obbedire ai suoi ordini, ma che ne sono impediti dal senatore Q. Lucrezio e da Azzio Peligno, che con l'aiuto di sette coorti occupavano questa città. Cesare invia colà M. Antonio con cinque coorti della tredicesima legione. Gli abitanti di Sulmona, alla vista delle nostre insegne, aprirono le porte e tutti quanti, civili e soldati, uscirono esultanti incontro ad Antonio. Lucrezio e Azzio balzarono giù dalle mura. Azzio, condotto davanti ad Antonio, chiede di essere mandato da Cesare. Antonio fa ritorno con le coorti e con Azzio il giorno stesso in cui era partito. Cesare riunì quelle coorti al suo esercito e lasciò andare Azzio sano e salvo. Nei primi giorni Cesare provvede a fortificare il suo accampamento con grandi strutture di difesa, a fare giungere dai municipi vicini provviste di frumento, in attesa delle altre truppe. Nei primi tre giorni si uniscono a lui l'ottava legione, ventidue coorti formate con i recenti arruolamenti in Gallia e circa trecento cavalieri, inviati dal re del Norico. Al loro arrivo pone un secondo accampamento dall'altra parte della città, al cui comando mette Curione. Nei giorni successivi provvede a cingere la città con un vallo e con bastioni. Il lavoro è in gran parte ultimato quando fanno ritorno i messaggeri inviati a Pompeo.
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Letta attentamente la risposta, Domizio, dissimulandone il vero contenuto, comunica in consiglio che Pompeo sarebbe presto giunto in loro aiuto; esorta i presenti a non perdersi d'animo e ad allestire le strutture di difesa della postazione. Lo stesso Domizio, in un colloquio segreto con pochi suoi intimi, manifesta invece la decisione di darsi alla fuga. Dal momento che il volto di Domizio non s'accordava con le sue parole ed egli in ogni suo atto agiva con troppa esitazione e timidezza rispetto al suo solito comportamento dei giorni precedenti e più del solito si tratteneva molto a parlare in segreto con i suoi con la scusa di doversi consigliare, mentre evitava le assemblee ufficiali e le riunioni, non si poté per troppo tempo nascondere e dissimulare la verità. Pompeo infatti aveva risposto di non avere intenzione di trascinare la situazione alle estreme conseguenze; Domizio non era andato a Corfinio per suo consiglio o per suo ordine: quindi, se ne aveva possibilità, che facesse da lui ritorno con tutte le milizie. Ma questo era impossibile per l'assedio e per le linee di fortificazione attorno alla città.
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Divulgatosi il piano di Domizio, i soldati di stanza a Corfinio alle prime luci della sera si appartano e, tramite i tribuni dei soldati, i centurioni e quelli che fra essi godevano di maggiore credito, così fra loro discutono: sono assediati da Cesare; i lavori di fortificazione sono quasi terminati; il loro capo Domizio, con il quale sono rimasti, in lui fiduciosi e pieni di speranza, li tradisce tutti e decide di fuggire; devono pensare alla loro salvezza. In un primo tempo cominciano a non essere d'accordo su queste decisioni i Marsi che s'impossessano di quella parte della città che sembra la meglio fortificata; tra di essi sorge un tale disaccordo da rischiare di venire alle mani e dirimere la contesa con le armi; ma poco tempo dopo, in seguito a uno scambio di messaggeri da entrambe le parti, vengono a conoscenza di ciò che ignoravano, il progetto di fuga di L. Domizio. Così, di comune accordo, fanno uscire allo scoperto Domizio, lo circondano, lo prendono prigioniero e mandano a Cesare ambasciatori, scelti tra di loro, per comunicargli che sono pronti ad aprirgli le porte, a eseguire i suoi ordini, a consegnare nelle sue mani L. Domizio vivo.
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Venuto a conoscenza di questi fatti, Cesare, sebbene giudicasse di grande interesse impadronirsi al più presto della postazione e trasferire nel proprio accampamento le legioni colà stanziate, per evitare che o elargizioni o pressioni o false notizie facessero mutare volere (infatti in guerra spesso da avvenimenti di poco conto nascono grandi pericoli), temendo tuttavia che l'ingresso dei soldati, con il favore della notte, agevolasse il saccheggio della città, colma di lodi gli ambasciatori che erano da lui giunti, li rimanda in città, dà loro ordine di vigilare porte e mura. Egli stesso dispone i soldati su quelle strutture di fortificazione che aveva fatto costruire, non a intervalli prestabiliti, secondo la consuetudine dei giorni precedenti, ma con distaccamenti di sorveglianza continua, vicini gli uni agli altri per garantire una totale protezione; fa svolgere servizio di pattuglia ai tribuni dei soldati e ai prefetti con l'incarico non solo di ostacolare sortite, ma anche di stare in guardia contro sortite clandestine di singoli individui. E in verità quella notte nessuno di loro fu così trascurato o ignavo da dormire. E tanto grande era l'attesa di come sarebbero andate a finire le cose che ciascuno con la mente e con il desiderio si volgeva a opposti pensieri e si chiedeva che cosa sarebbe accaduto agli abitanti stessi di Corfinio, a Domizio, a Lentulo, a tutti gli altri e quale destino sarebbe toccato a ciascuno.
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Sul finire della notte Lentulo Spintere, dall'alto delle mura, dice alle sentinelle e alle nostre guardie di volere, se possibile, incontrare Cesare. Concesso il permesso, lo lasciano uscire dalla città; i soldati di Domizio non si allontanano da lui finché non giunge al cospetto di Cesare. Con lui inizia a trattare la propria salvezza; lo prega e lo scongiura di risparmiarlo, gli ricorda l'antica amicizia e passa in rassegna i benefici, per altro veramente grandi, ricevuti da Cesare: grazie al suo aiuto era entrato nel collegio dei pontefici, dopo la pretura aveva ottenuto la provincia di Sna, era stato sostenuto nella candidatura al consolato. Cesare interrompe le sue parole: gli ricorda che è uscito dalla sua provincia non per fare del male, ma per difendersi dalle ingiurie degli avversari, per ristabilire nei loro poteri i tribuni della plebe cacciati dalla città in quell'occasione, per vendicare se stesso e il popolo romano, la cui libertà era stata soffocata da un pugno di fanatici. Lentulo, rinfrancato dalle sue parole, chiede il permesso di tornare in città: assicura a Cesare che anche per gli altri sarà di conforto e speranza l'avere egli ottenuto da lui grazia; lo informa che alcuni sono così atterriti da arrivare a darsi la morte. Ottenuto il permesso, si allontana.
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Alle prime luci, Cesare ordina che dinanzi a lui siano condotti tutti i senatori e i loro li, i tribuni dei soldati e i cavalieri romani. Appartenevano all'ordine senatorio L. Domizio, P. Lentulo Spintere, L. Cecilio [Spintere] Rufo, il questore Sex. Quintilio Varo, L. Rubrio; vi erano inoltre il lio di Domizio e moltissimi altri giovinetti e un gran numero di cavalieri romani e di decurioni che Domizio aveva fatto venire dai municipi. Li fa condurre tutti davanti a sé e proibisce ai soldati di insultarli e beffeggiarli; rivolge poche parole, lamentando che da parte loro non è stata dimostrata gratitudine per i grandissimi favori che egli ha loro fatto; li congeda lasciandoli tutti incolumi. I sei milioni di sesterzi, che Domizio aveva portato e depositato nella cassa pubblica, consegnati a Cesare dai duumviri di Corfinio, vengono restituiti a Domizio; Cesare non voleva infatti apparire più equilibrato nei confronti della vita degli uomini che nei confronti del denaro, pur consapevole che quello era denaro dello stato, dato a Domizio da Pompeo per la a dei soldati. Ordina ai soldati di Domizio di giurargli fedeltà e, lo stesso giorno, muove l'accampamento e, dopo una sosta a Corfinio, in tutto sette giorni, si mette in cammino marciando a ritmo regolare e, attraversato il territorio dei Marrucini, dei Frentani, dei Larinati, giunge in Puglia.
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Pompeo, venuto a conoscenza dei fatti accaduti a Corfinio, da Lucera va a Canosa e di qui a Brindisi. Fa radunare da ogni parte presso di sé tutte le truppe formate dai nuovi coscritti; arma servi e pastori; fornisce loro cavalli; con essi mette insieme circa trecento cavalieri. Il pretore L. Manlio fugge via da Alba con sei coorti, il pretore Rutilio Lupo con tre da Terracina; quando queste truppe vedono da lontano la cavalleria di Cesare, comandata da Vibio Curio, abbandonato il pretore, portano le insegne dalla parte di Curio e passano sotto il suo comando. Parimenti nelle tappe successive, alcune coorti si imbattono nell'esercito di Cesare, altre nella sua cavalleria. N. Magio, di Cremona, comandante del genio dell'esercito di Pompeo, fatto prigioniero durante la marcia, viene condotto al cospetto di Cesare. Egli lo rimanda da Pompeo con queste proposte: poiché fino a quel momento non era stato possibile un colloquio ed egli stesso stava per giungere a Brindisi, nell'interesse dello stato e per la salvezza di tutti era necessario che egli incontrasse Pompeo; invero, quando, costretti da grande distanza, si conducono negoziati tramite altre persone, le cose procedono ben diversamente da quando la discussione avviene direttamente.
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Inviate queste proposte, Cesare giunse a Brindisi con sei legioni, tre di veterani e le altre formate dalle nuove leve e completate durante la marcia; infatti aveva subito mandato da Corfinio in Sicilia le coorti di Domizio. Venne a conoscenza che i consoli erano partiti con gran parte dell'esercito alla volta di Durazzo e che Pompeo era a Brindisi con venti coorti; ma non aveva potuto sapere con sicurezza se Pompeo era rimasto per mantenere in suo possesso Brindisi, per avere con più facilità il controllo di tutto il mare Adriatico, a partire dalle estreme parti dell'Italia e dai territori della Grecia, ed essere in grado di condurre la guerra dai due fronti, o se qui si era fermato per carenza di navi; Cesare, nel timore che Pompeo non avesse intenzione di lasciare l'Italia, stabilì di bloccare ogni via d'uscita e il libero uso del porto di Brindisi. Questo era il piano dell'operazione. Dall'una e dall'altra estremità del litorale, nel punto in cui l'imboccatura del porto era più stretta, faceva innalzare un molo e un argine, perché il mare in quel tratto era poco profondo. Man mano che ci si allontanava da quei due punti, non potendo essere costruito un terrapieno per la maggiore profondità dell'acqua, faceva collocare, in continuazione della diga, coppie di zattere della larghezza di trenta piedi per lato. Le faceva fissare con quattro ancore, una da ciascun lato, perché non venissero spostate dai flutti. Una volta completate e messe al loro posto queste zattere, ne faceva successivamente aggiungere altre di pari grandezza. Le faceva riempire di terra e di altro materiale, affinché fosse possibile passarvi sopra e accorrere alla difesa; faceva proteggere la parte frontale ed entrambi i fianchi con graticci e palizzate; sopra ogni quarta zattera faceva innalzare una torre di due piani per una migliore difesa contro l'abbordaggio e gli incendi.
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In risposta a questi preparativi, Pompeo faceva allestire grandi navi da carico, prese nel porto di Brindisi. Su di esse faceva innalzare torrette a tre piani e, riempitele con molte macchine da guerra e con ogni genere di armi, le lanciava contro i lavori di sbarramento, che Cesare stava facendo, per distruggere le zattere e fare azione di disturbo. Così ogni giorno da entrambe le parti si combatteva da lontano con fionde, frecce e altri tipi d'arma. Cesare, pur dirigendo queste operazioni, non credeva tuttavia che si dovessero interrompere le trattative di pace. Sebbene si stupisse molto che Magio, inviato a Pompeo con le sue proposte, non gli venisse rimandato e sebbene i reiterati tentativi di pace rallentassero il suo slancio e i suoi piani, tuttavia giudicava di dovere perseverare con ogni mezzo in quel proposito. E così manda il luogotenente Caninio Rebilo, intimo e parente di Scribonio Libone, a parlare con costui; gli affida l'incarico di esortare Libone a essere mediatore di pace; chiede sopra tutto di potere avere un colloquio con Pompeo; sottolinea di avere piena fiducia che, se ciò sarà possibile, si metterà fine alla guerra con giuste trattative; fa presente che, se si porrà fine alle armi per l'intercessione e l'intervento di Libone, egli conseguirà grande parte di gloria e onore. Libone, dopo l'abboccamento con Caninio, parte per andare da Pompeo. Poco dopo riferisce che, essendo andati via i consoli, senza di essi non è possibile iniziare una trattativa. E così Cesare, dopo avere troppe volte invano tentato di giungere alla pace, ritiene di dovere finalmente abbandonare tale proposito e pensare alla guerra.
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Cesare ha quasi terminato metà dei suoi lavori, gli erano serviti nove giorni, quando fanno ritorno a Brindisi, rimandate dai consoli, le navi che avevano trasportato a Durazzo la prima parte dell'esercito. Pompeo, o scoraggiato dai lavori di Cesare o perché sin da subito aveva deciso di lasciare l'Italia, all'arrivo delle navi incomincia a preparare la partenza e, per ritardare con più facilità l'attacco di Cesare, fa murare le porte per evitare che i soldati, al momento stesso della partenza, facciano irruzione in città, fa barricare le vie e le piazze, fa scavare fosse attraverso le vie e vi fa collocare pali e tronchi con la punta aguzza. Livella il terreno facendo coprire i buchi con terra e sottili graticci; infine con grandissime travi dalla punta aguzza, fissate al suolo, sbarra le vie d'accesso e le due strade che al di qua delle mura portavano al porto. Fatti questi preparativi, ordina ai soldati di imbarcarsi in silenzio; dispone poi sulle mura e sulle torri a distanza gli uni dagli altri soldati armati alla leggera, scegliendoli fra gli arcieri e i frombolieri richiamati in servizio. Dà disposizione che si ritirino a un segnale convenuto, quando tutti i soldati si sono imbarcati: e lascia loro, in un posto di facile accesso, imbarcazioni leggere e veloci.
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Gli abitanti di Brindisi, risentiti per il comportamento sprezzante di Pompeo e per i soprusi dei suoi soldati, stavano dalla parte di Cesare. E così, venuti a sapere della partenza di Pompeo, mentre tutti correvano qua e là impegnati in quel preparativo, mandavano ovunque segnali dai tetti. Cesare, venuto a conoscenza di ciò che accadeva grazie a loro, dà ordine di preparare delle scale e di armare i soldati, per non perdere l'opportunità di intervenire. Pompeo sul fare della notte salpa. I soldati che erano stati posti di guardia sulle mura vengono richiamati al segnale convenuto e, per il percorso stabilito, si precipitano sulle navi. I soldati, collocate le scale, salgono sulle mura, ma avvertiti dagli abitanti di Brindisi di fare attenzione alla palizzata nascosta e alle fosse, si fermano e, guidati da loro su un percorso più lungo, arrivano al porto e, raggiunte con barche e zattere due navi piene di soldati che si erano incagliate sul molo fatto costruire da Cesare, se ne impadroniscono.
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Cesare, pur ritenendo di grande importanza
per il compimento della sua impresa riunire una flotta, attraversare il mare e
inseguire Pompeo prima che costui potesse fare affidamento su aiuti di oltre
mare, temeva tuttavia la lentezza di quella operazione, che necessitava di gran
tempo, poiché Pompeo gli aveva tolto per il momento la possibilità di
inseguirlo avendo egli già fatto incetta di tutte le navi. Non rimaneva
che attendere le navi provenienti dalle più lontane regioni della Gallia
e del Piceno e dallo stretto di Messina. E, data la stagione, la cosa sembrava
lunga e difficile. Inoltre Cesare non voleva che, durante la sua assenza, si
rinforzassero l'esercito veterano di Pompeo e le due Sne, una delle quali era
molto legata a Pompeo per i grandissimi favori ricevuti, che venissero
organizzate truppe ausiliarie e una cavalleria e che si cercasse di sollevare
l'Italia e
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E così per il momento Cesare
tralascia di inseguire Pompeo; decide di partire alla volta della Sna;
ordina ai duumviri di ogni municipio di procurarsi delle navi e farle pervenire
a Brindisi. Manda in Sardegna con una legione il luogotenente Valerio, in
Sicilia il propretore Curione con tre legioni; gli ordina, non appena presa
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Approfittando dell'assenza di governo, con l'esercito Valerio sbarca in Sardegna, Curione in Sicilia. Quando Tuberone giunge in Africa, trova al governo di questa provincia Azzio Varo; costui, perse le truppe presso Osimo, come si è detto, subito dopo la fuga era sbarcato in Africa e, trovatala senza governatore, di sua testa se ne era impadronito e, fatte le leve, aveva messo insieme due legioni; esperto com'era dei luoghi e degli uomini, pratico della provincia trovò facilmente il modo di intraprendere tali imprese, poiché pochi anni prima, dopo la pretura, ne aveva ottenuto il governo. Varo impedisce l'accesso al porto e alla città a Tuberone che con le navi si avvicinava a Utica, non gli consente neppure lo sbarco del lio malato, ma lo costringe a levare le ancore e ad allontanarsi da quella zona.
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Fatto questo, Cesare, volendo usare il tempo che gli rimaneva per fare riposare i soldati, li conduce nei municipi più vicini; egli invece si dirige alla volta di Roma. Convoca il senato ed espone le ingiurie arrecategli dagli avversari. Dichiara di non avere cercato nessun potere illegittimo, ma, dopo avere atteso il tempo stabilito dalla legge per il consolato, di essere stato o di questa carica che era concessa a tutti i cittadini. Ricorda che, nonostante l'opposizione dei suoi avversari e la resistenza violentissima di Catone, il quale secondo una sua antica abitudine guadagnava giorni e giorni tirando per le lunghe con i suoi discorsi, al tempo del consolato di Pompeo era stato proposto da dieci tribuni che si tenesse conto della sua candidatura, pur se egli era assente: se Pompeo fosse stato contrario alla proposta, perché avrebbe permesso che essa venisse presentata? E se era favorevole, perché avrebbe impedito che egli si servisse di tale beneficio voluto dal popolo? Fa notare la sua tolleranza, avendo egli per primo chiesto il congedo degli eserciti, mostrandosi con tale proposta disposto a perdere dignità e onore. Mette in luce l'accanimento degli avversari che rifiutano di fare ciò che pretendono dagli altri e preferiscono porre tutto quanto a soqquadro piuttosto che lasciare potere ed esercito. Fa notare l'ingiuria a lui arrecata togliendogli le legioni, la crudeltà e l'insolenza nel limitare il potere dei tribuni; ricorda le proposte di pace che egli ha avanzato, gli abboccamenti richiesti e rifiutati. In nome di ciò prega e chiede ai senatori di assumere il governo e amministrare la cosa pubblica insieme a lui. Ma se essi fuggono per timore, dichiara di non avere intenzione di sottrarsi a questo onere: di governare da solo lo stato. Sostiene che è opportuno mandare ambasciatori a Pompeo per trattare un accordo e dichiara di non temere ciò che poco prima Pompeo aveva detto in senato, cioè che a quelli ai quali si inviano ambasciatori si attribuisce autorità e che il mandarli è segno della paura di chi li manda. Queste affermazioni sono opinioni di chi è piccolo e debole. Egli invero, come ha cercato di primeggiare con le sue imprese, così vuole essere superiore per giustizia ed imparzialità.
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Il senato approva la proposta di mandare ambasciatori, ma non si trovava chi mandare e, sopra tutto, ciascuno rifiutava, per timore, questo incarico di ambasciatore. Pompeo infatti, allontanandosi dalla città, aveva detto in senato che avrebbe considerato alla stessa stregua coloro che fossero rimasti a Roma o che fossero stati nell'accampamento di Cesare. Così si perdono tre giorni in dispute e rifiuti. Gli avversari di Cesare sobillano anche il tribuno della plebe Lucio Metello per mandare in lungo la cosa e impedire quanto altro Cesare avesse deciso di fare. Cesare, venuto a conoscenza di tale piano, dopo avere invano perduto alcuni giorni, per non sprecare il tempo che gli rimaneva, parte da Roma e giunge nella Gallia Ulteriore.
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Quando vi giunge, viene a sapere che Pompeo aveva mandato in Sna Vibullio Rufo che egli, pochi giorni prima, aveva fatto prigioniero a Corfinio e poi lasciato andare; e che Domizio era parimenti partito per occupare Marsiglia con sette navi molto veloci che aveva sequestrato a cittadini privati nell'isola del Giglio e nel territorio di Cosa, equigiate con servi, liberti e suoi contadini; che prima erano stati mandati a Marsiglia in qualità di ambasciatori dei giovani nobili marsigliesi che Pompeo, nel lasciare Roma, aveva esortato a non dimenticare gli antichi suoi benefici per quelli di recente ricevuti da Cesare. Accolto questo invito, i Marsigliesi avevano chiuso le porte a Cesare; avevano chiamato presso di loro gli Albici, gente barbara che fin dai tempi antichi era sotto la loro protezione e abitava le montagne sopra Marsiglia; avevano fatto venire grano in città dai paesi vicini e da tutti i castelli; avevano predisposto in città fabbriche di armi; riparavano le mura, le porte, la flotta.
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Cesare convoca presso di sé i quindici notabili di Marsiglia. Porta avanti con loro trattative affinché i Marsigliesi non diano origine alla guerra; ricorda che loro dovere è seguire l'esempio autorevole di tutta l'Italia più che obbedire alla volontà di uno solo. Ricorda loro le altre ragioni che crede utili a farli rinsavire. I quindici notabili, dopo avere riferito il discorso di Cesare ai concittadini, così gli rispondono in loro nome: comprendono che il popolo romano è diviso in due partiti, non compete loro né sono in grado di stabilire quale dei due partiti difenda una causa più giusta. Capi di queste fazioni sono Cn. Pompeo e C. Cesare, entrambi protettori della città: uno ha ceduto loro pubblicamente i territori dei Volci Arecomici e degli Elvi, l'altro ha loro assegnati come tributari i Salii vinti in guerra e ha aumentato i proventi. Pertanto, dinanzi a uguali benefici, devono are un uguale tributo di riconoscenza, e non aiutare l'uno contro l'altro né accogliere (i contendenti) in città o nel porto.
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Durante questi colloqui, Domizio giunge con le navi a Marsiglia e, accolto dai Marsigliesi, viene messo a capo della città; a lui è affidata la suprema direzione della guerra. Al suo comando la flotta viene inviata ovunque; si impossessano delle navi onerarie ove possono e le conducono in porto; si servono di quelle poche provviste di ferro, legname o altri attrezzi per riparare e armare le altre; raccolgono nei magazzini dello stato il frumento che viene trovato; mettono in serbo altri tipi di merce e vettovaglie da utilizzare nel caso di un assedio della città. Cesare, mosso da tali affronti, conduce tre legioni davanti a Marsiglia; ordina la costruzione di torri e casotti mobili per l'assedio della città, ad Arles fa costruire dodici navi da guerra. Esse vengono costruite e armate dopo soli trenta giorni dal taglio del legname; condotte a Marsiglia, Cesare le pone sotto il comando di D. Bruto e lascia il suo luogotenente C. Trebonio all'assedio della città.
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Mentre porta avanti e dirige questi preparativi, manda innanzi in Sna il luogotenente C. Fabio con tre legioni, che aveva lasciato a svernare a Narbona e dintorni, e ordina che siano occupati in breve tempo i passi dei Pirenei, che al momento teneva con dei presidi il luogotenente pompeiano L. Afranio. Ordina alle altre legioni, che svernavano più lontano, di seguire Fabio, che, secondo gli ordini, ha rapidamente scacciato il presidio dai passi pirenei e, a marce forzate, si è diretto contro l'esercito di Afranio.
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All'arrivo di L. Vibullio Rufo, che come si
è detto era stato mandato in Sna da Pompeo, Afranio, Petreio e
Varrone, luogotenenti di Pompeo, dei quali il primo controllava con tre legioni
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Come prima si è detto, le legioni di
Afranio erano tre, quelle di Petreio due; inoltre le coorti provenienti dalla
Sna Citeriore, armate di scudo, e dalla Sna Ulteriore, armate di scudo
leggero, erano circa trenta e i cavalieri provenienti da entrambe le province
erano circa cinquemila. Cesare aveva inviato in Sna sei legioni, circa
seimila fanti ausiliari, tremila cavalieri, che aveva avuto con sé in guerre
precedenti, e un uguale numero provenienti dalla Gallia che aveva pacificato,
arruolando con chiamate nominali i più nobili e valorosi di tutte le
città; duemila uomini del nobile popolo degli Aquitani e di quello che
abita le montagne che confinano con
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Fabio, con lettere e messaggeri, tentava di guadagnarsi le simpatie delle popolazioni vicine. Aveva fatto costruire sul fiume Segre due ponti distanti fra loro quattro miglia. Attraverso questi ponti mandava a fare rifornimenti, poiché nei giorni precedenti era stato consumato tutto ciò che era al di qua del fiume. La stessa cosa, e per il medesimo motivo, facevano i comandanti dell'esercito di Pompeo e spesso entrambi si scontravano con attacchi di cavalleria. Un giorno che due legioni di Fabio, uscite come di consueto per presidiare quelli che andavano in cerca di viveri, avevano attraversato il fiume dal ponte più vicino, seguite da tutta la cavalleria e dai carri, all'improvviso per la violenza dei venti e la piena del fiume il ponte fu interrotto e una gran parte della cavalleria fu tagliata fuori. Petreio e Afranio vennero a conoscenza della cosa, poiché terra e graticci venivano trascinati dalla corrente. Subito Afranio, attraverso il suo ponte che congiungeva la città con il suo accampamento fece passare quattro legioni e tutta la cavalleria muovendo contro le due legioni di Fabio. Alla notizia del suo arrivo, L. co, che era a capo delle legioni, costretto dalla necessità occupa una zona elevata e schiera i soldati su due fronti per non essere circondato dalla cavalleria. Così, venuto alle mani, pur con forze impari, sostiene l'impetuoso assalto di legioni e cavalieri. Quando i cavalieri hanno dato inizio alla battaglia, si scorgono da lontano, da entrambe le parti, le insegne delle due legioni che C. Fabio aveva mandato in aiuto ai nostri dal ponte più lontano, sospettando che sarebbe accaduto ciò che avvenne, cioè che i comandanti nemici mettessero a frutto la situazione e l'aiuto della Fortuna per assalire i nostri. Al loro arrivo la battaglia viene troncata e i due comandanti riconducono le loro legioni nell'accampamento.
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Due giorni dopo, Cesare con novecento cavalieri che si era tenuto di scorta giunge nell'accampamento. Il ponte, interrotto per la tempesta, era quasi rifatto; diede ordine che fosse completato nella notte. Studiata la natura dei luoghi, lascia di scorta al ponte e all'accampamento sei legioni e tutto il bagaglio; il giorno dopo, con tutte le milizie schierate su tre file, parte per Ilerda e si ferma sotto l'accampamento di Afranio e lì per un po' indugiando in armi offre occasione di battaglia in una posizione favorevole. Presentatasi l'occasione, Afranio conduce fuori le truppe e si ferma a metà del colle sotto l'accampamento. Cesare, come vide che dipendeva da Afranio se non si attaccava battaglia, ordina di porre l'accampamento a circa quattrocento passi dai piedi del monte e, affinché i soldati durante le operazioni di lavoro non fossero sorpresi da improvvisi assalti dei nemici e distolti dal lavoro, proibì che si facessero fortificazioni con bastioni, che dovevano necessariamente essere di alte dimensioni e visibili da lontano, ma diede ordine che venisse scavata, di fronte al nemico, una fossa di quindici piedi. La prima e la seconda fila rimaneva in armi, come era stata schierata dall'inizio; dietro di loro la terza schiera, di nascosto, portava avanti il lavoro. Così tutto fu completato prima che Afranio comprendesse che l'accampamento veniva fortificato. Verso sera Cesare ritira le legioni al di qua di questa fossa e qui, in armi, trascorre tranquillamente la notte seguente.
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Il giorno dopo trattiene tutto l'esercito al di qua del fossato e, poiché si doveva cercare alquanto lontano materiale per la trincea, ordina per il momento lavori simili a quelli del giorno prima; assegna alle singole legioni la fortificazione dei singoli lati dell'accampamento e dà ordine che si scavino fosse della medesima larghezza. Afranio e Petreio, per seminare scompiglio e impedire i lavori, fanno avanzare le loro milizie fino alle più basse pendici del monte e provocano a battaglia; ma nemmeno per questo Cesare interrompe i lavori, confidando nell'aiuto delle tre legioni e nella difesa della fossa. Quelli, dopo essersi fermati non a lungo e senza spingersi troppo lontano dai piedi del colle, riconducono le milizie nell'accampamento. Il terzo giorno Cesare fortifica l'accampamento con una palizzata e dà ordine che siano ivi condotti i bagagli e le coorti che aveva lasciato nell'accampamento precedente.
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Vi era tra la città di Ilerda e il colle vicino, dove Petreio e Afranio avevano l'accampamento, una pianura di circa trecento passi; quasi nel punto intermedio vi era una modesta altura. Cesare sperava che, se se ne fosse impossessato e l'avesse fortificata, avrebbe tagliato fuori gli avversari dal ponte, dalla città e da tutte le vettovaglie in essa accumulate. Con questa speranza conduce fuori dall'accampamento tre legioni e, disposte le file di battaglia in luoghi idonei, ordina all'avanguardia di una sola legione di avanzare e occupare quel colle. Una volta che ciò fu noto, le coorti di Afranio che erano di guarnigione davanti all'accampamento vengono velocemente mandate per una via più breve a occupare il medesimo luogo. Si giunge a battaglia e, poiché per primi erano sopraggiunti sul colle i soldati di Afranio, i nostri vengono respinti e, in seguito all'invio di altri aiuti nemici, vengono costretti alla fuga e a ritirarsi presso le legioni.
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La tattica dei soldati di Afranio era di avanzare subito con grande impeto, prendere audacemente posizione, non conservare le file, combattere qua e là in piccoli gruppi; se venivano incalzati, giudicavano non vergognoso ritirarsi e abbandonare la posizione, perché con i Lusitani e con altri barbari si erano abituati a un metodo rozzo di combattimento; avviene quasi sempre che ogni soldato risenta delle abitudini dei luoghi in cui ha servito a lungo. In quell'occasione questa tattica sconvolse i nostri non avvezzi a quel genere di combattimento; poiché gli avversari avanzavano di corsa uno a uno, i nostri pensavano di venire attaccati dal fianco scoperto; avevano inoltre pensato di dovere conservare le proprie file, non allontanarsi dalle insegne e, senza grave causa, non lasciare quella posizione che avevano raggiunto. E così per lo scompiglio dell'avanguardia la legione che si trovava in quell'ala non fu in grado di tenere la propria posizione e si ritirò sul colle vicino.
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Cesare, poiché inaspettatamente e insolitamente quasi tutto l'esercito era in preda allo scompiglio, rincuora i suoi e fa venire loro in aiuto la nona legione; sbaraglia i nemici che inseguivano i nostri con accanimento e baldanza e li costringe di nuovo a volgere le spalle e a ritirarsi verso la città di Ilerda e a fermarsi sotto le mura. Ma i soldati della nona legione, trasportati dal desiderio di riparare il danno ricevuto, inseguiti sconsideratamente troppo a lungo i fuggitivi, avanzano in un luogo sfavorevole e salgono su per il monte dove vi era la città di Ilerda. Quando poi vogliono ritirarsi da lì, di nuovo i soldati di Afranio da una posizione più alta li incalzano. Il luogo era scosceso, ripido da entrambi i lati, e si stendeva tanto in larghezza da essere riempito da tre coorti schierate, né potevano essere inviati aiuti dai lati né i cavalieri potevano venire in soccorso a chi si trovava in difficoltà. Dalla parte della città vi era poi un luogo leggermente declive che si protraeva in lunghezza per circa quattrocento passi. Da questa parte si svolgeva la ritirata dei nostri, perché fin là si erano spinti sconsideratamente mossi dal loro ardore. Si combatteva in questo luogo sfavorevole sia per la sua angustia sia perché i nostri si erano fermati proprio alle pendici del monte così che nessun dardo veniva lanciato invano contro di loro. Tuttavia con il valore e la costanza si facevano forza e sopportavano colpo su colpo. Le forze nemiche aumentavano e dall'accampamento, attraverso la città, di continuo venivano inviate coorti per sostituire soldati stanchi con quelli riposati. Cesare tentava di operare lo stesso avvicendamento; inviando in zona di battaglia coorti fresche, faceva ritirare i soldati stanchi.
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In tal modo si combatté ininterrottamente per cinque ore e i nostri, siccome erano incalzati troppo massicciamente dal numero degli avversari e non avevano più giavellotti, si lanciano su per il monte contro le coorti nemiche a spade sguainate; ne uccidono pochi, ma costringono gli altri a ripiegare. Spinte le truppe sotto le mura e in parte, per il terrore, cacciatele nella città, ai nostri fu data facilmente la possibilità di ritirata. Inoltre, sebbene la nostra cavalleria si fosse fermata in basso in una zona avvallata, tuttavia tenta, con grandissimo valore, di salire sul colle e, cavalcando in mezzo alle due schiere, permette ai nostri una ritirata più facile e sicura. Così si combatté con esito vario. Nel primo scontro caddero circa settanta dei nostri e fra essi Q. Fulginio, primo centurione degli astati della legione XIV, il quale era giunto dai gradi inferiori a quella posizione per il suo valore; i feriti sono più di seicento. Tra i seguaci di Afranio vengono uccisi T. Cecilio, centurione del primo manipolo e oltre a lui quattro centurioni e più di duecento soldati.
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Ma fu opinione comune a entrambe le parti di essere risultate vincitrici di questa giornata: quelli di Afranio poiché, sebbene a giudizio di tutti sembrassero essere inferiori, avevano resistito per così tanto tempo nel corpo a corpo e avevano sostenuto l'impeto dei nostri e dall'inizio avevano tenuto la posizione e il colle, e ciò era stato causa di battaglia, e nel primo attacco avevano costretto i nostri a darsi alla fuga; i nostri invece poiché avevano retto per cinque ore a una battaglia in posizione sfavorevole con un numero non pari di forze, poiché erano saliti sul monte con le spade in pugno, poiché avevano costretto gli avversari a fuggire da un luogo elevato e li avevano respinti in città. I soldati di Afranio fortificarono con grandi opere di difesa quella collinetta per la quale si combatté e vi posero un presidio.
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Due giorni dopo questi avvenimenti accade una improvvisa disgrazia. Si scatena infatti un temporale così forte come non mai si diceva fosse accaduto in quei luoghi. Inoltre su tutti i monti si sciolsero le nevi e le acque superarono le più alte rive del fiume e in un solo giorno interruppero entrambi i ponti che C. Fabio aveva fatto costruire. La cosa recò all'esercito di Cesare grandi difficoltà. Infatti essendo l'accampamento, come si è detto sopra, tra i due fiumi Sicori e Cinga, per un tratto di trenta miglia non era possibile passare né l'uno né l'altro e inevitabilmente tutti erano trattenuti in questo spazio ristretto; le città che si erano alleate con Cesare non potevano inviargli frumento e coloro che si erano molto allontanati per cercare foraggio, tagliati fuori dai fiumi, non potevano fare ritorno e non potevano giungere all'accampamento i grandi approvvigionamenti provenienti dall'Italia e dalla Gallia. La stagione, poi, era particolarmente sfavorevole poiché non vi era frumento nei granai e mancava molto al nuovo raccolto e le città erano state saccheggiate, poiché Afranio prima dell'arrivo di Cesare aveva trasportato quasi tutto il frumento a Ilerda; e se ne era rimasto Cesare lo aveva consumato nei giorni precedenti; le città confinanti, a causa della guerra, avevano mandato lontano il bestiame che durante la carestia poteva essere un aiuto alternativo. Coloro che si erano allontanati in cerca di foraggio e frumento venivano incalzati dai Lusitani armati alla leggera e dai soldati cetrati della Sna Citeriore, pratici di quei luoghi; avevano facilità ad attraversare a nuoto il fiume, poiché secondo la loro consuetudine non andavano sotto le armi senza otri.
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Di contro l'esercito di Afranio aveva ogni cosa in abbondanza. Nei giorni precedenti era stato raccolto e trasportato molto frumento; molto ne veniva portato da ogni provincia; vi era foraggio in grande quantità. Il ponte di Ilerda offriva la possibilità di avere senza alcun pericolo tutto e i luoghi al di là del fiume erano integri nelle loro risorse perché Cesare non poteva assolutamente raggiungerli.
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Questa piena durò parecchi giorni. Cesare tentò di ricostruire i ponti, ma la piena del fiume non lo permetteva e le coorti nemiche disposte lungo la riva ostacolavano il completamento dei lavori. Era loro facile essere d'ostacolo sia per la conurazione dello stesso fiume e per la altezza delle acque sia perché da tutte le rive venivano scagliati dardi in un solo posto e per di più angusto. Risultava difficile portare a termine i lavori sul fiume in rapida e contemporaneamente evitare i dardi.
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Viene comunicato ad Afranio che grandi approvvigionamenti, diretti a Cesare, erano fermi presso il fiume. Erano qui giunti arcieri ruteni, cavalieri della Gallia con molti carri e grandi bagagli, come l'uso gallico richiede. ½ erano inoltre circa seimila uomini di ogni categoria sociale con i servi e i li; ma nessun ordine, nessun comando sicuro vi era, ciascuno agiva secondo il proprio giudizio e tutti procedevano senza timore, senza disciplina come nei giorni e nelle tappe precedenti. Vi erano parecchi giovani di nobile famiglia, li di senatori e di cavalieri, vi erano ambascerie delle città, vi erano luogotenenti di Cesare. A tutti costoro la strada era preclusa dalla piena. Afranio con tutta la cavalleria e tre legioni si muove di notte per annientarli e, mandati avanti i cavalieri, li assale all'improvviso. Tuttavia la cavalleria dei Galli si appronta velocemente e attacca battaglia. Finché il combattimento fu condotto ad armi pari, costoro, pur essendo pochi, fecero fronte a un gran numero di nemici; ma, quando incominciarono ad avvicinarsi le insegne delle legioni, perduti pochi soldati, si rifugiano sui monti vicini. La durata di questa battaglia fu decisiva per la salvezza dei nostri; infatti, approfittando di questo tempo, si ritirarono sulle alture. In quel giorno si persero circa duecento sagittari, pochi cavalieri, un numero non grande di addettial trasporto dei bagagli e non molte salmerie.
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Di conseguenza per tutti questi motivi, i
prezzi rincararono, rincaro che di solito diventa pesante non solo per la
carestia presente, ma anche per il timore del futuro. Già il grano per
la carestia era salito a cinquanta denari il moggio e la mancanza di frumento
aveva fiaccato le forze dei soldati e il disagio cresceva di giorno in giorno.
E così in pochi giorni si era verificato un grande cambiamento della
situazione e
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Afranio, Petreio e i loro amici mandavano a Roma ai loro queste notizie, anzi le amplificavano ed esageravano. Le dicerie accrescevano ancora le esagerazioni, sicché la guerra sembrava essere quasi terminata. Giunte a Roma queste lettere e queste notizie, vi era un grande accorrere alla casa di Afranio e ci si felicitava; molti partivano dall'Italia e andavano da Cn. Pompeo, alcuni per essere i primi a portare tale notizia, altri per non sembrare di avere atteso l'esito della guerra ed essere arrivati ultimi fra tutti.
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Essendo la situazione così difficile e tutte le vie essendo occupate dai soldati e dai cavalieri di Afranio e non potendo essere ricostruiti i ponti, Cesare ordina ai soldati di fabbricare navi di quel tipo che l'esperienza britannica negli anni passati gli aveva fatto conoscere. Le chiglie e l'ossatura erano fatte di legno leggero; il rimanente corpo delle navi era intessuto di vinchi e rivestito di pelli. Quando sono compiute, di notte le fa portare, con dei carri uniti, a circa ventidue miglia dall'accampamento e con queste navi trasporta i soldati al di là del fiume e occupa di sorpresa il colle vicino alla riva. Lo fortifica in fretta prima che gli avversari se ne accorgano. Poi trasporta qui la legione e in due giorni, lavorando da entrambi i lati, fa completare il ponte. E così senza pericolo fa arrivare presso di sé i viveri e coloro che erano usciti in cerca di frumento, incominciando a rendere più facile l'approvvigionamento.
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Nello stesso giorno fece passare il fiume a una gran parte dei cavalieri. Costoro, assaliti i foraggiatori avversari che non se l'aspettavano e quelli che stavano qua e là sparsi senza alcun timore, prendono un grandissimo numero di giumenti e di uomini e, quando vengono mandate in aiuto le coorti cetrate di Afranio, abilmente si dividono in due gruppi, gli uni per presidiare la preda, gli altri per fare resistenza a quelli che sopraggiungevano e per respingerli. E una coorte che temerariamente davanti a tutte era avanzata oltre la linea di combattimento, isolata dalle rimanenti, viene circondata e distrutta. I soldati di Cesare, incolumi, ritornano con una grande preda nell'accampamento attraverso il medesimo ponte.
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Mentre si svolgono questi avvenimenti nei pressi di Ilerda, gli abitanti di Marsiglia, valendosi del consiglio di L. Domizio, armano diciassette navi da guerra, delle quali undici erano coperte. A queste aggiungono molte piccole barche per incutere col numero stesso terrore alla nostra flotta. Imbarcano un gran numero di sagittari e di Albici, dei quali si è parlato prima, e li incitano con promesse di premi. Domizio si riserva un determinato numero di navi e le equigia di coloni e pastori che si era portato appresso. E così allestita la flotta di ogni cosa, con grande baldanza si dirigono verso le nostre navi comandate da D. Bruto e ancorate presso l'isola che si trova di fronte a Marsiglia.
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Bruto si trovava in grande inferiorità per il numero di navi, ma Cesare aveva assegnato alla sua flotta uomini valorosissimi scelti fra tutte le legioni, alfieri e centurioni che avevano fatto richiesta di tale incarico. Costoro avevano preparato ramponi e raffi di ferro e si erano armati con un gran numero di giavellotti, aste e armi di altro tipo. Così, venuti a conoscenza dell'arrivo dei nemici, traggono fuori dal porto le loro navi e attaccano battaglia con i Marsigliesi. Da entrambe le parti si combatté con grande coraggio e accanimento; e gli Albici, fieri montanari abituati alle armi, non erano molto inferiori ai nostri per valore. Costoro da poco tempo si erano separati dai Marsigliesi e conservavano nel cuore le loro recenti promesse, e i pastori di Domizio, eccitati dalla speranza di libertà, si sforzavano di dare prova del loro valore sotto gli occhi del padrone.
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Gli stessi Marsigliesi, confidando nella velocità delle navi e nell'abilità dei timonieri, si prendevano gioco dei nostri e schivavano i loro assalti e, finché era loro possibile prendere il largo, estesa per un tratto più ampio la linea del combattimento, si sforzavano di circondare i nostri o di assalire a una a una le nostre navi con un gran numero di loro navi o, se era possibile, di affiancarsi e rompere i remi. Quando poi non potevano fare a meno di venire abbordati, messa da parte l'arte e le astuzie dei piloti, facevano ricorso al valore dei montanari. I nostri non solo avevano rematori meno addestrati e nocchieri meno accorti, che erano stati presi in gran fretta dalle navi da carico e non avevano ancora imparato il vocabolario tecnico degli attrezzi, ma erano anche impediti dalla lentezza e dal peso delle navi. Erano infatti state costruite in fretta con legname non stagionato e non avevano lo stesso vantaggio della celerità. E così pur di avere modo di combattere da vicino, volentieri si scagliavano con una singola nave contro due e, lanciate le mani di ferro, tenendo ferme entrambe le navi, combattevano da una parte e dall'altra, arrembando le navi dei nemici. Uccidono un gran numero di Albici e di pastori, affondano parte delle navi, ne catturano alcune con l'equigio, ricacciano nel porto le altre. In quel giorno andarono perdute nove navi marsigliesi, comprese quelle catturate.
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Nei pressi di Ilerda viene riferita a Cesare questa prima buona notizia e contemporaneamente, completato anche il ponte, la sorte in breve tempo muta. Gli avversari, sconvolti dal valore della cavalleria, si muovevano con minore libertà e audacia; talora, senza allontanarsi troppo dall'accampamento per assicurare una pronta ritirata, si procuravano foraggio in spazi ristretti, talora, con un giro assai lungo, cercavano di evitare le sentinelle e i posti di guardia della cavalleria o, quando ricevevano qualche danno o vedevano da lontano la cavalleria, trovandosi a mezza strada, gettavano i bagagli e si davano alla fuga. Alla fine avevano stabilito di sospendere per parecchi giorni il foraggiamento e di andare in cerca di foraggio di notte contrariamente all'abitudine di tutti.
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Frattanto gli Oscensi e i Calagurritani, che
erano tributari degli Oscensi, inviano a Cesare ambasciatori e promettono di
eseguire i suoi comandi. Li seguono i Tarragonesi, gli Iacetani, gli Ausetani
e, pochi giorni dopo, gli Ilergaoni, che confinano con il fiume Ebro. A tutti
costoro Cesare chiede forniture di frumento. Le promettono e, requisite da ogni
parte tutte le bestie da soma, le trasportano nell'accampamento. Anche una
coorte degli Ilergaoni, conosciuta la decisione della loro città, passa
dalla parte di Cesare, togliendo le insegne dal posto di guardia afraniano per
portarle nel suo campo. In breve tempo un grande mutamento della situazione:
completato il ponte, ottenuta l'amicizia di cinque grandi città, risolto
il problema del vettovagliamento, cessate le voci sulle legioni che si dicevano
venire in aiuto, condotte da Pompeo, passando per
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Mentre gli animi degli avversari erano atterriti da questi eventi, Cesare, per non dovere sempre fare transitare la cavalleria per il ponte con un lungo giro, trovato un luogo idoneo, fece costruire parecchie fosse larghe trenta piedi con le quali deviare una parte del fiume Sicori e creare un guado in questo fiume. Quasi terminati questi lavori, Afranio e Petreio sono colti dal grande timore di essere completamente tagliati fuori dai rifornimenti di frumento e foraggio, poiché Cesare era molto forte nella cavalleria. Così essi stessi decidono di lasciare quei luoghi e trasferire in Celtiberia l'azione bellica. Veniva in appoggio a questa decisione anche il fatto che delle due opposte fazioni che nella guerra precedente avevano parteggiato per Q. Sertorio, le popolazioni vinte temevano il nome e il potere di Pompeo, benché lontano, quelle che erano rimaste nell'alleanza, colmate di grandi benefici, lo amavano, mentre il nome di Cesare fra quelle popolazioni barbare risultava alquanto poco noto. Qui in Celtiberia speravano in un gran numero di cavalieri e di truppe ausiliarie e, su un territorio a loro favorevole, pensavano di potere trascinare la guerra fino al periodo invernale. Presa questa decisione danno ordine di radunare le navi reperite lungo tutto il corso del fiume Ebro e di condurle a Octogesa, città sulla riva del fiume a venti miglia dall'accampamento. Presso questa località ordinano di costruire un ponte di navi; conducono due legioni al di là del fiume Sicori e fortificano l'accampamento con un vallo di dodici piedi.
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Venuto a conoscenza della cosa tramite esploratori, Cesare, con durissimo lavoro dei soldati, senza posa di giorno e di notte, era giunto a tal punto nel deviare il fiume, che i cavalieri, sebbene con difficoltà e a stento, potevano tuttavia osarne l'attraversamento, ma i fanti stavano fuori solo con le spalle e la parte superiore del petto ed erano ostacolati nel passaggio dall'altezza delle acque e talora anche dalla rapidità delle correnti. Ma tuttavia quasi nel medesimo tempo veniva diffusa la notizia che il ponte sull'Ebro era quasi completato e che si era trovato un guado nel Sicori.
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Allora invero più che mai i nemici pensavano di dovere affrettare la partenza. E così lasciate due coorti ausiliarie di guardia a Ilerda, con tutte le milizie attraversano il Sicori e si uniscono alle due legioni che l'avevano passato nei giorni precedenti. A Cesare non rimaneva che molestare e assalire con la cavalleria la schiera nemica. Infatti il passaggio sul suo ponte prevedeva un lungo giro, mentre i nemici potevano giungere all'Ebro con un tragitto più breve. I cavalieri inviati da Cesare attraversano il fiume e, quando intorno alla mezzanotte Afranio e Petreio iniziano la marcia, si mostrano all'improvviso alla retroguardia nemica e, sparsisi in gran numero all'intorno, incominciano a creare ostacoli e a impedire la marcia.
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Allo spuntare del giorno dalle alture vicine all'accampamento di Cesare si scorgeva la retroguardia nemica, violentemente incalzata dagli attacchi della nostra cavalleria, talora resistere e talora venire sbaragliata; altre volte i nemici muovevano all'assalto e, con l'impeto di tutte le coorti insieme, facevano indietreggiare i nostri, poi di nuovo i nostri inseguivano i nemici dopo averli costretti a fare cambiamento di fronte. In tutto l'accampamento poi si formavano capannelli di soldati che si lagnavano che Cesare si lasciasse sfuggire di mano il nemico e che la guerra di conseguenza andasse troppo per le lunghe. Si rivolgevano ai tribuni dei soldati e ai centurioni a pregarli che per mezzo loro Cesare venisse informato di non badare alle loro fatiche o pericoli: essi erano pronti, erano in grado e osavano attraversare il fiume nel punto in cui era stata fatta passare la cavalleria. Incoraggiato dalle loro voci e dal loro ardore, Cesare, pur temendo di esporre l'esercito alla piena di un fiume tanto grande, giudica tuttavia opportuno rischiare e fare il tentativo. Ordina pertanto di selezionare fra tutte le comnie i soldati più deboli il cui coraggio e forza sembravano non essere all'altezza dell'impresa. Lascia costoro con una legione a guardia dell'accampamento; conduce fuori le rimanenti legioni senza bagagli e, posto un grande numero di bestie da tiro e da soma al di sopra e al di sotto del guado, fa attraversare all'esercito il fiume. A pochi di questi soldati le armi furono portate via dalla corrente; vengono raccolti e sostenuti dalla cavalleria; nessuno tuttavia perde la vita. Fatto passare incolume l'esercito, Cesare schiera le milizie e incomincia a condurre avanti l'esercito disposto su tre file. E nei soldati tanto fu l'ardore che, nonostante l'allungamento della marcia con un giro di sei miglia e il lungo indugio nel guadare il fiume, prima delle tre del pomeriggio raggiunsero quelli che erano usciti dall'accampamento dopo la mezzanotte.
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Quando Afranio con Petreio li scorse di lontano e li riconobbe, atterrito dalla situazione inaspettata, si fermò nei luoghi più elevati e schierò l'esercito in ordine di battaglia. Cesare lascia riposare l'esercito in pianura per non esporlo stanco al combattimento. Insegue e cerca di trattenere il nemico che tenta di nuovo di riprendere il cammino. I nemici sono costretti ad accamparsi prima di quanto avevano stabilito. Infatti le montagne erano a ridosso e a distanza di cinque miglia li attendevano strade difficili e strette. Desideravano entrare fra questi monti per sfuggire alla cavalleria di Cesare e, dopo avere posto presidi nelle zone più anguste, impedire l'avanzata del suo esercito e potere essi stessi senza pericolo e paura condurre le milizie al di là dell'Ebro. Essi dovevano tentare e portare a termine a ogni costo tale operazione; ma stanchi per il combattimento di tutto il giorno e per la fatica del cammino rimandarono al giorno successivo il progetto. Anche Cesare pone l'accampamento su un colle vicino.
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Intorno alla mezzanotte, Cesare viene informato dai soldati di Afranio che si erano allontanati per procurare acqua ed erano stati catturati dalla cavalleria, che i capi nemici in silenzio facevano uscire le truppe dall'accampamento. Conosciuta la mossa, fa dare il segnale d'allarme e fa gridare, secondo il costume militare: 'Ai bagagli'. Gli Afraniani, sentito chiaramente il baccano, temendo di essere costretti a combattere di notte impacciati dal peso del bagaglio o di rimanere chiusi dalla cavalleria di Cesare nelle zone anguste, interrompono la marcia e trattengono le truppe nell'accampamento. Il giorno dopo Petreio con pochi cavalieri va a esplorare di nascosto il territorio. Dall'accampamento di Cesare si fa altrettanto. Viene mandato L. Decidio Saxa con pochi soldati a osservare la natura del luogo. Entrambi riferiscono ai loro la medesima notizia: le prime cinque miglia di strada sono in pianura, vengono quindi luoghi aspri e montuosi; l'esercito che per primo avesse occupato questi passi angusti avrebbe senza difficoltà tenuto lontano di qui il ne-mico.
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Petreio e Afranio in un consiglio di guerra discutono per fissare il momento migliore per la partenza. I più proponevano che si marciasse di notte: si poteva giungere alle gole prima che i Cesariani se ne accorgessero. Altri, tirando in ballo che la notte precedente era stato dato l'allarme nell'accampamento di Cesare, sostenevano che non si poteva partire di nascosto. Dicevano che la cavalleria di Cesare di notte s'aggirava nei dintorni e presidiava ogni luogo e via; sostenevano che si dovevano evitare combattimenti notturni, poiché un soldato spaventato in una guerra civile di solito dà ascolto più alla paura che al giuramento. Ma la luce del giorno da sola sollecita un senso di vergogna, perché si agisce davanti agli occhi di tutti; molta vergogna arreca anche la presenza dei tribuni e dei centurioni. Tutto ciò, di solito, fa sì che i soldati facciano il loro dovere. Perciò, a ogni costo, dovevano aprirsi un passaggio; anche a prezzo di qualche perdita si sarebbe salvato il grosso dell'esercito e si sarebbe potuta raggiungere la postazione desiderata. Nel consiglio prevale questo parere e stabiliscono di partire il giorno dopo all'alba.
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Cesare, fatti esplorare i luoghi, all'alba conduce tutte le milizie fuori dall'accampamento e fa loro fare un lungo giro senza un percorso prestabilito. Infatti le strade che conducevano all'Ebro e a Octogesa erano in possesso dei nemici che vi avevano posto di fronte l'accampamento. Cesare doveva quindi attraversare valli molto estese e inaccessibili, in molte parti rocce scoscese impedivano il passaggio sicché era necessario passare le armi di mano in mano e i soldati avanzavano per gran tratto gli uni tirando su gli altri disarmati. Ma nessuno rifiutava questa fatica poiché pensavano che, se avessero potuto impedire al nemico di passare l'Ebro e privarlo del frumento, quella sarebbe stata la fine di tutte le fatiche.
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In principio i soldati di Afranio uscivano lieti fuori dall'accampamento a osservare e accomnavano i nostri con grida di oltraggio: gridavano che erano costretti a fuggire e a ritornare a Ilerda per mancanza di viveri. Infatti la marcia era all'opposto della meta proposta e sembrava che si procedesse in direzione contraria. I loro comandanti invero elogiavano la decisione dei soldati di essere rimasti nell'accampamento e molto rinforzava la loro opinione il vedere marciare i nostri senza giumenti e bagagli; erano pertanto convinti che i nostri non potevano sopportare più a lungo la mancanza di viveri. Ma quando videro che a poco a poco la schiera si voltava verso destra e si accorsero che ormai i primi superavano la linea del loro accampamento, non vi fu nessuno così pigro o così scansafatiche da non pensare che si doveva subito uscire dall'accampamento e correre ai ripari. Si grida 'all'armi!' e, lasciate lì poche coorti di presidio, tutte le milizie escono e marciano direttamente verso l'Ebro.
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La contesa fra chi per primo avrebbe preso possesso delle gole e dei monti dipendeva tutta dalla velocità, ma le difficoltà delle strade facevano ritardare l'esercito di Cesare, mentre la sua cavalleria ostacolava le truppe di Afranio inseguendole. Tuttavia per i seguaci di Afranio la situazione era giunta a tale nodo cruciale che, se per primi avessero occupato i monti verso i quali si dirigevano, essi stessi avrebbero evitato il pericolo, ma non avrebbero potuto salvare i bagagli di tutto l'esercito e le coorti lasciate nell'accampamento; isolati dall'esercito di Cesare, non avrebbero potuto in nessun modo ricevere aiuto. Cesare giunse per primo e, trovata una pianura oltre le grandi rupi, qui schierò contro il nemico l'esercito in ordine di battaglia. Afranio, poiché la sua retroguardia era incalzata dalla cavalleria, vedendo davanti a sé il nemico, trovato un colle vi si fermò. Da questo punto invia quattro coorti cetrate sul monte che appariva il più alto di tutti. Dà l'ordine di andare a occuparlo di corsa con l'intenzione di dirigervisi egli stesso con tutte le forze e di giungere a Octogesa, cambiando strada e passando per le alture. Mentre i soldati cetrati si dirigevano qui con un percorso obliquo, la cavalleria di Cesare li vede e li assale; non furono in grado di sostenere nemmeno per un po' la forza della cavalleria e dopo essere stati tutti quanti circondati vengono uccisi al cospetto di entrambi gli eserciti.
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Era il momento opportuno per condurre a buon esito l'azione. E invero non sfuggiva a Cesare che l'esercito atterrito, subita una così grande perdita davanti agli occhi di tutti, non era in grado di opporre resistenza, soprattutto perché circondato da ogni parte dalla cavalleria, qualora si venisse alle armi in una zona aperta e piana; tutti insistevano perché attaccasse battaglia. Luogotenenti, centurioni, tribuni dei soldati accorrevano presso di lui invitandolo a non esitare a combattere: il morale di tutti i soldati, dicevano, è altissimo, dall'altra parte gli Afraniani in molte situazioni hanno mostrato i segni del loro timore, non sono venuti in aiuto ai loro, non sono scesi dal colle, a stento hanno sostenuto gli attacchi della cavalleria e, riunite in un solo luogo le insegne, tutti in mucchio, non badano a tenere i ranghi. Se si temeva lo svantaggio della posizione, si avrebbe avuto la possibilità di combattere in un luogo qualsiasi, poiché di sicuro Afranio doveva scendere dalla sua altura non potendo rimanere per tanto tempo senza acqua.
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Cesare aveva sperato di potere portare a
termine la camna senza combattere e senza danno dei suoi, poiché aveva impedito
agli avversari l'approvvigionamento: perché dunque perdere alcuni dei suoi pur
in uno scontro favorevole? Perché permettere che i suoi soldati, tanto
meritevoli nei suoi confronti, venissero colpiti? Perché infine tentare
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Il giorno successivo i capi degli avversari, assai sconvolti perché avevano perduto ogni speranza di potere fare approvvigionamenti e di raggiungere il fiume Ebro, si consultano su ciò che rimaneva da fare. ½ era una strada, se volevano, per ritornare a Ilerda, un'altra per raggiungere Tarragona. Mentre stavano deliberando su ciò viene riferito che i cercatori di acqua sono incalzati dalla nostra cavalleria. Saputa la cosa, predispongono numerosi posti di guardia di cavalleria e di truppe ausiliarie e fra di essi collocano coorti di legionari; incominciano a costruire un vallo dall'accampamento in direzione delle sorgenti per potersi procurare acqua entro la fortificazione, senza paura e senza creare posti di guardia. Petreio e Afranio si dividono fra di loro il lavoro e per portare a compimento l'opera si allontanano alquanto dall'accampamento.
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Alla loro partenza i soldati, colta la possibilità di avere colloqui con i nostri, escono in massa e ognuno cerca e chiama chi nell'accampamento di Cesare conosceva o aveva compaesano. Per prima cosa tutti quanti ringraziano tutti i Cesariani poiché il giorno precedente, mentre erano atterriti, li avevano risparmiati: sono in vita grazie a loro. Quindi chiedono se potevano fidarsi del comandante, se avrebbero fatto bene a consegnarsi a lui e si dolgono di non averlo fatto dall'inizio e di avere portato le armi contro amici e parenti. Incoraggiati da questi discorsi, chiedono a Cesare che Petreio e Afranio abbiano salva la vita, perché non sembrasse che avessero macchinato delle azioni delittuose contro di loro né li avessero traditi. Rassicurati su tali punti, garantiscono di portare subito le insegne dalla parte di Cesare e gli inviano come ambasciatori i centurioni dei primi ordini per trattare la pace. Intanto, in seguito a inviti reciproci, gli uni conducono nel loro accampamento gli amici, gli altri vengono chiamati fuori dai loro conoscenti, sicché i due accampamenti sembravano essere ora uno solo. Parecchi tribuni militari e centurioni si recano da Cesare e a lui si raccomandano; lo stesso avviene da parte dei capi snoli che gli Afraniani avevano fatto venire presso di sé e che tenevano nell'accampamento come ostaggi. Costoro andavano cercando i loro parenti e ospiti per avere ognuno, tramite essi, modo di raccomandarsi a Cesare. Anche il giovane lio di Afranio, per intermediazione dell'ambasciatore Sulpicio, trattava con Cesare della propria salvezza e di quella del padre. Ovunque vi erano manifestazioni di gioia e testimonianze di gratitudine, da parte di chi aveva evitato pericoli così gravi e da parte di chi pensava di avere concluso un'impresa così importante senza danno. A giudizio di tutti, ora Cesare riceveva un importante frutto della sua moderazione del giorno precedente; da tutti quanti la sua decisione di non combattere veniva approvata.
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Afranio, venuto a sapere di tali avvenimenti, lascia l'opera iniziata e rientra nell'accampamento, pronto, come sembrava, a sopportare di buon animo qualunque accidente gli fosse capitato. Petreio invece non si scoraggia. Arma la gente del suo seguito; con costoro e con la coorte pretoria dei cetrati e con pochi cavalieri barbari, suoi beneficiari, che era solito tenere a guardia della sua persona, vola all'improvviso verso il vallo, interrompe i discorsi dei soldati, allontana i nostri dall'accampamento, uccide quelli che cattura. I rimanenti dei nostri si radunano e, spaventati dall'improvviso pericolo, avvolgono il braccio sinistro nel mantello e impugnano le spade e così si difendono dai cetrati e dai cavalieri,confidando nella vicinanza del campo. E si ritirano nell'accampamento e vengono difesi da quelle coorti che erano di guardia presso le porte.
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Compiuto ciò, Petreio in lacrime passa da un manipolo all'altro e chiama i soldati per nome, li scongiura di non lasciare in balia degli avversari né lui né Pompeo, il loro comandante assente. Prontamente vi è un affollamento di soldati davanti alla tenda pretoria. Petreio chiede che tutti giurino di non tradire e di non abbandonare l'esercito e i comandanti e di non prendere decisioni, ciascuno per sé, separatamente dagli altri. Egli stesso per primo pronuncia la formula del giuramento; fa prestare lo stesso giuramento ad Afranio; seguono i tribuni militari e i centurioni; i soldati, fatti avanzare per centurie, fanno il medesimo giuramento. Ordinano che chiunque abbia presso di sé soldati di Cesare li presenti; al cospetto di tutti uccidono davanti alla tenda pretoria coloro che sono stati consegnati. Ma i più vengono nascosti da coloro che li avevano accolti e di notte vengono fatti scappare attraverso la trincea. Così il terrore cagionato dai capi, la crudeltà del massacro, il nuovo vincolo del giuramento portarono via la speranza di una resa immediata, mutarono l'animo dei soldati e ricondussero la situazione alla fase di prima: la guerra.
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Cesare ordina di ricercare con grande cura e rimettere in libertà i soldati nemici che erano giunti a colloquio nel suo accampamento. Ma tra i tribuni militari e i centurioni alcuni di propria volontà rimasero presso di lui. In seguito Cesare li tenne in grande considerazione; diede ai centurioni i più alti gradi e ai cavalieri romani la dignità tribunicia.
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Gli Afraniani erano tormentati dalla mancanza di foraggio, a stento riuscivano ad approvvigionarsi di acqua. I legionari avevano una certa quantità di frumento, poiché era stato dato loro ordine di condurre da Ilerda viveri per otto giorni, i cetrati e gli ausiliari non ne avevano per niente, perché avevano pochi mezzi per procurarlo e un fisico non abituato a portare pesi. E così ogni giorno un gran numero di loro trovava rifugio da Cesare. La situazione si trovava in tale punto critico. Ma delle due proposte presentate sembrava migliore quella di ritornare a Ilerda, poiché qui avevano lasciato un po' di frumento. Confidavano di prendere colà altre decisioni. Tarragona distava troppo; comprendevano che in quel viaggio potevano capitare molti imprevisti. Approvato quel piano, partono dal campo. Cesare manda innanzi la cavalleria per raggiungere e trattenere la retroguardia e di persona tiene dietro con le legioni. Non v'era un momento in cui gli ultimi della retroguardia non venissero attaccati dai cavalieri.
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Si combatteva in questo modo: le coorti armate alla leggera chiudevano la retroguardia e nei luoghi piani la maggior parte di esse si fermava. Se si doveva salire un monte, la natura stessa del luogo facilmente allontanava il pericolo, poiché dai luoghi superiori quelli che erano andati innanzi proteggevano i comni durante la salita; quando erano vicini a una valle o a un pendio, coloro che erano innanzi non potevano portare aiuto a quelli che rimanevano indietro; allora la cavalleria, da luoghi più elevati, lanciava dardi alle spalle dei nemici e la situazione era di grande pericolo. Quando ci si avvicinava a posti di tal fatta, non rimaneva che ordinare alle legioni di fermarsi e respingere la cavalleria con grande impeto e, una volta allontanatala, subito di gran corsa precipitarsi tutti insieme nelle valli e così, dopo averle attraversate, di nuovo fermarsi su alture. Infatti non solo non potevano avere aiuto dalla loro cavalleria, sebbene numerosa, ma, atterrita com'era dai precedenti scontri, la tenevano in mezzo alle file e per di più la dovevano difendere. Nessun cavaliere poteva uscire dalla linea di marcia senza essere catturato dalla cavalleria di Cesare.
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Quando si combatte in tale modo, si avanza lentamente, per brevi tratti e spesso ci si ferma per recare aiuto ai comni; e così avvenne allora. Infatti, dopo essere avanzati quattro miglia, incalzati senza tregua dalla cavalleria nemica, occupano un monte elevato e qui, senza levare neppure il bagaglio ai giumenti, pongono il campo, fortificandolo solo dal lato verso il nemico. Quando s'accorsero che Cesare aveva posto il campo e innalzate le tende e inviata la cavalleria a cercare foraggio, essi, verso mezzogiorno, all'improvviso si precipitano fuori e, sperando in una tregua per l'allontanamento della nostra cavalleria, incominciano a mettersi in marcia. Cesare, accortosi della cosa, li insegue con le legioni che si erano riposate e lascia poche coorti di guardia ai bagagli; dà ordine di seguirlo alle ore sedici e di richiamare i foraggiatori e la cavalleria. Subito la cavalleria ritorna al suo quotidiano lavoro di disturbo durante la marcia. Si hanno accaniti combattimenti con la retroguardia sicché questa quasi si dà alla fuga e parecchi soldati, e anche alcuni centurioni, vengono uccisi. L'esercito di Cesare incalzava e, tutto insieme, stava addosso al nemico.
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Allora invero non essendo possibile né trovare un luogo adatto per porre il campo né avanzare, i Pompeiani sono costretti a fermarsi e ad accamparsi lontano dall'acqua e in posizione sfavorevole. Ma Cesare, per i medesimi motivi sopra esposti, non li provocò a battaglia e in quel giorno non volle che fossero poste le tende affinché tutti fossero più pronti all'inseguimento, se i nemici, di giorno o di notte, avessero tentato una sortita. Costoro, accortisi della posizione pericolosa dell'accampamento, per tutta la notte portano in avanti le linee di difesa e spostano il campo in altra sede. Continuano lo stesso lavoro anche il giorno successivo fin dall'alba e vi impiegano tutta la giornata. Ma quanto più procedevano nel lavoro e spostavano avanti il campo, tanto più erano lontani dall'acqua e si rimediava al presente male con altri mali. La prima notte nessuno esce dal campo in cerca d'acqua; il giorno successivo, lasciato un presidio nel campo, fanno uscire tutte le truppe per l'approvvigionamento d'acqua, nessuno viene mandato in cerca di foraggio. Cesare preferiva tenerli in tali tormenti e costringerli alla modulazione piuttosto che risolvere il combattimento con le armi. Tenta tuttavia di circondarli con una trincea e una fossa in modo da impedire al massimo sortite improvvise, alle quali pensava che per forza avrebbero dovuto ricorrere. I nemici, costretti dalla mancanza di cibo e per essere più liberi nei movimenti, fanno uccidere tutte le bestie da soma.
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In queste operazioni e in questi piani si consumano due giorni; il terzo giorno una gran parte del lavoro di Cesare era ormai terminato. I nemici per impedire il completamento della rimanente parte di fortificazione, dato il segnale intorno all'ora nona, portano fuori le legioni e si mettono in ordine di battaglia dinanzi al campo. Cesare richiama le legioni dai lavori, ordina a tutta la cavalleria di radunarsi, fa lo schieramento di battaglia; infatti sembrare di volere fuggire la battaglia, contro l'opinione dei soldati e l'attesa di tutti, sarebbe stato svantaggioso. Ma era indotto a non volere combattere dai medesimi motivi che si sono detti e ancor più perché, anche se i nemici fossero stati costretti alla fuga, la ristrettezza dello spazio non gli sarebbe potuta essere di grande aiuto per ottenere una vittoria schiacciante. Infatti gli accampamenti non distavano tra loro più di duemila piedi. Di questo spazio due terzi erano occupati dalle schiere; l'altro terzo era stato lasciato libero per le scorrerie e l'assalto dei soldati. Se si attaccava battaglia, la vicinanza del campo dava ai vinti un pronto rifugio dalla fuga. Per questo motivo aveva deciso di opporre resistenza, se i nemici l'avessero assalito, ma di non essere il primo ad attaccare battaglia.
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La linea di battaglia afraniana, composta da cinque legioni, era su due fronti; le coorti ausiliarie collocate sulle ali costituivano una terza linea di riserva. Lo schieramento di Cesare era su tre file; ma la prima linea era formata da venti coorti, ossia da quattro coorti provenienti da ciascuna delle cinque legioni; la seconda linea di sostegno era formata da tre coorti di ogni legione e la terza da altrettante e ciascuna coorte era collocata dietro alla propria legione; in mezzo allo schieramento erano posti i saettatori e i frombolieri; la cavalleria chiudeva i fianchi. Con tale schieramento sembrava a entrambi gli eserciti di potere mantenere il proprio piano: Cesare di non attaccare battaglia se non costretto, Afranio di impedire i lavori di fortificazione di Cesare. In tal modo la situazione viene protratta alle lunghe e gli schieramenti vengono mantenuti fino al tramonto; quindi entrambi gli eserciti tornano al campo. Il giorno successivo Cesare si appresta a terminare le fortificazioni stabilite; gli Afraniani a tentare di passare il fiume Sicori, se fosse stato possibile attraversarlo. Accortosi della cosa, Cesare fa passare al di là del fiume i Germani armati alla leggera e una parte della cavalleria e dispone sulle rive numerosi posti di guardia.
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Alla fine gli Afraniani, bloccati in ogni modo, ormai da quattro giorni senza foraggio per gli animali rimasti, mancanti di acqua, legna, frumento, chiedono un abboccamento, possibilmente in luogo lontano dalla vista dei soldati. Cesare non accetta questa richiesta, concede solo un abboccamento al cospetto di tutti; gli viene dato in ostaggio il lio di Afranio. L'incontro avviene nel luogo scelto da Cesare. Alla presenza di entrambi gli eserciti prende la parola Afranio: né loro né i soldati, dice, sono colpevoli per avere voluto restare fedeli al loro generale Cn. Pompeo. Ma a sufficienza hanno assolto il loro dovere e a sufficienza hanno sofferto; hanno sopportato la mancanza di tutto; ora invero, circondati come fiere, viene loro impedito di bere, di muoversi e non sono in grado di sopportare col corpo i patimenti e con l'animo la vergogna. Pertanto si dichiarano vinti; implorano e supplicano, se è rimasto un sentimento di pietà, di non essere messi in condizione di giungere all'estremo martirio. Afranio pronuncia tali parole quanto più umilmente e dimessamente può.
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A tali parole Cesare risponde: a nessuno meno che ad Afranio conviene il ruolo di chi si lamenta e cerca compassione. Tutti gli altri infatti avevano fatto il loro dovere: lui, Cesare, che non aveva voluto venire alle armi anche in condizioni favorevoli, in un luogo e in un momento conveniente, affinché persistessero al massimo tutte le opportunità di pace; il suo esercito, che nonostante le ingiurie ricevute e le uccisioni dei comni, aveva salvato e protetto i soldati nemici in propria mano; e infine i soldati dell'esercito nemico, che di propria iniziativa avevano agito per trattative di pace e in tal modo avevano pensato di provvedere alla salvezza di tutti i loro comni. Così ognuno, coerentemente, secondo il grado, aveva agito in base a un sentimento di pietà. Sono stati i capi a essere contrari alla pace: essi non hanno mantenuto fede al diritto di colloquio e di tregua e hanno ucciso con grande crudeltà uomini senza difese e tratti in inganno col pretesto del colloquio. Era pertanto accaduto a loro ciò che suole accadere per lo più a uomini troppo ostinati ed arroganti, cioè di ricorrere, desiderandolo ardentemente, a ciò che poco prima avevano disprezzato. Ora egli non chiede, approfittando della loro sottomissione e del favore della circostanza, di che accrescere le sue forze; ma pretende che siano congedati quegli eserciti mantenuti ormai per troppi anni contro di lui. Né infatti per altro motivo sono state mandate in Sna sei legioni e qui ne è stata arruolata una settima, e tante e così grandi flotte sono state apprestate e sono stati di nascosto mandati comandanti esperti di guerra. Nessuno di tali provvedimenti era stato preso per la pacificazione delle Sne e per l'utilità della provincia che durante il periodo di pace non aveva avuto bisogno di nessun aiuto. Già da tempo tutti i provvedimenti erano rivolti contro di lui, contro di lui si istituivano comandi di nuovo genere così che una medesima persona, standosene alle porte di Roma, presiedeva le questioni della città e, pure assente, teneva per tanti anni due bellicosissime province; contro di lui venivano mutate le leggi sul conferimento delle magistrature per essere mandati nelle province non dopo la pretura e il consolato, come nel passato, ma attraverso l'elezione e l'approvazione di pochi; contro di lui non valeva più la giustificazione dell'età poiché venivano chiamate al comando degli eserciti persone segnalatesi in precedenti guerre; contro di lui solo non si manteneva ciò che era sempre stato concesso a tutti i generali, di tornare in patria, dopo avere compiuto camne fortunate, o con qualche onore o certamente senza ignominia e di congedare l'esercito. Tuttavia egli ha sopportato con pazienza e sopporterà ancora tutto ciò; e ora vuole non tenersi l'esercito a loro sottratto, cosa che tuttavia non sarebbe per lui difficile, ma che non rimanga a loro per potersene servire contro di lui. Dunque, come è stato detto, ordina di uscire dalle province e di congedare l'esercito; se ciò viene fatto, egli non ha intenzione di nuocere a nessuno. Questa è l'unica e l'ultima condizione di pace.
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Ai soldati queste parole di Cesare risultarono graditissime e piacevoli, come si poté anche comprendere dai segni esteriori: essi si aspettavano qualche giusto castigo, ottenevano invece, senza richiederlo, il premio del congedo. Infatti quando si discusse del luogo e del tempo del congedo, tutti, e con grida e con gesti delle mani, dal vallo dove si trovavano cominciarono a dare segno di volere essere subito congedati, poiché se, nonostante le assicurazioni date, il congedo fosse stato rimandato ad altro tempo, non potevano averne più sicurezza. Dopo una breve discussione da entrambe le parti, si giunge alla conclusione di congedare subito quelli che avevano domicilio o proprietà in Sna, gli altri presso il fiume Varo; da parte di Cesare si ha la garanzia che non venga fatto loro alcun danno e che nessuno sia costretto ad arruolarsi contro voglia.
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Cesare promette di fornire frumento da quel momento fino all'arrivo al fiume Varo. Aggiunge anche che venga restituito ai possessori ciò che è stato perduto in guerra e sia in possesso dei suoi soldati; fatta una giusta stima dà ai suoi soldati denaro corrispondente al valore di questi oggetti. Tutte le controversie sorte tra i soldati furono poi rimesse spontaneamente al giudizio di Cesare. Poiché le legioni, quasi con una sorta di rivolta, richiedevano a Petreio e Afranio la a militare, ed essi sostenevano che non era ancora giunto il momento, si richiese il giudizio di Cesare ed entrambe le parti furono soddisfatte della sua decisione. Una terza parte circa dell'esercito fu congedata in due giorni; Cesare ordinò a due sue legioni di marciare avanti e alle altre di tenere dietro, in modo che i campi non fossero lontani fra di loro; affida tale incarico al luogotenente Q. Fufio Caleno. La marcia dalla Sna al fiume Varo avvenne secondo le sue prescrizioni e qui fu congedato il resto dell'esercito.
§%@LIBRO SECONDO
<1
Mentre in Sna avvengono questi fatti, il legato Caio Trebonio, che era stato lasciato ad assediare Marsiglia, incomincia a fare condurre da due parti verso la città un terrapieno e fare portare davanti ad essa vinee e torri. Una parte era vicina al porto e ai cantieri navali, l'altra alla porta per dove si entra provenendo dalla Gallia e dalla Sna, presso quel tratto di mare che tocca la foce del Rodano. Infatti Marsiglia è bagnata dal mare quasi da tre lati della città; il quarto è quello che offre accesso dalla parte di terra. Anche la parte di questo spazio che si estende fino alla rocca della città, protetta dalla natura del luogo e da una valle profondissima, necessita di un lungo e difficile assedio. Per condurre a termine questi lavori C. Trebonio fa venire da tutta la provincia un gran numero di giumenti e di uomini; dà ordine che siano portati vimini e legname. Radunato ciò, fa costruire un terrapieno alto ottanta piedi.
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Ma tante erano in città, da molto tempo, le attrezzature belliche di ogni tipo e tanto grande la moltitudine delle baliste che nessuna vinea, per quanto coperta di vimini, poteva sostenere la loro violenza. Infatti travi di dodici piedi, munite di punte di ferro e scagliate da enormi balestre, si congevano in terra dopo avere trapassato quattro ordini di graticci. E così, congiungendo insieme travi dello spessore di un piede, si costruivano gallerie, attraverso le quali si passava di mano in mano il materiale per il terrapieno. Procedeva innanzi una testuggine di sessanta piedi per spianare il terreno, costruita anch'essa di aste di legno molto resistente e ricoperta di tutto ciò che poteva proteggere da pietre e proiettili incendiari. Ma l'imponenza dei lavori, l'altezza del muro e delle torri, la moltitudine delle macchine da guerra rallentavano tutto l'andamento dell'assedio. Venivano anche fatte numerose incursioni fuori della città da parte degli Albici e si cercava di appiccare il fuoco al terrapieno e alle torri; i nostri soldati con facilità respingevano tali tentativi e inoltre, infliggendo loro gravi perdite, ricacciavano in città gli incursori.
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Frattanto L. Nasidio, mandato da Pompeo in aiuto a L. Domizio e ai Marsigliesi con una flotta di sedici navi, di cui poche corazzate, attraversato lo stretto giunge con le navi a Messina, senza che Curione se ne accorga o se lo aspetti; per l'improvviso terrore i capi e i senatori fuggono dalla città ed egli porta via dai cantieri navali una nave nemica. Aggiuntala alle altre sue, fa rotta verso Marsiglia e, di nascosto mandata avanti una piccola nave, avvisa Domizio e i Marsigliesi del suo arrivo e li esorta vivamente a combattere di nuovo contro la flotta di Bruto, essendo venute in aiuto le sue forze.
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I Marsigliesi, dopo la precedente sconfitta, avevano riparato le vecchie navi, tratte fuori dagli arsenali nello stesso numero di quelle perdute, e le avevano armate con grande cura (disponevano di un buon numero di rematori e di comandanti); vi avevano aggiunto battelli da pesca che avevano coperto per protezione, perché i rematori fossero al sicuro dal getto dei proiettili; riempirono tutte queste imbarcazioni di saettatori e di macchine da guerra. Allestita in tal modo la flotta, incitati dalle preghiere e dal pianto di tutti, vecchi, madri e fanciulle, a venire in aiuto alla città in un momento di estremo pericolo, s'imbarcano con non meno coraggio e fiducia che nella precedente battaglia. Infatti per una normale debolezza della natura umana avviene che in presenza di situazioni insolite e sconosciute si abbia maggiore fiducia [e più fortemente si tema]; allora accadde così; infatti l'arrivo di L. Nasidio aveva riempito la città di grande speranza e di ardore. Approfittando di un vento favorevole escono dal porto e giungono a Tauroento, che è una piazzaforte dei Marsigliesi, presso Nasidio e qui dispongono le navi in ordine di battaglia e di nuovo si rinsaldano nella volontà di combattere e discutono i piani di battaglia. L'ala destra è assegnata ai Marsigliesi, quella sinistra a Nasidio.
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Verso il medesimo luogo si dirige Bruto, dopo avere incrementato il numero delle navi. Infatti a quelle costruite ad Arles per ordine di Cesare aveva aggiunto le sei navi prese ai Marsigliesi. E così esorta i suoi a disprezzare da vinti quei nemici che avevano debellato quando erano intatti nelle forze e, pieno di buona speranza e di coraggio, muove contro di loro. Era facile dall'accampamento di Trebonio e da tutte le alture vedere dentro la città tutta la gioventù che era ivi rimasta e tutti gli anziani con i li e le mogli nei luoghi pubblici, nei posti di guardia e sulle mura tendere le mani al cielo o andare nei templi degli dèi immortali e, prostrati davanti alle statue, chiedere loro la vittoria. E fra tutti non vi era nessuno che non pensasse che il destino di tutti loro dipendeva dall'esito di quella giornata. E infatti i giovani di nobile nascita e i più ragguardevoli cittadini di ogni età, chiamati nominatamente e pregati di imbarcarsi, erano saliti sulle navi; sapevano bene che, se accadeva qualche disgrazia, non rimaneva loro nulla da tentare; se invece risultavano vincitori, confidavano nella salvezza della città grazie alle loro forze o ad aiuti esterni.
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Attaccata battaglia, niente offuscò il valore dei Marsigliesi. Ma, memori delle esortazioni che avevano ricevuto poco prima dai loro, combattevano con tanto coraggio da sembrare di non potere avere in futuro nessun'altra occasione per ripetere il tentativo, pensando che coloro che perdevano la vita in battaglia precedevano di poco la sorte degli altri cittadini che, una volta presa la città, avrebbero dovuto patire il medesimo destino di guerra. E, poiché le nostri navi si erano a poco a poco allontanate le une dalle altre, si presentava ai comandanti nemici l'occasione per mostrare la loro abilità e l'agilità delle navi. E se talora i nostri, cogliendo il momento opportuno, avevano abbordato una nave con ganci di ferro, i nemici da ogni parte venivano in soccorso di chi si trovava in difficoltà. E invero gli Albici, che si erano ad essi uniti, erano non inferiori nel combattimento corpo a corpo e non molto lontani dal valore dei nostri. Nel medesimo tempo la grande violenza dei dardi lanciati a distanza dalle navi più piccole arrecava molte ferite ai nostri che venivano colpiti all'improvviso, senza aspettarselo e mentre erano impegnati nel combattimento. Due triremi, vista la nave di D. Bruto, che con facilità poteva essere riconosciuta dall'insegna, l'avevano attaccata da due parti. Ma Bruto, previsto l'attacco, forzò la velocità della nave sì da precederle, pur se di poco. Quelle, lanciate a piena velocità, si scontrarono tra di loro così violentemente da risentire entrambe in modo grave dello scontro; anzi una, spezzatosi il rostro, si sfasciò completamente. Alla vista di ciò, le navi della flotta di Bruto più prossime attaccano quelle navi in difficoltà e in poco tempo le affondano entrambe.
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Ma le navi di Nasidio non furono di alcuna
utilità e ben presto si allontanarono dal combattimento; infatti né la
vista della patria né l'esortazione dei parenti li spingeva a fare fronte
all'estremo pericolo della vita. Perciò nessuna di quelle navi fu
perduta; cinque navi della flotta marsigliese furono affondate, quattro prese,
una fuggì con le navi di Nasidio, che si diressero tutte verso
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I legionari, che erano impegnati nei lavori d'assedio sul lato destro, capirono dalle continue sortite dei nemici che poteva essere loro di grande aiuto, se avessero costruito lì da un lato sotto le mura una torre a guisa di castello e di riparo. In un primo momento ne costruirono una piccola e poco elevata contro gli attacchi improvvisi. In essa si rifugiavano; da essa, se erano incalzati da un assalto più violento, si difendevano; da essa si lanciavano a respingere e inseguire il nemico. Questa torre era larga in ogni lato trenta piedi; lo spessore delle pareti era di cinque piedi. In seguito invero, poiché in ogni cosa l'esperienza è maestra, quando vi si aggiunge l'intelligenza dell'uomo, si capì che poteva essere di grande utilità estenderla in altezza. In questo modo fu fatto.
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Quando l'altezza della torre giunse al primo piano, incastrarono le travi del tavolato nelle pareti così che le estremità delle tavole venissero protette dalla muratura esterna, affinché nulla sporgesse a cui il nemico potesse appiccare il fuoco. Sopra questa travatura, per quanto lo permetteva il riparo del pluteo e delle gallerie, continuarono la costruzione con mattoni e sopra questo muro, non lontano dalle estremità delle pareti, appoggiarono di traverso due travi su cui poggiare quella travatura che doveva essere di tetto alla torre. E sopra quelle travi posero perpendicolarmente dei travicelli che unirono con assi. Fecero questi travicelli un po' più lunghi e sporgenti della parte esterna delle pareti in modo che fosse possibile appendervi stuoie per difendersi dai proiettili e respingerli, mentre sotto quel tavolato continuavano ad essere costruite le pareti. Coprirono la parte superiore dell'impalcatura con mattoni e fango perché il fuoco nemico non potesse essere di danno e sopra vi gettarono imbottiture affinché i proiettili scagliati con le macchine non rompessero la travatura o i sassi scagliati dalle catapulte non sconnettessero i muri. Poi con funi d'ancora fecero tre stuoie lunghe come le pareti della torre e larghe quattro piedi e, lasciandole pendere intorno alla torre, le legarono alle travi che sporgevano, dalle tre parti che davano sul nemico; questo era il solo genere di copertura esperimentato in altre circostanze che non poteva essere trapassato né da dardo né da proiettile. Quando invero quella parte della torre che era stata terminata fu coperta e protetta da ogni tiro dei nemici, portarono via i plutei per usarli in altro lavoro. A partire dal primo piano dell'impalcatura cominciarono a sollevare e a innalzare con leve il tetto della torre che faceva parte a sé. Quando lo avevano innalzato tanto quanto lo permetteva l'altezza delle stuoie, nascosti e protetti dentro queste coperture, costruivano le mura con i mattoni e di nuovo con un'operazione di leve creavano lo spazio per continuare l'edificazione. Quando pareva il momento di costruire un altro piano, come prima collocavano travi protette dalle estremità dei muri e a partire da quella travatura di nuovo sollevavano il tetto e le stuoie. Così con sicurezza e senza alcun danno o pericolo costruirono sei piani e, dove parve opportuno, lasciarono nella costruzione alcune feritoie per il lancio dei proiettili.
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Quando furono sicuri che da quella torre potevano difendere le opere d'assedio tutt'intorno, cominciarono a costruire una galleria coperta lunga sessanta piedi con travi di due piedi, che potesse condurre dalla torre di mattoni alla torre e al muro dei nemici. Questa la forma della galleria: dapprima sono poste sul terreno due travi di uguale lunghezza distanti tra di loro quattro piedi e su di esse vengono conficcate colonnette alte cinque piedi. Congiungono tra di loro queste colonnette con cavalletti con lieve inclinazione, dove collocare le travi che dovevano coprire la galleria. Sopra collocano travi di due piedi e le assicurano con lamine e chiodi di ferro. All'estremità del tetto e delle travi fissano asticelle quadrate larghe quattro dita per tenere fermi i mattoni collocati sulla galleria. Così con il tetto a punta costruito in successione, a mano a mano che le travi sono collocate sui cavalletti, la galleria viene coperta di mattoni e di fango per essere protetta dal fuoco lanciato dalle mura. Strisce di cuoio vengono stese sui mattoni perché acqua eventualmente incanalata e immessa non potesse sconnettere i mattoni. Il cuoio poi viene coperto di materassi per non venire distrutto a sua volta dal fuoco e dalle pietre. Questa opera è condotta a termine fino alla torre tutta al riparo delle vinee e subitamente, senza che i nemici se l'aspettassero, con una tecnica navale, sottoponendo dei rulli, l'avvicinano alla torre nemica, fino a congiungerla alla costruzione.
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Atterriti da questo pericolo, subito gli assediati spingono con delle leve macigni quanto più grossi possibile e, fattili precipitare dal muro, li fanno cadere sulla galleria. La solidità del materiale sostiene il colpo e tutto ciò che cade scivola lungo gli spioventi del tetto. Vedendo ciò, i nemici cambiano piano; incendiano barili pieni di pece e resina e li gettano dal muro sulla galleria. I barili, rotolando, precipitano; caduti a terra ai fianchi, vengono allontanati dalla galleria con forche e pertiche. Frattanto sotto la galleria i soldati con leve scalzano alla base della torre dei nemici le pietre che ne costituivano le fondamenta. La galleria viene difesa dai nostri con frecce e proiettili scagliati dalla torre di mattoni; i nemici si allontanano dalle mura e dalle torri; non è più concessa la possibilità di difendere il muro. Rimosse molte pietre dalla torre vicina alla galleria, all'improvviso una parte di quella torre crolla, la rimanente parte a sua volta stava per cadere, quando i nemici, atterriti per l'eventuale saccheggio della città, inermi si precipitano tutti quanti fuori dalla porta con le sacre bende, tendendo supplichevolmente le mani ai luogotenenti e all'esercito.
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Presentatasi questa insolita situazione, ogni operazione di guerra viene sospesa e i soldati desistono dal combattimento, mossi dal desiderio di ascoltare e sapere. I nemici, giunti al cospetto dei luogotenenti e dell'esercito, si gettano tutti ai loro piedi; scongiurano di aspettare l'arrivo di Cesare. Essi, dicono, vedono la loro città presa; le opere d'assedio completate, la torre abbattuta e perciò rinunciano alla difesa. Dicono inoltre che, se essi, quando giungerà Cesare, non eseguiranno i suoi ordini, non ci sarà nessun motivo per indugiare nel distruggerla subito, a un suo cenno. Spiegano che, se la torre cadrà del tutto, non si potrà impedire ai soldati, desiderosi di preda, di irrompere nella città, distruggendola. Queste e molte altre simili considerazioni vengono esposte da uomini colti quali erano, con pianti e tono tale da suscitare grande pietà.
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Commossi da questi pianti e preghiere i luogotenenti ritirano i soldati dalle opere d'assedio, desistono dall'attacco; lasciano posti di guardia innanzi ai lavori. Raggiunta per un sentimento di compassione una sorta di tregua, si attende l'arrivo di Cesare. Dalle mura i nostri non scagliano nessun dardo; come se la guerra fosse finita, tutti attenuano l'attenzione nella sorveglianza. Cesare infatti aveva per iscritto vivamente raccomandato a Trebonio di non permettere l'espugnazione a forza della città affinché i soldati, troppo scossi e dall'odioso tradimento e dal disprezzo verso di loro e dalla continua fatica, non massacrassero tutti gli adulti; e ciò essi minacciavano di fare. E a stento furono allora trattenuti dal fare irruzione nella città e mal volentieri sopportarono quel divieto poiché pareva che il non avere preso la città dipendesse da Trebonio.
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Ma i nemici, in mala fede, cercano un momento favorevole per un subdolo inganno e, lasciato passare qualche giorno, mentre i nostri se ne stanno rilassati e tranquilli, a mezzogiorno, all'improvviso, quando alcuni si sono allontanati, altri sui posti stessi dei lavori si sono concessi un riposo dalla lunga fatica e tutte le armi sono state messe via e coperte, irrompono fuori dalle porte, e danno fuoco ai lavori di assedio approfittando di un vento forte e favorevole. Il vento proò il fuoco così velocemente che in un momento trincea, gallerie, testuggine, torre, macchine da guerra furono in fiamme e tutto ciò fu distrutto prima che si potesse capire in che modo l'incendio era avvenuto. I nostri, scossi dall'improvvisa sciagura, afferrano le armi che possono, altri si lanciano fuori dal campo. Assaltano i nemici, ma le frecce e i proiettili scagliati dalle mura impediscono di inseguire i fuggitivi. Quelli si ritirano ai piedi del muro e qui, senza ostacolo, incendiano la galleria e la torre di mattoni. Così il lavoro di molti mesi in un attimo va in rovina per la perfidia dei nemici e la violenza della tempesta. Il giorno dopo i Marsigliesi fecero il medesimo tentativo. Favoriti dalla medesima tempesta con maggiore temerarietà fecero una sortita e attaccarono presso l'altra torre e l'altra trincea e appiccarono molti incendi. Ma i nostri, come nei giorni precedenti avevano allentato tutta l'attenzione, così messi in guardia dal fatto dell'ultimo giorno, avevano preparato tutto per la difesa. E così, dopo avere ucciso molti nemici, ricacciarono in città i rimanenti senza che questi avessero portato a termine il loro piano.
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Trebonio cominciò a organizzare la ricostruzione di ciò che era stato distrutto con un entusiasmo dei soldati molto maggiore. Infatti quando videro che con la distruzione delle opere belliche tante loro fatiche erano andate perdute, provando profondo dolore poiché, violata la tregua con l'inganno, erano stati scherniti nel loro valore, dal momento che non rimaneva materiale per costruire di nuovo una trincea giacché, per lungo e per largo nel territorio di Marsiglia, tutti gli alberi erano stati tagliati e portati via, decisero di costruire un terrapieno di nuovo tipo, mai visto prima, con due mura di mattoni di sei piedi di spessore, uniti da un tavolato, quasi della stessa larghezza di quello che era stato costruito con il legname trasportato. Laddove l'intervallo tra i muri o la debolezza del legname sembrano richiederlo, si interpongono dei pilastri, si pongono di traverso travi che possano essere di sostegno e si copre di graticci tutta la travatura, i graticci vengono cosparsi di fango. Al riparo i soldati, protetti a destra e sinistra dal muro e di fronte da una protezione di tavole, portano senza pericolo qualunque materiale serva per la costruzione. Il lavoro viene condotto velocemente; la perdita di un lavoro costato lungo tempo viene in poco tempo sanata dalla velocità e dal valore dei soldati. Vengono lasciate nel muro, là dove pareva opportuno, delle porte per potere fare delle sortite.
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I nemici si accorsero che con un duro lavoro in pochi giorni erano state ricostruite quelle opere che essi speravano non potessero essere rifatte se non in un lungo tempo, sicché non vi era per loro occasione di inganno o sortita e non rimaneva alcun punto attraverso cui arrecare danno ai soldati con le armi o ai lavori con il fuoco. Parimenti comprendono che tutta quanta la città, dalla parte di terra, poteva essere accerchiata dal muro e dalle torri, sicché non sarebbe stato loro possibile resistere a piè fermo sulle loro stesse fortificazioni: il nostro esercito infatti sembrava quasi costruire le mura del terrapieno appoggiate alle mura della città così che i proiettili potevano essere scagliati a mano, mentre per il poco spazio non potevano usare le loro macchine da guerra, in cui avevano posto grande speranza. Quando comprendono che sul muro e sulle torri il combattimento può essere condotto nelle stesse condizioni e che essi non possono eguagliare i nostri in valore, ricorrono alle medesime condizioni di resa della volta precedente.
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Nella Sna Ulteriore Marco Varrone, in un
primo tempo, venuto a conoscenza degli avvenimenti verificatisi in Italia e
diffidando del successo di Pompeo parlava di Cesare molto favorevolmente:
diceva di essere impegnato con Pompeo, che lo aveva nominato luogotenente e di
essere quindi costretto a mantenersi fedele. Ciò nonostante non meno
stretto era il suo rapporto di amicizia con Cesare ed egli non ignorava quale
è il dovere di un luogotenente con un incarico di fiducia; sapeva quali
erano le sue forze e quale la disposizione d'animo verso Cesare in tutta la
provincia. Riprendeva queste argomentazioni in tutti i suoi discorsi, senza
propendere verso alcun partito. Ma quando in seguito seppe che Cesare si
tratteneva presso Marsiglia, che le truppe di Petreio si erano congiunte con
l'esercito di Afranio, che si erano radunate grandi forze ausiliarie, nella
speranza e nell'attesa di molte altre, che tutta la provincia citeriore era
dalla loro parte, e quando poi venne a sapere ciò che era capitato a
Ilerda per mancanza di vettovaglie, notizie queste inviategli per iscritto da
Afranio che le aveva gonfiate ed esagerate, anch'egli cominciò a muoversi
dove muoveva
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In tutta la provincia fece reclutamenti; completate due legioni, aggiunse a esse circa trenta coorti di milizie ausiliarie. Raccolse una grande quantità di frumento da inviare ai Marsigliesi e parimenti ad Afranio e Petreio. Ordinò ai Gaditani di costruire dieci navi da guerra, inoltre ne fece costruire molte altre a Ispali. Fece portare dal tempio di Ercole nella città di Gades tutto il denaro e tutti gli oggetti preziosi; mandò colà di presidio dalla provincia sei coorti e mise a capo della città di Gades Gaio Gallonio, cavaliere romano amico di Domizio, che qui era giunto mandato da Domizio come procuratore in una questione di eredità; fece radunare tutte le armi pubbliche e private nella casa di Gallonio. Egli stesso pronunciò parole dure contro Cesare. Spesso dal palco affermò che Cesare aveva subito sconfitte, che un gran numero di suoi soldati erano passati dalla parte di Afranio; e che egli era venuto a sapere ciò da messaggeri sicuri, da fonti sicure. Costrinse i cittadini romani della sua provincia, atterriti da queste notizie, a promettere, per la pubblica amministrazione, diciotto milioni di sesterzi, ventimila libbre d'argento e centoventi moggi di grano. Imponeva oneri più pesanti alle città che credeva essere amiche di Cesare e vi mandava presidi e autorizzava processi contro i privati che avevano pronunciato parole o discorsi contro lo stato e confiscava i loro beni. Costringeva tutta la provincia a giurare fedeltà a lui e a Pompeo. Venuto a sapere di ciò che era avvenuto nella Sna Citeriore, si preparava alla guerra. Il suo piano di guerra era il seguente: recarsi con due legioni a Gades, concentrare là le navi e tutto il frumento; aveva saputo infatti che l'intera provincia era favorevole a Cesare. Una volta raccolti nell'isola frumento e navi, riteneva non difficile tirare in lungo la guerra. Cesare, sebbene richiamato in Italia da molte questioni urgenti, aveva tuttavia stabilito di non lasciare in Sna nessun focolaio di guerra, poiché sapeva che nella provincia citeriore grandi erano i benefizi di Pompeo e molti erano i suoi clienti.
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Pertanto mandate nella Sna Ulteriore due legioni con Quinto Cassio, tribuno della plebe, egli stesso con seicento cavalieri avanza a marce forzate e si fa precedere da un editto, fissando il giorno in cui voleva che i magistrati e i capi di tutte le città gli si presentassero a Cordova. Dopo la promulgazione di questo editto in tutta la provincia non vi fu città che non mandasse a Cordova, alla data stabilita, una rappresentanza del senato, non vi fu cittadino romano di una certa importanza che non vi giungesse nel giorno fissato. Contemporaneamente la stessa colonia di Cordova, di propria iniziativa, chiuse le porte a Varrone, dispose sulle torri e sulle mura sentinelle e corpi di guardia e trattenne presso di sé per la difesa della città le due coorti che erano dette coloniali, giunte colà per caso. Nel medesimo tempo gli abitanti di Carmona, di gran lunga la città più potente di tutta la provincia, di propria iniziativa cacciarono le tre coorti, mandate da Varrone a presidiare la rocca della città, e chiusero le porte.
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Per questi motivi Varrone si affrettava a giungere quanto prima con le legioni a Gades perché la via di terra e il passaggio di mare non gli venissero bloccati; tanto e così benevolo favore nei confronti di Cesare si poteva constatare nella provincia. Aveva fatto poca strada quando gli viene recapitata una lettera proveniente da Gades per informarlo che, non appena si era avuta conoscenza dell'editto di Cesare, i notabili di Gades si erano accordati con i tribuni delle coorti che erano lì di guarnigione per scacciare dalla città Gallonio e salvaguardare città e isola per Cesare. Presa questa decisione, intimarono a Gallonio di lasciare Gades spontaneamente finché gli era concesso di farlo senza pericolo; ma se egli non l'avesse fatto, avrebbero preso le opportune decisioni. Spinto da questo timore Gallonio lasciò Gades. Venuta a conoscenza di ciò, una delle due legioni che erano dette provinciali, disertò dal campo di Varrone, in sua presenza e sotto i suoi occhi, e ritornò a Ispali e, senza arrecare danno, sostò nel foro e sotto i portici. E i cittadini romani di quella colonia approvarono a tal punto quel gesto che ciascuno accolse ospitalmente e con gran piacere presso di sé i legionari. Varrone, atterrito da questi fatti, cambiò direzione di marcia e mandò a dire che sarebbe andato a Italica, ma dai suoi fu informato che gli erano state chiuse le porte. Allora invero, preclusa ogni strada, manda a dire a Cesare di essere pronto a consegnare la legione a chi egli ordinava. Cesare gli manda Sesto Cesare e gli ordina di consegnarla a lui. Consegnata la legione, Varrone giunge a Cordova presso Cesare; dopo avere reso lealmente i conti della pubblica amministrazione, gli consegna il denaro che aveva con sé e gli mostra quanto frumento e navi possedeva e dove erano.
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Convocata in Cordova un'assemblea, Cesare porge a tutti un ringraziamento distinto per singole categorie: ai cittadini romani, poiché si erano impegnati a tenere la città in loro potere, agli Snoli, poiché avevano scacciato la guarnigione, agli abitanti di Gades, poiché avevano annientato gli sforzi dei nemici e avevano riacquistato la libertà; ai tribuni dei soldati e ai centurioni, che erano giunti colà per la difesa, poiché avevano appoggiato col loro valore le decisioni di quella gente. Condona il denaro che i cittadini romani avevano promesso a Varrone per l'erario; restituisce i beni a coloro ai quali erano stati confiscati, come era venuto a sapere, per avere parlato troppo liberamente. Ad alcune popolazioni consegna premi da destinare alla cosa pubblica e a privati e colma gli animi delle altre popolazioni di speranza per il futuro; fermatosi due giorni a Cordova, si dirige a Gades; ordina che siano riportati nel tempio il denaro e gli oggetti preziosi che dal tempio di Ercole erano stati portati in casa privata. Mette a capo della provincia Quinto Cassio; gli assegna quattro legioni. Egli stesso con quelle navi che M. Varrone aveva fatto costruire e con quelle che, per comando di Varrone, gli abitanti di Gades avevano costruito, giunge in pochi giorni a Tarragona. Qui legazioni di quasi tutta la provincia citeriore attendevano il suo arrivo. Con lo stesso criterio attribuiti onori e ricompense, privatamente e pubblicamente, ad alcune città, parte da Tarragona e giunge, via terra, a Narbona e di qui a Marsiglia. Qui viene a sapere che era stata promulgata una legge per la nomina di un dittatore e che egli stesso era stato eletto dittatore dal pretore Marco Lepido.
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I Marsigliesi, sfiniti da ogni genere di mali, ridotti all'estrema penuria di viveri, sconfitti due volte in battaglie navali, sconfitti in frequenti sortite, travagliati anche da una grave pestilenza dovuta al lungo assedio e al cambiamento in peggio del vitto (tutti infatti si nutrivano di panìco raffermo e di orzo guasto che avevano raccolto da tempo per una situazione del genere e portato nei magazzini pubblici), diroccata una torre, crollata gran parte delle mura, perduta ogni speranza di aiuto da parte di province o di eserciti, che avevano saputo essere caduti in potere di Cesare, decidono di arrendersi lealmente. Ma, pochi giorni prima, L. Domizio, venuto a conoscenza dell'intenzione dei Marsigliesi, allestite tre navi, due delle quali aveva assegnato a suoi familiari, mentre egli stesso era salito sulla terza, partì approfittando del tempo burrascoso. Quando le navi, che per ordine di Bruto facevano quotidiana guardia presso il porto, lo videro, levate le ancore cominciarono a inseguirlo. Delle tre navi solo quella di Domizio accelerò e continuò a fuggire e col favore della burrasca si sottrasse alla vista, mentre le altre due navi, atterrite dall'accorrere delle nostre, si rifugiarono nel porto. Gli abitanti di Marsiglia portano fuori dalla città, come era stato comandato, armi e macchine da guerra, fanno uscire le navi dal porto e dai cantieri, consegnano il denaro dell'erario pubblico. Fatto ciò, Cesare, risparmiando quei cittadini più per la fama e l'antica origine che per i meriti della città nei suoi riguardi, lascia qui due legioni di presidio, manda tutte le altre in Italia; egli stesso parte alla volta di Roma.
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Nel medesimo tempo C. Curione, partito dalla Sicilia per l'Africa e tenendo in poco conto sin da principio le milizie di P. Azzio, trasportava due legioni delle quattro che aveva ricevuto da Cesare e cinquecento cavalieri; dopo due giorni e tre notti di navigazione approda in un luogo detto Anquillaria, distante ventiduemila passi da Clupea, che durante l'estate offre un discreto ancoraggio ed è chiuso da due alti promontori. L. Cesare lio, che aspettava il suo arrivo presso Clupea con le dieci navi da guerra, che, tratte in secco a Utica dopo la guerra con i pirati, P. Azzio aveva fatto riparare per questa guerra, temendo per il numero delle navi di Curione era rientrato dall'alto mare e, spinta verso la riva più vicina una trireme protetta, abbandonandola poi sul lido, era fuggito verso Adrumeto per via di terra. C. Considio Longo difendeva questa città con il presidio di una legione. Le altre navi di Cesare, dopo la sua fuga, si rifugiarono ad Adrumeto. Il questore Marcio Rufo, seguitolo con dodici navi che Curione aveva fatto venire dalla Sicilia come scorta alle navi da carico, quando vide sul lido la nave abbandonata, la trasse in mare a rimorchio; egli stesso con la flotta ritorna da C. Curione.
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Curione manda avanti a Utica Marcio con le navi; egli stesso con l'esercito vi si dirige e, dopo un percorso di due giorni, giunge presso il fiume Bagrada. Qui lascia con le legioni il luogotenente C. Caninio Rebilo; egli va avanti con la cavalleria a esplorare il campo Cornelio, poiché quella località era giudicata molto adatta per l'accampamento. Si tratta infatti di un colle ripido a picco sul mare, erto e scosceso da entrambe le parti, ma tuttavia con un pendio un po' più dolce dalla parte rivolta verso Utica. In linea retta dista da Utica poco più di mille passi. Ma su questa via vi è una fonte, dove il mare per ampio tratto si insinua e in quel punto si forma un vasto ristagno d'acqua. Per evitarlo, si giunge in città con un giro di sei miglia.
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Esplorata questa località, Curione vede il campo di Varo addossato al muro della città presso la porta che è detta Belica, assai protetto dalla natura del luogo, da una parte dalla stessa città di Utica, dall'altra dal teatro che si trova davanti alla città, essendo l'accesso all'accampamento difficile e stretto poiché le fondamenta del teatro sono immense. Contemporaneamente s'accorge che molte merci, che per timore di un repentino tumulto sono condotte dalla camna nella città, vengono portate da ogni parte e che le vie sono stipate. Manda qui la cavalleria per fare preda e saccheggio; contemporaneamente per proteggere quel convoglio Varo manda dalla città seicento cavalieri numidi e quattromila fanti che il re Giuba pochi giorni prima aveva inviato in aiuto a Utica. Costui aveva con Pompeo rapporti di amicizia per l'ospitalità a lui data dal padre e un sentimento di rancore verso Curione, poiché quando questi era tribuno della plebe aveva promulgato una legge con la quale aveva proposto di confiscare il regno di Giuba. I cavalieri si scontrano e invero i Numidi non poterono reggere il primo assalto dei nostri, ma, dopo che ne rimasero uccisi circa centoventi, gli altri si rifugiarono nel campo presso la città. Frattanto all'arrivo delle navi da guerra Curione ordina che sia comunicato alle navi da carico, che stavano davanti a Utica in numero di circa duecento, che egli avrebbe considerato nemici coloro i quali non avessero immediatamente indirizzato le navi verso il campo Cornelio. Fatta questa intimazione, levate in un istante le ancore, tutte le navi lasciano Utica e si recano dove è stato comandato. Tale azione procurò all'esercito abbondanza di ogni cosa.
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Compiuto ciò, Curione si ritira nell'accampamento presso Bagrada e per acclamazione dell'intero esercito viene salutato comandante supremo; il giorno seguente conduce l'esercito a Utica e pone il campo presso la città. Quando non erano ancora compiuti i lavori dell'accampamento, i cavalieri dagli avamposti annunciano l'arrivo a Utica di grandi rinforzi di cavalleria e fanteria mandati da Giuba; contemporaneamente si vedeva una grande nube di polvere e in un attimo era in vista l'avanguardia. Curione, scosso da questo fatto inatteso, manda avanti la cavalleria per sostenere il primo impeto e fermare l'avanzata del nemico; egli stesso, distolte in breve tempo le legioni dai lavori di costruzione del campo, le schiera in ordine di battaglia. I cavalieri attaccano battaglia e, prima che le legioni possano spiegarsi completamente e prendere posizione, tutti i rinforzi del re, impediti dai bagagli e senza ordine, poiché avevano fatto il cammino scompostamente perché senza timore, sono messi in fuga. La cavalleria rimane quasi del tutto incolume, poiché si ritira velocemente lungo il litorale nella città, ma viene ucciso un gran numero di fanti.
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La notte successiva due centurioni marsi con ventidue soldati delle loro comnie fuggono dal campo di Curione presso Azzio Varo. Costoro, sia che gli riferissero realmente la loro opinione sia che lo compiacessero dicendo cose gradite (e infatti crediamo volentieri a ciò che vogliamo e speriamo che gli altri provino ciò che noi stessi proviamo), lo assicurano che l'animo di tutto quanto l'esercito è contrario a Curione e che è sopra tutto necessario che gli eserciti si incontrino e abbiano possibilità di parola. Spinto da questo parere Varo, la mattina dopo, porta fuori dal campo le legioni. La medesima cosa fa Curione ed entrambi schierano le truppe in una valle non grande che tra loro si frapponeva.
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Nell'esercito di Varo vi era Sesto Quintilio Varo che, come si è detto sopra, era stato a Corfinio. Costui, lasciato in libertà da Cesare, era venuto in Africa, là dove Curione aveva condotto quelle legioni che Cesare in tempi precedenti aveva ricevuto provenienti da Corfinio, sicché, ad eccezione di pochi centurioni sostituiti, centurie e manipoli erano rimasti gli stessi. Quintilio, colta questa occasione per parlare, incominciò a girare intorno alla schiera di Curione e a scongiurare i soldati di non dimenticare il giuramento fatto a Domizio e a lui quando era questore, e a non portare le armi contro quelli che avevano avuto la medesima Fortuna e, durante l'assedio, avevano sofferto i medesimi mali, e a non combattere in favore di quelli dai quali venivano con disprezzo chiamati disertori. A queste aggiunse poche altre parole per suscitare speranza di premi che dovevano aspettarsi dalla sua liberalità, se avessero seguito lui ed Azzio. Nonostante questo discorso, da parte dell'esercito di Curione non vi fu alcun tipo di reazione e così entrambi i comandanti riconducono nel campo le proprie truppe.
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Ma nel campo di Curione un grande timore assalì tutti gli animi; in breve tempo esso viene accresciuto dai diversi discorsi dei soldati. Infatti ognuno metteva in piedi delle congetture e a ciò che aveva sentito dire da un altro aggiungeva qualcosa del proprio timore. Quando una diceria, pure essendo frutto di uno solo, si proa a più persone, e uno la trasmette a un altro, le fonti di essa sembrano essere diverse. †Era una guerra civile, un genere di uomini che è lecito agiscano liberamente e seguano il loro volere, queste le legioni che poco prima erano state nel campo avverso infatti anche la consuetudine con la quale venivano concessi aveva mutato il beneficio di Cesare anche i municipi erano uniti a partiti diversi e infatti non da Marsi e Peligni venivano come coloro che nella notte precedente nelle tende e alcuni commilitoni discorsi dei soldati, cose troppo gravi, dubbiose più dubbiosamente venivano accolte†. Infatti alcune cose venivano inventate da coloro che volevano apparire i più informati.
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In conseguenza di ciò riunitosi il consiglio, si incomincia a deliberare sulla situazione generale. Alcuni erano del parere che in ogni modo si dovesse fare uno sforzo e assalire l'accampamento di Varo, poiché giudicavano che l'ozio era dannoso più di ogni altra cosa in considerazione della disposizione d'animo dei soldati; dicevano poi che era meglio tentare valorosamente in battaglia la sorte della guerra piuttosto che patire l'estremo supplizio, abbandonati e traditi dai propri soldati. ½ era chi proponeva di ritirarsi verso la mezzanotte al campo Cornelio affinché il maggior lasso di tempo intercorso contribuisse a sanare l'animo dei soldati; se poi qualcosa di più grave fosse accaduto, grazie alla grande moltitudine di navi con più sicurezza e facilità avrebbero trovato rifugio in Sicilia.
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Curione disapprova entrambi i pareri e diceva che quanto una proposta mancava di coraggio, tanto l'altra ne presentava in eccesso: gli uni contavano su di una fuga vergognosissima, gli altri pensavano di dovere combattere anche in una posizione sfavorevole. 'Con che fiducia', disse, 'confidiamo di potere espugnare un campo oltremodo protetto per natura del luogo e per lavori di fortificazione? O invero che vantaggio avremo se rinunciamo all'assalto del campo dopo avere ricevuto gravi perdite? Come se non fosse il buon esito delle azioni a conciliare ai capi la benevolenza dei soldati e la sconfitta gli odi! E il cambiamento poi del campo che cosa comporta, se non una turpe fuga, la perdita di ogni speranza e il malumore dei soldati? E infatti non è conveniente che i buoni soldati sospettino che si ha poca fiducia in loro né che i cattivi siano consci di essere temuti, poiché la nostra paura agli uni aumenta la sfrenatezza, agli altri riduce l'ardore. Che se anche', continuò, 'giudicassimo certo ciò che si dice sul malanimo dell'esercito, cosa che io invero confido essere del tutto falsa o sicuramente meno grave di quello che si pensa, non è meglio dissimularla e tenerla nascosta piuttosto che confermarla col nostro operato? Non è forse vero che, come le ferite di un corpo, così le debolezze di un esercito vanno tenute nascoste per non accrescere nei nemici la speranza? E inoltre aggiungono che si parta a mezzanotte, perché, come io credo, coloro che tentano di tradire possano farlo con maggiore facilità. E infatti azioni di tal fatta sono tenute a freno o dalla vergogna o dal timore, di cui la notte è sopra tutto nemica. Per tali motivi non ho tanta audacia da pensare che si debba, ancorché senza speranza, attaccare l'accampamento, né tanto timore da perdermi d'animo; penso che prima si debba esaminare ogni possibilità e confido di potere ben presto prendere insieme a voi una decisione sul da farsi'.
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Sciolto il consiglio di guerra, Curione convoca l'assemblea dei soldati. Ricorda quale ardore è stato riscontrato in loro presso Corfinio da Cesare, che, col loro aiuto ed esempio, ha occupato gran parte d'Italia. 'Tutti i municipi, uno dopo l'altro', dice, 'hanno seguito voi e la vostra condotta e, non senza ragione, Cesare su voi espresse giudizi molto favorevoli, i suoi nemici invece molto severi. Pompeo infatti, pure senza essere stato vinto in alcuna battaglia, traendo un infausto auspicio dal vostro comportamento ha lasciato l'Italia; Cesare ha affidato alla vostra lealtà me, a lui molto caro, la provincia di Sicilia e l'Africa, senza le quali Roma e l'Italia non possono essere difese. Ora vi sono coloro che vi esortano a ribellarvi a noi. Che cosa infatti vi è di più desiderabile per loro che contemporaneamente sopraffare noi e legare voi con la complicità di una azione scellerata? O nella loro ira che cosa di peggio possono augurare per voi se non questo, che inganniate quelli che riconoscono di esservi in tutto debitori e vi diate nelle mani di chi pensa di essere perduto per causa vostra? E poi non avete udito le imprese di Cesare in Sna? Due eserciti messi in fuga; due generali vinti; due province sottomesse; questo è ciò che è stato fatto in quaranta giorni, dal momento in cui Cesare è giunto al cospetto degli avversari. Forse che coloro che non sono stati in grado di opporre resistenza quando avevano le forze intatte, ora che sono in rovina potrebbero resistere? Voi poi, che avete seguito Cesare quando la vittoria era incerta, ora che ormai la sorte della guerra è decisa, quando dovreste ricevere il premio dei vostri servizi seguirete il vinto? Infatti essi dicono di essere stati abbandonati e traditi da voi e rammentano il primo giuramento. Invero avete voi abbandonato L. Domizio o L. Domizio voi? Non è forse vero che egli vi ha abbandonato quando voi eravate pronti a subire l'estrema sorte? Non è forse vero che di nascosto a voi ha cercato di salvarsi fuggendo? Non è forse vero che, traditi da lui, siete stati salvati dalla clemenza di Cesare? Come avrebbe potuto tenervi legati dal giuramento colui che, gettati i fasci e deposto il comando, era egli stesso caduto, privato cittadino e prigioniero, in potere altrui? Ecco un nuovo tipo di obbligo: disprezzare quel giuramento dal quale siete vincolati e rispettare quello che è stato sciolto per la modulazione del comandante e per la perdita dei diritti civili. Ma, credo, voi siete contenti di Cesare, malcontenti di me. Io non ho intenzione di parlare dei miei meriti nei vostri confronti, che fino a ora sono minori di quanto io voglia e voi vi aspettiate, ma tuttavia i soldati sono soliti chiedere il premio della loro fatica sempre dopo l'esito della guerra e neppure voi dubitate quale esso sarà. Perché invero dovrei passare sotto silenzio il mio zelo nell'adempiere i doveri o la mia Fortuna, considerando a che punto finora sono giunte le cose? ½ rincresce forse che io abbia trasportato l'esercito sano e salvo, senza avere perso neppure una nave? Che, appena arrivato, abbia sconfitto al primo assalto la flotta dei nemici? Che due volte in due giorni sia risultato vittorioso in battaglie equestri? Che abbia stanato dal porto e dal golfo duecento navi da carico nemiche e abbia ridotto i nemici a non potersi rifornire di viveri né per via terra né con le navi? Ripudiata questa Fortuna e questi comandanti, seguirete voi l'ignominia di Corfinio, la fuga d'Italia, la resa della Sna, presagi della guerra d'Africa? Quanto a me, volevo essere chiamato soldato di Cesare, voi mi avete dato il titolo di comandante supremo. Se vi pentite di ciò, rinuncio per voi al beneficio, restituite a me il mio nome affinché non paia che mi abbiate dato quell'onore per oltraggiarmi.
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I soldati, scossi da questo discorso, di continuo lo interrompevano mentre parlava: appariva evidente che essi sopportavano con grande dolore il sospetto di tradimento; invero mentre egli si allontana dall'assemblea tutti quanti lo esortano a essere coraggioso e a non esitare ad attaccare battaglia in qualsiasi luogo e a mettere alla prova la loro fedeltà e valore. In seguito a ciò, mutata l'opinione e la volontà di tutti e con il consenso generale, Curione stabilisce di affidare l'esito alla battaglia, presentandosene appena l'opportunità; e il giorno seguente fa uscire le truppe dal campo e le colloca in ordine di combattimento nel medesimo luogo dove si era fermato nei giorni precedenti. Neppure Azzio Varo esita a condurre fuori le truppe per non lasciarsi sfuggire l'occasione che gli capitava sia di provocare i soldati nemici sia di combattere in posizione favorevole.
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Vi era fra i due eserciti, come si è detto sopra, una valle, non molto grande, ma era difficile e ripida la via per salirvi. L'uno e l'altro dei comandanti aspettava per attaccare battaglia in posizione più favorevole, nel caso le milizie nemiche avessero deciso di attraversarla Frattanto dal lato sinistro di P. Azzio si vedeva tutta la cavalleria e, mescolati ad essa, numerosi armati alla leggera scendere nella valle. Contro di essi Curione lancia la cavalleria e due coorti di Marrucini; la cavalleria nemica non resse il loro primo impeto, ma, a briglia sciolta, trovò rifugio presso i suoi; i fanti armati alla leggera, abbandonati da coloro con i quali si erano lanciati all'assalto, venivano circondati e uccisi dai nostri. Tutto l'esercito di Varo, rivolto da questa parte, vedeva la fuga e l'annientamento dei suoi. Allora Rebilo, luogotenente di Cesare, che Curione aveva condotto con sé dalla Sicilia, poiché sapeva essere grande esperto di arte militare, disse: 'Curione, vedi il nemico atterrito; perché indugi ad approfittare dell'occasione?'. Ed egli, dopo avere detto ai soldati solo questo, di tenere a mente ciò che il giorno prima gli avevano promesso, ordina di seguirlo e si slancia davanti a tutti. La valle era così impervia che i primi non riuscivano facilmente a salire senza il sostegno dei comni. Ma i soldati di Azzio, cui la fuga e la strage dei loro aveva colmato l'animo di terrore, non pensavano affatto a resistere e si vedevano già ormai tutti quanti circondati dalla cavalleria. E così, prima che si potesse tirare una freccia o che i nostri avanzassero oltre, tutta la schiera di Varo volse le spalle e cercò rifugio nel campo.
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Durante questa fuga un Peligno, di nome Fabio, che aveva uno dei gradi più bassi dell'esercito di Curione, raggiunta la prima fila dei fuggitivi, andava in cerca di Varo chiamandolo per nome ad alta voce sì da sembrare essere uno dei suoi soldati e volerlo avvertire e parlargli. Quando Varo, dopo essere stato più volte chiamato, lo vide, si fermò, e chiese chi fosse e che cosa volesse, quello tirò un colpo di spada al fianco e mancò poco che uccidesse Varo; egli, alzato lo scudo per difendersi dall'attacco, evitò questo pericolo. Fabio circondato dai soldati che erano più vicini viene ucciso. Le porte dell'accampamento vengono ostruite da una moltitudine disordinata di fuggitivi e viene impedito il passaggio; muoiono più soldati in quel luogo senza ricevere ferita che in battaglia o durante la fuga e non mancò molto che venissero scacciati dal campo; alcuni uomini, senza interrompere la corsa, si diressero verso la città. Ma l'accesso era allora impedito per un verso dalla natura del luogo e dalle fortificazioni e per l'altro dal fatto che i soldati di Curione, usciti per combattere, mancavano di quei mezzi necessari per espugnare il campo. E così Curione riconduce l'esercito nell'accampamento con tutti i suoi soldati incolumi, eccetto Fabio; mentre fra i nemici ne furono uccisi circa seicento e feriti mille. Alla partenza di Curione tutti costoro e molti altri, che si fingevano feriti, lasciano l'accampamento e si rifugiano, per la paura, nella città. Varo, accortosi di ciò, visto il terrore dell'esercito, lasciati nel campo un trombettiere e poche tende per ingannare il nemico, verso mezzanotte, in silenzio, riconduce l'esercito in città.
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Il giorno successivo Curione intraprende l'assedio di Utica e il suo accerchiamento con un vallo. ½ era nella città una moltitudine non avvezza alla guerra, per il lungo periodo di pace; gli Uticensi grazie ad alcuni benefici ricevuti da Cesare gli erano molto favorevoli; la colonia di cittadini romani era formata da varie classi; grande era il terrore che avevano prodotto le battaglie precedenti. E così già tutti parlavano apertamente di resa e trattavano con P. Azzio perché con la sua ostinazione non volesse mettere in pericolo la sorte di tutti. Durante queste trattative, giunsero ambasciatori mandati dal re Giuba per annunciare che egli era vicino con grandi truppe e per esortarli a custodire e difendere la città. Questa notizia confortò il loro animo sconvolto.
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La medesima notizia veniva annunciata a Curione, ma per un certo tempo non ci poté credere tanto grande era la fiducia che aveva nella sua fortuna. E già da messaggeri e da lettere venivano riferiti in Africa i successi di Cesare in Sna. Esaltato da queste notizie pensava che il re non avrebbe tentato nulla contro di lui. Ma quando venne a sapere da fonti certe che le truppe di Giuba distavano da Utica meno di venticinque miglia, lasciate le opere di fortificazione, si rifugiò nel Campo Cornelio. Cominciò ad ammassare qui frumento, a fortificare il campo, a radunare legname e inviò subito in Sicilia l'ordine di mandargli due legioni e il resto della cavalleria. L'accampamento era adattissimo a condurre la guerra ad oltranza per la natura del luogo e il modo in cui era fortificato, per la vicinanza del mare, per l'abbondanza di acqua e di sale, di cui una grande quantità era stata portata colà dalle vicine saline. Il legname non poteva mancare per la quantità di alberi, non poteva mancare il frumento di cui erano pieni i campi. E così, col consenso di tutti i suoi, Curione si apprestava ad aspettare le rimanenti truppe e a trascinare in lungo la guerra.
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Definito ciò e approvati questi piani, Curione viene a sapere da alcuni disertori della città che Giuba, richiamato da una guerra con un popolo vicino e da controversie con gli abitanti di Leptis, si era fermato nel suo regno e che il suo prefetto Saburra, che era stato mandato con poche truppe, era vicino a Utica. Credendo sconsideratamente a queste fonti, muta piano e stabilisce di risolvere la questione con il combattimento. Molto contribuiscono a questa decisione la giovinezza, il grande coraggio, i successi del passato, la speranza di condurre a buon fine l'impresa. Mosso da ciò, sul fare della notte manda tutta la cavalleria verso l'accampamento dei nemici nei pressi del fiume Bagrada; di tale campo era capo Saburra, di cui prima si era detto; ma il re con tutte le milizie gli teneva dietro e si era fermato a una distanza di sei miglia da Saburra. I cavalieri, inviati da Curione, compiono di notte il cammino e assaltano i nemici che, impreparati, non se lo aspettavano. I Numidi, secondo un'abitudine dei barbari, si erano sdraiati qua e là senza alcun ordine. Assalitili mentre erano immersi nel sonno e sparliati, ne uccidono un gran numero; molti fuggono in preda al terrore. Compiuta questa azione i cavalieri fanno ritorno da Curione e gli conducono i prigionieri.
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Curione con tutte le milizie prima del giorno era uscito dal campo lasciandovi di guardia cinque coorti. Avanzato per sei miglia, incontra i cavalieri e viene a conoscenza della loro azione; chiede ai prigionieri chi è a capo del campo di Bagrada; rispondono Saburra. Per la fretta di terminare il viaggio tralascia di chiedere altre informazioni e, volgendosi alle schiere più vicine, dice: 'Vedete, o soldati, che le parole dei prigionieri collimano con quelle dei disertori? Il re è lontano, poche sono le milizie inviate e queste non hanno potuto tenere testa a pochi cavalieri. Dunque affrettatevi verso la preda, verso la gloria, in modo che io possa già cominciare a pensare ai vostri premi e a dimostrarvi la mia riconoscenza'. L'impresa che i cavalieri avevano compiuta, per se stessa, era veramente grande, sopra tutto se il loro esiguo numero veniva paragonato a una moltitudine così grande di nemici. Tuttavia tale azione era ricordata dagli stessi con troppa esagerazione, così come gli uomini di solito volentieri parlano dei propri meriti. Inoltre venivano messe in bella mostra molte spoglie, venivano esibiti uomini e cavalieri prigionieri sicché ogni indugio sembrava essere un ritardo per la vittoria. E così alla speranza di Curione si aggiungeva l'ardore dei soldati. Ordina ai cavalieri di seguirlo e accelera la marcia per potere assalire i nemici atterriti quanto mai per la fuga. Ma i cavalieri, sfiniti per la marcia di tutta la notte, non potevano stargli dietro e si fermavano gli uni qui gli altri là. Neppure ciò diminuiva la speranza di Curione.
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Giuba, informato da Saburra dello scontro notturno, gli manda in aiuto duemila cavalieri snoli e galli che era solito tenere con sé a guardia della propria persona, e quella parte di fanti in cui aveva più fiducia. Egli stesso con le rimanenti milizie e sessanta elefanti tiene dietro con passo più lento. Saburra, sospettando che si avvicinasse lo stesso Curione poiché era stata mandata avanti la cavalleria, schiera fanti e cavalieri e ordina loro di indietreggiare a poco a poco e ritirarsi fingendo paura; egli, quando fosse necessario, avrebbe dato il segnale di combattimento, ordinando ciò che avesse compreso che la situazione richiedeva. Curione fa scendere le milizie dalle alture alla pianura; infatti nel suo animo, poiché egli credeva che i nemici fossero in fuga, l'impressione dell'attuale circostanza si aggiungeva alla precedente speranza.
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Quando si fu allontanato alquanto da queste
alture, poiché l'esercito, dopo avere percorso sedici miglia, era ormai sfinito
dalla stanchezza, si fermò. Saburra dà il segnale ai suoi,
schiera l'esercito in ordine di battaglia e incomincia ad aggirarsi fra le
schiere, esortandole; ma impiega la fanteria solo in seconda linea tanto per
fare impressione col numero, lanciando invece all'attacco la cavalleria.
Curione non viene meno al suo dovere ed esorta i suoi a riporre nel valore ogni
speranza. Né ai soldati, sebbene stanchi, né ai cavalieri, sebbene pochi e
sfiniti dalla fatica, difettavano zelo e valore per combattere; ma i cavalieri
erano in tutto duecento, poiché gli altri si erano fermati durante la marcia.
Costoro, ovunque andavano all'attacco, costringevano il nemico a retrocedere,
ma non erano in grado di inseguire i fuggitivi troppo oltre né di incitare i
cavalli a maggiore foga. Ma la cavalleria nemica incomincia a circondare la
nostra schiera da entrambi i lati e ad assalirla alle spalle. Ogni qual volta
delle coorti avanzavano all'attacco staccandosi dallo schieramento, i Numidi
freschi di forze velocemente sfuggivano all'assalto dei nostri e le
circondavano e le tagliavano fuori mentre tentavano di rientrare di nuovo nei
loro ranghi. Così non appariva sicuro né mantenere la posizione e
conservare lo schieramento né avanzare all'attacco e tentare la sorte. Le
milizie nemiche aumentavano di continuo per gli aiuti inviati dal re; ai nostri
venivano meno le forze per la stanchezza e quelli che erano stati feriti non
erano in grado né di uscire dalla schiera né di rifugiarsi in un luogo sicuro,
poiché tutto l'esercito era stretto in una morsa, circondato dalla cavalleria
nemica. Costoro, disperando della propria salvezza, come sono soliti fare gli
uomini in fin di vita, o commiseravano la propria morte o raccomandavano i
propri familiari se mai
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Curione, quando capisce che non si dà ascolto né alle sue esortazioni né alle sue preghiere, essendo tutti attanagliati dal terrore, pensando che, vista la situazione disastrosa, vi era una sola via di salvezza, ordina a tutti di occupare i colli vicini e di portarvi le insegne. Ma questi vengono occupati dalla cavalleria inviata da Saburra. Allora invero i nostri giungono alla massima disperazione e una parte di essi in fuga viene uccisa dalla cavalleria, una parte s'accascia a terra pure senza ferite. Gneo Domizio, comandante della cavalleria, schierandosi con pochi uomini attorno a Curione, lo esorta a cercare salvezza nella fuga e a tornare nel campo, e gli promette di non abbandonarlo. Ma Curione dichiara che mai, dopo avere perduto l'esercito che Cesare gli aveva affidato con fiducia, sarebbe tornato al suo cospetto e così, mentre combatte, viene ucciso. Pochissimi cavalieri si salvano dalla battaglia; ma quelli che, come si è detto, si erano fermati alla retroguardia per ristorare i cavalli, resisi conto da lontano della fuga dell'esercito intero, incolumi ritornano al campo. I fanti, dal primo all'ultimo, vengono tutti uccisi.
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Conosciuti tali fatti, il questore Marco Rufo, lasciato da Curione nel campo, esorta i suoi a non perdersi d'animo. Quelli lo pregano e lo scongiurano di riportarli in Sicilia con le navi. Lo promette e ordina ai comandanti delle navi di tenere, sul fare della sera, tutte le lance ancorate presso il lido. Ma il terrore di tutti fu così grande che gli uni dicevano che le truppe di Giuba erano vicine, gli altri che Varo era addosso con le legioni e già scorgevano la polvere di quelli che sopraggiungevano, mentre non accadeva proprio nulla di tutto ciò, altri ancora supponevano che la flotta nemica in breve tempo sarebbe giunta al volo. E così, poiché erano tutti sconvolti, ognuno pensava a se stesso. Coloro che erano sulle navi da guerra acceleravano la partenza. La loro fuga istigava i comandanti delle navi da carico; solo poche barchette si radunavano per eseguire il loro compito, come era stato ordinato. E sul lido affollato tanta era la gara a chi, in tale moltitudine, per primo riuscisse a imbarcarsi, che alcune imbarcazioni affondavano per il peso della gente, altre tardavano ad avvicinarsi, temendo la stessa fine.
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Per questi motivi accadde che solo pochi soldati e padri di famiglia, che erano influenti per autorità o suscitavano commiserazione o erano in grado di raggiungere a nuoto le navi, furono imbarcati e giunsero sani e salvi in Sicilia. Le altre truppe, inviati di notte a Varo dei centurioni in qualità di ambasciatori, si consegnarono a lui. Il giorno dopo Giuba, vedendo dinanzi alla città le coorti di questi soldati, dichiarò pubblicamente che erano sua preda di guerra e ordinò che una gran parte di loro venisse uccisa; pochi soldati, da lui scelti, furono mandati nel suo regno, sebbene Varo lamentasse, senza però osare opporsi, che egli offendeva la sua lealtà. Lo stesso re, entrato a cavallo in città, seguito da parecchi senatori, fra i quali Servio Sulpicio e Licinio Damasippo, in pochi giorni stabilì e ordinò che cosa voleva si facesse in Utica. E dopo pochi giorni ritornò con tutte le milizie nel suo regno.
§%@LIBRO TERZO
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Cesare in qualità di dittatore convoca i comizi elettorali; vengono eletti consoli Giulio Cesare e Publio Servilio; era infatti questo l'anno in cui, secondo le leggi, gli era concesso di diventare console. Ciò compiuto, dal momento che in tutta Italia il credito era in grave crisi e non venivano ati i debiti, dispose che fossero nominati degli arbitri e che per mezzo di essi si facesse la stima dei beni mobili ed immobili per sapere quanto valesse, prima della guerra, ciascuno di questi beni, e che essi fossero consegnati ai creditori. Stimò che questo provvedimento fosse molto opportuno sia per fugare o diminuire il timore di nuovi libri dei conti, cosa che quasi sempre suole accadere dopo guerre e discordie civili, sia per tutelare la fiducia verso i debitori. Parimenti, a mezzo di proposte di legge sottoposte al popolo dai pretori e dai tribuni della plebe, reintegrò in tutti i loro diritti parecchi cittadini condannati in forza della legge di Pompeo sui brogli, al tempo in cui Pompeo aveva in città il presidio delle legioni, quando si svolgevano in un solo giorno processi in cui alcuni giudici ascoltavano, altri emettevano la sentenza. Questi cittadini all'inizio della guerra civile si erano offerti a Cesare, se egli voleva avvalersi dei loro servigi in guerra, perciò li giudicò come se se ne fosse servito, dal momento che si erano messi a sua completa disposizione. Aveva infatti stabilito che costoro dovessero venire reintegrati per giudizio popolare piuttosto che sembrare riabilitati per suo favore, per non apparire o ingrato nel dimostrare la propria riconoscenza o arrogante nel sottrarre al popolo un suo privilegio.
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Impiega undici giorni per sbrigare queste cose, per celebrare le Ferie latine e per portare a termine tutti i comizi; rinuncia alla dittatura, parte da Roma e giunge a Brindisi. Aveva ordinato che si recassero colà dodici legioni e tutta la cavalleria. Ma di navi trovò solo un numero sufficiente a trasportare, a mala pena, quindicimila legionari e cinquecento cavalieri. Solo questo [la scarsità delle navi] mancò a Cesare per condurre a termine la guerra in breve tempo. Inoltre quelle stesse legioni che vengono fatte imbarcare sono al di sotto del numero effettivo di uomini in quanto molti di essi erano venuti a mancare in tante guerre galliche, e il lungo viaggio dalla Sna ne aveva di molto diminuito il numero e l'autunno insalubre in Puglia e attorno a Brindisi aveva messo a prova la salute di tutto l'esercito che proveniva dalle salutari regioni della Gallia e della Sna.
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Pompeo, che aveva avuto un intero anno per mettere insieme le truppe, tranquillo poiché in tale periodo non vi era stata guerra e interventi da parte dei nemici, aveva raccolto dall'Asia, dalle isole Cicladi, da Corcira, da Atene, dal Ponto, dalla Bitinia, dalla Siria, dalla Cilicia, dalla Fenicia e dall'Egitto una grande flotta; aveva comandato che un'altra grande flotta fosse costruita in ogni luogo, aveva preteso e ottenuto una considerevole quantità di denaro richiesta in Asia e in Siria e da tutti i re, dinasti e tetrarchi e dai liberi popoli dell'Acaia, aveva costretto le società di cavalieri delle province in suo possesso a versargli una grande quantità di denaro.
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Aveva allestito nove legioni di cittadini romani; cinque le aveva trasportate dall'Italia, una di veterani dalla Cilicia, che chiamava 'gemella' perché formata da due legioni, una da Creta e dalla Macedonia composta di soldati veterani che, congedati da precedenti comandanti, si erano fermati in quelle province, due dall'Asia che il console Lentulo aveva fatto arruolare. Inoltre, a completamento degli effettivi, aveva distribuito fra le legioni un gran numero di soldati provenienti dalla Tessaglia, Beozia, Acaia ed Epiro; a questi aveva unito i soldati di Antonio. Oltre a queste aspettava due legioni provenienti dalla Siria con Scipione. Aveva tremila arcieri giunti da Creta, da Sparta, dal Ponto, dalla Siria e da altre città, due coorti di frombolieri ciascuna formata di seicento uomini, e settemila cavalieri. Di questi, seicento erano Galli portati da Deiotaro, cinquecento li aveva portati Ariobarzane dalla Cappadocia; circa un medesimo numero aveva procurato dalla Tracia Coto, che aveva mandato il lio Sadala; della Macedonia ve ne erano duecento, al cui comando era Rascipoli, uomo di grande valore; cinquecento, Galli e Germani, provenivano da Alessandria ed erano fra quei gabiniani che A. Gabinio lí aveva lasciato di presidio presso il re Tolomeo, e Pompeo lio li aveva condotti con la flotta; ottocento li aveva raccolti fra i suoi servi e pastori; trecento li avevano dati dalla Gallogrecia Castore Tarcondario e Domnilao (uno era venuto di persona, l'altro aveva mandato il lio); duecento erano stati mandati dalla Siria da Antioco Commagene, al quale Pompeo diede grandi ricompense, e di questi la maggior parte erano arcieri a cavallo. A questi aveva aggiunto Dardani, Bessi in parte mercenari in parte arruolati o volontari, e inoltre Macedoni, Tessali e uomini di altre nazioni e città; in tal modo aveva formato quel numero che sopra abbiamo detto.
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Aveva radunato dalla Tessaglia, dall'Asia, dall'Egitto, da Creta, da Cirene e da altre regioni una grandissima quantità di frumento. Aveva deciso di svernare a Durazzo, ad Apollonia e in tutte le città marittime per impedire a Cesare di attraversare il mare e a tal fine aveva disposto una flotta su tutto il litorale. Era a capo delle navi egiziane Pompeo lio, di quelle asiatiche D. Lelio e C. Triario, delle siriache C. Cassio, di quelle di Rodi C. Marcello e C. Coponio, della flotta liburnica e achea Scribonio Libone e Marco Ottavio. M. Bibulo, pur se preposto a tutte le operazioni marittime aveva tuttavia anche la direzione generale; a lui apparteneva il comando supremo.
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Cesare, non appena giunse a Brindisi, tenne un discorso ai soldati dicendo che, poiché si era ormai giunti al termine delle fatiche e dei pericoli, di buon animo lasciassero in Italia schiavi e bagagli e salissero sulle navi senza impedimenti in modo che un maggiore numero di soldati potesse venire imbarcato e che ponessero ogni speranza nella vittoria e nella sua liberalità. Poiché tutti insieme gli avevano gridato di comandare ciò che voleva e che avrebbero fatto di buon animo qualunque cosa avesse comandato, salpò il 4 gennaio. Come si è detto, furono imbarcate sette legioni. Il giorno dopo raggiunse la terra dei Germini. Tra le scogliere dei Cerauni e altri luoghi pericolosi trovato un posto tranquillo, temeva infatti ogni porto, poiché li credeva tutti in mano ai nemici, sbarcò i soldati dalle navi, tutte incolumi dalla prima all'ultima, presso quella località chiamata Paleste.
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A Orico vi erano Lucrezio Vespillo e Minucio Rufo con diciotto navi asiatiche delle quali essi erano a capo per ordine di D. Lelio; a Corcira vi era M. Bibulo con centodieci navi. Ma quelli, non fidandosi delle proprie forze, non osarono uscire dal porto, sebbene Cesare avesse condotto di scorta in tutto solo dodici navi lunghe da guerra, fra cui quattro coperte; e Bibulo, a sua volta, dal momento che non aveva le navi in ordine per salpare e i rematori erano dispersi, non lo affrontò in tempo poiché Cesare fu visto vicino a terra prima che la notizia del suo arrivo si fosse sparsa in quei luoghi.
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Sbarcati i soldati, Cesare rimanda nella stessa notte le navi a Brindisi perché si potessero trasportare le altre legioni e la cavalleria. A questa operazione era stato preposto il luogotenente Fufio Caleno, che doveva trasportare velocemente le legioni. Ma le navi, che avevano preso troppo tardi il largo e non ebbero dalla loro la brezza notturna, sulla via del ritorno incontrarono una cattiva sorte. Bibulo infatti, informato a Corcira dell'arrivo di Cesare, sperando di potersi imbattere in qualche nave carica, incontrò quelle vuote; e incrociatene circa una trentina, contro di loro sfogò la rabbia dovuta alla sua negligenza e alla sua esasperazione: le incendiò tutte e nel medesimo incendio uccise marinai e comandanti delle navi, sperando di atterrire gli altri con la gravità del castigo. Compiuta questa impresa, occupò con la flotta, in lungo e in largo, gli ancoraggi e tutti i litorali da Sasone al porto di Curico e, scaglionati più scrupolosamente i corpi di guardia, egli stesso, nonostante il rigore dell'inverno pernottava sulle navi vigilando, disprezzando ogni fatica o incarico, senza aspettarsi un aiuto, pure di potere venire alle armi con Cesare
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Dopo la partenza delle navi liburniche dall'Illiria M. Ottavio giunse a Salona con le sue navi. Qui, dopo avere sollevato i Dalmati e gli altri barbari, provocò la rottura dell'alleanza di Issa con Cesare; ma non potendo, né con preghiere né con minacce, smuovere la cittadinanza di Salona, decise di assediare la città (è questa protetta sia dalla natura del luogo sia da un colle). Ma in poco tempo i cittadini romani costruirono delle torri di legno per difendersi e non potendo opporre resistenza per l'esiguo numero di uomini, indeboliti dalle molte ferite, ricorsero al rimedio estremo e liberarono tutti i servi in età giovanile e, dopo avere tagliato i capelli di tutte le donne, fecero corde per le macchine da guerra. Ottavio, venuto a conoscenza del loro piano, cinse la città con cinque accampamenti e cominciò a incalzarla contemporaneamente con assedio e assalti. Quelli, pur disposti a sopportare tutto, erano tormentati sopra ogni cosa dalla mancanza di viveri. Perciò mandarono ambasciatori a Cesare per chiedergli aiuto. Sostenevano da soli, come potevano, gli altri disagi. Dopo molto tempo, poiché la durata dell'assedio aveva reso i soldati di Ottavio alquanto trascurati, cogliendo il momento del mezzogiorno quando i nemici si allontanavano, disposti fanciulli e donne sulle mura, perché le abitudini quotidiane sembrassero immutate, formata una schiera con quelli che avevano da poco liberati, fecero irruzione nel più vicino degli accampamenti di Ottavio. Espugnatolo, con lo stesso impeto assalirono il secondo, quindi il terzo e il quarto e poi il quinto e cacciarono i nemici da tutti i campi e, uccisone un gran numero, costrinsero i rimanenti e lo stesso Ottavio a trovare rifugio sulle navi. Questo fu l'esito dell'assedio. E già si avvicinava l'inverno e, subìti tanti danni, Ottavio, non sperando più di espugnare la città, si ritirò a Durazzo presso Pompeo.
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Abbiamo detto che L. Vibullio Rufo,
prefetto di Pompeo, era caduto due volte in potere di Cesare e da questo
rimesso in libertà, una volta a Corfinio, una volta in Sna. Cesare,
per i benefici che gli aveva concesso, aveva giudicato costui idoneo per essere
mandato con proposte da Cn. Pompeo, per l'ascendente che su di lui, come
sapeva, egli esercitava. Queste per sommi capi erano le proposte: entrambi
dovevano porre fine alla loro ostinazione, deporre le armi e non tentare
più a lungo
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Vibullio, dopo avere riferito queste proposte [a Corcira], ritenne non meno necessario informare Pompeo dell'improvviso arrivo di Cesare affinché potesse prendere decisioni in merito prima di iniziare a esaminare l'ambasceria. E così, senza interrompere il cammino né di giorno né di notte e, per andare veloce, cambiando i cavalli in tutte le stazioni, si dirige da Pompeo per annunziargli l'arrivo di Cesare. In quel momento Pompeo era a Caldavia e dalla Macedonia si dirigeva ad Apollonia e a Durazzo nei quartieri invernali. Ma, turbato dall'avvenimento inatteso, con marce più veloci cominciò a dirigersi ad Apollonia affinché Cesare non si impadronisse delle città della costa. Ma Cesare, sbarcate le truppe, nel medesimo giorno si dirige a Orico. Quando vi giunse, L. Torquato, che per ordine di Pompeo era a capo della città e qui teneva un presidio di Partini, fece chiudere le porte e tentò di difendere la città; quando ordinò ai Greci di salire sulle mura e di prendere le armi, quelli dissero di non avere intenzione di combattere contro l'autorità del popolo romano; poi spontaneamente i cittadini tentarono di accogliere Cesare. Torquato, perduta ogni speranza di aiuto, aprì le porte e consegnò la città e se stesso a Cesare, che lo lasciò incolume.
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modulata Orico, Cesare si dirige senza alcun indugio ad Apollonia. Alla notizia del suo arrivo L. Staberio, che qui comandava, cominciò a fare portare acqua nella rocca e a fortificarla e a richiedere ostaggi dagli abitanti di Apollonia. Ma questi dissero che non glieli avrebbero dati e che non avevano intenzione di chiudere le porte al console né di assumere deliberazioni contrarie a quelle dell'intera Italia [il popolo romano]. Conosciuto il loro parere, Staberio fugge di nascosto da Apollonia. Gli abitanti mandano ambasciatori a Cesare e lo accolgono in città. Seguono il loro esempio gli abitanti di Billide, di Amanzia e le altre città vicine e tutto l'Epiro; mandati ambasciatori a Cesare, promettono di eseguire i suoi ordini.
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Ma Pompeo, venuto a conoscenza di quanto
era avvenuto a Orico e ad Apollonia e temendo la perdita di Durazzo, vi si
dirige marciando giorno e notte, mentre si andava dicendo che Cesare si
avvicinava. Una paura tanto grande si impadronì del suo esercito che,
poiché nella fretta faceva della notte giorno, non interrompendo la marcia,
quasi tutti i soldati dell'Epiro e quelli provenienti dalle regioni vicine
disertavano, parecchi gettavano le armi e la marcia pareva simile a una fuga.
Ma quando Pompeo si fermò presso Durazzo e ordinò di porre il
campo, poiché l'esercito era ancora in preda al terrore, Labieno per primo si
fa avanti e giura di non lasciarlo e di essere pronto ad andare incontro alla
medesima sorte che
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Caleno, imbarcate a Brindisi legioni e cavalleria, quel tanto che le navi potevano contenerne, come era stato comandato da Cesare, salpa e, allontanatosi un po' dal porto, riceve una lettera da Cesare che lo informa che i porti e tutto il litorale sono in mano alla flotta nemica. Venuto a conoscenza di ciò, fa ritorno in porto e richiama tutte le navi. Una di esse, che continuò la navigazione e non obbedì al comando di Caleno, poiché non c'erano soldati a bordo ed era comandata da un privato, spintasi fino a Orico, fu presa da Bibulo che sfogò il proprio odio sui servi e su tutti gli uomini liberi, non risparmiando neppure i fanciulli, uccidendo tutti. Così da un breve intervallo di tempo e da un caso accidentale dipese la salvezza di tutto l'esercito.
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Bibulo, come si è visto sopra, era sulla flotta presso Orico e come egli impediva a Cesare la via di mare e l'ingresso ai porti, così era impedito a lui stesso lo sbarco in tutti i punti di quelle regioni. Infatti collocati qua e là dei presidi, tutte le coste erano in mano a Cesare e non vi era modo né di fare legna e acqua né di ormeggiare le navi. La situazione era di estrema difficoltà e i Pompeiani erano tormentati dalla totale mancanza del necessario sì da essere costretti a portare da Corcira con navi da carico oltre che i viveri anche legna e acqua. Ciò nonostante sopportavano pazientemente e di buon animo queste difficoltà e ritenevano di non dovere togliere la sorveglianza alle coste e lasciare i porti. Ma trovandosi nelle difficoltà che ho detto e essendosi unito Libone a Bibulo, entrambi, dalle navi, dialogano con i luogotenenti M. Acilio e Stazio Murco, dei quali l'uno era preposto alla difesa delle mura della città, l'altro alle difese di terra: dicono di volere discutere con Cesare di cose della massima importanza, se a loro viene concessa la possibilità. A conferma di ciò aggiungono poche parole per mostrare di avere intenzione di negoziare un trattato. Frattanto chiedono un armistizio e lo ottengono. Di grande importanza infatti sembrava la proposta che presentavano e sapevano che la cosa era molto desiderata da Cesare e si pensava che si sarebbe ottenuto qualche risultato dalle proposte di Vibullio.
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Cesare in quel tempo, partito con una sola legione per ricevere la sottomissione delle città più meridionali e per procurarsi del frumento di cui aveva penuria, si trovava nei pressi di Butroto, città di fronte a Corcira. Qui, informato per lettera da Acilio e Murco delle richieste di Libone e Bibulo, lascia la legione e fa ritorno a Orico. Giuntovi, i Pompeiani vengono convocati a colloquio. Libone si fa avanti e porge le scuse per l'assenza di Bibulo, poiché questi era di carattere fortemente iracondo e aveva con Cesare un'inimicizia anche privata nata al tempo dell'edilità e della pretura; per questo motivo aveva evitato il colloquio affinché la sua irascibilità non turbasse il negoziato che si sperava di grandissima utilità. È, dice, e fu sempre grandissimo desiderio di Pompeo che si venisse a un accordo e si deponessero le armi; essi non hanno nessun potere per trattare, perché secondo il decreto del consiglio il comando supremo della guerra e di tutto il resto era stato affidato a Pompeo. Ma, una volta conosciute le richieste di Cesare, essi le avrebbero fatte pervenire a Pompeo e Pompeo, esortato da loro, avrebbe da solo preso le rimanenti decisioni. Durasse frattanto l'armistizio in modo che si potesse fare ritorno da Pompeo e nessuno dei due avversari potesse danneggiare l'altro. A ciò aggiunge poche parole sulle ragioni del conflitto e sulle proprie truppe e milizie ausiliarie.
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A queste ultime considerazioni Cesare non ritenne di dovere per il momento rispondere né pensiamo ora che ci sia un motivo sufficiente per ricordarle. Cesare chiedeva che gli fosse possibile mandare ambasciatori a Pompeo senza pericolo e che essi stessi garantissero il buon esito della cosa oppure li prendessero in consegna e li conducessero alla presenza di Pompeo. Per quanto concerneva la tregua, la situazione della guerra era in questi termini che essi con la flotta erano di ostacolo alle sue navi e alle truppe ausiliarie, mentre egli li teneva lontani dalla terraferma e dall'approvvigionamento di acqua. Se volevano che questo ostacolo venisse tolto, rinunziassero al blocco navale; se essi tenevano duro, anch'egli aveva intenzione di tenere duro. Ciò nonostante si poteva trattare dell'accordo, anche senza concessioni e ciò non era per loro un impedimento. Libone rispose di non potere né accettare la tutela degli ambasciatori di Cesare né garantire per la loro sicurezza; faceva ricadere ogni responsabilità su Pompeo: su un solo punto insisteva, la tregua che esigeva con grande insistenza. Quando Cesare comprese che egli aveva ordito tutto il suo discorso per ovviare al pericolo presente e alla mancanza di provviste e che non recava alcuna speranza o condizione di pace, ricondusse il suo pensiero alla guerra.
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Bibulo, al quale da molti giorni era impedito lo sbarco, gravemente ammalato a causa della fatica e del freddo, non potendo essere curato e non volendo abbandonare l'incarico assunto, non sopportò la virulenza della malattia. Dopo la sua morte nessuno ebbe da solo il comando supremo, ma ciascuno comandava le proprie navi autonomamente e secondo il proprio giudizio. Vibullio, sedato il tumulto suscitato dall'improvviso arrivo di Cesare, appena il momento gli parve opportuno, assistito da Libone, L. Lucceio e Teofane, con i quali Pompeo era solito consultarsi sugli affari della massima importanza, cominciò a discutere delle proposte di Cesare. Aveva appena cominciato a parlare quando Pompeo lo interruppe e gli impedì di proseguire oltre il discorso: 'Che importa a me', disse 'della vita o dei diritti civili, se sembreranno da me posseduti per la benevolenza di Cesare? E questa opinione non potrà essere cancellata, poiché sembrerà che io sia stato ricondotto a forza in Italia, dalla quale mi sono allontanato'. Terminata la guerra, Cesare venne a conoscenza di questi fatti da coloro che furono presenti al colloquio. Ciò nonostante tentò in altro modo di fare trattative di pace mediante abboccamenti.
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Tra i due campi di Pompeo e di Cesare vi era soltanto il fiume Apso e i soldati avevano fra di loro frequenti colloqui e, come da loro comune accordo, non veniva nel frattempo scagliato alcun dardo. Cesare manda il luogotenente P. Vatinio sulla riva del fiume stesso per fare ciò che gli pareva essere più utile per la pace: domandare, più volte e a gran voce, se non era lecito a cittadini romani inviare ad altri cittadini romani ambasciatori per trattative di pace, cosa che è concessa anche agli schiavi che fuggono dai Pirenei e ai predoni, sopra tutto perché tentavano di impedire che ci fosse uno scontro armato fra concittadini. Parlò a lungo con tono supplichevole, come egli doveva, trattandosi della salvezza sua e di tutti, e fu ascoltato in silenzio da entrambi gli eserciti. Dai Pompeiani fu risposto che Aulo Varrone dichiarava che il giorno dopo sarebbe andato al colloquio e che insieme a loro avrebbe esaminato in che modo gli ambasciatori potessero venire senza pericolo ed esporre ciò che volevano. Viene fissata una certa ora per l'incontro. E il giorno dopo quando ci si incontrò da entrambe le parti si radunò una grande folla; grande era l'attesa dell'evento e l'animo di tutti sembrava rivolto alla pace. In mezzo a questa moltitudine avanza Tito Labieno e con tono moderato incomincia a parlare di pace e a discutere con Vatinio. All'improvviso dardi scagliati da ogni parte interrompono a metà i loro discorsi; Vatinio, riparato dalle armi dei soldati, li evita; tuttavia vengono feriti molti, fra i quali Cornelio Balbo, M. Plozio, L. Tiburzio, alcuni centurioni e soldati. Allora Labieno: 'Smettetela dunque di parlare di accordi; infatti nessuna pace vi può essere con noi se non quando verrà portata la testa di Cesare'.
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In quel medesimo tempo il pretore M. Celio Rufo si assunse la causa dei debitori e, all'entrata in carica, pose il suo seggio accanto a quello di Caio Trebonio, pretore urbano, e, se qualcuno ricorreva in appello sugli estimi e sui amenti imposti dal giudice, prometteva di aiutarlo secondo quanto Cesare aveva stabilito quando era a Roma. Ma per l'equità del decreto e l'umanità di Trebonio, che riteneva che in quelle circostanze si dovesse esercitare il diritto con clemenza e moderazione, avveniva che non si poteva trovare chi per primo si appellasse contro le sentenze. Infatti è forse proprio di un animo mediocre prendere a pretesto la povertà e lamentarsi delle disgrazie proprie o di quelle dei tempi e mettere avanti le difficoltà di vendita all'asta, ma mantenere intatti i propri beni, quando si riconoscono i propri debiti, quale coraggio o impudenza richiede? E così non si poteva trovare nessuno che presentasse tale richiesta. E Celio si mostrò più duro di quelli stessi ai quali la cosa era d'utilità. E, dopo un simile inizio, per non sembrare di essersi dato inutilmente a una causa ingiusta, promulgò una legge che prevedeva il amento dei debiti entro sei anni senza interesse.
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Poiché il console Servilio e altri magistrati si opponevano ed egli otteneva meno successo di quanto aveva previsto, Celio Rufo, per eccitare le passioni degli uomini, abrogata la legge precedente, ne promulgò altre due, una con la quale abbuonò agli inquilini l'affitto di un anno, l'altra con la creazione di nuovi registri di debiti. Il popolo si sollevò contro C. Trebonio, vi furono alcuni feriti ed egli fu cacciato dal suo seggio. Di questi avvenimenti il console Servilio riferì al senato il quale decretò che Celio doveva essere rimosso dalla carica. In base a tale decreto il console gli impedì l'accesso al senato e, mentre tentava di pronunciare un discorso, lo fece scendere dalla tribuna degli oratori. Celio, turbato dalla vergogna e dal dolore, pubblicamente finse di andare da Cesare; di nascosto mandò messi a Milone, che, ucciso Clodio, era stato esiliato per tale crimine, e lo richiamò in Italia, poiché egli, che aveva dato grandi spettacoli, possedeva ancora un certo numero di gladiatori; Milone, unitosi a lui, fu mandato a Turi per sollevare i pastori. Egli era giunto a Casilino quando le sue insegne militari e le sue armi furono prese a Capua e fu scoperta a Napoli la schiera di gladiatori che tramava per la resa della città; conosciuti i suoi piani, fu bandito da Capua. Temendo il pericolo, poiché la città aveva preso le armi e lo considerava un nemico pubblico, abbandonò il suo piano e mutò cammino.
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Frattanto Milone, diramata ai vari municipi una lettera con la quale comunicava di agire in ossequio al comando e al volere di Pompeo, trasmessigli da Vibullio, istigava coloro che pensava essere oppressi dai debiti. Ma, non potendo con essi ottenere risultati, aprì alcuni ergastoli e iniziò l'attacco di Compsa nell'agro Irpino. Qui, con una legione dal pretore Q. Pedio , fu colpito da una pietra scagliata dalle mura e morì. E Celio, partito, come andava dicendo, alla volta di Cesare, giunse a Turi. Qui, mentre sobillava alcuni abitanti di quel municipio e prometteva denaro a cavalieri di Cesare, galli e snoli, mandati là di guarnigione, venne ucciso da costoro. E così la fase iniziale di avvenimenti importanti, che tenevano in ansia l'Italia perché i governanti erano occupati in altre faccende e le circostanze suscitavano preoccupazione, ebbe una fine rapida e facile.
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Libone, partito da Orico alla testa di una flotta di cinquanta navi, giunse a Brindisi e occupò l'isola che si trova di fronte al porto, poiché riteneva preferibile difendere con sorveglianza stretta un solo luogo, per dove era necessario che i nostri passassero, piuttosto che tutti i lidi e i porti. Costui, arrivato all'improvviso, si imbatté in alcune navi da carico che incendiò; ne portò con sé una carica di frumento e cagionò ai nostri grande paura; sbarcati di notte fanti e sagittari, scacciò il presidio di cavalieri e approfittò del favore della posizione a tal punto da mandare una lettera a Pompeo, dicendo che, se voleva, desse l'ordine di tirare in secco le navi per le riparazioni: egli con le sue navi era in grado di impedire che Cesare ricevesse aiuti.
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In quel tempo Antonio si trovava a Brindisi; confidando nel valore dei soldati protesse con graticci e parapetti circa sessanta scialuppe delle navi grandi; vi imbarcò soldati scelti e le dispose in parecchi luoghi separatamente lungo il litoraneo; ordinò alle due triremi, che aveva fatto costruire a Brindisi, di portarsi verso l'imboccatura del porto col pretesto di esercitare i rematori. Quando Libone vide che esse erano avanzate con troppa audacia, sperando di poterle sorprendere mandò contro di esse cinque quadriremi. Quando queste erano vicine alle nostre navi, i nostri veterani si rifugiavano nel porto, quelli, eccitati dal loro ardore, con troppa imprudenza le inseguivano. Così, a un segnale convenuto, all'improvviso da ogni parte le scialuppe di Antonio si lanciarono contro i nemici e, al primo assalto, si impadronirono di una di queste quadriremi con i rematori e i difensori e costrinsero le altre a fuggire vergognosamente. A questo insuccesso si aggiunse il fatto che i cavalieri disposti da Antonio lungo la costa impedivano ai nemici l'approvvigionamento di acqua. Libone, indotto da questa necessità e dall'onta, si allontanò da Brindisi e tolse l'assedio ai nostri.
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Erano già passati molti mesi e l'inverno era quasi finito e da Brindisi non giungevano a Cesare né navi né legioni. E a Cesare sembrava che si fossero perdute alcune occasioni propizie, dal momento che più di una volta erano soffiati venti favorevoli ai quali pensava che avrebbero dovuto senz'altro affidarsi. E quanto più il tempo passava, tanto più i comandanti della flotta nemica stavano vigili a sorvegliare e avevano maggiore speranza di tenere lontano i nostri. E con frequenti lettere di Pompeo venivano rimproverati, poiché non avevano saputo impedire in un primo momento l'arrivo di Cesare; ed erano pertanto ora incitati a ostacolare il resto dell'esercito; e così ogni giorno li aspettava una situazione più difficile per la navigazione a causa di venti sempre più deboli. Cesare turbato da questa situazione scrisse con tono alquanto duro ai suoi a Brindisi che, colto un vento propizio, non si lasciassero sfuggire l'opportunità di prendere il mare, per vedere se potevano dirigere la rotta verso il lido di Apollonia e condurre colà le navi. Questi luoghi erano completamente privi di sorveglianza, perché le navi nemiche non osavano allontanarsi troppo dai porti.
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I Cesariani danno prova di audacia e coraggio e, sotto il comando di Marco Antonio e Fufio Caleno, per incitamento degli stessi soldati che non si tiravano indietro di fronte a nessun pericolo per la salvezza di Cesare, approfittando del vento australe, salpano e il giorno dopo passano davanti ad Apollonia e Durazzo. Avvistatili dalla terraferma, Coponio, che a Durazzo comandava la flotta di Rodi, fa uscire dal porto le navi e, quando già si era avvicinato alle nostre navi favorito da un vento piuttosto debole, l'Austro cominciò a soffiare in modo violento e fu di aiuto ai nostri. Egli, invero, non demordeva per questo dal suo tentativo, ma con lo sforzo e la fatica dei marinai sperava di potere vincere la violenza della burrasca e di inseguire non di meno i nostri che pure avevano oltrepassato Durazzo grazie alla grande forza del vento. I nostri, pur favoriti dalla Fortuna, tuttavia temevano l'attacco della flotta nemica nel caso che il vento si fosse calmato. Trovandosi di fronte il porto, chiamato Ninfeo, a tre miglia da Lisso, vi fecero entrare le navi (questo porto era protetto dall'Africo, ma non riparato dall'Austro), giudicando il pericolo della tempesta minore di quello della flotta avversaria. Non appena furono entrati, per un incredibile colpo di fortuna, l'Austro che aveva soffiato per due giorni si mutò in Africo.
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Fu possibile allora vedere un improvviso capovolgimento della Fortuna. Coloro che poco prima avevano temuto per la propria salvezza, erano accolti in un porto sicurissimo; quelli che avevano messo in pericolo le nostre navi erano costretti a temere per la propria salvezza. E così, mutata la situazione, la tempesta protesse i nostri e si abbatté contro le navi rodie: tutte e sedici le navi coperte, dalla prima all'ultima, vengono distrutte e affondate e del gran numero di rematori e combattenti una parte, sbattuta contro gli scogli, rimane uccisa, una parte viene tratta in salvo dai nostri. Cesare a tutti risparmiò la vita e li mandò a casa.
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Due nostre navi, che avevano navigato più lentamente, sorprese dalla notte, non sapendo quale rotta avessero preso le altre, gettarono le ancore di fronte a Lisso. Otacilio Crasso, comandante del presidio di Lisso, si apprestava ad assalirle con battelli e parecchie imbarcazioni di piccola stazza; contemporaneamente iniziava trattative per la resa e prometteva salvezza a chi si arrendeva. Una delle due navi aveva imbarcato duecentoventi uomini di una legione di reclute, l'altra poco meno di duecento di una legione di veterani. Questi uomini fecero comprendere quanto può aiutare la forza d'animo. Infatti le reclute, atterrite dalla moltitudine delle navi e sfinite dal rollio e dal mal di mare, sentiti i nemici giurare che non avrebbero recato loro alcun danno, si arresero a Otacilio; tutti costoro, condotti dinanzi a lui, a dispetto del vincolo del giuramento, vengono crudelmente uccisi in sua presenza. Ma i soldati della legione veterana, parimenti tormentati dalla violenza della tempesta e dalla puzza della sentina, giudicarono di non dovere affatto desistere dal valore di un tempo, e, fatta trascorrere la prima parte della notte discutendo le condizioni di una ipotetica resa, costringono il comandante a fare approdare la nave. Trovato un luogo adatto, passarono qui il resto della notte e all'alba, quando Otacilio mandò loro contro i cavalieri che sorvegliavano quella parte di spiaggia, circa quattrocento, e gli armati che li seguivano dal presidio di Lissa, si difesero e, dopo averne uccisi alcuni, incolumi fecero ritorno dai nostri.
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In seguito a questi avvenimenti, la colonia di cittadini romani che occupava Lisso, città un tempo data loro e fatta fortificare da Cesare, accolse Antonio e lo aiutò in ogni modo. Otacilio, temendo per sé, fugge dalla città e si ricongiunge con Pompeo. Antonio, sbarcate tutte le truppe, il cui effettivo totale era di tre legioni di veterani, una di reclute e di ottocento cavalieri, rimanda in Italia la maggior parte delle navi per il trasporto degli altri cavalieri e soldati; lascia a Lisso le navi grosse, di tipo gallico, con il piano che, se per caso Pompeo, ritenendo l'Italia priva di difesa, vi avesse trasportato l'esercito (e questa era la voce corrente), Cesare avrebbe avuto una possibilità di inseguirlo. In gran fretta manda messaggeri a Cesare per comunicargli in quali regioni aveva fatto sbarcare l'esercito e quanti soldati aveva trasportato.
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Cesare e Pompeo, quasi nel medesimo tempo, vengono a sapere queste notizie. Infatti avevano visto passare le navi oltre Apollonia e Durazzo [avevano fatto rotta in quella direzione], ma i primi giorni non sapevano dove erano andate. Informati della cosa, i due prendono decisioni opposte: Cesare di congiungersi al più presto con Antonio, Pompeo di opporsi, durante la marcia, ai nemici che sopraggiungevano e assalirli, possibilmente sorprendendoli con agguati. Nel medesimo giorno entrambi conducono gli eserciti fuori dagli accampamenti invernali stanziati presso il fiume Apso; Pompeo di nascosto e di notte; Cesare alla luce del giorno, davanti agli occhi di tutti. Ma Cesare doveva percorrere un cammino più lungo e fare un ampio giro, rimontando il fiume per poterlo attraversare a guado; Pompeo, procedendo speditamente poiché non doveva attraversare il fiume, a marce forzate si dirige contro Antonio. Quando Pompeo si rese conto di essere vicino, scelto un luogo adatto, vi fermò le milizie, trattenne tutti i suoi soldati nel campo e impedì di accendere fuochi per celare meglio il suo arrivo. La cosa viene subito riferita dai Greci ad Antonio. Egli, mandati ambasciatori a Cesare, si trattenne per un giorno solo nel campo; il giorno seguente Cesare giunse presso di lui. Pompeo, venuto a conoscenza del suo arrivo, per non essere circondato da due eserciti, si allontana da quella posizione e con tutte le milizie giunge ad Asparagio di Durazzo e qui pone il campo in un luogo adatto.
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In quel tempo Scipione, nonostante qualche perdita subìta presso il monte Amano, si era proclamato comandante supremo. Fatto ciò aveva imposto il amento di forti somme alle città e ai sovrani, aveva parimenti preteso dagli appaltatori della sua provincia il amento delle tasse arretrate di due anni; dai medesimi si era fatto anticipare, come prestito, la somma delle imposte dell'anno successivo e aveva ordinato a tutta la provincia un arruolamento di cavalieri. Ottenuto ciò, lasciandosi alle spalle, alla frontiera, quei nemici, i Parti, che poco prima avevano ucciso il generale Marco Crasso e assediato M. Bibulo, porta via dalla Siria le legioni e i cavalieri. Ma la provincia della Siria era profondamente preoccupata e timorosa di una guerra con i Parti e si sentiva dire dai soldati che essi erano pronti, se fossero stati guidati ad assalire il nemico, ma non avrebbero preso le armi contro un concittadino e un console. Pertanto egli condusse le legioni nei quartieri invernali a Pergamo e nelle città più ricche; fece grandissime elargizioni e, per assicurarsi il favore dei soldati, permise loro di saccheggiare le città.
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Frattanto in tutta la provincia si esigeva con grande severità il versamento dei contributi imposti. Inoltre, per desiderio di denaro, venivano escogitate molte nuove imposte, secondo le classi dei cittadini; sulle singole persone, schiavi o liberi, veniva imposto un tributo; veniva richiesta un'imposta sulle colonne, sulle porte, sul frumento, sui soldati, sulle armi, sui rematori, sulle macchine da guerra, sui trasporti; purché si potesse trovare il nome di una cosa, questo sembrava essere motivo sufficiente per esigere denaro. Non solo alle città, ma quasi a ogni borgata e singolo villaggio venivano preposti capi con comando militare. E chi di questi aveva agito con maggiore durezza e crudeltà veniva giudicato il migliore degli uomini e dei cittadini. La provincia era piena di littori e di autorità, zeppa di esattori e di prefetti che, oltre che alle tasse imposte, pensavano anche al proprio guadagno personale; infatti andavano dicendo che, espulsi dalla patria e dalla casa, mancavano di ogni cosa necessaria, per coprire con una etichetta d'onestà un comportamento vergognosissimo. A ciò si aggiungevano i pesantissimi interessi, come per lo più suole accadere in tempo di guerra, quando a tutti vengono imposti tributi; e in queste circostanze dicevano essere una donazione il differimento del amento di un sol giorno. E così il debito della provincia in quel biennio si moltiplicò. E per questo motivo non solo ai cittadini romani di quella provincia, ma anche alle singole comunità e alle singole cittadinanze venivano imposti determinati tributi e andavano dicendo che quelle somme venivano richieste in prestito in base a un decreto del senato; agli appaltatori delle imposte pubbliche, poiché avevano racimolato dei capitali, venivano richiesti in prestito i tributi dell'anno successivo.
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Inoltre Scipione aveva ordinato di portare
via dal tempio di Diana a Efeso il denaro che era stato depositato in passato.
E nel giorno stabilito per questa operazione si era giunti nel tempio con
parecchi senatori che Scipione aveva convocato presso di sé, quando viene
recapitata a Scipione una lettera da parte di Pompeo che annunciava che Cesare
aveva passato il mare con le legioni, invitandolo ad affrettarsi a giungere da
lui con l'esercito e a rimandare ogni altro impegno. Ricevuta questa lettera,
Scipione congeda i senatori convocati; egli stesso comincia a preparare il
viaggio per
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Cesare, unitosi all'esercito di Antonio,
dopo avere ritirato da Orico la legione che qui aveva posto per difendere la
costa, giudicava di dovere mettere alla prova le province e avanzare oltre; ed
essendo a lui giunti dalla Tessaglia e dall'Etolia ambasciatori a promettere
che, se fosse stato mandato un presidio, le cittadinanze di quei popoli
avrebbero eseguito gli ordini, mandò in Tessaglia L. Cassio Longino con
la legione di reclute chiamata la ventisettesima e con duecento cavalieri e in
Etolia C. Calvisio Sabino con cinque coorti e pochi cavalieri; li
esortò, in modo particolare, a provvedere all'approvvigionamento, poiché
quelle regioni erano vicine. Ordinò a Cn. Domizio Calvino di partire per
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Fra questi Calvisio, accolto al suo arrivo col massimo consenso di tutti gli Etoli, respinti i presidi nemici da Calidone e da Naupatto, si impadronì di tutta l'Etolia. Cassio giunse in Tessaglia con una legione. Qui, poiché vi erano due fazioni, trovava differenti disposizioni d'animo fra i cittadini: Egesareto, uomo di antica potenza, era favorevole a Pompeo; Petreo, giovane di grande nobiltà, aiutava Cesare con tutte le sue forze e con i mezzi suoi e della sua fazione.
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Nel medesimo tempo Domizio giunse in
Macedonia; e quando già cominciavano a venire da lui numerose legazioni
delle città, fu annunciato, con grande risonanza e clamore generale, che
Scipione era vicino con le legioni e che presso tutti aveva suscitato grande
fama e stima; infatti, per lo più, di fronte a una situazione nuova il
clamore supera la realtà. Costui, senza fermarsi in nessun luogo della
Macedonia, con grande impeto marciò verso Domizio e, quando distò
da lui ventimila passi, all'improvviso si diresse in Tessaglia contro Cassio
Longino. E fece ciò così celermente che la notizia del suo
avvicinamento e quella del suo arrivo furono contemporanee. E, per marciare
più velocemente, lasciò presso il fiume Aliacmone, che divide
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Scipione, fermatosi due giorni nell'accampamento stabile presso il fiume Aliacmone che scorreva fra il suo campo e quello di Domizio, il terzo giorno all'alba fa guadare il fiume all'esercito e, posto il campo, il mattino del giorno dopo dispone dinanzi ad esso le milizie a battaglia. Domizio allora ritenne di non dovere esitare a fare uscire le legioni e attaccare battaglia. Ma dal momento che la pianura fra i due campi era di circa tremila passi, Domizio fece avanzare il proprio schieramento fin sotto il campo di Scipione, mentre quest'ultimo continuava a non allontanarsi dal vallo. Ma, quantunque i soldati di Domizio fossero a stento tenuti a freno, accadde che non si attaccasse battaglia, massimamente perché un ruscello dalle rive scoscese, posto sotto il campo di Scipione, impediva l'avanzare dei nostri. Scipione, quando vide il loro ardente desiderio di combattere, all'idea che il giorno dopo o sarebbe stato costretto, suo malgrado, al combattimento o sarebbe rimasto nel suo campo con grande infamia, egli, che aveva suscitato tanta attesa col suo arrivo, dopo la sua avanzata temeraria si ritirò ignominiosamente e di notte, senza neppur dare il segnale di togliere il campo, attraversò il fiume e ritornò là donde era venuto e ivi, vicino al fiume, pose il campo su di un luogo elevato. Pochi giorni dopo, di notte con la cavalleria preparò un agguato ai nostri, nel posto in cui quasi sempre, nei giorni precedenti, erano soliti foraggiare; e quando, secondo l'abitudine di ogni giorno, giunse Q. Varo, prefetto della cavalleria di Domizio, quelli all'improvviso balzarono fuori dai loro appostamenti. Ma i nostri con coraggio sostennero il loro attacco e in breve tempo ciascuno rientrò nei propri ranghi e tutti insieme a loro volta contrattaccarono i nemici. Fra i quali circa ottanta furono uccisi, gli altri furono messi in fuga; i nostri, perduti due uomini, tornarono al campo.
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Dopo questo fatto Domizio, sperando di potere indurre Scipione a combattere, finse di essere costretto a togliere il campo per scarsezza di cibo e dato l'ordine secondo il costume militare, allontanatosi tremila passi, fece fermare tutto l'esercito e la cavalleria in un luogo adatto e nascosto. Scipione, che si era preparato a inseguirlo, mandò avanti in esplorazione gran parte della cavalleria, per conoscere il percorso di Domizio. Dopo che questi erano avanzati e i primi squadroni erano caduti nell'agguato, gli altri, insospettiti dal nitrito dei cavalli, ripiegarono e quelli che li seguivano, vista la loro veloce ritirata, si fermarono. I nostri, scoperto l'agguato [dei nemici], tanto per non aspettare invano gli altri, imbattutisi in due squadroni nemici, li fecero prigionieri. Fuggì soltanto M. Opimio, prefetto della cavalleria. Tutti gli altri furono o uccisi o condotti prigionieri da Domizio.
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Cesare, dopo avere ritirato i presidi dalla costa, come si è detto sopra, lasciò a Orico tre coorti per difendere la città e ad esse assegnò la difesa delle navi da guerra che aveva condotto dall'Italia. Il luogotenente Canino era preposto a questo incarico e alla città. Costui fece portare le nostre navi in una zona più interna del porto, dietro la città, e le fece ormeggiare a terra e all'ingresso del porto fece collocare una nave da carico che era stata affondata e a questa ne unì una seconda, sul davanti della quale fece costruire una torre rivolta all'ingresso del porto e la riempì di soldati, affidando loro la difesa contro attacchi improvvisi.
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Venuto a conoscenza di ciò, Cn. Pompeo lio, che era a capo della flotta egiziana, venne a Orico e, presa a rimorchio la nave sommersa, adoperandosi con molte funi riuscì a trascinarla via. L'altra nave, collocata a difesa da Acilio, egli la assalì con molte navi sulle quali aveva fatto erigere delle torri di pari altezza sia per combattere da una posizione più elevata, sostituendo in continuazione soldati freschi a quelli sfiancati, sia per tentare contemporaneamente l'assalto delle mura della città da varie parti, da terra con le scale e dalle navi, in modo da dividere le forze nemiche. A prezzo di sforzi e con una grande quantità di proiettili sconfisse i nostri e, respinti i difensori che si rifugiarono sui battelli e fuggirono, catturò quella nave. Nel medesimo tempo si impossessò, dall'altra parte, della diga naturale posta di fronte alla città che fa di essa una penisola; portò in una parte più interna del porto quattro triremi spinte a forza di leve, dopo avervi messo sotto dei rulli. E così assalite da entrambe le parti le navi da guerra che erano ormeggiate a terra e senza difesa, ne condusse via quattro e incendiò le rimanenti. Portata a compimento questa impresa, lasciò D. Lelio, trasferito dalla flotta asiatica, per impedire che giungessero approvvigionamenti in città da Billide e Amanzia. Egli stesso, recatosi a Lisso, assalì trenta navi da carico lasciate dentro il porto da M. Antonio e le incendiò tutte. Dopo avere tentato di espugnare Lisso, che era difesa da cittadini romani che appartenevano a quella colonia, e da soldati mandati da Cesare a presidiarla, rimasto là tre giorni, perduti pochi soldati nell'assedio, se ne partì senza portare a compimento l'impresa.
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Cesare, venuto a sapere che Pompeo era ad Asparagio, si diresse qui con l'esercito, ed espugnata lungo il percorso la città dei Partini, dove Pompeo aveva un presidio, il terzo giorno raggiunse Pompeo [in Macedonia] e pose il campo vicino a lui e il giorno dopo, condotte fuori tutte le truppe e schieratele in ordine di battaglia, offrì a Pompeo l'occasione di combattere. Quando comprese che egli se ne stava sulle sue posizioni, ricondotto l'esercito nell'accampamento, pensò di dovere seguire un altro piano. E così il giorno dopo partì alla volta di Durazzo con tutte le milizie, facendo un grande giro lungo un percorso difficile e angusto, con la speranza di potere o ricacciare Pompeo in Durazzo o tagliarlo fuori da quella città, dove egli aveva trasportato tutte le vettovaglie e il materiale necessario per tutta la guerra. E così accadde. Pompeo infatti in un primo momento, ignorando il piano di Cesare e vedendo che era partito in direzione opposta a quella della città, pensava che se ne fosse andato via per mancanza di cibo; informato in seguito da esploratori, il giorno dopo levò il campo con la speranza di andargli incontro per una via più breve. Cesare, sospettando che sarebbe accaduto ciò, esortò i soldati a sopportare di buon animo la fatica e, sospesa la marcia solo per un breve periodo della notte, al mattino giunse a Durazzo, proprio mentre si vedeva da lontano l'avanguardia di Pompeo, e qui pose il campo.
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Pompeo, tagliato fuori da Durazzo, quando vede fallito il suo primo piano, ne utilizza un secondo e, in una zona elevata, detta Petra, che offre un piccolo accesso alle navi e le protegge da alcuni venti, fortifica il campo in una posizione elevata. Dà ordine che colà si riunisca parte delle navi da guerra e sia portato frumento e vettovaglie dall'Asia e da tutte le regioni in suo potere. Cesare, pensando che la guerra si sarebbe trascinata troppo alle lunghe e disperando di avere rifornimenti dall'Italia, poiché tutte le coste erano sorvegliate con grande diligenza dai Pompeiani e tardavano ad arrivare le sue navi fatte costruire durante l'inverno in Sicilia, in Gallia e in Italia, inviò in Epiro per l'approvvigionamento i luogotenenti Q. Tillio e L. Canuleio e, poiché queste regioni erano troppo lontane, stabilì di creare granai in determinati posti e divise fra le città vicine il compito di trasportare il frumento. Parimenti ordinò di requisire il frumento che si trovava a Lisso e fra i Partini e in tutti i villaggi. Era pochissimo sia per la natura del terreno stesso, poiché i luoghi sono aspri e montuosi e per lo più si usava frumento importato, sia perché Pompeo aveva previsto ciò e nei giorni precedenti aveva depredato i Partini e aveva fatto trasportare a Petra dai cavalieri tutto il frumento raccolto dopo avere depredato e spogliato le case dei Partini.
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Venuto a conoscenza di ciò, Cesare studia un piano tenendo conto della natura del luogo. Circondavano infatti il campo di Pompeo moltissime colline elevate e scoscese. In un primo momento le occupò con dei presidi e vi fece costruire dei fortilizi. Poi, come richiedeva la conformazione di ciascun luogo, fatte condurre linee fortificate da un fortilizio all'altro, iniziò a circondare Pompeo con un vallo, mirando a questi fini: poiché il vettovagliamento scarseggiava e Pompeo aveva a disposizione molti cavalieri, rifornire da ogni parte, con minore pericolo, frumento e vettovaglie all'esercito, impedire contemporaneamente il foraggiamento a Pompeo e rendere la sua cavalleria impossibilitata ad agire, in terzo luogo sminuire il prestigio di cui Pompeo sembrava godere sopra tutto presso le popolazioni straniere, poiché si sarebbe diffusa in tutto il mondo la notizia che Pompeo era assediato da Cesare e non osava venire a battaglia.
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Pompeo non voleva allontanarsi né dal mare né da Durazzo, dove aveva concentrato tutto il materiale da guerra, i proiettili, le armi, le macchine e dove faceva portare con le navi il frumento per l'esercito, né poteva d'altra parte impedire le opere di fortificazione di Cesare, a meno di non volere venire a battaglia: cosa che aveva stabilito per il momento di non dovere fare. Non rimaneva che ricorrere all'estrema risorsa della guerra: occupare il maggior numero di colline, tenere presidi su una zona il più possibile vasta e frazionare, quanto più poteva, le truppe di Cesare; e così accadde. Infatti vennero costruiti ventiquattro fortilizi, che abbracciavano una zona di quindici miglia, entro cui si effettuava il foraggiamento e che comprendeva molti luoghi coltivati, che potevano servire al momento per pascolare il bestiame. E come i nostri avevano costruito da un fortilizio all'altro fortificazioni ininterrotte, affinché in nessun posto i Pompeiani facessero irruzione assalendoli alle spalle, così quelli, nel loro spazio interno, costruivano linee fortificate ininterrotte perché i nostri non potessero in nessun posto penetrare e attaccarli alle spalle. Ma i Pompeiani erano più veloci nei lavori, poiché erano superiori per numero di soldati e, essendo all'interno, avevano un perimetro minore da fortificare. E quando Cesare doveva prendere una di quelle posizioni, Pompeo, sebbene avesse deciso di non impiegare nel contrasto tutte le sue forze e di non attaccare battaglia, tuttavia mandava in posizioni strategiche arcieri e frombolieri, di cui aveva un gran numero. E molti dei nostri rimanevano feriti e s'era diffusa una grande paura delle frecce e quasi tutti i soldati si erano confezionate tuniche o coperture con imbottiture, coperte e pelli per evitare i dardi.
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Entrambi si impegnavano con grande sforzo per occupare buone posizioni: Cesare per stringere Pompeo in uno spazio il più possibile ristretto, Pompeo per impossessarsi del maggior numero di colline in un perimetro il più ampio possibile; e per questo motivo le scaramucce si facevano frequenti. In una di queste, una volta, avendo la nona legione di Cesare occupato una certa posizione, di cui aveva iniziata la fortificazione, Pompeo, che si era impadronito di un colle vicino che fronteggiava questo luogo, cominciò a impedire ai nostri il lavoro. E, dal momento che aveva da una parte un accesso quasi pianeggiante, dapprima dispose intorno arcieri e frombolieri, poi inviò una grande moltitudine di soldati armati alla leggera e fece avanzare le macchine da guerra, ostacolando i nostri lavori; non era infatti facile per i nostri contemporaneamente difendersi e lavorare. Cesare, vedendo che i suoi uomini venivano da ogni parte colpiti, ordinò la ritirata e l'allontanamento dalla zona. La ritirata si faceva per un pendio. Così i Pompeiani incalzavano con più accanimento e non permettevano ai nostri la ritirata, poiché a loro sembrava che i nostri lasciassero la posizione mossi da paura. Si dice che in quell'occasione Pompeo, pavoneggiandosi con i suoi, affermasse che accettava di essere giudicato comandante di nessun valore, se le legioni di Cesare fossero riuscite, senza ricevere un grandissimo danno, a ritirarsi da dove s'erano temerariamente spinte.
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Cesare, temendo per la ritirata dei suoi, ordinò di portare graticci verso l'estremità della collina di fronte al nemico, collocandoli a sbarramento e, protetti così i soldati, al di qua dei graticci fece scavare un fossato di media larghezza e rendere ovunque il terreno quanto più possibile impraticabile. Egli stesso collocò in luoghi adatti dei frombolieri che fossero di aiuto ai nostri nella ritirata. Compiute queste operazioni ordinò alla legione di ritirarsi. I Pompeiani, quindi, con maggiore insolenza e audacia incominciarono a premere e incalzare i nostri e, per superare i fossati, abbatterono i graticci collocati a difesa. Cesare, accortosi di ciò, temendo che sembrasse non una ritirata, ma una fuga e che ne derivasse un danno maggiore, quasi a metà del percorso, fatti esortare i suoi da Antonio, che era a capo della legione, ordinò di dare con la tromba il segnale di combattimento e di attaccare i nemici. I soldati della nona legione, ritrovata d'un tratto l'intesa, scagliarono dardi e, con una corsa veloce risalito il pendio dalla posizione più bassa, respinsero a precipizio i Pompeiani costringendoli alla fuga. Ma i graticci rovesciati, i pali nascosti e le fosse scavate furono di grande impedimento alla loro ritirata. I nostri invero, ai quali bastava ripiegare senza danno, dopo avere ucciso molti nemici e perduti soltanto cinque uomini, si ritirarono in tutta tranquillità e, occupate altre colline un poco al di qua di quel luogo, condussero a compimento i lavori di fortificazione.
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Era un modo di combattere nuovo e fuori dal comune sia per il grande numero di fortilizi, per la vastità dell'area, per le imponenti fortificazioni, per le complesse tecniche di assedio, sia per altri motivi. Infatti chiunque tenta un assedio, serra il nemico incalzandolo dopo che esso è stato fiaccato o indebolito o superato in battaglia o provato da qualche insuccesso, forte della sua superiorità nel numero di soldati e cavalieri; scopo poi dell'assedio di solito è questo: impedire il vettovagliamento ai nemici. Ma in quel frangente Cesare, con un numero inferiore di soldati, serrava un esercito integro, in buona salute e che aveva abbondanza di tutto; infatti ogni giorno una gran numero di navi giungeva da ogni parte a portare provviste e non poteva soffiare alcun vento che non fosse favorevole almeno a una parte delle navi. Cesare invece, consumata tutta la scorta di frumento raccolta in lungo e in largo nella zona, si trovava in grandissime difficoltà. Ciò nonostante i soldati sopportavano questa situazione con straordinaria resistenza. Ricordavano infatti che nell'anno precedente in Sna con gli stessi patimenti, e con la loro fatica e resistenza, avevano portato a termine una guerra durissima; non dimenticavano di avere sofferto una grande carestia presso Alesia, una ancora più grande presso Avarico e di essere risultati vincitori di popoli fortissimi. Ed essi non rifiutavano l'orzo e i legumi, quando venivano loro distribuiti, ma gradivano molto il bestiame, proveniente dall'Epiro, dove ve ne è in grande abbondanza.
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Gli uomini che facevano parte delle truppe ausiliarie trovarono anche un tipo di radice, detta 'cara', che, unita al latte, alleviava molto la mancanza di cibo. Ne facevano una specie di pane. Ve ne era in grande quantità. Pani fatti con questa radice, quando i Pompeiani rivolgevano loro parole di scherno rinfacciando ai nostri la fame, venivano scagliati da ogni parte contro di loro per frustrare la loro speranza.
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E ormai il frumento incominciava a maturare e la speranza stessa aiutava a sopportare la carestia, poiché i nostri confidavano di avere entro breve tempo abbondanza di cibo; e durante le veglie e nei dialoghi si sentiva dire spesso dai soldati che, piuttosto che lasciarsi sfuggire di mano Pompeo, avrebbero mangiato la corteccia degli alberi. Con piacere venivano anche a sapere dai disertori che i cavalli dei nemici venivano tenuti in vita, ma che il restante bestiame era tutto morto e che i nemici stessi non erano più in buona salute, tormentati come erano dalla mancanza di spazio, dal puzzo nauseabondo proveniente da una moltitudine di cadaveri, dalle fatiche quotidiane, loro che non erano avvezzi a lavorare, e dall'assoluta mancanza di acqua. Infatti tutti i fiumi e i ruscelli che si dirigevano al mare Cesare o li aveva fatti deviare o li aveva sbarrati con grandi lavori ed essendo le valli, a causa delle asperità dei luoghi, strette e di difficile transito, egli le aveva sbarrate, piantando per terra dei pali e ammassando contro di essi della terra per trattenere l'acqua. E così i nemici erano per necessità costretti a cercare luoghi bassi e paludosi ove scavare dei pozzi e questa fatica si aggiungeva ai lavori quotidiani. Ma quelle sorgenti si trovavano troppo lontane da alcuni presidi e, inoltre, per il caldo velocemente si prosciugavano. Al contrario l'esercito di Cesare godeva ottima salute, aveva acqua in grande abbondanza e vettovaglie di ogni genere, ad eccezione del frumento, in grande quantità. Stando così le cose, vedevano ogni giorno la situazione migliorare e, col maturare del grano, aumentare la speranza.
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In questo nuovo tipo di guerra nuovi metodi di combattimento venivano escogitati da entrambe le parti. I nemici, poiché avevano capito dai fuochi notturni che le nostre coorti bivaccavano presso le fortificazioni, si avvicinavano in silenzio e lanciavano una pioggia di frecce sulla moltitudine, ritirandosi subito presso i loro. In seguito a queste vicende in nostri, resi accorti dall'esperienza, ricorrevano a questo rimedio, accendere altrove i fuochi
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Frattanto P. Silla, che Cesare alla sua partenza aveva messo a capo del campo, informato dei fatti venne in aiuto alla coorte con due legioni; al suo arrivo i Pompeiani furono respinti con facilità. E infatti non ressero alla vista e all'impeto dei nostri e, mentre le prime file furono sbaragliate, gli altri volsero le spalle e abbandonarono la posizione. Ma Silla chiamò indietro i nostri che si erano dati all'inseguimento perché non andassero troppo avanti. Ma i più ritengono che la guerra avrebbe potuto finire proprio in quel giorno, se egli avesse voluto inseguire con più tenacia. Ma la sua decisione non sembra da biasimare, infatti diversi sono i compiti del luogotenente e del comandante supremo: il primo deve agire in tutto e per tutto secondo gli ordini, il secondo deve liberamente decidere in base alla situazione generale. Silla, che era stato lasciato da Cesare nell'accampamento, una volta liberati i suoi, fu contento e non volle venire alle armi, anche se vi era la possibilità di un felice esito dell'azione, e fece ciò per non dare l'impressione di avere assunto le funzioni del comandante supremo. Una circostanza rendeva ai Pompeiani molto difficile la ritirata. Infatti, partiti da una posizione più bassa, si erano fermati sulla cima di un colle: se si fossero ritirati per il pendio, temevano l'inseguimento dei nostri da una posizione più elevata; inoltre non mancava molto al tramonto perché, nella speranza di concludere l'azione, avevano protratto il combattimento quasi fino alla notte. Pertanto Pompeo, decidendo in base alla necessità del momento, occupò una collinetta abbastanza distante dal nostro fortilizio tanto da non potere essere a tiro dei proiettili scagliati dalle macchine da guerra; vi si fermò, fortificò la posizione e vi riunì tutte le milizie.
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Nel medesimo tempo, inoltre, si combatté in due luoghi. Infatti Pompeo aveva assalito più fortilizi contemporaneamente per dividere le forze in modo da impedire l'invio di soccorsi dai presidi vicini. Nel primo di questi luoghi Volcacio Tullo con tre coorti sostenne l'impeto di una legione e la respinse; nel secondo i Germani, usciti dalle nostre fortificazioni, uccisero parecchi nemici e ritornarono sani e salvi dai loro.
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E così in un solo giorno furono combattute sei battaglie, tre presso Durazzo, tre presso le fortificazioni; fatto il bilancio di tutti questi combattimenti, ci risultava che le perdite pompeiane erano di circa duemila uomini, fra cui veterani richiamati e parecchi centurioni, fra i quali Valerio Flacco L. lio di colui che aveva ottenuto la pretura in Asia; furono prese sei insegne militari. Non più di venti dei nostri uomini caddero in tutte queste battaglie. Ma nel fortilizio non vi fu nessun soldato che non venisse ferito e quattro centurioni della coorte ottava persero gli occhi. Volendo, inoltre, rendere testimonianza delle fatiche e del pericolo da essi sostenuti, contarono davanti agli occhi di Cesare circa trentamila frecce lanciate contro il fortilizio, inoltre sullo scudo del centurione Sceva, presentato a Cesare, furono trovati centoventi fori. Cesare gli donò, per i suoi meriti verso di lui e verso lo stato, duecentomila denari e pubblicamente lo promosse da centurione di ottavo ordine a centurione di primo ordine (infatti era chiaro che il fortilizio era stato salvato sopra tutto per il suo contributo); poi elargì alla coorte un doppio stipendio e, con grande generosità, frumento, vestiario, cibo e decorazioni militari.
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Pompeo, accresciute poderosamente di notte le fortificazioni, nei giorni seguenti costruì delle torri e, fatti edificare i baluardi alti quindici piedi, coprì con vinee quella parte dell'accampamento. Cinque giorni dopo, approfittando di un'altra notte nuvolosa, fece ostruire tutte le porte del campo per sbarrare il passaggio e, poco dopo mezzanotte, condusse fuori l'esercito in silenzio e si rifugiò nel campo precedente.
<%55 (56)
Tutti i giorni successivi Cesare fece
uscire nella pianura l'esercito in formazione di combattimento, caso
<%56 (55)
Una volta ricevute in sottomissione l'Etolia, l'Acarnania e l'Anfilochia, grazie, come abbiamo detto, a Cassio Longino e Calvisio Sabino, Cesare ritenne opportuno attaccare l'Acaia e procedere un poco oltre. E così mandò colà Q. Caleno insieme a Salino e Cassio con le loro coorti. Alla notizia del loro arrivo Rutilio Lupo, che era stato mandato da Pompeo a governare l'Acaia, diede ordine di fortificare l'istmo per tenere Fufio lontano dall'Acaia. Caleno ottenne la sottomissione spontanea di Delfi, Tebe e Orcomeno; prese alcune città con la forza, si adoperò, mediante l'invio di ambasciatori, per portare le altre a un accordo con Cesare. Queste attività assorbivano quasi completamente Fufio.
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Mentre questi fatti accadevano in Acaia e presso Durazzo, si viene a sapere che Scipione era giunto in Macedonia. Cesare, non dimentico del primitivo disegno, gli invia Aulo Clodio, amico comune, che, da lui presentato e raccomandato fin da prima, era considerato uno dei suoi intimi. Gli consegna una lettera e messaggi per Scipione, che così in breve si possono riassumere: egli tutto aveva tentato per la pace, pertanto pensava che, se non si era concluso nulla, era solo per colpa di quelli che egli aveva voluto fossero gli artefici della trattativa, poiché essi avevano timore di recare i suoi messaggi a Pompeo in momento non opportuno. Ma Scipione aveva tanta autorità non solo per esporre liberamente il suo pensiero, ma anche, in larga misura, per fare pressione e correggere chi sbagliava; d'altra parte era a capo di un suo esercito e, oltre all'autorità, aveva anche le forze per fare opera di costrizione. Se avesse fatto ciò, la pace dell'Italia, la quiete delle province, la salvezza della nazione sarebbero state attribuite da tutti a lui solo. Clodio porta a Scipione questa ambasciata e, nei primi giorni viene ascoltato volentieri, almeno sembrava, nei successivi non è più ammesso al colloquio, poiché Scipione era stato rimproverato da Favonio, come poi si seppe a guerra finita; tornò quindi da Cesare senza avere portato a termine l'incarico.
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Cesare, per immobilizzare più facilmente la cavalleria di Pompeo presso Durazzo e impedirle il foraggiamento, sbarrò con grandi opere di fortificazione i due accessi, che, come abbiamo detto, erano molto stretti e innalzò qui dei fortilizi. Pompeo, dopo alcuni giorni, quando s'accorse che la cavalleria non gli era di alcun vantaggio, la fece di nuovo rientrare con le navi presso di sé all'interno delle fortificazioni. La penuria di foraggio era grandissima, così che nutrivano i cavalli con foglie raccolte dagli alberi e tenere radici di canna pestate; infatti avevano consumato tutto il frumento che era stato seminato entro le fortificazioni. Erano costretti a fare giungere frumento da Corcira e dall'Acarnania con un lungo tragitto per mare, e, poiché la quantità era inferiore al bisogno, erano costretti ad aggiungere orzo e a nutrire i cavalli in questo modo. Ma quando vennero a mancare non solo l'orzo e il foraggio e l'erba tagliata in tutti i campi, ma anche le foglie sugli alberi e i cavalli erano consunti dalla magrezza, Pompeo giudicò di dovere fare un tentativo di sortita.
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Vi erano presso Cesare, nella sua cavalleria, due fratelli Allobrogi, Roucillo ed Eco, li di Adbucillo, che per molti anni era stato al comando del suo popolo, uomini di singolare valore, della cui opera, eccellente e valorosissima, Cesare si era servito in tutte le guerre galliche. A costoro in patria, per questi motivi, aveva fatto affidare cariche molto importanti e li aveva, eccezionalmente, fatti eleggere senatori; aveva dato loro in Gallia terreni sottratti ai nemici e grandi premi in denaro, facendoli, da poveri che erano, ricchi. Costoro, per il loro valore, erano non solo stimati da Cesare, ma anche considerati dall'esercito; ma, fiduciosi dell'amicizia di Cesare e trascinati da una stolta arroganza tipica dei barbari, disprezzavano i loro comni, defraudavano la a dei cavalieri e sottraevano tutto il bottino per mandarlo a casa. I cavalieri, irritati da questi fatti, andarono tutti insieme da Cesare e si lamentarono pubblicamente dei loro soprusi e in più aggiunsero che da quelli era stato dichiarato un falso numero di cavalieri per appropriarsi indebitamente della loro a.
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Cesare, giudicando che quello non era il momento per punizioni, con atto di grande condiscendenza per il loro valore, differì l'intera disputa; li rimproverò privatamente per i guadagni sui cavalieri, ricordando loro che dovevano attendersi ogni bene solo dalla sua amicizia e sperare, come per il passato, in altri suoi favori. Questa vicenda tuttavia recò loro grande offesa e il disprezzo da parte di tutti, e tale disprezzo lo coglievano sia dai rimproveri degli altri sia dal giudizio e rimorso della propria coscienza. Spinti da questa vergogna e credendo forse di non essere assolti, ma di venire risparmiati solo temporaneamente, decisero di allontanarsi da noi e tentare una nuova sorte, sperimentando nuove amicizie. E accordatisi con qualche loro cliente, che osarono mettere a parte di una simile azione delittuosa, dapprima tentarono di uccidere il prefetto di cavalleria C. Voluseno, come in seguito, a guerra finita, si venne a sapere, per potere trovare rifugio da Pompeo con qualche benemerenza; quando la cosa apparve troppo difficile e non vi era possibilità di condurla a termine, preso a prestito quanto più denaro poterono, come se volessero dare soddisfazione ai loro comni e restituire il mal tolto, dopo avere comprato molti cavalli, passarono dalla parte di Pompeo con i complici del loro piano.
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Poiché erano di nobile famiglia, ed erano giunti riccamente equigiati e con grande scorta e con molti giumenti ed erano considerati uomini valorosi ed erano stati tenuti in grande onore presso Cesare, e poiché inoltre la situazione si presentava nuova e insolita, Pompeo li ostentava conducendoli in giro per i presidi. Infatti prima di allora nessuno, né fante né cavaliere, era passato da Cesare a Pompeo, mentre quasi ogni giorno c'era chi disertava Pompeo per Cesare, addirittura in massa disertavano i soldati arruolati in Epiro e in Etolia e i soldati di tutte quelle terre in mano a Cesare. Ma i due Allobrogi, informati su tutto, sulle fortificazioni non ancora portate a termine e sui relativi punti deboli, almeno a parere degli esperti militari, avevano inoltre preso nota delle ore delle operazioni, delle distanze tra i luoghi, della diligenza con cui erano vigilati i posti di guardia, diversa secondo lo zelo o il carattere di chi era preposto alla guardia e avevano riferito tutto quanto a Pompeo.
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Pompeo, venuto a conoscenza di queste cose e avendo deciso già in precedenza, come si è detto, di fare una sortita, ordina ai soldati di preparare con vimini coperture per gli elmi e di ammassare materiale per formare un terrapieno. Predisposto ciò, di notte fa salire su battelli e navi veloci un gran numero di soldati armati alla leggera e di arcieri e caricare tutto il materiale per il terrapieno. Intorno a mezzanotte fa uscire fuori dal campo maggiore e dai presidi sessanta coorti conducendole da quella parte delle fortificazioni rivolta verso il mare e molto lontana dall'accampamento più grande di Cesare. Colà manda le navi cariche, come si è detto, di soldati armati alla leggera e del materiale e le navi da guerra di stanza a Durazzo e a ciascuno impartisce ordini dettagliati. Presso quelle fortificazioni Cesare aveva disposto il questore Lentulo Marcellino con la nona legione. A costui, che non godeva di buona salute, aveva affiancato, come aiutante, Fulvio Postumo.
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In quel luogo vi era una fossa di quindici piedi e, dirimpetto al nemico, una palizzata alta dieci piedi, il cui terrapieno si estendeva altrettanto in larghezza; a una distanza di seicento piedi vi era, rivolto dalla parte opposta, un altro vallo con una fortificazione un po' più bassa. Infatti Cesare, nei giorni precedenti, aveva fatto costruire un duplice vallo in quel luogo, temendo che i nostri venissero circondati dalle navi, in modo da potere resistere nel caso si fosse combattuto su due fronti. Ma la mole del lavoro e l'ininterrotta fatica di ogni giorno non permettevano il compimento dell'impresa, poiché la lunghezza della linea delle fortificazioni era di diciassette miglia. E così il bastione posto trasversalmente di fronte al mare che doveva congiungere queste due fortificazioni non era ancora terminato. E il fatto, noto a Pompeo, poiché gli era stato riferito dai disertori Allobrogi, recò grande danno ai nostri. Infatti, quando le nostre coorti [della nona legione] avevano finito il turno di guardia presso il mare, all'improvviso all'alba giunsero i Pompeiani [vi fu l'arrivo dell'esercito]: i soldati imbarcati sulle navi, giunti alle spalle, scagliavano proiettili contro il bastione esterno, altri riempivano di materiale le fosse e contemporaneamente i legionari, appoggiate le scale, atterrivano i difensori della fortificazione interna, scagliando a mano e con macchine proiettili di ogni tipo, mentre una grande moltitudine di arcieri incalzava da entrambi i lati. La copertura di vimini posta sopra gli elmi era una valida difesa dai colpi di pietra, unica arma in mano ai nostri. E così, mentre i nostri venivano incalzati in ogni modo e a fatica resistevano, ci si rese conto, come sopra si è detto, del difetto della fortificazione; i Pompeiani, sbarcati nel tratto di mare fra i due bastioni, là dove il lavoro di fortificazione non era stato completato, fecero impeto contro i nostri alle spalle e li cacciarono da entrambe le linee di fortificazione costringendoli a fuggire.
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All'annuncio di questo assalto improvviso, Marcellino manda dal campo coorti in aiuto ai nostri in difficoltà, ma queste trovarono i nostri in fuga e non poterono col loro arrivo infondere coraggio; esse stesse non sostennero l'assalto nemico. E così, qualunque aiuto inviato, contaminato dal terrore dei fuggitivi, aumentava a sua volta terrore e pericolo: infatti la ritirata veniva impedita dal gran numero di uomini. In quella battaglia un aquilifero, ferito gravemente, mentre già gli venivano meno le forze, alla vista dei nostri cavalieri disse: 'Quest'aquila io da vivo per molti anni l'ho difesa con grande zelo e ora, morendo, la restituisco a Cesare con la medesima fedeltà. ½ prego, non permettete che sia commesso atto vergognoso per l'onore militare, cosa che mai è avvenuta prima nell'esercito di Cesare, e consegnategliela intatta'. In tal modo l'aquila fu salvata, sebbene fossero uccisi tutti i centurioni della prima coorte, eccetto il centurione al comando della prima centuria.
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E già i Pompeiani si avvicinavano al campo di Marcellino con grande strage dei nostri e recando non poco terrore alle altre coorti, quando Marco Antonio, che era a capo del posto di presidio più vicino, annunciatagli la disfatta viene visto scendere dalle alture con dodici coorti. Il suo arrivo arrestò i Pompeiani e rincuorò i nostri, cosicché si rinfrancarono dalla tremenda paura. E non molto dopo Cesare, non appena un segnale di fumo da fortino a fortino lo avvertì, secondo l'usanza dei tempi passati, giunse nel medesimo luogo con alcune coorti tratte dai presidi. Venuto a conoscenza della sconfitta subìta e visto che Pompeo era uscito dalle trincee e fortificava il campo lungo il mare per potere foraggiare liberamente e avere possibilità di accesso alle navi, Cesare cambia il piano di guerra, poiché non aveva ottenuto gli scopi prefissati, e ordina di trincerarsi vicino a Pompeo.
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Terminata questa fortificazione, gli esploratori di Cesare videro, dietro a una foresta, alcune coorti, che sembravano avere l'effettivo di una legione e venivano condotte verso un vecchio accampamento. La posizione del campo era questa. Nei giorni precedenti la nona legione di Cesare, dopo essersi opposta alle truppe pompeiane e, come si è detto, dopo avere costruito una cinta di fortificazioni, aveva posto qui il suo campo. Tale campo era vicino a una foresta e distava dal mare non più di trecento passi. In seguito Cesare, mutato il piano per certi motivi, portò il campo un poco oltre quella posizione; pochi giorni dopo Pompeo aveva occupato questo medesimo luogo e, poiché aveva intenzione di tenere lì un maggiore numero di legioni, lasciata la trincea interna, ne aveva aggiunta una più ampia. E così il campo minore incluso in quello maggiore faceva da fortino e da roccaforte. Parimenti dall'angolo sinistro del campo aveva condotto fino al fiume una linea di fortificazioni di circa quattrocento passi perché i soldati potessero più liberamente e senza pericolo approvvigionarsi di acqua. Ma anche Pompeo, mutato piano per certi motivi che non è necessario ricordare, si era allontanato da quel luogo. Così per parecchi giorni il campo era rimasto vuoto, e tutto il sistema di difesa era intatto.
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Gli esploratori informarono Cesare che in quel campo erano state portate le insegne della legione; avvistamenti da alcuni fortilizi più elevati confermarono la stessa cosa. Questo luogo distava dal nuovo campo di Pompeo circa cinquecento passi. Cesare, sperando di potere piombare addosso a questa legione e desiderando vendicare il danno ricevuto in quel giorno, lasciò nelle fortificazioni due coorti per fare credere che si compissero lavori di rafforzamento; egli stesso condusse verso la legione e il campo minore di Pompeo, con un percorso discosto e il più segretamente possibile, le rimanenti legioni schierate su due file, in numero di trentatré, fra cui vi era la nona legione che aveva perduto molti centurioni e che aveva un ridotto numero di soldati. E la sua prima convinzione non fu fallace. Infatti giunse prima che Pompeo potesse accorgersene, e, nonostante le fortificazioni del campo fossero imponenti, dall'ala sinistra, dove egli stesso si trovava, colpì con un rapido attacco i Pompeiani e li scacciò dal vallo. Una trave irta di punte di ferro era posta dinanzi alle porte. Qui si combatté per un po': i nostri tentavano di fare irruzione e i Pompeiani di difendere il campo; qui combatté da eroe Tito Pullione, per opera del quale, come abbiamo detto, fu tradito l'esercito di C. Antonio. Ma i nostri vinsero per il loro valore e, distrutta la trave, dapprima fecero irruzione nel campo maggiore, poi anche nel fortilizio che si trovava dentro il campo più grande, poiché là si era ritirata la legione che era stata respinta; uccisero alcuni nemici che qui facevano resistenza.
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Ma
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Frattanto Pompeo, trascorso questo lasso di tempo abbastanza lungo, all'annuncio del fatto mandò in aiuto ai suoi cinque legioni tolte dalle opere di fortificazione; nel medesimo tempo la sua cavalleria si avvicinava alla nostra; i nostri che avevano occupato il campo vedevano l'esercito schierato e improvvisamente tutta la situazione mutò. La legione di Pompeo, rassicurata dalla speranza di un pronto aiuto, tentava di fare resistenza alla porta decumana e, inoltre, contrattaccava i nostri. La cavalleria di Cesare, poiché si trovava a salire per un angusto passaggio attraverso il terrapieno, temendo di non potersi ritirare dava inizio alla fuga. L'ala destra, che era separata dalla sinistra, accortasi che i cavalieri erano in preda al panico, perché temevano di essere schiacciati entro la fortificazione, si ritirava dal lato dal quale aveva fatto irruzione e la maggior parte di questi soldati, per non imbattersi in strettoie, si gettavano da un bastione alto dieci piedi nelle fosse e, schiacciati i primi che erano caduti, gli altri, passando sui loro corpi, guadagnavano uscita e salvezza. I soldati dell'ala sinistra, vedendo dal vallo che Pompeo si avvicinava e che i loro comni fuggivano, temendo di trovarsi rinchiusi in strettoie con il nemico dentro e fuori, cercavano la ritirata per dove erano giunti. Ovunque vi era tumulto, paura, fuga, sicché, sebbene Cesare strappasse le insegne dalle mani di chi fuggiva e ordinasse di fermarsi, alcuni, lasciati i cavalli, continuavano la loro fuga, altri per il timore abbandonavano anche le insegne e proprio nessuno faceva resistenza.
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In questa situazione di massima gravità concorreva a impedire che tutto l'esercito fosse distrutto il fatto che Pompeo, temendo, penso, degli agguati, poiché questi fatti erano accaduti oltre ogni sua speranza, avendo egli visto poco prima fuggire dal campo i suoi soldati, non osò per un certo tempo avvicinarsi alle fortificazioni e la sua cavalleria, per l'angustia dei passaggi e per il fatto che erano stati occupati dai soldati di Cesare, era lenta nell'inseguimento. Così fatti di poco conto ebbero grande importanza per entrambe le parti. Le fortificazioni, condotte dal campo al fiume, impedirono infatti, quando ormai il campo di Pompeo era preso, la vittoria di Cesare quasi ormai certa. Lo stesso ostacolo rallentò la velocità degli inseguitori e recò salvezza ai nostri.
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Nelle due battaglie di questa sola giornata Cesare perse novecentosessanta soldati e noti cavalieri romani, Tuticano Gallo, lio di un senatore, C. Fleginate da Piacenza, A. Granio di Pozzuoli, M. Sacrativiro di Capua, cinque tribuni militari e trentadue centurioni. In gran parte tutti costoro morirono senza alcuna ferita ma, per il terrore e la fuga dei loro comni, schiacciati nelle fosse, sulle fortificazioni e sulle rive del fiume. Si persero trentadue bandiere. Pompeo venne in quella battaglia salutato col nome di imperator. Mantenne questo titolo e in seguito permise di essere salutato in tal modo, ma non fu solito usarlo nelle sue lettere né pose sui fasci la corona d'alloro. Invece Labieno, ottenuta da lui la consegna dei prigionieri, fattili condurre tutti dinanzi a sé, per ostentare maggiormente, come sembrava, la propria fedeltà a Pompeo, pur essendo egli un disertore, li chiamò commilitoni e, dopo avere chiesto loro con parole fortemente oltraggiose se i soldati veterani fossero soliti fuggire, li uccise alla presenza di tutti.
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In seguito a queste vittorie nei Pompeiani la baldanza e la presunzione crebbero tanto che non pensarono più al modo di condurre la guerra, credendo ormai di avere vinto. Essi non capivano che a causare la sconfitta fossero stati lo scarso numero dei nostri soldati, il luogo sfavorevole, il difficile accesso a un campo già occupato dal nemico, la duplice paura dentro e fuori le fortificazioni, l'esercito separato in due parti, sicché l'una non aveva potuto portare aiuto all'altra. A ciò non aggiungevano inoltre che non era stato condotto alcun attacco violento, che non si era combattuta una vera battaglia e che i nostri, con il loro stesso ammassarsi in grande moltitudine entro luoghi angusti, avevano arrecato a se stessi maggiore danno di quello ricevuto dal nemico. Non ricordavano infine una situazione tipica della guerra: quanto spesso cause di piccolissimo conto o di falso sospetto o di improvviso terrore o di scrupolo religioso hanno arrecato grandi danni; quante volte o per incapacità del comandante o per colpa di un tribuno l'esercito subisce uno scacco; ma come se avessero vinto per valore né potesse accadere alcun mutamento di sorte, diffondevano per tutto il mondo, mediante messaggi e lettere, la vittoria di quel giorno.
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Cesare, costretto a rinunciare ai suoi
precedenti progetti, pensò di dovere cambiare totalmente il piano di
guerra. E così, richiamati contemporaneamente tutti i presidi e
abbandonato l'assedio e riunito in un solo posto l'esercito, tenne un discorso
ai soldati esortandoli a non addolorarsi per quanto era avvenuto, a non
lasciarsi demoralizzare dagli avvenimenti e a non anteporre a molte battaglie
favorevoli una sconfitta sola e per di più di poco conto. Dovevano
ringraziare
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Tenuto questo discorso, bollò d'infamia alcuni portabandiera e li rimosse dal grado. E invero un dolore grande per la sconfitta e un desiderio di riparare la vergogna si diffusero in tutto l'esercito così che ognuno, senza aspettare il comando di un tribuno o di un centurione, imponeva a se stesso come castigo fatiche più gravi del solito e tutti, all'unisono, ardevano dal desiderio di combattere; anzi alcuni ufficiali superiori, spinti da ragioni militari, giudicarono di dovere rimanere in quel luogo e rimettere la sorte al combattimento. Cesare, al contrario, non poneva abbastanza fiducia in soldati sconvolti e riteneva di dovere lasciare passare un po' di tempo per rinfrancare gli animi; inoltre, poiché aveva lasciato le fortificazioni, era grandemente preoccupato per l'approvvigionamento.
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E così, senza porre indugio, avuta cura solo dei feriti e dei malati, in silenzio sul fare della notte dal campo inviò tutti i bagagli ad Apollonia e diede l'ordine di non fare sosta prima di avere terminato il cammino. Di scorta fu mandata una sola legione. Fatto ciò, trattenne nel campo due legioni; verso le tre di notte condusse fuori le altre da varie porte e le fece procedere per la stessa via; dopo un po', per conservare gli usi militari e perché la sua partenza apparisse il più normale possibile, ordinò l'adunata; subito dopo uscì e raggiunse la retroguardia e in breve tempo fu fuori dalla vista del campo. Pompeo, capito il suo piano, non pose alcun indugio all'inseguimento, ma proponendosi lo stesso fine di potere sorprendere i nostri impediti nella marcia, condusse l'esercito fuori dal campo e mandò innanzi la cavalleria per fermare la retroguardia nemica. Non poté tuttavia raggiungerla, perché Cesare era avanzato molto dal momento che marciava libero senza bagagli. Ma quando si giunse al fiume Genuso, che aveva le rive scoscese, la cavalleria raggiunse la retroguardia e cercò di fermarla provocandola a battaglia. Ad essa Cesare oppose i suoi cavalieri e vi aggiunse quattrocento antesignani, armati alla leggera; costoro furono di grande utilità perché, una volta attaccato il combattimento equestre, respinsero tutti i nemici e ne uccisero parecchi e, senza accusare perdite, si riunirono alla loro colonna.
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Completata regolarmente la marcia da lui prevista per quel giorno e trasportato l'esercito al di là del fiume Genuso, Cesare si fermò nel suo vecchio campo di fronte ad Asparagio e trattenne tutti i fanti entro le fortificazioni. Mandò fuori la cavalleria col pretesto del foraggiamento, ma diede ordine che rientrasse subito nel campo per la porta decumana. Parimenti Pompeo, compiuto il percorso fissato per quel giorno, si fermò nel suo vecchio campo presso Asparagio. I suoi soldati non erano impegnati in alcun lavoro, poiché le fortificazioni erano integre; pertanto alcuni si allontanavano un po' troppo per fare legna o per cercare foraggi, altri, poiché avevano ricevuto all'improvviso l'ordine della partenza e avevano abbandonato gran parte dei bagagli piccoli e grandi e d'altronde il vecchio campo era vicino e si potevano riprendere le cose abbandonate, depositate le armi nelle tende, lasciavano la trincea. Poiché i Pompeiani non erano in grado di inseguirlo, come egli aveva previsto che sarebbe accaduto, Cesare, dato il segnale di partenza intorno a mezzogiorno, condusse fuori l'esercito e, facendo una marcia lunga il doppio in un solo giorno, si allontanò da quel luogo di otto miglia; Pompeo, essendosi allontanati i suoi soldati, non poté fare altrettanto.
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Il giorno successivo allo stesso modo Cesare sul fare della notte manda innanzi i bagagli e, intorno alla quarta vigilia, esce anch'egli, in modo da potere affrontare un attacco improvviso con l'esercito non impedito dai bagagli, qualora si fosse presentata la necessità di combattere. La stessa cosa fece anche nei giorni successivi. In tal modo riuscì a non subire danni, nonostante fiumi molto profondi e strade piene di ostacoli. Pompeo, per l'indugio del primo giorno, nonostante gli inutili sforzi di quelli successivi, benché procedesse a marce forzate, desiderando raggiungere i nostri che l'avevano preceduto, il quarto giorno pose fine all'inseguimento e pensò bene di seguire un altro piano.
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Era necessario a Cesare raggiungere Apollonia per lasciarvi i feriti, per dare la a ai soldati, per rassicurare gli alleati, per lasciare presidi nelle città. Per assolvere questi impegni impiegò solo il tempo necessario, perché aveva una grande fretta; temeva che Domizio fosse colto all'improvviso dall'arrivo di Pompeo e, spinto da tale ansietà, si dirigeva verso di lui il più rapidamente possibile. Secondo Cesare il piano di tutta l'azione bellica si basava su questi punti: se Pompeo si fosse diretto lì, Cesare lo avrebbe costretto a combattere privo di frumento e vettovaglie, lontano dal mare e da quelle truppe che aveva radunato a Durazzo, pertanto a condizioni pari alle sue; se Pompeo fosse invece passato in Italia, Cesare si sarebbe unito all'esercito di Domizio e, passando per l'Illiria, avrebbe portato aiuto all'Italia; se poi Pompeo avesse tentato di assalire Apollonia e Orico, tagliandolo fuori da tutti i lidi, Cesare, assediando Scipione, lo avrebbe costretto ad accorre in aiuto ai suoi. Pertanto, mandati innanzi messi, Cesare scrisse a Cn. Domizio, chiarendogli il proprio piano e, disposte quattro coorti di presidio ad Apollonia, una a Lissa, tre a Orico, lasciati quelli che erano inabili per le ferite, cominciò a marciare attraverso l'Epiro e l'Atamania. Anche Pompeo, prevedendo il piano di Cesare, giudicava opportuno raggiungere in fretta Scipione; se Cesare si dirigeva colà, egli avrebbe portato aiuto a Scipione; se Cesare non voleva allontanarsi dalla costa e da Orico, poiché attendeva legioni e cavalleria dall'Italia, egli avrebbe assalito Domizio con tutte le truppe.
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Per questi motivi entrambi volevano fare
presto, e per essere di aiuto ai loro e per non perdere l'occasione di
annientare i nemici. Ma il transito per Apollonia aveva allontanato Cesare
dalla via più breve, Pompeo invece, passando attraverso
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Una volta congiuntisi gli eserciti, Cesare giunse a Gonfi, la prima città della Tessaglia per chi giunge dall'Epiro; pochi mesi prima la popolazione di questa città aveva mandato spontaneamente ambasciatori a Cesare per mettergli a disposizione tutti i propri beni, chiedendogli un presidio di soldati. Ma già era giunta colà, gonfiata in molte parti, la notizia, di cui parlammo, della battaglia di Durazzo. Pertanto Androstene, pretore della Tessaglia, preferendo essere comno della vittoria di Pompeo piuttosto che alleato di Cesare nelle avversità, raduna dai campi nella città tutta la moltitudine di schiavi e liberi, chiude le porte e manda ambasciatori a Scipione e a Pompeo, chiedendo di venire in suo aiuto: egli confidava nelle fortificazioni della città, se avesse ricevuto soccorso in breve tempo; ma non era in grado di sostenere un assedio di lunga durata. Scipione, venuto a conoscenza della partenza degli eserciti da Durazzo, aveva condotto le legioni a Larissa; Pompeo non era ancora vicino alla Tessaglia. Cesare fortificò il campo e diede ordine di costruire scale e gallerie coperte e di preparare graticci in vista di un assalto improvviso. Portati a termine questi lavori, dopo avere esortato i soldati, mostrò loro di quanta utilità sarebbe stato, per alleviare la mancanza di ogni cosa, impadronirsi di una città ricca e ben fornita e nello stesso tempo, con l'esempio di questa, incutere terrore alle altre città e fare ciò in breve tempo, prima dell'arrivo degli aiuti. E così, approfittando di un eccezionale ardore dei soldati, nel medesimo giorno in cui era giunto, dopo le tre pomeridiane, cominciò ad assediare la città dalle altissime mura e la espugnò prima del tramonto; la lasciò al saccheggio dei soldati e subito mosse il campo e giunse a Metropoli prima che vi arrivassero notizie e fama della presa della città.
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Gli abitanti di Metropoli, presa in un primo tempo la medesima decisione, in quanto indotti dalle medesime voci, chiusero le porte e riempirono le mura di armati, ma in seguito, venuti a conoscenza, da prigionieri che Cesare aveva fatto avvicinare alle mura, di quanto era accaduto a Gonfi, aprirono le porte. Essi vennero trattati con ogni riguardo e quando si confrontò la sorte di Metropoli con la situazione di Gonfi non vi fu nessuna città della Tessaglia, eccetto Larissa, che era occupata da grandi forze di Scipione, che non ubbidisse a Cesare e non ne eseguisse gli ordini. Cesare, trovato nella pianura un luogo adatto al rifornimento di grano, che era ormai quasi maturo, stabilì di attendere qui l'arrivo di Pompeo e di fissarvi il campo operativo militare.
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Pompeo giunge in Tessaglia pochi giorni dopo e, tenuto un discorso davanti a tutto l'esercito, ringrazia i suoi ed esorta i soldati di Scipione, dal momento che la vittoria era già assicurata, a essere partecipi della preda e dei premi e, dopo avere riunito in un solo campo tutte le legioni, divide con Scipione l'onore del comando e ordina che anche per lui squillino le trombe e che per lui venga allestita una seconda tenda pretoria. Aumentate le truppe di Pompeo e congiuntisi due grandi eserciti, viene confermata la precedente opinione di tutti e cresce la speranza di vittoria, così che ogni momento che passava sembrava ritardare il ritorno in Italia e se talora Pompeo agiva troppo lentamente o ponderatamente, dicevano che il compimento della guerra non richiedeva che un giorno solo, ma che egli si compiaceva del comando e che teneva in conto di schiavi gli ex consoli e pretori. E già da tempo apertamente contendevano fra loro ricompense civili e cariche religiose e stabilivano i consolati per gli anni successivi; altri richiedevano le case e i beni dei Cesariani. In un consiglio vi fu tra di loro una grande controversia se fosse opportuno tenere conto, nei prossimi comizi pretori, della candidatura di Lucilio Irro, che era assente in quanto mandato da Pompeo presso i Parti; i suoi amici imploravano la lealtà di Pompeo, che mantenesse ciò che gli aveva promesso alla sua partenza, perché non sembrasse essere stato ingannato per mezzo della sua autorità; gli altri non volevano che uno solo venisse preferito a tutti, quando uguali erano fatiche e pericoli.
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Ben presto Domizio, Scipione e Lentulo Spintere, nelle quotidiane discussioni sulla successione al pontificato di Cesare, giunsero pubblicamente a gravissime ingiurie verbali: Lentulo ostentava il privilegio dell'età, Domizio vantava il favore e l'autorità di cui godeva a Roma, Scipione confidava nella parentela con Pompeo. Acuzio Rufo inoltre accusò, presso Pompeo, L. Afranio del tradimento dell'esercito, che diceva essere accaduto in Sna. E L. Domizio in consiglio disse che era favorevole a che, una volta terminata la guerra, ai senatori che avevano partecipato con loro alla guerra venissero distribuite tre tavolette di voto, per esprimere singoli giudizi su chi era rimasto a Roma o chi, trovandosi nelle terre occupate da Pompeo, non aveva combattuto: una sarebbe stata la tavoletta per assolvere da ogni imputazione; un'altra per condannare a morte, la terza per infliggere multe. In una parola tutti discutevano o delle proprie cariche o delle ricompense in denaro o dei nemici da perseguire e pensavano non in che modo vincere, ma come mettere a frutto la vittoria.
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Provveduto al vettovagliamento e rincuorati i soldati, lasciato trascorrere dalla battaglia di Durazzo il tempo necessario per conoscere a sufficienza l'animo dei soldati, Cesare giudicò opportuno di saggiare l'intenzione e la volontà di Pompeo di combattere. E così condusse fuori dal campo l'esercito e lo schierò a battaglia, dapprima in posizioni favorevoli e alquanto lontano dal campo di Pompeo, poi, nei giorni seguenti, allontanandosi dal suo campo e schierando le truppe ai piedi dei colli occupati dai Pompeiani. La qual cosa rafforzava di giorno in giorno il morale del suo esercito. Tuttavia manteneva, per la cavalleria, la medesima disposizione di cui abbiamo detto: poiché i suoi cavalieri erano molto inferiori per numero ordinò che giovani e soldati armati alla leggera, scelti tra gli antesignani, con armi adatte alla velocità, combattessero in mezzo ad essi, affinché con un esercizio quotidiano acquisissero esperienza anche di questo genere di combattimento. Il risultato di ciò fu che un migliaio di cavalieri, impadronitisi della pratica, erano in grado, anche in campo aperto, di sostenere l'impeto di settemila pompeiani senza facilmente spaventarsi per la loro grande superiorità numerica. E infatti in quei giorni combatté con successo una battaglia equestre, uccidendo con alcuni altri Eco, uno dei due Allobrogi, che, come sopra abbiamo detto, si erano rifugiati presso Pompeo.
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Pompeo, che aveva il campo sul colle, schierava l'esercito ai piedi di esso, aspettando sempre, come sembrava, che Cesare si esponesse in posizione sfavorevole. Cesare, ritenendo che in nessun modo Pompeo potesse essere trascinato a battaglia, giudicò essere questa per sé la migliore tattica di guerra: muovere il campo da quel posto e stare sempre in marcia, con questi obiettivi: usufruire delle migliori occasioni di approvvigionamento spostando il campo e toccando luoghi diversi e, contemporaneamente, durante la marcia, trovare qualche opportunità di combattimento e, con quotidiane marce, sfinire l'esercito di Pompeo, non abituato alla fatica. Stabilito ciò, dato già il segnale della partenza e smontate le tende, ci si accorse che poco prima, contrariamente alla abitudine di ogni giorno, la schiera di Pompeo si era allontanata un po' troppo dal vallo, così che sembrava che si potesse combattere in posizione non sfavorevole. Allora Cesare, quando già la schiera in ordine di marcia era alle porte, disse ai suoi: 'Dobbiamo rimandare al momento la marcia e pensare al combattimento, come abbiamo sempre desiderato. Siamo pronti a combattere; non facilmente in seguito troveremo l'occasione'. E subito conduce fuori le truppe pronte a combattere.
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Anche Pompeo, come poi si venne a sapere, su esortazione di tutti i suoi, aveva stabilito di venire a battaglia. E infatti, anche nel consiglio di guerra, nei giorni precedenti aveva detto che l'esercito di Cesare sarebbe stato annientato prima che le schiere si scontrassero. Essendosi molti meravigliati di questa affermazione, disse: 'So di promettere una cosa quasi incredibile, ma sentite il piano che ho ideato, affinché andiate alla battaglia con animo più saldo. Ho consigliato ai nostri cavalieri, e mi hanno dato assicurazione che lo avrebbero fatto, di dare l'assalto, quando si sia arrivati molto vicini, all'ala destra di Cesare, ossia dalla parte scoperta, e, una volta aggirata la schiera alle spalle, di mettere in fuga l'esercito disorientato prima che dai nostri venga scagliata una freccia contro il nemico. E così senza pericolo per le legioni e quasi senza spargimento di sangue concluderemo la guerra. La cosa inoltre non è difficile dal momento che siamo tanto più forti nella cavalleria'. Contemporaneamente li ammonì di stare pronti per il giorno successivo e, poiché vi era possibilità di combattere, come spesso avevano chiesto, di non deludere né la sua né l'altrui aspettativa.
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Dopo di lui parlò Labieno e,
disprezzando le milizie di Cesare, esaltando con somme lodi il piano di Pompeo,
disse: 'Non credere, o Pompeo, che questo sia l'esercito che ha vinto
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Cesare, avvicinatosi al campo di Pompeo, si accorse che l'esercito di costui era schierato in questo modo: sull'ala sinistra vi erano le due legioni mandate da Cesare all'inizio della guerra per decreto del senato, di queste una era detta 'prima', l'altra 'terza'; in quella posizione vi era lo stesso Pompeo. Scipione con le legioni siriache occupava il centro dell'esercito. La coorte cilicia, unita alle coorti snole che, come dicemmo, furono condotte da Afranio, era stata collocata all'ala destra. Pompeo pensava che queste fossero le coorti più forti. Aveva collocate le altre fra il centro e le ali e aveva completato l'effettivo con centodieci coorti. ½ erano quarantacinquemila uomini; dei veterani richiamati ve ne erano circa duemila che, esonerati dai lavori pesanti, avevano fatto parte dei precedenti eserciti e ora si erano uniti a lui. Pompeo li aveva distribuiti in tutto l'esercito. Aveva dislocato come presidio nel campo e nei vicini fortilizi le rimanenti sette coorti. Un corso d'acqua dalle rive impraticabili difendeva la sua ala destra; per questo motivo aveva collocato tutta la cavalleria, tutti gli arcieri e i frombolieri sull'ala sinistra.
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Cesare, mantenendo l'ordine di battaglia del passato, aveva disposto la decima legione sull'ala destra, la nona sulla sinistra, sebbene fosse stata molto ridotta nelle battaglie di Durazzo; e così a questa aggiunse la legione ottava, facendone appena una di due; e aveva dato l'ordine che l'una fosse di sostegno all'altra. Aveva schierate in linea di battaglia ottanta coorti, il cui contingente era di ventiduemila uomini; aveva lasciato di presidio nel campo sette coorti. Aveva preposto all'ala sinistra Antonio, alla destra P. Silla, al centro Cn. Domizio. Egli stesso si pose di fronte a Pompeo. Non appena si rese conto della tattica bellica nemica che abbiamo detto, temendo che l'ala destra venisse circondata dalla moltitudine dei cavalieri, velocemente levò dalla terza schiera una comnia per legione e con queste formò una quarta fila che oppose alla cavalleria e indicò che cosa voleva che si facesse: avvertì che la vittoria di quel giorno dipendeva dal valore di quelle coorti. Contemporaneamente ordinò alla terza fila [e a tutto l'esercito] di non andare all'assalto senza il suo comando: quando avesse voluto l'assalto, avrebbe dato il segnale col vessillo.
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Esortato l'esercito alla battaglia secondo il costume militare e messi in evidenza i propri meriti verso l'esercito in ogni tempo, principalmente rammentò che poteva provare con la testimonianza dei soldati con quanto zelo aveva cercato la pace, quali trattative aveva condotto per mezzo di Vatinio negli abboccamenti, quali per mezzo di Aulo Claudio con Scipione, in che modo si fosse adoperato con Libone presso Orico perché si mandassero ambasciatori. Egli non aveva mai abusato del sangue dei soldati né aveva voluto privare la repubblica dell'uno o dell'altro esercito. Tenuto questo discorso, poiché i soldati lo richiedevano e ardevano dalla brama di combattere, diede con la tromba il segnale.
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Nell'esercito di Cesare vi era un veterano richiamato, Crastino, che nell'anno precedente sotto di lui aveva guidato la prima centuria della decima legione, uomo di singolare valore. Costui, dato il segnale, disse: 'Seguitemi voi che foste del mio manipolo e servite il vostro comandante, come avete promesso. Rimane questa sola battaglia; al suo termine Cesare riavrà la sua dignità e noi la nostra libertà'. Contemporaneamente, volgendo lo sguardo a Cesare, disse: 'Oggi, o comandante, farò in modo che tu abbia a ringraziare me, o vivo o morto'. Dopo avere detto queste parole, per primo corse all'attacco dall'ala destra e circa centoventi soldati volontari scelti [della medesima centuria] lo seguirono.
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Tra le due schiere vi era rimasto solo lo spazio che bastava ai due eserciti per venire all'attacco. Ma Pompeo aveva precedentemente detto ai suoi di aspettare l'assalto di Cesare e di non muoversi dalla posizione e di lasciare che l'esercito di Cesare si scominasse. Si diceva che, per consiglio di C. Triario, avesse dato questo ordine di modo che la forza dei soldati si infrangesse nel primo attacco e la schiera si fiaccasse, sicché i soldati pompeiani, collocati nelle proprie file, avrebbero potuto assalire i nemici dispersi. Sperava che, trattenendo sulle loro posizioni i soldati, i giavellotti sarebbero caduti con danno minore di quello subito andando incontro ai proiettili scagliati; nello stesso tempo sperava che i soldati di Cesare venissero fiaccati dalla distanza doppia che dovevano coprire di corsa. Ma invero ci sembra che Pompeo abbia fatto ciò senza nessuna ragione, poiché per natura sono innati in tutti l'entusiasmo e l'esuberanza che vengono accesi dal desiderio di battaglia. I comandanti non devono reprimerli, ma potenziarli; e non invano nell'antichità si stabilì che le trombe squillassero da ogni parte e tutti quanti levassero grida; si pensò di atterrire con questi mezzi i nemici e di incitare i propri soldati.
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Ma, dato il segnale di attacco, i nostri soldati, avanzati di corsa con i giavellotti contro i nemici e accortisi che i Pompeiani non andavano all'assalto, pratici per esperienza e ammaestrati in battaglie precedenti, spontaneamente rallentarono e si fermarono quasi a metà distanza per non avvicinarsi stremati e, dopo un breve intervallo di tempo, ripresa nuovamente la corsa, lanciarono i giavellotti e rapidamente, come era stato ordinato da Cesare, misero mano alle spade. Invero i Pompeiani non vennero meno al loro dovere. Infatti sostennero il lancio dei giavellotti e l'assalto dei legionari; conservarono le file e dopo avere lanciato i giavellotti ricorsero alle spade. Nello stesso tempo, come era stato ordinato, tutti i cavalieri dal lato sinistro di Pompeo si lanciarono all'assalto e si riversò tutta la moltitudine degli arcieri. La nostra cavalleria non sopportò il loro assalto, ma, respinta dalle sue posizioni, indietreggiò un poco e i cavalieri di Pompeo cominciarono, perciò, a incalzare con più accanimento, a disporsi a squadroni e ad aggirare dal lato scoperto il nostro schieramento. Quando Cesare si accorse di ciò, diede il segnale di combattimento alla quarta fila che aveva formata con sei coorti. Quelle coorti si lanciarono con prontezza e, in schieramento di assalto, con tanta irruenza assalirono i cavalieri di Pompeo che nessuno di loro resistette e tutti, fatto 'dietro front', non solo si allontanarono dalla posizione, ma subito fuggirono, dirigendosi verso i monti più alti. Respinti questi, tutti gli arcieri e i frombolieri, abbandonati senza protezione e senza armi, vennero uccisi. Col medesimo impeto le coorti aggirarono il lato sinistro, mentre i Pompeiani ancora combattevano e resistevano nel loro schieramento iniziale, e li attaccarono alle spalle.
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Nel medesimo tempo Cesare ordinò di avanzare alla terza fila che fino a quel momento era rimasta in riposo e ferma nella sua posizione. E così ricevendo i soldati sfiniti il cambio di forze fresche e riposate, mentre gli altri assalivano alle spalle, i Pompeiani non furono in grado di reggere e si diedero tutti alla fuga. Cesare invero non si era ingannato nel pensare che il principio della vittoria dipendeva da quelle coorti che erano state dislocate nella quarta fila contro la cavalleria, come egli stesso aveva affermato nell'esortare i soldati. Da queste coorti infatti dapprima fu sbaragliata la cavalleria, dalle medesime furono annientati arcieri e frombolieri, dalle medesime fu circondata la schiera pompeiana dal lato sinistro e fu provocato l'inizio della fuga nemica. Ma Pompeo, quando vide la propria cavalleria respinta e si accorse che era in preda al terrore quella parte dell'esercito su cui sopra tutto confidava, e, non avendo inoltre fiducia negli altri, si allontanò dal campo di battaglia e subito si diresse a cavallo nell'accampamento e a quei centurioni che aveva posto di guardia presso la porta pretoria disse a voce alta perché i soldati lo udissero: 'Proteggete l'accampamento e difendetelo con zelo, se le cose dovessero volgere al peggio. Io faccio il giro delle altre porte per rassicurare i presidi dell'accampamento'. Dopo avere detto queste parole, se ne andò nella tenda pretoria, persa la fiducia nell'esito finale, ma tuttavia aspettando gli eventi.
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Cesare, respinti dentro il vallo i Pompeiani in fuga, stimando non opportuno lasciare tregua ad essi in preda al terrore, esortò i soldati a sfruttare il favore della Fortuna, assalendo l'accampamento. Ed essi, sebbene affaticati dal grande caldo (infatti la battaglia si era protratta fino a mezzogiorno), tuttavia disposti a ogni fatica obbedirono al comando. L'accampamento era difeso con zelo dalle coorti che qui erano state lasciate di presidio, ma molto più strenuamente dai Traci e dalle truppe ausiliarie barbare. Infatti i soldati che, provenienti dalla battaglia, qui si erano rifugiati, atterriti e sfiniti dalla stanchezza, per lo più senza armi e insegne militari, pensavano più a riprendere la fuga che a difendere il campo. E anche quelli che si erano fermati dentro il vallo non furono in grado di sostenere troppo a lungo la fitta pioggia di dardi, ma prostrati dalle ferite abbandonarono la posizione e tutti subito, con a capo centurioni e tribuni militari, si rifugiarono sulle vette dei monti vicini all'accampamento.
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Nell'accampamento di Pompeo si poterono vedere pergolati di frasche, una grande quantità di argenteria esibita, tende pavimentate con zolle di erba fresca, le tende di Lucio Lentulo e di alcuni altri coperte di edera e inoltre altre cose che testimoniavano un lusso eccessivo e la fiducia nella vittoria, così che facilmente si poteva pensare che i nemici, che cercavano piaceri non necessari, non avevano avuto alcun timore per l'esito di quella giornata. Eppure costoro criticavano il lusso dell'esercito di Cesare, quanto mai povero e paziente, cui erano sempre mancate tutte le cose di prima necessità. Pompeo, quando ormai i nostri erano all'interno del vallo, trovato un cavallo, gettate le insegne di comandante, se ne andò rapidamente dal campo per la porta decumana e si diresse subito a spron battuto verso Larissa. Né qui si fermò, ma, imbattutosi in alcuni dei suoi in fuga, con la medesima velocità, senza fermarsi neppure di notte, accomnato da trenta cavalieri giunse al mare e si imbarcò su una nave frumentaria, spesso lamentandosi, come si diceva, di essersi tanto ingannato sì da sembrare quasi tradito, poiché a iniziare la fuga erano stati proprio quegli uomini dai quali aveva sperato la vittoria.
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Cesare, impadronitosi del campo, chiese insistentemente ai soldati, occupati a fare bottino, di non sprecare l'occasione per condurre a termine il resto dell'impresa. Ottenuto ciò, cominciò a fare lavori di fortificazione intorno al monte. I Pompeiani, poiché il monte era senza acqua, non si fidarono a rimanere in quella posizione e, lasciato il monte, tutti insieme cominciarono a dirigersi attraverso le giogaie verso Larissa. Accortosi di ciò, Cesare divise le sue truppe e ordinò a una parte delle legioni di rimanere nel campo di Pompeo, ne rimandò una parte nel proprio accampamento, condusse quattro legioni con sé e per una strada più comoda iniziò a marciare per sbarrare la strada ai Pompeiani. Avanzato seimila passi, schierò le truppe a battaglia. Visto ciò, i Pompeiani si fermarono su un monte, ai piedi del quale scorreva un fiume. Cesare rivolse parole di incoraggiamento ai soldati e, sebbene fossero sfiniti dalla fatica continua di tutta la giornata e ormai si avvicinasse la notte, tuttavia fece isolare con una fortificazione il fiume dal monte perché di notte i Pompeiani non potessero rifornirsi di acqua. Compiuta questa operazione, i Pompeiani cominciarono a trattare la resa mandando ambasciatori. Alcuni esponenti dell'ordine senatorio, che si erano uniti ai Pompeiani, di notte cercarono salvezza nella fuga.
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Cesare all'alba ordinò a tutti coloro che si erano fermati sul monte di scendere in pianura dalle alture e consegnare le armi. Eseguirono l'ordine senza fare opposizione e gettatisi a terra con le mani tese, in lacrime, chiesero a Cesare salva la vita. Cesare, dopo averli consolati, ordinò loro di alzarsi e rivolte loro poche parole in merito alla sua clemenza, perché avessero meno timore, fece a tutti grazia della vita e diede ordine ai suoi soldati di non fare violenza a nessuno di essi e di non portare via nulla di loro appartenenza. Date scrupolosamente queste disposizioni, ordinò alle altre legioni di raggiungerlo dall'accampamento e a quelle che aveva condotto con sé di fare ritorno nel campo per riposarsi a loro volta; il medesimo giorno giunse a Larissa.
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In quella battaglia Cesare non lamentò la perdita di più di duecento soldati, ma perse circa trenta centurioni, uomini valorosi. Mentre combatteva valorosamente fu ucciso anche Crastino, che sopra abbiamo ricordato, colpito in pieno viso da un colpo di spada. E non aveva detto il falso andando in battaglia. Cesare infatti pensava che in quella battaglia il valore di Crastino fosse stato straordinario e riteneva di dovergli, per i suoi meriti, una grandissima riconoscenza. Sembrava che l'esercito pompeiano avesse contato circa quindicimila caduti, ma si arresero in più di ventiquattromila (infatti anche le coorti che erano di guardia nei fortilizi si consegnarono a Silla), inoltre molti trovarono rifugio nelle città vicine; dalla battaglia furono portate a Cesare centottanta insegne militari e nove aquile. L. Domizio fu ucciso dai cavalieri mentre fuggiva dall'accampamento verso il monte, quando ormai le forze gli erano venute meno per la stanchezza.
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Nel medesimo tempo D. Lelio giunse con la flotta a Brindisi e nel medesimo modo in cui, come prima dicemmo, operò Libone, occupò l'isola che fronteggia il porto di Brindisi. Similmente Vatinio, che era al comando di Brindisi, con imbarcazioni coperte e fornite di opportuno equigiamento attirò le navi di Lelio e catturò, all'imboccatura del porto, una quinquereme che si era spinta troppo lontano e due navi minori, e parimenti, con reparti di cavalleria opportunamente disposti, cominciò a impedire ai marinai l'approvvigionamento d'acqua. Ma Lelio, approfittando della stagione abbastanza favorevole alla navigazione, con navi da carico portava ai suoi acqua da Corcira e da Durazzo e non veniva distolto dal suo progetto e, prima di avere avuto notizia della battaglia combattuta in Tessaglia, né l'ignominiosa perdita delle navi, né la mancanza di ogni cosa necessaria poterono cacciarlo dal porto e dall'isola.
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Quasi nel medesimo tempo Cassio con una flotta di navi siriache, fenicie e cilicie venne in Sicilia e, dal momento che la flotta di Cesare era divisa in due parti, una sotto il comando del pretore P. Sulpicio presso Vibona, l'altra sotto il comando di M. Pomponio presso Messina, egli si diresse con le sue navi a volo su Messina prima che Pomponio avesse sentore del suo arrivo. Trovatolo in preda a confusione, senza alcuna sorveglianza e con le navi non schierate, approfittando di un vento forte e favorevole, scagliò sulla flotta di Pomponio navi onerarie riempite di fiaccole, pece, stoppa e altro materiale incendiario e bruciò tutte le navi, in tutto trentacinque, di cui venti coperte. Da tale avvenimento derivò un timore tanto grande che, sebbene vi fosse a Messina una legione di presidio, a stento la città fu difesa e, se nel medesimo tempo non fossero giunte, tramite cavalieri che facevano regolare servizio di informazione, notizie della vittoria di Cesare, i più ritenevano che la città sarebbe stata perduta. Ma la città poté essere difesa grazie all'opportuno arrivo delle notizie e quindi Cassio puntò sulla flotta di Sulpicio a Vibona. Poiché i nostri avevano messo in secco circa quaranta navi per il medesimo timore, i Pompeiani ricorsero alla tattica di prima. Cassio, approfittando del vento favorevole spinse navi da carico allestite per provocare un incendio; e il fuoco appiccato da un'estremità e dall'altra fece incendiare cinque navi. E poiché il fuoco per la violenza del vento si estendeva su di un fronte troppo vasto, i soldati delle vecchie legioni che, essendo malati, erano stati lasciati di presidio alle navi, non sopportarono la vergogna; spontaneamente si imbarcarono, salparono, assalirono la flotta di Cassio e catturarono due quinqueremi su una delle quali era Cassio. Ma Cassio fuggì raccolto da una imbarcazione. Furono inoltre prese due triremi. Non molto tempo dopo si venne a sapere della battaglia avvenuta in Tessaglia così che la cosa risultò certa agli stessi Pompeiani; infatti prima di allora si pensava che fossero tutte invenzioni di ambasciatori e di amici di Cesare. Venuto a conoscenza del fatto, Cassio si allontanò con la flotta da quei luoghi.
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Cesare, abbandonate tutte le altre cose,
giudicò di dovere inseguire Pompeo in qualunque posto si rifugiasse
fuggendo, in modo che non potesse radunare di nuovo altre truppe e riaprire le
ostilità. E ogni giorno avanzava di tanto quanto era possibile con la cavalleria
e aveva dato ordine a una legione di tenere dietro a tappe più brevi. Ad
Anfipoli era stato emanato un editto in nome di Pompeo secondo cui tutti i
giovani di quella provincia, Greci e cittadini romani, dovevano riunirsi per
prestare giuramento militare. Ma non si poteva capire se Pompeo avesse emanato
quell'editto per allontanare i sospetti in modo da nascondere il più a
lungo possibile il proposito di fuga in zone più lontane o per tentare,
con nuove leve, di conservare
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Pompeo, venuto a conoscenza di questi
fatti, abbandonato il piano di raggiungere
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Allora, venuti a conoscenza di queste cose, gli amici del re che per la giovane età del fanciullo avevano la reggenza del regno, sia perché spinti dal timore, come poi andavano dicendo, che Pompeo, sobillato l'esercito regio, occupasse Alessandria e l'Egitto, sia per disprezzo della sorte di Pompeo, infatti in genere nella disgrazia gli amici diventano nemici, risposero ai messi inviati da Pompeo con apparente cortesia, invitandolo a venire dal re. Ma, tenuto un consiglio segreto, inviarono Achilla, prefetto regio, uomo di singolare audacia, e L. Settimio, tribuno militare, a ucciderlo. Pompeo, avvicinato in modo cortese da costoro e incoraggiato da un certo rapporto di confidenza con Settimio, poiché durante la guerra piratica costui aveva guidato un reparto del suo esercito, salì con pochi dei suoi su una piccola nave; qui viene ucciso da Achilla e da Settimio. Parimenti L. Lentulo viene fatto catturare dal re e ucciso in carcere.
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Cesare, giunto in Asia, scopriva che Tito Ampio aveva tentato di portare via il tesoro dal tempio di Diana a Efeso e che per questo motivo aveva chiamato tutti i senatori dalla provincia per averli a testimoni sulla somma di denaro, ma che era fuggito perché disturbato dall'arrivo di Cesare. E così in due momenti diversi Cesare venne in soccorso del tesoro di Efeso Parimenti, calcolando i giorni a ritroso, si era notato che nel giorno in cui Cesare aveva vinto, nel tempio di Minerva a Elide, una statua della Vittoria, posta proprio davanti a quella di Minerva e rivolta fino a quel momento verso di essa, si era girata verso le porte e la soglia del tempio. Nel medesimo giorno ad Antiochia, in Siria, due volte si udì il clamore dell'esercito e un suono di trombe tanto forte da fare accorrere da ogni parte i cittadini armati sulle mura. La stessa cosa avvenne a Tolemaide. A Pergamo, nei recessi e nelle zone segrete del tempio, dove non è lecito l'accesso tranne che ai sacerdoti, e che i Greci chiamano adyta, risuonarono i timpani. Similmente a Tralli, nel tempio della Vittoria, dove avevano consacrato una statua di Cesare, veniva mostrata una palma spuntata in quei giorni dal pavimento fra le giunture delle pietre.
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Cesare, trattenutosi pochi giorni in Asia, avendo udito che Pompeo era stato visto a Cipro, congetturando che si dirigesse in Egitto, date le sue relazioni con questo regno e per le comodità che esso offriva, con una legione alla quale aveva dato ordine di seguirlo dalla Tessaglia, e con un'altra che aveva fatto condurre dall'Acaia dal luogotenente Q. Fufio, con ottocento cavalieri e con dieci navi da guerra di Rodi e poche altre dell'Asia, giunse ad Alessandria. Queste legioni erano formate da tremiladuecento soldati; gli altri, fiaccati dalle ferite sofferte nelle battaglie e dalla fatica e dalla lunghezza del viaggio, non poterono seguirlo. Ma Cesare, confidando nella fama delle imprese compiute, non aveva esitato a partire sia pure con poche forze, giudicando che ogni luogo sarebbe risultato ugualmente sicuro. Ad Alessandria venne a sapere della morte di Pompeo e qui, appena sceso dalla nave, udì le grida dei soldati che il re aveva lasciato di presidio nella città, e vide che una moltitudine di gente gli veniva incontro ostilmente, poiché i fasci lo precedevano. Tutta la gente andava dicendo che la regia maestà veniva lesa da tale fatto. Sedato questo tumulto, nei giorni seguenti vi furono numerose sedizioni originate da assembramenti di persone e parecchi soldati furono uccisi per le strade, in ogni parte della città.
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In considerazione di questi fatti, Cesare diede ordine che venissero trasferite dall'Asia altre legioni, che egli aveva formato con soldati pompeiani. Egli stesso infatti era trattenuto forzatamente dai venti etesii, che soffiano contrari per chi salpa da Alessandria. Frattanto, giudicando che era di pertinenza del popolo romano e sua, in quanto console, dirimere le controversie fra Tolomeo e sua sorella e che tanto più la cosa lo riguardava poiché nel precedente consolato aveva fatto, per legge e per decreto del senato, un'alleanza con Tolomeo padre, fece sapere che era di suo gradimento che il re Tolomeo e sua sorella Cleopatra sciogliessero gli eserciti che avevano e ponessero fine alle dispute davanti a lui, secondo le vie legali, piuttosto che tra loro con le armi.
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A causa della giovane età del fanciullo un eunuco di nome Potino, suo pedagogo, era reggente del regno. Egli, in un primo momento, cominciò a lamentarsi fra i suoi e a provare indignazione che un re fosse chiamato a difendersi; successivamente, trovati fra gli amici del re alcuni pronti ad aiutarlo nei suoi piani, fece venire di nascosto da Pelusio ad Alessandria l'esercito e mise a capo di tutte le milizie lo stesso Achilla di cui abbiamo fatto cenno. Lo istigò e inorgoglì con promesse sue e del re e gli fece sapere il suo piano per mezzo di lettere e ambasciatori. Nel testamento di Tolomeo padre erano stati indicati come eredi il maggiore dei due li e la più anziana delle due lie. Nel medesimo testamento, in nome degli dei e dei patti stipulati con Roma, Tolomeo chiamava a testimone il popolo romano perché venissero rispettate queste disposizioni. Una copia del testamento era stata portata a Roma per mezzo di suoi ambasciatori perché venisse depositata nell'erario (questa copia non poté essere depositata nell'erario a causa dei rivolgimenti politici e rimase presso Pompeo), una seconda copia uguale era stata lasciata ad Alessandria e, siglata col sigillo, era stata pubblicata.
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Mentre davanti a Cesare vengono trattate tali questioni, poiché egli vuole sopra tutto, in qualità di arbitro e amico comune, dirimere le controversie dei sovrani, all'improvviso giunge la notizia che l'esercito regio e tutta la cavalleria si dirigono su Alessandria. Le milizie di Cesare non erano affatto tali per numero che si potesse contare su di esse nel caso si fosse dovuto combattere fuori della città. Non gli rimaneva che restare sulle sue posizioni nella città e tentare di conoscere il piano di Achilla. Tuttavia diede ordine ai soldati di stare in armi ed esortò il re a inviare ad Achilla ambasciatori scelti fra le persone più autorevoli tra i suoi familiari e a manifestargli il proprio volere. Dal re furono inviati Dioscoride e Serapione, che erano stati entrambi ambasciatori a Roma e avevano avuto grande autorità presso Tolomeo padre. Giunsero presso Achilla ed egli, quando arrivarono al suo cospetto, prima di ascoltarli e di conoscere per quale motivo fossero stati inviati, ordinò di catturarli e ucciderli. Uno di essi fu ferito e, preso dai suoi, fu portato via come se fosse morto, l'altro fu ucciso. Dopo questi fatti, Cesare fece in modo di avere in suo potere il re, ritenendo che il nome del re avesse grande autorità presso i sudditi, perché sembrasse che la guerra era stata intrapresa non per iniziativa del re, ma per decisione di pochi cittadini privati, per giunta avventurieri.
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Le truppe che erano con Achilla erano tali da non apparire disprezzabili né per numero né per qualità né per esperienza militare. Aveva infatti in armi ventimila uomini. Queste truppe erano formate con soldati di Gabinio, ormai avvezzi alla vita licenziosa di Alessandria e dimentichi del nome e della disciplina del popolo romano, che colà avevano preso moglie e la maggior parte dei quali aveva avuto li. A questi si aggiungevano ladroni e assassini raccolti in Siria, nella provincia della Cilicia e nelle regioni vicine. Si erano inoltre radunati e arruolati molti condannati a morte ed esuli. Per tutti i nostri schiavi fuggitivi Alessandria rappresentava un sicuro rifugio e una sicura condizione di vita purché si arruolassero nell'esercito. Se qualcuno di essi veniva ripreso dal suo padrone, i soldati, per accordo unanime, glielo portavano via, poiché essi stessi, dal momento che erano nella stessa situazione di colpa, difendevano i loro comni dalla violenza come se fosse un pericolo loro. Costoro, secondo una vecchia consuetudine dell'esercito alessandrino, erano soliti chiedere la morte degli amici del re, saccheggiare i beni dei ricchi, assediare la casa del re per avere un aumento di stipendio, scacciare alcuni dal regno, chiamarvi altri. ½ erano inoltre duemila cavalieri. Tutti costoro erano diventati veterani attraverso le numerose guerre di Alessandria, avevano rimesso sul trono Tolomeo padre, avevano ucciso i due li di Bibulo, avevano condotto guerre contro gli Egiziani. Da ciò derivava la loro esperienza militare.
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Confidando su tali milizie e disprezzando l'esiguo numero dei soldati di Cesare, Achilla occupava Alessandria, tranne quella parte della città che era in mano a Cesare a ai suoi soldati. Con un primo assalto tentò di fare irruzione nella casa di Cesare, ma questi sostenne il suo attacco grazie a delle coorti disposte lungo le vie. E nel medesimo tempo si combatté presso il porto e questo fu il combattimento di gran lunga più pesante. Contemporaneamente, divisesi le forze in drappelli, si combatteva anche in parecchie vie e i nemici con un gran numero di soldati tentavano di impadronirsi delle navi da guerra. Fra queste ve ne erano cinquanta mandate in aiuto a Pompeo, che, terminata la guerra in Tessaglia, erano tornate a casa, tutte quadriremi e quinqueremi allestite e completamente equigiate per la navigazione; oltre a queste ve ne erano ventidue, tutte coperte, che erano solite stare di presidio ad Alessandria. Se i nemici se ne fossero impadroniti, una volta sottratta a Cesare la flotta, sarebbero stati padroni del porto e di tutto il mare e avrebbero impedito a Cesare i vettovagliamenti e l'arrivo di aiuti. E così si combatté con tanto accanimento quanto era dovuto, vedendo nella lotta gli uni una veloce vittoria, gli altri la chiave della loro salvezza. Ma Cesare ebbe la meglio e incendiò tutte quelle navi e le rimanenti che erano nei bacini, poiché con poche truppe non era possibile la difesa di uno spazio così ampio, e subito sbarcò i soldati presso Faro.
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Il Faro è sull'isola una torre di grande altezza, di mirabile costruzione; essa trae il proprio nome dall'isola. Quest'isola, posta di fronte ad Alessandria, ne crea il porto; ma i primi re gettarono in mare un molo lungo novecento passi che, con un angusto passaggio, la unisce quasi come un ponte, alla città. In quest'isola vi sono abitazioni di Egiziani e un quartiere grande come una città; e qualunque nave, ovunque, per inesperienza o per burrasca si allontana un poco dalla rotta, viene di solito depredata piratescamente. Inoltre nessuna nave può entrare in porto, a causa della stretta imboccatura, contro la volontà degli occupanti di Faro. E Cesare, temendo ciò, mentre i nemici erano impegnati nella battaglia, fatti sbarcare i soldati, si impossessò di Faro e vi pose un presidio. E per conseguenza di ciò si garantì in sicurezza l'afflusso per mare di frumento e rinforzi. Mandò infatti richieste di aiuto attorno, per tutte le province vicine. Nelle altre parti della città si combatté in modo che ci si ritirò alla pari e nessuno dei due contendenti fu ricacciato (causa di ciò fu l'angustia del luogo); pochi uomini furono uccisi da entrambe le parti; Cesare si impadronì dei punti strategici e di notte li fortificò. In quella zona della città vi era una piccola parte della reggia, che egli aveva subito occupato per abitarvi, e il teatro, collegato alla reggia, che fungeva da rocca e aveva un accesso al porto e ai cantieri navali del re. Nei giorni successivi potenziò queste fortificazioni, perché, avendole di fronte, gli servissero da mura e non fosse costretto a combattere contro la sua volontà. Frattanto la lia minore del re Tolomeo, nella speranza del possesso del regno vacante, lasciò la reggia rifugiandosi da Achilla e incominciò a dirigere la guerra insieme a lui. Ma in breve tempo sorse tra loro una contesa sul potere supremo e ciò fece sì che le elargizioni ai soldati fossero aumentate; ciascuno cercava infatti di conquistarsi il loro favore con grandi profusioni di denaro. Mentre presso i nemici accadeva ciò, Potino [tutore del fanciullo e reggente del regno, che si trovava nel quartiere occupato da Cesare] mandava ambasciatori ad Achilla esortandolo a non desistere dall'impresa e a non perdersi d'animo; i suoi messaggeri furono denunziati e catturati ed egli fu ucciso. [Questi furono gli inizi della guerra alessandrina].
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