Libro I
Erodoto di Alicarnasso
espone qui il risultato delle sue ricerche storiche; lo scopo è di
impedire che avvenimenti determinati dall'azione degli uomini finiscano per
sbiadire col tempo, di impedire che perdano la dovuta risonanza imprese grandi
e degne di ammirazione realizzate dai Greci come dai barbari; fra l'altro anche
la ragione per cui vennero a guerra tra loro. I dotti persiani affermano che i
responsabili della rivalità furono i Fenici. Costoro giunsero in queste
nostre acque provenienti dal mare detto Eritreo; insediatisi nella regione che
abitano tuttoggi, subito, con lunghi viaggi di navigazione, presero a fare
commercio in vari paesi di prodotti egiziani ed assiri, e si spinsero fino ad
Argo. A quell'epoca Argo era da ogni punto di vista la città più
importante fra quante sorgevano nel territorio oggi chiamato Grecia. I Fenici
arrivarono ad Argo e vi misero in vendita le loro mercanzie. Quattro o cinque
giorni dopo il loro arrivo, ormai quasi esaurite le merci, scesero sulla riva
del mare diverse donne, tra le quali si trovava la lia del re Inaco: si
chiamava Io, anche i Greci concordano su questo punto. Secondo i dotti
persiani, mentre le donne si trattenevano accanto alla poppa della nave, per
acquistare i prodotti che più desideravano, i marinai si incoraggiarono
a vicenda e si avventarono su di loro: molte riuscirono a fuggire, ma non Io,
che fu catturata insieme con altre; risaliti sulle navi, i Fenici si
allontanarono, facendo rotta verso l'Egitto. Secondo i Persiani Io giunse in Egitto
così e non come narrano i Greci; e questo episodio avrebbe segnato
l'inizio dei misfatti. In seguito alcuni Greci (essi non sono in grado di
precisarne la provenienza), spintisi fino a Tiro, in Fenicia, vi rapirono la
lia del re, Europa; è possibile che costoro fossero di Creta. E fino
a qui la situazione era in perfetta parità, ma poi i Greci si resero
responsabili di una seconda colpa: navigarono con una lunga nave fino ad Ea e
alle rive del fiume Fasi, nella Colchide, e là, compiuta la missione per
cui erano venuti, rapirono Medea, la lia del re dei Colchi; questi
mandò in Grecia un araldo a reclamare la restituzione della lia e a
chiedere giustizia del rapimento, ma i Greci risposero che i barbari non
avevano dato soddisfazione del ratto dell'argiva Io e che quindi per parte loro
avrebbero fatto altrettanto. Narrano che nella generazione successiva
Alessandro, lio di Priamo, a conoscenza di quei fatti, volle procurarsi
moglie in Grecia per mezzo di un rapimento; era assolutamente convinto che non
ne avrebbe mai dovuto rendere conto ai Greci perché questi in precedenza non lo
avevano fatto nei confronti dei barbari. E così, quando ebbe rapito
Elena, i Greci decisero per prima cosa di inviare messaggeri a chiedere la sua
restituzione e a pretendere giustizia del rapimento; di fronte a tale istanza i
barbari rinfacciarono loro il ratto di Medea: non era accettabile che proprio i
Greci, rei di non avere ato il proprio delitto e di non avere provveduto a
nessuna restituzione malgrado le richieste, pretendessero ora di ottenere
giustizia dagli altri. Comunque, fino a quel momento, fra Greci e barbari non
c'era stato altro che una serie di reciproci rapimenti; a partire da allora
invece i maggiori colpevoli sarebbero diventati i Greci: essi infatti
cominciarono a inviare eserciti in Asia prima che i Persiani in Europa. Ora, i
barbari ritengono che rapire donne sia azione da delinquenti, ma che
preoccuparsi di vendicare delitti del genere sia pensiero da dissennati:
l'unico atteggiamento degno di un saggio è non tenere il minimo conto di
donne rapite, perché è evidente che non le si potrebbe rapire se non
fossero consenzienti. Secondo i Persiani gli abitanti dell'Asia non si curano
minimamente delle donne rapite; i Greci invece per una sola donna di Sparta
radunarono un grande esercito, si spinsero fino in Asia e abbatterono la
potenza di Priamo; da allora e per sempre i Persiani avrebbero guardato con
ostilità a tutto ciò che è greco. In effetti essi
considerano loro proprietà l'Asia e le genti barbare che vi abitano e
ben separate, a sé stanti, l'Europa e il mondo greco. Insomma i Persiani
descrivono così la dinamica degli eventi: fanno risalire alla
distruzione di Ilio l'origine dell'odio che nutrono per i Greci. Però, a
proposito di Io, i Fenici non concordano con i Persiani; secondo la loro
versione essi condussero sì Io in Egitto, ma non dopo averla rapita,
bensì perché lei ancora in Argo aveva avuto una relazione con il
timoniere della nave; accortasi di essere rimasta incinta, per la vergogna
aveva preferito partire con i Fenici, per non doverlo confessare ai propri
genitori. Ecco dunque le versioni dei Persiani e dei Fenici; quanto a me,
riguardo a tali fatti, non mi azzardo a dire che sono avvenuti in un modo o in
un altro; io so invece chi fu il primo a rendersi responsabile di ingiustizie
nei confronti dei Greci e quando avrò chiarito di costui
procederò nel racconto. Verrò a parlare di varie città, ma
senza distinguere fra grandi e piccole: il fatto è che alcune erano
importanti nell'antichità e poi, in gran parte, sono decadute, altre,
notevoli ai miei tempi, prima invece erano insignificanti; io, ben consapevole
che la condizione umana non è mai stabile e immutabile, le
ricorderò senza fare distinzioni. Creso era di stirpe lidia e lio di
Aliatte; era re delle popolazioni al di qua di quel fiume Alis che, scorrendo
da sud fra i Siri e i Paflagoni, procede verso settentrione fino al Ponto
Eusino. Creso, per primo fra i barbari di cui abbiamo notizia, sottomise alcune
città greche al amento di un tributo, mentre di altre cercava di
acquistarsi l'amicizia: le vittime furono gli Ioni, gli Eoli e i Dori d'Asia, i
privilegiati furono gli Spartani. Prima del regno di Creso tutti i Greci erano
indipendenti: anche all'epoca dell'invasione della Ionia ad opera di un
esercito di Cimmeri, alquanto prima del regno di Creso, non si erano avute
sottomissioni di città, bensì soltanto scorrerie e saccheggi ai
loro danni. In Lidia il potere apparteneva agli Eraclidi; pervenne alla famiglia
di Creso, ai Mermnadi, come ora vi narro. A Sardi il re era Candaule, dai Greci
chiamato Mirsilo, discendente di un lio di Eracle, Alceo. Il primo dei
discendenti di Eracle a divenire re di Sardi era stato Agrone, che era lio
di Nino il quale a sua volta era lio di Belo e nipote di Alceo; l'ultimo fu
Candaule, lio di Mirso. Quanti avevano regnato sul paese prima di Agrone
erano discendenti di Lido, lio di Atis; da Lido presero nome i Lidi, prima
chiamati Meoni. Gli Eraclidi, progenie di Eracle e di una schiava di Iardano,
ottennero il potere in affidamento dai discendenti di Lido in base a un oracolo
e lo esercitarono per ventidue generazioni, vale a dire per 505 anni,
trasmettendoselo di padre in lio fino a Candaule lio di Mirso. Questo
Candaule era molto innamorato della propria moglie e perciò era convinto
che fosse di gran lunga la più bella donna del mondo. Con una simile
convinzione, poiché era solito confidarsi anche sugli argomenti più
delicati con un certo Gige, una guardia del corpo, suo favorito, lio di
Dascilo, finì in particolare per esaltargli l'aspetto fisico della
moglie. Ma era fatale che a Candaule ne derivasse un grave danno: poco tempo
dopo disse a Gige: 'Gige, ho l'impressione che tu non mi credi quando ti
parlo del corpo di mia moglie; succede certo che gli uomini abbiano le orecchie
più incredule degli occhi, ma allora fai in modo di vederla nuda'.
Ma Gige protestando gli rispose: 'Signore, ma che razza di discorso insano
mi fai? Mi ordini di guardare nuda la mia padrona? Quando una donna si spoglia
dei vestiti si spoglia anche del pudore; i buoni precetti sono ormai un
patrimonio antico dell'umanità e da essi bisogna imparare: uno dice che
si deve guardare solo ciò che ci appartiene. Io crederò che lei è
la più bella donna del mondo e ti prego di non chiedermi
assurdità'. Insomma, rispondendo così, opponeva il suo
rifiuto: temeva che da quella situazione gli potesse derivare qualche guaio. Ma
Candaule insistette: 'Coraggio, Gige, non avere paura di me, come se ti
facessi un simile discorso per metterti alla prova, né di mia moglie, che per
opera sua ti possa accadere qualcosa di male; tanto per cominciare io
studierò la maniera che lei non si accorga di essere osservata da te.
Ecco, ti metterò dietro la porta spalancata della stanza in cui
dormiamo; più tardi, quando io sarò entrato, anche mia moglie
verrà, per mettersi a letto. Vicino alla porta c'è una sedia su
cui lei, spogliandosi, appoggerà le vesti, una per una; e così
potrai guardartela in tutta tranquillità; ma quando lei si
sposterà dalla sedia verso il letto, dandoti la schiena, allora esci
dalla stanza, ma fai attenzione che lei non ti veda'. Non avendo via di
scampo, Gige era pronto a obbedire. Candaule, quando gli parve ora di andare a
dormire, condusse Gige nella sua camera; subito dopo ve anche la moglie:
Gige la osservò mentre entrava e posava i propri vestiti. Appena la
donna si voltò per avvicinarsi al letto, dandogli le spalle, Gige
uscì dal nascondiglio e si allontanò; lei lo scorse mentre
usciva, ma, pur avendo compreso il misfatto del marito, invece di gridare per
la vergogna, finse di non essersi accorta di niente, con l'intenzione
però di vendicarsi di Candaule. Bisogna sapere che presso i Lidi, come
presso quasi tutti gli altri barbari, è grande motivo di vergogna
persino che sia visto nudo un uomo. Sul momento non lasciò trasparire
nulla e rimase tranquilla; ma non appena fu giorno diede istruzioni ai servi
che vedeva a sé più fedeli e mandò a chiamare Gige. Gige credeva
che lei ignorasse l'accaduto e si presentò subito: era abituato anche
prima ad accorrere ogni volta che la regina lo chiamava. Quando lo ebbe
davanti, la donna gli disse: 'Ora tu, caro Gige, hai di fronte a te due
strade e io ti concedo di scegliere quale preferisci percorrere: o uccidi Candaule
e ottieni me e il regno dei Lidi, oppure è necessario che tu muoia
subito, così non sarai più costretto a vedere ciò che non
devi per obbedire a tutti gli ordini del tuo padrone. Non ci sono alternative:
o muore il responsabile di tutte queste macchinazioni o muori tu che mi hai
vista nuda e che hai compiuto azioni così poco lecite'. Gige
dapprima rimase sbalordito dalle parole della regina, poi supplicò per
un po' di non costringerlo a compiere una simile scelta; ma non riuscì a
persuaderla, anzi si rese conto senza più dubbi di trovarsi di fronte
all'ineluttabile: uccidere il proprio padrone o venire ucciso lui stesso da
altri, e scelse la propria salvezza. Rivolgendosi alla donna le chiese:
'Poiché mi costringi a uccidere il mio padrone contro la mia
volontà, voglio almeno sapere in che modo lo aggrediremo'. E lei
gli rispose: 'L'aggressione avverrà esattamente dallo stesso luogo
dal quale lui mi ha mostrata nuda e il colpo si farà mentre dorme'.
Studiarono i particolari del piano e appena scese la notte Gige seguì la
donna nella camera da letto: gli era stato impedito di allontanarsi e non aveva
nessuna possibilità di sottrarsi a quel compito: era inevitabile la
morte sua o di Candaule. La regina lo nascose dietro la stessa porta dopo
avergli consegnato un pugnale. Più tardi, quando Candaule si
addormentò, Gige uscì dal suo nascondiglio, lo uccise ed ebbe
così insieme la donna e il regno. Archiloco di Paro, vissuto nella
stessa epoca, menzionò Gige in un suo trimetro giambico. Ottenne il
regno e vide consolidato il suo potere grazie all'oracolo di Delfi, perché
quando già i Lidi, considerando la gravità dell'assassinio di
Candaule, erano in armi, i partigiani di Gige e gli altri Lidi vennero a un
accordo: se l'oracolo lo avesse designato re dei Lidi, allora Gige avrebbe
regnato, in caso contrario avrebbe restituito il potere agli Eraclidi.
L'oracolo gli fu favorevole e così Gige fu re. La Pizia vaticinò
che gli Eraclidi si sarebbero rivalsi sul quinto discendente di Gige, ma di
questa profezia i Lidi e i loro sovrani non si curarono più fino a
quando non si compì. Ecco insomma come i Mermnadi avevano conquistato il
potere, sottraendolo agli Eraclidi. Gige, quando fu re, inviò rilevanti
offerte a Delfi, in pratica la maggior parte di tutte le offerte in argento che
vi si trovano; e oltre all'argento dedicò anche oro in grande
quantità, fra cui è degna di menzione una serie di sei crateri
d'oro: oggi si trovano nel tesoro dei Corinzi e raggiungono un peso di trenta
talenti. Però a dire il vero il tesoro non appartiene allo stato di
Corinto, bensì a Cipselo lio di Eezione. Gige fu il primo barbaro di
cui abbiamo notizia a inviare offerte a Delfi dopo Mida, lio di Gordio, re
di Frigia. Mida aveva consacrato il trono regale da cui amministrava la giustizia,
un oggetto che merita di essere visto: questo trono si trova dove sono
collocati anche i crateri di Gige. Gli abitanti di Delfi chiamano
'Gigade', dal nome del donatore, l'oro e l'argento offerti da Gige.
Quando ebbe il potere, anch'egli inviò spedizioni militari contro Mileto
e Smirne, ed espugnò la città di Colofone, ma non ci fu nessuna
altra impresa durante i 38 anni del suo regno, e anche di questa basterà
aver fatto menzione. Mi limiterò a menzionare soltanto anche Ardi,
lio di Gige, che regnò dopo il padre: costui espugnò Priene e
organizzò una spedizione contro Mileto; fu durante il suo regno che i
Cimmeri, muovendo dalle loro sedi a causa della pressione di nomadi Sciti, si
spostarono in Asia e occuparono tutta Sardi a eccezione dell'acropoli. Dopo i
49 anni del regno di Ardi sul trono salì suo lio Sadiatte, che
regnò per 12 anni. Il lio di Sadiatte, Aliatte, combatté poi una
guerra contro Ciassare, il discendente di Deioce, e contro i Medi,
scacciò i Cimmeri dall'Asia, prese Smirne, colonia di Colofone e
assalì pure Clazomene: da questo conflitto non uscì proprio come
aveva sperato, anzi con insuccessi non indifferenti. Però mentre fu al
potere realizzò altre imprese degne di essere ricor 17 ·date. Combatté
contro i Milesi una guerra ereditata dal padre, guidando le manovre di offesa e
stringendo l'assedio nella maniera seguente: mandava all'attacco l'esercito
ogni volta che in quella terra i prodotti erano giunti a maturazione; le
operazioni si svolgevano al suono di zampogne, di pettidi e di flauti acuti e
gravi. Quando entrava nei territori di Mileto non abbatteva o incendiava le
case che si trovavano nei campi; non ne forzava neppure le porte, le lasciava
intatte in tutta la contrada; gli alberi e i frutti della terra li faceva distruggere
e poi si ritirava. Il fatto è che i Milesi erano padroni del mare,
sicché non era possibile per un esercito stringerli d'assedio. Il re lidio non
abbatteva le costruzioni affinché i Milesi muovendo da esse potessero coltivare
e lavorare la terra e lui, grazie al lavoro di quelli, avesse qualcosa da
depredare durante le sue incursioni. Con questo sistema la guerra durò
undici anni, durante i quali i Milesi subirono due gravi sconfitte, a Limeneo
nel loro territorio e nella piana del Meandro. Per sei anni su undici a capo
dei Lidi era stato ancora il lio di Ardi Sadiatte: era stato lui a suo tempo
a invadere con le sue truppe il paese di Mileto, ed era stato anche il
responsabile dell'inizio della guerra. Nei successivi cinque anni a combattere
fu Aliatte lio di Sadiatte il quale, come ho già spiegato,
ereditò dal padre il conflitto e lo diresse con particolare energia.
Nessuna popolazione della Ionia aiutò i Milesi a sostenere il peso di
quella guerra tranne i soli abitanti di Chio, che vennero in loro soccorso per
ricambiare un analogo favore: infatti in tempi precedenti Mileto aveva
condiviso con Chio i disagi della guerra contro Eritre. Al dodicesimo anno,
mentre il raccolto veniva dato alle fiamme dall'esercito, si verificò
questo fatto: quando le messi presero a bruciare, il fuoco, spinto dal vento,
raggiunse il tempio di Atena Assesia: il tempio si incendiò e rimase
completamente distrutto dalle fiamme, cosa alla quale sul momento nessuno fece
caso. Ma dopo il ritorno a Sardi dell'esercito, Aliatte si ammalò; e
siccome la malattia non guariva, inviò a Delfi degli incaricati, vuoi
per suggerimento di qualcuno vuoi avendo deciso da solo di interrogare il dio
sulla natura del proprio male. E agli inviati la Pizia rispose che non avrebbe
emesso alcun responso se prima non avessero ricostruito il tempio di Atena che
avevano incendiato ad Asseso nel territorio di Mileto. Io sono a conoscenza di
questi particolari perché mi sono stati raccontati a Delfi, ma i Milesi
aggiungono che Periandro, lio di Cipselo, legato da strettissimi vincoli di
ospitalità con l'allora re di Mileto Trasibulo, quando venne a
conoscenza dell'oracolo dato ad Aliatte, tramite un messaggero lo riferì
a Trasibulo affinché, saputolo prima, potesse regolarsi di conseguenza.
Così andarono le cose secondo il racconto dei Milesi. Quando Aliatte
ricevette il responso, subito inviò a Mileto un araldo, intenzionato a
stipulare una tregua con Trasibulo e con i Milesi per tutto il tempo necessario
alla edificazione del santuario. Così, mentre l'inviato era in viaggio
verso Mileto, Trasibulo, ormai al corrente di ogni cosa e in grado di prevedere
le mosse di Aliatte, preparò la seguente messinscena: fece raccogliere
nella piazza principale tutte quante le riserve alimentari della città,
pubbliche e private, e ordinò ai cittadini di attendere il suo segnale e
poi di abbandonarsi a bevute e a bagordi collettivi. Trasibulo dava queste
disposizioni affinché l'araldo di Sardi tornasse a riferire ad Aliatte di aver
visto grandi cumuli di vivande ammonticchiate e uomini dediti a festeggiamenti.
Come appunto avvenne: l'araldo vide quello spettacolo, riferì a
Trasibulo il messaggio del re lidio e ritornò a Sardi; e, secondo le
informazioni che ho ricevuto, fu proprio quella la causa della ricomposizione
del conflitto. In realtà Aliatte sperava che Mileto fosse ormai in preda
a una dura carestia e la cittadinanza ridotta all'estremo limite di
sopportazione: invece udì dall'araldo ritornato da Mileto esattamente il
contrario di ciò che si aspettava. In seguito stipularono una pace
stringendo fra loro vincoli di ospitalità e di alleanza; Aliatte fece
costruire ad Asseso non uno ma due templi dedicati ad Atena e guarì
della sua malattia. Questo accadde ad Aliatte durante la guerra contro Trasibulo
e Mileto. Periandro, quello che aveva informato Trasibulo del responso, era
lio di Cipselo e signore di Corinto; gli abitanti di Corinto narrano (e i
Lesbi concordano con loro) che durante la sua vita si verificò un evento
portentoso, l'arrivo al Tenaro di Arione di Metimna, in groppa a un delfino.
Arione fu il più grande citaredo dell'epoca, il primo uomo a nostra
conoscenza a comporre un ditirambo, a dargli nome e a farlo eseguire in
Corinto. Ebbene si narra che Arione, il quale trascorreva accanto a Periandro la
maggior parte del suo tempo, aveva provato grande desiderio di compiere un
viaggio per mare fino in Italia e in Sicilia; là si era arricchito, poi
aveva deciso di ritornare a Corinto. Quando dunque si trattò di
ripartire da Taranto, poiché non si fidava di nessuno più che dei
Corinzi, noleggiò una nave di Corinto; ma quando furono in mare aperto
gli uomini dell'equigio tramarono di sbarazzarsi di Arione e di
impossessarsi delle sue ricchezze. Arione se ne accorse e cominciò a supplicarli:
era disposto a cedere i suoi averi, ma chiedeva salva la vita; tuttavia non
riuscì a convincerli, anzi i marinai gli ingiunsero di togliersi la vita
così da ottenere sepoltura nella terra oppure di gettarsi in mare al
più presto. Arione, vistosi ormai senza scampo, chiese il permesso,
poiché avevano deciso così, di cantare in piedi fra i banchi dei
rematori in completa tenuta di scena: promise di togliersi la vita al termine
del canto. I marinai, piacevolmente attirati dall'idea di ascoltare il miglior
cantore del mondo, si ritirarono da poppa verso il centro della nave. Arione
indossò i suoi costumi di scena, prese la cetra ed eseguì un
canto a tono elevato, stando in piedi tra i banchi dei rematori; alla fine del
canto si gettò in mare così com'era, con tutto il costume. Sempre
secondo il racconto i marinai fecero poi rotta verso Corinto mentre Arione fu
raccolto da un delfino e trasportato fino al Tenaro; qui toccò terra e
da qui si diresse verso Corinto, ancora in tenuta di scena; quando vi giunse
narrò tutto l'accaduto a Periandro, il quale, alquanto incredulo, decise
di trattenere Arione sotto sorveglianza e di concentrare la sua attenzione
sull'equigio della nave. Così, quando i marinai furono a
disposizione, li fece chiamare e chiese loro se potevano dargli notizie di
Arione; essi risposero che si trovava vivo e vegeto in Italia, che lo avevano
lasciato a Taranto in piena e felice attività; ma Arione si
mostrò davanti a loro, ancora vestito come quando era saltato dalla
nave, e quelli, sbigottiti e ormai scoperti, non poterono più negare.
Questo raccontano i Corinzi e i Lesbi; inoltre sul Tenaro si trova una statua
votiva di bronzo di Arione, non grande, che rappresenta un uomo in groppa a un
delfino. Aliatte, il re di Lidia che aveva portato a termine la guerra contro
Mileto, morì assai più tardi, dopo 57 anni di regno. Guarito
dalla malattia, aveva consacrato a Delfi, secondo nella sua famiglia, un grande
cratere d'argento e un sottocratere di ferro saldato, oggetto che merita di
essere visto più di tutti gli ex-voto di Delfi; è opera di Glauco
di Chio che fu l'unico artista a scoprire la tecnica di saldatura del ferro.
Alla morte di Aliatte gli succedette nel regno il lio Creso che all'epoca
aveva 35 anni; egli assalì per primi tra i Greci gli Efesini. In quella
circostanza gli Efesini, assediati dall'esercito di Creso, affidarono la
città ad Artemide legando una fune dal tempio fino alle mura. Fra la
parte antica della città, che era quella allora assediata, e il tempio
ci sono sette stadi. Gli Efesini furono solo i primi perché poi in seguito
Creso aggredì una per una tutte le città degli Ioni e degli Eoli,
prendendo a pretesto le colpe più svariate, muovendo accuse gravi quando
poteva trovarne di gravi, ma anche adducendo ragioni di poco conto. Dopo aver
costretto tutti i Greci d'Asia al amento di un tributo, progettò di
far costruire delle navi e di assalire gli abitanti delle isole. Si racconta
che, quando ormai tutto era pronto alla costruzione delle navi, giunse a Sardi
Biante di Priene (secondo altri era Pittaco di Mitilene): e costui
riuscì a fare interrompere i lavori dando a Creso, che gli chiedeva se
ci fossero novità dalla Grecia, la seguente risposta: 'Signore, gli
abitanti delle isole stanno facendo incetta di cavalli per organizzare una
spedizione contro Sardi e contro di te'. Creso, credendo che stesse
parlando seriamente, esclamò: 'Magari gli dei glielo mettessero in
testa a quegli isolani di venire contro i li dei Lidi con la
cavalleria!' E l'altro replicò: 'Mio re, vedo che ti auguri
ardentemente di ricevere sul continente degli isolani trasformati in cavalieri,
ed è una speranza ben logica; ma poi, cos'altro credi che si augurino
gli isolani, da quando hanno saputo che stai facendo costruire navi per
assalirli, se non di ricevere i Lidi sul mare, dove potrebbero farti are la
schiavitù in cui tieni i Greci del continente?' Raccontano che a
Creso piacque molto questa conclusione e poiché gli parve molto pertinente si
persuase a interrompere la costruzione delle navi. Fu così che strinse
un patto di buon vicinato con gli Ioni residenti nelle isole. Col passare del
tempo quasi tutte le popolazioni stanziate al di qua del fiume Alis furono
sottomesse: Creso assoggettò al suo dominio, tranne Cilici e Lici, tutte
le altre genti: Lidi, Frigi, Misi, Mariandini, Calibi, Paflagoni, Traci (Tini e
Bitini), Cari, Ioni, Dori, Eoli e Panfili. Creso li sottomise e ne annesse i
territori al regno dei Lidi; così in una Sardi all'apice dello splendore
giunsero in seguito tutti i sapienti di Grecia dell'epoca, uno dopo l'altro, e
tra gli altri Solone di Atene. Solone formulò le leggi per i propri
concittadini, su loro richiesta, e poi soggiornò fuori della patria per
dieci anni, partito col pretesto di un viaggio conoscitivo, ma in realtà
per non essere costretto ad abrogare alcuna delle leggi che aveva promulgato;
perché gli Ateniesi, da soli, non erano in condizione di farlo: solenni
giuramenti li vincolavano per dieci anni a valersi delle norme stabilite da
Solone. Per tale ragione e anche per il suo viaggio, Solone rimase all'estero,
recandosi in Egitto presso Amasi e, appunto, a Sardi presso Creso. Al suo
arrivo fu ospitato da Creso nella reggia: due o tre giorni dopo, per ordine del
re, alcuni servitori lo condussero a visitare i tesori e gli mostrarono quanto
vi era di straordinario e di sontuoso. Creso aspettò che Solone avesse
osservato e considerato tutto per bene e poi, al momento giusto, gli chiese:
'Ospite ateniese, ai nostri orecchi è giunta la tua fama, che
è grande sia a causa della tua sapienza sia per i tuoi viaggi, dato che
per amore di conoscenza hai visitato molta parte del mondo: perciò ora
m'ha preso un grande desiderio di chiederti se tu hai mai conosciuto qualcuno
che fosse veramente il più felice di tutti. Faceva questa domanda perché
riteneva di essere lui l'uomo più ricco, ma Solone, evitando
l'adulazione e badando alla verità, rispose: 'Certamente, signore,
Tello di Atene'. Creso rimase sbalordito da questa risposta e lo
incalzò con un'altra domanda: 'E in base a quale criterio giudichi Tello
l'uomo più felice?' E Solone spiegò: 'Tello in un
periodo di prosperità per la sua patria ebbe dei li sani e
intelligenti e tutti questi li gli diedero dei nipoti che crebbero tutti;
lui stesso poi, secondo il nostro giudizio già così fortunato in
vita, ha avuto la fine più splendida: durante una battaglia combattuta a
Eleusi dagli Ateniesi contro una città confinante, accorso in aiuto,
mise in fuga i nemici e morì gloriosamente; e gli Ateniesi gli
celebrarono un funerale di stato nel punto esatto in cui era caduto e gli
resero grandissimi onori'. Quando Solone gli ebbe presentato la storia di
Tello, così ricca di eventi fortunati, Creso gli domandò chi
avesse conosciuto come secondo dopo Tello, convinto di avere almeno il secondo
posto. Ma Solone disse: 'Cleobi e Bitone, entrambi di Argo, i quali ebbero
sempre di che vivere e oltre a ciò una notevole forza fisica, sicché
tutti e due riportarono vittorie nelle gare atletiche; di loro tra l'altro si
racconta il seguente episodio: ad Argo c'era una festa dedicata a Era e i due
dovevano assolutamente portare la madre al tempio con un carro, ma i buoi non
giungevano in tempo dai campi; allora, per non arrivare in ritardo, i due
giovani sistemarono i gioghi sulle proprie spalle, tirarono il carro, sul quale
viaggiava la madre, e arrivarono fino al tempio dopo un tragitto di 45 stadi.
Al loro gesto, ammirato da tutta la popolazione riunita per la festa,
seguì una fine nobilissima: con loro il dio volle mostrare quanto, per
un uomo, essere morto sia meglio che vivere. Intorno ai due giovani gli uomini
di Argo ne lodavano la forza, mentre le donne si complimentavano con la madre
che aveva avuto due li come quelli; e la madre, oltremodo felice
dell'impresa e della grande reputazione derivatane, si fermò in piedi di
fronte all'immagine della dea e la pregò di concedere a Cleobi e a
Bitone, i suoi due li che l'avevano tanto onorata, la sorte migliore che
possa toccare a un essere umano. Dopo questa preghiera i giovani celebrarono i
sacrifici e il banchetto e poi si fermarono a dormire lì nel tempio; e
l'indomani non si svegliarono più: furono colti così dalla morte.
Gli Argivi li ritrassero in due statue che consacrarono a Delfi, come si fa con
gli uomini più illustri'. A quei due dunque Solone assegnava il
secondo posto nella graduatoria della felicità; Creso si irritò e
gli disse: 'Ospite ateniese, la nostra felicità l'hai svalutata al
punto da non ritenerci neppure pari a cittadini qualunque?' E Solone
rispose: 'Creso tu interroghi sulla condizione umana un uomo che sa quanto
l'atteggiamento divino sia pieno di invidia e pronto a sconvolgere ogni cosa.
In un lungo arco di tempo si ha occasione di vedere molte cose che nessuno
desidera e molte bisogna subirle. Supponiamo che la vita di un uomo duri settanta
anni; settanta anni da soli, senza considerare il mese intercalare, fanno
25.200 giorni; se poi vuoi che un anno ogni due si allunghi di un mese per
evitare che le stagioni risultino sfasate, visto che in settanta anni i mesi
intercalari sono 35, i giorni da aggiungere risultano 1050. Ebbene, di tutti i
giorni che formano quei settanta anni, cioè di ben 26.250 giorni, non
uno solo vede lo stesso evento di un altro. E così, Creso, tutto per
l'uomo è provvisorio. Vedo bene che tu sei ricchissimo e re di molte
genti, ma ciò che mi hai chiesto io non posso attribuirlo a te prima di
aver saputo se hai concluso felicemente la tua vita. Chi è molto ricco
non è affatto più felice di chi vive alla giornata, se il suo
destino non lo accomna a morire serenamente ancora nella sua
prosperità. Infatti molti uomini, pur essendo straricchi, non sono
felici, molti invece, che vivono una vita modesta, possono dirsi davvero
fortunati. Chi è molto ricco ma infelice è superiore soltanto in
due cose a chi è fortunato, ma quest'ultimo rispetto a chi è
ricco è superiore da molti punti di vista. Il primo può
realizzare un proprio desiderio e sopportare una grave sciagura più
facilmente, ma il secondo gli è superiore perché, anche se non è
in grado come lui di sopportare sciagure e soddisfare desideri, da questi
però la sua buona sorte lo tiene lontano; e non ha imperfezioni fisiche,
non ha malattie e non subisce disgrazie, ha bei li e un aspetto sempre
sereno. E se oltre a tutto questo avrà anche una buona morte, allora
è proprio lui quello che tu cerchi, quello degno di essere chiamato
felice. Ma prima che sia morto bisogna sempre evitare di dirlo felice, soltanto
'fortunato'. Certo, che un uomo riunisca tutte le suddette fortune,
non è possibile, così come nessun paese provvede da solo a tutti
i suoi fabbisogni: se qualcosa produce, di altro è carente, cosicché
migliore è il paese che produce più beni. Allo stesso modo non
c'è essere umano che sia sufficiente a se stesso: possiede qualcosa ma
altro gli manca; chi viva, continuamente avendo più beni, e poi concluda
la sua vita dolcemente, ecco, signore, per me costui ha diritto di portare quel
nome. Di ogni cosa bisogna indagare la fine. A molti il dio ha fatto
intravedere la felicità e poi ne ha capovolto i destini,
radicalmente'. Creso non rimase per niente soddisfatto di questa
spiegazione; non tenne Solone nella minima considerazione e lo congedò;
considerava senz'altro un ignorante chi trascurava i beni presenti e di ogni
cosa esortava a osservare la fine. Dopo la partenza di Solone Creso subì
la vendetta del dio: la subì, per quanto si può indovinare,
perché aveva creduto di essere l'uomo più felice del mondo. Non era
trascorso molto tempo quando nel sonno ebbe un sogno rivelatore: sognò
le sventure che sarebbero poi effettivamente capitate a suo lio. Creso aveva
due li, uno dei quali menomato (era muto), mentre l'altro, di nome Atis,
primeggiava fra i suoi coetanei in ogni attività; il sogno indicò
a Creso chiaramente che Atis sarebbe morto colpito da una punta di ferro. Al
risveglio, quando si rese conto del contenuto del sogno, ne provò
orrore; allora fece prendere moglie al lio e siccome prima era abituato a
guidare l'esercito lidio, non lo inviò più in nessun luogo per
incarichi di questo tipo. Frecce, giavellotti e tutti quegli strumenti che si
usano per combattere, li fece asportare dalle sale degli uomini e ammucchiare
nelle stanze delle donne, perché nessuno di essi, rimanendo appeso alle pareti,
potesse cadere accidentalmente sul lio. Quando il lio era impegnato nelle
nozze, giunse a Sardi uno sventurato di nazionalità frigia e di stirpe
reale, le cui mani erano impure. Costui si presentò alla reggia di Creso
e chiese di ottenere la purificazione secondo le norme locali, e Creso lo
purificò. Il rituale di purificazione dei Lidi è pressoché
identico a quello dei Greci. Compiuti gli atti rituali, Creso gli chiese chi
fosse e da dove venisse: 'Straniero, chi sei? Da quale parte della Frigia
sei venuto a rifugiarti presso il mio focolare? Quale uomo o quale donna hai
ucciso?' E quello rispose: 'Signore, io sono nipote di Mida e lio
di Gordio, il mio nome è Adrasto; sono qui perché senza volerlo ho
ucciso mio fratello e perché sono stato scacciato da mio padre e privato di
ogni cosa'. Al che Creso disse: 'Si dà il caso che tu sia
discendente di persone legate a noi da vincoli di amicizia; e fra amici
pertanto tu sei arrivato. Se rimani con noi non ti mancherà nulla e se
vivrai di buon cuore questa tua disgrazia, avrai molto da guadagnarci'. E
così Adrasto soggiornava presso Creso quando ve sul monte Olimpo
di Misia un grosso esemplare di cinghiale che muovendo dalla montagna
distruggeva le coltivazioni dei Misi; più di una volta i Misi avevano
organizzato battute di caccia, senza però riuscire ad arrecargli alcun
danno, subendone anzi da lui. Infine dei messaggeri Misi si recarono da Creso e
gli dissero: 'O re, nella nostra regione è so un gigantesco
cinghiale che ci distrugge le coltivazioni; e noi, con tutto l'impegno che ci
mettiamo, non riusciamo ad abbatterlo. Perciò ora ti preghiamo di
mandare tuo lio insieme con giovani scelti e cani, così potremo
allontanarlo dai nostri territori'. Queste erano le loro richieste, ma
Creso, memore del sogno, rispose: 'Quanto a mio lio non se ne parla
nemmeno: non lo posso mandare con voi perché si è appena sposato e ora
ha da pensare a ben altro. Manderò invece uomini scelti e ogni sorta di
equigiamento utile alla caccia, e ordinerò agli uomini della
spedizione di garantire tutto il loro impegno nell'aiutarvi a scacciare il
cinghiale dal vostro paese'. Ma mentre i Misi erano soddisfatti della
risposta ricevuta, si fece avanti il lio di Creso, che aveva udito le
richieste dei Misi; visto che suo padre si era rifiutato di inviarlo con loro,
il giovane gli disse: 'Padre, una volta per noi l'aspirazione più
bella e più nobile consisteva nel meritarsi gloria in guerra o nella
caccia, ma ora tu mi vieti entrambe le attività; eppure non hai
certamente scorto in me qualche segno di vigliaccheria o di paura. Con quale
faccia ora devo mostrarmi fra la gente andando e venendo attraverso la
città? Che opinione avranno di me i cittadini, e mia moglie, che mi ha
appena sposato? Con quale marito crederà di convivere? Adesso
perciò o tu mi lasci partecipare alla caccia, oppure mi dai una
spiegazione sufficiente a convincermi che è meglio non farlo'. E
Creso rispose: 'lio mio, io non agisco così perché abbia scorto
in te vigliaccheria o qualche altra cosa spiacevole; ma una visione apparsami nel
sonno mi disse che tu avresti avuto una vita breve, che saresti morto colpito
da una punta di ferro. Perciò dopo il sogno affrettai le tue nozze e
perciò ora non invio te per l'impresa che ho accettato: agisco con
cautela per vedere se in qualche modo, finché sono vivo, riesco a sottrarti
alla morte. Il destino vuole che tu sia il mio unico lio: l'altro infatti,
che è menomato, non lo considero tale'. E il giovane gli rispose:
'Ti capisco, padre, e capisco le precauzioni che hai nei miei riguardi
dopo un simile sogno. Ma di questo sogno ti è sfuggito un particolare ed
è giusto che io te lo faccia notare. Dal tuo racconto risulta che il
sogno ti annunciava la mia morte come causata da una punta di ferro: e quali
mani possiede un cinghiale? Quale punta di ferro di cui tu possa avere paura?
Se ti avesse annunciato la mia morte come provocata da una zanna o da qualcosa
del genere, allora sarebbe stato tuo dovere agire come agisci, ma ha parlato di
una punta. E allora, visto che non si tratta di andare a combattere contro dei
guerrieri, lasciami partire'. E Creso concluse: 'lio mio, si
può dire che nell'interpretare il mio sogno tu batti le mie
capacità di giudizio: e io, in quanto sconfitto da te, cambio parere e
ti lascio partecipare alla caccia'. Detto ciò, Creso fece chiamare
il frigio Adrasto al quale, quando lo ebbe davanti, pronunciò il
seguente discorso: 'Adrasto, - disse - tu eri stato colpito da una
dolorosa disgrazia, che non ti rimprovero, e io ti ho purificato e accolto
nella mia casa dove ora ti ospito offrendoti ogni mezzo di sussistenza; adesso
dunque, visto che per primo ti ho concesso enormi favori, tu sei in debito
verso di me di favori uguali; io desidero che tu vegli su mio lio che sta
partendo per una battuta di caccia, che lungo la strada non vi si parino davanti
pericolosi ladroni armati di cattive intenzioni. Oltre tutto non puoi esimerti
dal recarti là dove tu possa segnalarti con qualche bella impresa:
così facevano i tuoi antenati, senza contare che le tue forze te lo
consentono ampiamente'. E Adrasto gli rispose: 'Sovrano, se non me lo
chiedessi tu, io non parteciperei a una simile impresa, perché non è
decoroso per me, con la disgrazia che ho avuto, accomnarmi a giovani della
mia età dalla vita felice: non è quanto io voglio, anzi ne farei
volentieri a meno. Ma ora, poiché sei tu a spingermi e verso di te io devo
mostrarmi cortese, in debito come sono di enormi favori, ora sono disposto a
farlo; tuo lio, che affidi alla mia sorveglianza, per quanto dipende da me
fai pure conto di vederlo tornare sano e salvo'. Quando Adrasto ebbe dato
a Creso la sua risposta, la spedizione partì, con ampio seguito di
giovani scelti e di cani da caccia. Giunsero al monte Olimpo e cominciarono a
cercare il cinghiale; trovatolo lo circondarono e presero a scagliargli addosso
i loro giavellotti: a questo punto l'ospite, proprio quello purificato da
Creso, Adrasto, nel tentativo di centrare il cinghiale finì per
sbagliarlo colpendo invece il lio di Creso. Questi, trafitto dalla punta,
dimostrò l'esattezza profetica del sogno. Qualcuno corse ad annunciare a
Creso l'accaduto: come giunse a Sardi gli raccontò della battuta di
caccia e della disgrazia del lio. Creso, sconvolto dalla morte del lio,
fu ancora più dispiaciuto per il fatto che a ucciderlo era stato l'uomo
da lui purificato da un omicidio. Prostrato dalla sciagura, invocava con rabbia
Zeus Purificatore, chiamandolo a testimone di ciò che aveva sofferto per
mano del suo ospite, e lo invocava come protettore del focolare e
dell'amicizia, sempre lo stesso dio ma con attributi diversi: in quanto
protettore del focolare perché, avendo accolto nella propria casa lo straniero,
senza saperlo aveva dato da mangiare all'uccisore di suo lio, in quanto
protettore dell'amicizia perché lo aveva inviato come difensore e se lo
ritrovava ora odiosissimo nemico. Più tardi tornarono i Lidi portando il
cadavere e dietro li seguiva il responsabile della disgrazia: Adrasto, in piedi
di fronte al cadavere, si consegnava a Creso protendendo le mani, invitandolo a
immolarlo sul corpo del lio; ricordava la precedente sventura e sosteneva di
non avere più diritto di vivere dato che aveva rovinato chi a suo tempo
si era fatto suo benefattore. Creso, nonostante il grande dolore per la
disgrazia abbattutasi sulla sua famiglia, udendo queste parole ebbe compassione
di Adrasto e gli disse: 'Ho già da parte tua ogni soddisfazione
visto che tu stesso ti assegni la morte come punizione. Tu non hai colpa di
questa sciagura se non in quanto ne sei stato strumento involontario: il
responsabile forse è un dio, che già da tempo mi aveva
preannunciato quanto sarebbe accaduto'. Poi Creso diede al lio degna
sepoltura; Adrasto, discendente di Gordio e di Mida, uccisore del proprio
fratello e uccisore di chi da quell'omicidio lo aveva purificato, riconoscendo
di essere l'uomo più sciagurato del mondo, attese che tutti si fossero
allontanati dal sepolcro e lì, proprio sulla tomba, si tolse la vita.
Creso, rimasto privo del lio, per due anni mantenne un lutto strettissimo.
Più tardi la caduta di Astiage lio di Ciassare e l'assunzione del
potere da parte di Ciro, lio di Cambise, con la conseguente crescita della
potenza persiana, distolsero Creso dal suo dolore e determinarono in lui la
preoccupazione insistente di frenare, se possibile, l'espansione della potenza
dei Persiani prima che divenissero troppo influenti. Con questa idea decise
subito di mettere alla prova gli oracoli greci e l'oracolo di Libia inviando
corrieri un po' ovunque: a Delfi, ad Abe nella Focide, a Dodona; altri furono mandati
ai santuari di Anfiarao e di Trofonio, altri ancora presso i sacerdoti
Branchidi, nel territorio di Mileto. Tanti furono gli oracoli greci che Creso
mandò a consultare; in Libia inviò un'altra delegazione a
interrogare l'indovino di Ammone. In tal modo Creso voleva verificare le
conoscenze degli oracoli: se avesse riscontrato che conoscevano la
verità, avrebbe inviato nuovi corrieri per chiedere se poteva
intraprendere spedizioni militari contro la Persia. Ai Lidi spediti a saggiare
gli oracoli diede le seguenti istruzioni: dovevano tenere il conto esatto dei
giorni trascorsi dopo la loro partenza da Sardi; al centesimo giorno dovevano
consultare gli oracoli chiedendo loro che cosa stesse facendo in quel momento
il re dei Lidi Creso, lio di Aliatte; dovevano trascrivere parola per parola
il responso degli indovini e tornare a riferirlo. Nessuno sa dire quali furono
le risposte degli altri oracoli, ma a Delfi, non appena i Lidi furono entrati
nel santuario ed ebbero consultato il dio formulando la domanda prescritta, la
Pizia diede in versi esametri la seguente risposta: Io so quanti sono i
granelli di sabbia e so le dimensioni del mare, io intendo chi è muto e
ascolto anche chi non ha voce. Fino a me giunge l'odore di una testuggine dal
duro guscio che sta cuocendo nel rame insieme con carni di agnello: c'è
rame sotto di lei e rame sopra. I Lidi trascrissero il responso della Pizia e
partirono per tornare a Sardi. Quando anche gli altri inviati furono presenti,
tutti con il loro responso, Creso aprì gli scritti, uno per uno, e ne
esaminò il contenuto: nessuno degli altri gli parve soddisfacente, ma
quando apprese il responso proveniente da Delfi subito lo accolse con
devozione, e ritenne quello di Delfi l'unico vero oracolo, poiché aveva scoperto
ciò che lui stava facendo. Infatti, dopo aver inviato i suoi messi
presso gli oracoli, aveva tenuto d'occhio con la massima cura la data
prestabilita, preparando il suo piano: pensò qualcosa che fosse
impossibile indovinare o prendere in considerazione: uccise una testuggine e un
agnello e li cucinò personalmente in una pentola di rame chiusa da un
coperchio, pure di rame. Tale dunque fu il responso che Creso ricevette da
Delfi. Quanto all'indovino di Anfiarao non sono in grado di dire quale risposta
diede ai Lidi, quando ebbero esaurito il consueto rituale intorno al santuario:
nemmeno il testo di questo oracolo ci viene tramandato, ma posso dire che Creso
giudicò di avere ricevuto un vaticinio veritiero. Dopodiché Creso
cercava di procurarsi il favore del dio di Delfi con offerte imponenti:
immolò 3000 capi di bestiame di tutte le specie adatte al sacrificio,
ammassò una gigantesca pira sulla quale bruciò lettighe rivestite
d'oro e d'argento, boccette d'oro, vesti di porpora e tuniche, sperando di
guadagnarsi maggiormente il favore del dio con simili offerte. E a tutti i Lidi
ordinò di sacrificare quanto ciascuno potesse. Al termine dei sacrifici
fece fondere un enorme quantitativo d'oro e ne ricavò dei mezzi mattoni
lunghi sei palmi, larghi tre e spessi uno: erano 117 di numero, di cui quattro
di oro puro, ciascuno del peso di due talenti e mezzo, mentre gli altri mezzi
mattoni pesavano due talenti essendo costituiti da oro bianco. Fece fondere in
oro puro anche la statua di un leone, pesante dieci talenti. Questo leone,
quando ci fu l'incendio del tempio di Delfi, cadde dai mattoni, sui quali era
appunto collocato: ora si trova nel tesoro di Corinto e pesa sei talenti e
mezzo, perché tre talenti e mezzo si fusero e andarono perduti. Appena pronti
tali oggetti, Creso li spedì a Delfi; e vi aggiunse due crateri di
grandi dimensioni, uno d'oro e uno d'argento; quello d'oro fu posto a destra di
chi entra nel tempio e quello d'argento a sinistra, ma anch'essi vennero
dislocati altrove all'epoca dell'incendio del santuario. Ora quello d'oro si
trova nel tesoro dei Clazomeni e ha un peso di otto talenti e mezzo e dodici
mine, quello d'argento in un angolo del pronao e ha una capacità di 600
anfore: ancora lo usano a Delfi durante le feste delle Teofanie. I Delfi dicono
che è opera di Teodoro di Samo, un parere che condivido, perché non
è certamente un oggetto fabbricabile da chiunque. Spedì anche
quattro orci d'argento, ora nel tesoro dei Corinzi, e offrì due vasi per
l'acqua lustrale, uno d'oro e uno d'argento; su quello d'oro c'è una
iscrizione che ne attribuisce l'offerta agli Spartani, ma è un falso:
l'oggetto è proprio di Creso e la scritta è dovuta a uno di Delfi
che voleva ingraziarsi gli Spartani: io ne conosco il nome, ma non lo menzionerò.
Dono degli Spartani è il fanciullo dalla cui mano scorre l'acqua, ma
certamente non lo sono i due vasi lustrali. Assieme a questi Creso
consacrò altri oggetti senza contrassegni e due catini rotondi d'argento
e, ancora, una statua d'oro alta tre cubiti, che rappresenta una donna, anzi
più precisamente la fornaia di Creso, secondo quanto si dice a Delfi. E
inoltre Creso offrì le collane e le cinture della moglie. Questo
è quanto inviò a Delfi. Invece ad Anfiarao, di cui aveva appreso
il valore e la sorte sventurata, consacrò uno scudo interamente d'oro e
una solida lancia, essa pure d'oro massiccio tanto nell'asta come nelle punte.
All'epoca della mia visita entrambi gli oggetti si trovavano ancora a Tebe, e
esattamente nel tempio di Apollo Ismenio. Ai Lidi incaricati di portare i doni
ai santuari Creso ordinò di chiedere agli oracoli se convenisse muovere
guerra ai Persiani e se fosse il caso di aggregarsi qualche esercito amico. I
Lidi, giunti a destinazione, consacrarono le offerte e interrogarono gli
oracoli: 'Creso, re dei Lidi e di altre popolazioni, convinto che questi
sono gli unici veri oracoli al mondo, vi destina questi doni degni dei vostri
vaticini, e vi chiede se gli conviene muovere guerra contro i Persiani e se
è il caso di aggregarsi qualche esercito alleato'. Alle loro
domande entrambi gli oracoli diedero identica risposta, preannunciando a Creso
che, se avesse mosso guerra ai Persiani, avrebbe rovesciato un grande regno; e
gli consigliarono di trovare quali fossero i Greci più potenti e di
assicurarsene l'amicizia. Venuto a conoscenza dei responsi, Creso se ne
compiacque molto: tutto preso dalla speranza di abbattere il regno di Ciro,
inviò a Pito una ulteriore delegazione: si informò quanti fossero
i Delfi di numero e a ciascuno di loro donò due stateri d'oro. In cambio
i Delfi concedettero a Creso e ai Lidi il diritto di precedenza nella
consultazione dell'oracolo, l'esenzione dai tributi, il diritto di seggio
privilegiato negli spettacoli e la possibilità, per sempre, a ogni Lido
che lo desiderasse di diventare cittadino di Delfi. Dopo quei doni Creso si
rivolse al santuario per la terza volta: da quando ne aveva riconosciuto la
veridicità abusava dell'oracolo. Questa volta chiese se il suo regno
sarebbe durato a lungo e la Pizia gli diede il seguente responso: Quando un
mulo sarà divenuto re dei Medi, allora, o Lidio dal piede delicato,
lungo l'Ermo ghiaioso fuggi e non fermarti, e non avere vergogna di essere
vile. Quando gli giunsero tali parole Creso ne gioì molto più che
di tutte le precedenti: non si aspettava certo che un mulo venisse mai a
regnare sui Medi al posto di un uomo e quindi né la sua, né la sovranità
dei suoi discendenti avrebbero avuto mai fine. Poi si preoccupò di
scoprire quali erano i Greci da farsi amici in quanto più potenti, e a
forza di indagini risultò che Spartani e Ateniesi prevalevano nettamente
all'interno dei loro gruppi etnici, rispettivamente il dorico e lo ionico.
Erano in effetti i due popoli preminenti: l'uno di antica origine pelasgica,
l'altro di origine ellenica; gli Ateniesi non si erano mai mossi dai territori
che occupavano, gli altri avevano compiuto numerosi spostamenti: al tempo del
re Deucalione abitavano la Ftiotide, al tempo di Doro lio di Elleno la
regione detta Estiotide alle falde dell'Ossa e dell'Olimpo; cacciati dalla
Estiotide ad opera dei Cadmei si erano stanziati a Pindo con il nome di
Macedni. Da lì ancora si trasferirono nella Driopide e infine dalla
Driopide passarono nel Peloponneso, dove assunsero il nome di Dori. Quale
lingua parlassero i Pelasgi non sono in grado di dirlo con esattezza: se
è indispensabile fornire qualche indicazione, basandosi sulle
popolazioni pelasgiche superstiti, sia quelle insediate oggi nella città
di Crestona a nord dei Tirreni e già limitrofe degli attuali Dori nella
regione adesso chiamata Tessagliotide, sia quelle che nell'Ellesponto avevano
colonizzato Placia e Scilace e avevano condiviso il territorio con gli
Ateniesi, o sulle città un tempo pelasgiche ma che poi avevano mutato
nome, ebbene, deducendo su queste basi, bisogna concludere che i Pelasgi
parlavano una lingua barbara. Se dunque i Pelasgi erano di lingua barbara,
allora gli Attici, Pelasgi di stirpe, una volta divenuti Greci dovettero anche
cambiare il modo di esprimersi. Infatti, bisogna aggiungere che gli abitanti di
Crestona e di Placia parlano due idiomi assolutamente diversi dagli idiomi dei
popoli circostanti, ma molto simili fra loro, dimostrando così di avere
conservato l'originaria impronta linguistica anche dopo esser immigrati nei
rispettivi nuovi territori. A me risulta che il gruppo degli Elleni fin dalla
sua origine abbia sempre parlato la stessa lingua: staccatisi dai Pelasgi,
erano deboli e poco numerosi, ma poi, estendendo il proprio dominio, crebbero
fino all'attuale moltitudine di popolazioni, grazie ai continui apporti di
Pelasgi, soprattutto, e di altre etnie barbare. Al confronto mi pare senz'altro
che nessun popolo pelasgico, restando barbaro, abbia mai compiuto progressi
considerevoli. Di quelle due genti Creso venne a sapere che una, la attica, era
retta e tenuta divisa dal lio di Ippocrate Pisistrato, allora tiranno di
Atene. A Ippocrate era capitato un evento assolutamente prodigioso: si trovava
ad Olimpia, come privato cittadino, per assistere ai Giochi e aveva appena
terminato un sacrificio quando i lebeti, che erano lì pronti, pieni di
acqua e di carni, presero improvvisamente a bollire senza fuoco e a traboccare.
Lì accanto per caso c'era Chilone di Sparta; egli, osservato il
prodigio, rivolse a Ippocrate i seguenti consigli: per prima cosa non sposare
una donna in grado di procreare, se invece aveva già moglie ripudiarla e
rinnegare il proprio lio se era già venuto al mondo. Ma non pare
proprio che Ippocrate abbia voluto seguire le indicazioni di Chilone: e
così più tardi nacque Pisistrato. Gli Ateniesi della costa e gli
Ateniesi dell'interno, i primi capitanati da Megacle lio di Alcmeone, i
secondi da Licurgo lio di Aristolaide, erano in conflitto fra di loro:
Pisistrato mirando al potere assoluto diede vita a una terza fazione: riunì
un certo numero di sediziosi, si autodichiarò fittiziamente capo degli
Ateniesi delle montagne ed escogitò il seguente stratagemma. Ferì
se stesso e le proprie mule e poi spinse il carro nella piazza centrale
fingendo di essere sfuggito a un agguato di nemici che, a sentire lui,
avrebbero avuto la chiara intenzione di ucciderlo mentre si recava in un suo
campo; chiese pertanto che il popolo gli assegnasse un corpo di guardia, anche
in considerazione dei suoi meriti precedenti, quando, stratega all'epoca della
guerra contro i Megaresi, aveva conquistato il porto di Nisea e realizzato
altre grandi imprese. Il popolo ateniese si lasciò ingannare e gli
concedette di scegliere fra i cittadini un certo numero di uomini, i quali
diventarono i lancieri privati di Pisistrato, o meglio i suoi
'mazzieri', visto che lo scortavano armati di mazze di legno. Questo
corpo di guardia contribuì al colpo di stato di Pisistrato occupando
l'acropoli. Da allora Pisistrato governò su Atene senza riformare le
cariche dello stato esistenti e senza modificare le leggi: resse la
città amministrandola con oculatezza sulla base degli ordinamenti
già in vigore. Non molto tempo dopo i partigiani di Megacle e quelli di
Licurgo si misero d'accordo e lo cacciarono dalla città. Così
andarono le cose la prima volta che Pisistrato ebbe in mano sua Atene: perse il
potere prima che si radicasse saldamente. Ma tra coloro che lo avevano
scacciato rinacquero i contrasti e Megacle, messo in difficoltà dai
tumulti, finì col mandare un messaggero a Pisistrato offrendogli il
potere assoluto a patto che sposasse sua lia. Pisistrato accettò la
proposta e fu d'accordo sulle condizioni; per il suo rientro in Atene ricorsero
a un espediente che io trovo assolutamente ridicolo, visto che i Greci fin
dall'antichità sono sempre stati ritenuti più accorti dei barbari
e meno inclini alla stoltezza e alla dabbenaggine, e tanto più se in
quella circostanza attuarono effettivamente un simile disegno in barba agli
Ateniesi, che fra i Greci passano per essere i più intelligenti. Nel
demo di Peania viveva una donna, di nome Fia, alta quattro cubiti meno tre dita
e per il resto piuttosto bella. Vestirono questa donna di una armatura
completa, la fecero salire su di un carro, le insegnarono come atteggiarsi per
ottenere il più nobile effetto e la guidarono in città facendosi
precedere da alcuni araldi, i quali, giunti in Atene, secondo le istruzioni
ricevute andavano ripetendo il seguente proclama: 'Ateniesi, accogliete di
buon grado Pisistrato: Atena in persona, onorandolo sopra tutti gli uomini, lo
riconduce sulla acropoli a lei dedicata'. Facevano questo annuncio
percorrendo la città e ben presto la voce si sparse fino ai demi:
'Atena riconduce Pisistrato'; e in città, credendo che Fia
fosse la dea in persona, a lei, che era una semplice donna, si rivolsero con
devozione; e accolsero Pisistrato. |[continua]| |[LIBRO I, 2]| Riavuto il
potere nel modo ora esposto, Pisistrato rispettò l'accordo preso con
Megacle e ne sposò la lia; ma poiché aveva già dei li
adulti e correva fama che sugli Alcmeonidi pesasse la maledizione divina, non
volendo avere prole dalla nuova moglie, non si univa con lei come vuole natura.
La donna, lì per lì, tenne nascosta la cosa, ma poi, che glielo
avessero chiesto o meno, ne parlò alla madre; e questa lo riferì
al marito. Il fatto fu considerato un terribile affronto da parte di
Pisistrato: in preda all'ira com'era, Megacle si riconciliò con quelli
della sua fazione. Pisistrato, informato di quanto si stava concretizzando ai
suoi danni, non esitò ad allontanarsi dal paese: si rifugiò a
Eretria e lì studiò la situazione insieme coi li. Prevalse il
parere di Ippia, di tentare la riconquista del potere, e allora cominciarono a
sollecitare doni dalle città che in qualche modo erano obbligate nei
loro confronti. E fra le tante città che fornirono ingenti somme di
denaro i Tebani superarono tutti con il loro contributo. Insomma, per farla
breve, venne il momento in cui tutto era pronto per il rientro in Atene: dal
Peloponneso erano arrivati dei mercenari argivi, e un uomo di Nasso, di nome
Ligdami, giunse di sua iniziativa, ben fornito di uomini e mezzi, e
offrì i suoi servigi. Muovendo da Eretria fecero ritorno in Attica, a
distanza di oltre dieci anni dalla loro fuga. In Attica il primo luogo che occuparono
fu Maratona; mentre stavano lì accampati si unirono a loro dei ribelli
provenienti dalla città, e altri ne affluivano dai demi: tutta gente che
abbracciava la tirannide preferendola alla libertà. Costoro quindi si
andavano radunando: gli Ateniesi rimasti in città, finché Pisistrato
raccoglieva finanziamenti e poi per tutto il tempo che si trattenne a Maratona,
non si preoccuparono minimamente; ma quando seppero che stava marciando da
Maratona su Atene allora finalmente scesero in campo contro di lui. Mentre
l'esercito cittadino marciava incontro agli assalitori, Pisistrato e i suoi si
erano mossi da Maratona e avanzavano verso la città; convergendo
finirono perciò per incontrarsi nel demo di Pallene, all'altezza del
tempio di Atena Pallenide, e lì i due eserciti si schierarono uno di
fronte all'altro. In quel momento, spinto da ispirazione divina, si
presentò a Pisistrato l'indovino Anfilito di Acarnania, gli si
avvicinò e pronunciò la seguente profezia in esametri: La rete è
stata lanciata, le sue maglie si sono distese, i tonni vi irromperanno dentro
in una notte di luna. Così vaticinava sotto l'ispirazione del dio e
Pisistrato comprendendo la profezia dichiarò di accoglierla e
guidò in campo l'esercito. Nel frattempo gli Ateniesi della città
avevano pensato bene di mangiare e, dopo, si erano messi chi a giocare a dadi,
chi a dormire. Pisistrato e i suoi piombarono su di loro e li volsero in fuga.
Mentre essi fuggivano Pisistrato trovò la maniera più saggia per
impedire che gli Ateniesi si raccogliessero ancora, e anzi per tenerli
dispersi. Fece montare a cavallo i suoi li e li mandò avanti: essi,
raggiungendo i fuggitivi, parlavano loro secondo le disposizioni di Pisistrato,
esortandoli uno per uno a non avere paura e a tornare ciascuno alle proprie
occupazioni. Gli Ateniesi si lasciarono persuadere e così Pisistrato per
la terza volta fu padrone di Atene; questa volta rese più saldo il
proprio potere grazie alle molte guardie e agli ingenti contributi in denaro,
che gli provenivano tanto dall'Attica come dal fiume Strimone. Inoltre prese in
ostaggio i li degli Ateniesi che erano rimasti a combattere senza darsi
subito alla fuga e li tenne sequestrati a Nasso (perché Pisistrato aveva
sottomesso anche Nasso e l'aveva affidata a Ligdami). Poi obbedendo agli
oracoli purificò l'isola di Delo, in questo modo: fece disseppellire e
trasportare in un'altra parte dell'isola tutti i resti umani che si trovavano
in zone visibili dal santuario. E così Pisistrato fu signore di Atene;
ma vari Ateniesi erano caduti nella battaglia e altri avevano seguito gli
Alcmeonidi in esilio lontano dalla loro patria. Questa era la situazione in
Atene all'epoca in cui Creso raccoglieva le sue informazioni; dal canto loro
gli Spartani erano appena usciti da un periodo di grosse difficoltà e
stavano ormai prevalendo nella guerra contro Tegea. Effettivamente nel periodo
in cui a Sparta regnarono Leonte ed Egesicle, gli Spartani, che avevano risolto
a proprio favore gli altri conflitti, non riuscivano a superare l'ostacolo di
Tegea. In epoca ancora precedente a questi avvenimenti erano, si può
dire, i più arretrati in tutta la Grecia in fatto di legislazione
interna ed erano isolati dal punto di vista internazionale. Il progresso verso
un buon ordinamento legislativo avvenne nel modo che ora vi narro. Una volta
all'oracolo di Delfi si recò Licurgo, uno degli Spartiati più in
vista; non appena fu entrato nel sacrario la Pizia così parlò:
Licurgo, tu vieni al mio tempio opulento tu, caro a Zeus e a quanti abitano le
dimore dell'Olimpo. Sono in dubbio se dichiararti dio o essere umano ma penso
piuttosto che tu sei un dio, Licurgo. Alcuni aggiungono che la Pizia gli
suggerì anche l'attuale costituzione degli Spartiati, ma a quanto
raccontano gli Spartani stessi, Licurgo la introdusse derivandola da quella di
Creta al tempo in cui lui era tutore di suo nipote, il re di Sparta Leobote.
Non appena assunse la tutela provvide a riformare tutte le leggi e
vigilò che non si verificassero violazioni. In seguito Licurgo
fissò gli ordinamenti militari: corpi speciali dell'esercito,
unità di trenta uomini, mense comuni, e istituì, inoltre, le
cariche di eforo e di geronte. Con simili riforme gli Spartani ottennero una
buona legislazione; e alla morte di Licurgo gli dedicarono un santuario che
è tuttora molto venerato. Poiché risiedono in un buon territorio e
costituiscono una massa non indifferente di uomini, ebbero un rapido sviluppo e
raggiunsero un notevole grado di prosperità. Al punto che non si
accontentarono più di vivere in pace, ma, presumendo di essere
più forti degli Arcadi, consultarono l'oracolo di Delfi sull'Arcadia
intera: e la Pizia diede loro il seguente responso: Mi chiedi l'Arcadia? Chiedi
molto: non te la concederò. In Arcadia ci sono molti uomini che si
nutrono di ghiande i quali vi respingeranno; ma non voglio opporti solo un
rifiuto: ti concederò Tegea, battuta dai piedi, per ballare, e la sua
bella pianura, da misurare con la fune. Appresa la risposta gli Spartani si
tennero lontani da tutti gli altri Arcadi, ma intrapresero una spedizione
militare contro Tegea; e avevano tanta fiducia nell'ambiguo responso che
portarono con sé anche le catene, per essere pronti a rendere schiavi i
Tegeati. Ma quando furono sconfitti nella battaglia, quanti di loro rimasero
prigionieri furono costretti a lavorare la terra della pianura di Tegea dopo
aver misurato con la fune la parte spettante a ciascuno e incatenati con gli
stessi ceppi che si erano portati dietro. Questi ceppi, gli stessi che
servirono a incatenarli, li ho visti io, ancora intatti, a Tegea, appesi tutto
intorno al tempio di Atena Alea. Durante questo primo conflitto gli Spartani
continuarono ad avere la peggio negli scontri contro i Tegeati, ma al tempo di
Creso e del regno spartano di Anassandride e di Aristone, gli Spartiati ormai
avevano acquistato una sicura superiorità bellica, ed ecco come. Visto
che in guerra risultavano sempre inferiori ai Tegeati, inviarono a Delfi una
delegazione a chiedere quale dio dovessero propiziarsi per prevalere nella
guerra contro Tegea. La Pizia rispose che ci sarebbero riusciti quando avessero
traslato nella loro città le ossa di Oreste lio di Agamennone. Ma
poiché non erano capaci di scoprire il luogo in cui Oreste era stato
seppellito, mandarono di nuovo a chiedere al dio dove esattamente giacesse
Oreste. E agli inviati la Pizia diede la seguente risposta: In Arcadia
c'è una città, Tegea, in una aperta regione: dove soffiano due
venti sotto dura costrizione, dove c'è colpo e ciò che respinge
il colpo, dove male giace su male, lì la terra, generatrice di vita,
racchiude il lio di Agamennone. Quando lo avrai con te sarai signore di
Tegea. Anche dopo aver ricevuto questa risposta, gli Spartani non riuscivano
affatto a scoprire il luogo in questione, pur cercandolo dovunque; finché lo
trovò un certo Lica, uno degli Spartiati che possono onorarsi del titolo
di Agatoergi. Gli Agatoergi sono quei cinque cittadini di anno in anno
più anziani fra coloro che si congedano dalla cavalleria: essi per tutto
l'anno in cui escono dalle file dei cavalieri hanno l'obbligo di non rimanere
inattivi e di accettare missioni all'estero per conto dello stato. Ricopriva
dunque questo incarico Lica quando, grazie ad un colpo di fortuna e alla sua
intelligenza, trovò a Tegea la tomba di Oreste. Esistevano allora libere
relazioni fra Sparta e Tegea; Lica, entrato in una fucina, se ne stava ad
osservare ammirato la lavorazione del ferro. Il fabbro si accorse del suo
stupore e interrompendo il proprio lavoro gli disse: 'Ospite spartano,
sono sicuro che rimarresti a bocca aperta se vedessi quello che ho visto io,
dal momento che guardi con tanta meraviglia battere il ferro. Devi sapere che
io volevo costruire un pozzo nel mio cortile e scavando ho urtato in una bara
lunga sette cubiti. Non potendo credere che fossero mai esistiti uomini
più alti degli attuali, la scoperchiai e vidi un cadavere lungo quanto
la bara. Lo misurai e lo seppellii di nuovo'. Il fabbro gli raccontava
quanto aveva visto e Lica riflettendoci ne arguì che quel morto fosse
Oreste; lo deduceva dal testo dell'oracolo, interpretato così: nei due
mantici del fabbro, che aveva sott'occhio, riconobbe i venti, nel martello e
nell'incudine il colpo e ciò che respinge il colpo, nel ferro battuto il
male che giace sul male, interpretando in base al principio che il ferro sia
stato scoperto per il male dell'uomo. Avendo compreso l'enigma, fece ritorno a
Sparta e riferì ai suoi concittadini come stavano le cose. Essi lo
accusarono di proazione di notizie false e lo bandirono dalla città.
Lica tornò a Tegea e narrando al fabbro quanto gli era accaduto
cercò, ma senza successo, di prendere in affitto da lui quel cortile.
Col tempo riuscì a convincerlo e vi si poté installare; allora
disseppellì la bara, raccolse le ossa di Oreste e con esse rientrò
a Sparta. E da quel momento, ogni volta che avevano luogo degli scontri con i
Tegeati, gli Spartani avevano sempre la meglio. E ormai essi avevano sottomesso
anche la maggior parte del Peloponneso. Creso, venuto a conoscenza di tutti
questi fatti, inviò a Sparta dei messaggeri, latori di doni e di una
richiesta di alleanza e bene istruiti sulle parole da riferire. Quando
arrivarono a Sparta essi dichiararono: 'È stato Creso, re dei Lidi
e di altre popolazioni, a mandarci qui, affidandoci questo messaggio: 'Spartani,
il dio mi ha ordinato per bocca di un oracolo di rendermi amico il popolo
greco, e io so che voi siete i primi della Grecia: pertanto obbedendo alla
parola del dio a voi rivolgo il mio appello, desideroso di diventare vostro
amico e alleato, senza inganni, senza secondi fini'. E fu quanto i
messaggeri di Creso riferirono da parte del loro re; gli Spartani, a cui era
noto il responso in questione, furono molto lieti della venuta dei Lidi e
strinsero vincoli giurati di amicizia e di alleanza militare. Del resto erano
legati da alcuni benefici ricevuti da Creso in tempi precedenti: a Sardi gli
Spartani avevano mandato a comprare dell'oro, di cui intendevano servirsi per
la fabbricazione della statua di Apollo che ora si trova sul Tornace, in
Laconia, e Creso, benché fossero disposti a arlo, gliene aveva offerto in
dono. Per questi motivi gli Spartani accettarono il patto di alleanza e anche
perché li aveva scelti come alleati anteponendoli a tutti gli altri Greci. E
oltre a dichiararsi disponibili a ogni appello fecero fabbricare un cratere di
bronzo, decorato con ure lungo il bordo esterno e tanto grande da avere una
capacità di 300 anfore: lo donarono a Creso intendendo così
contraccambiarlo. Questo cratere non arrivò mai a Sardi, fatto di cui si
danno due diverse spiegazioni: gli Spartani sostengono che quando il cratere
durante il viaggio verso Sardi venne a trovarsi all'altezza dell'isola di Samo,
gli abitanti di Samo, informati, li assalirono con lunghe navi da battaglia e
se ne impadronirono; invece i Sami raccontano che gli Spartani incaricati del
trasporto avevano ritardato, sicché poi, quando giunse la notizia della caduta
di Sardi e della cattura di Creso, decisero di cedere l'oggetto in Samo: lo
acquistarono dei privati cittadini per offrirlo al tempio di Era; poi, forse,
gli stessi che lo avevano venduto, una volta tornati a Sparta, raccontarono di
essere stati depredati dai Sami. Così andarono le cose a proposito del
cratere. Dal canto suo Creso, fraintendendo il senso dell'oracolo, organizzava
una invasione della Cappadocia, convinto di abbattere Ciro e la potenza
persiana. Mentre Creso si preparava a marciare contro i Persiani, un lido di
nome Sandani che già in occasioni precedenti aveva dimostrato di essere
un saggio, ma che dopo il parere espresso in questa circostanza si
guadagnò la massima reputazione in Lidia, diede a Creso il seguente
consiglio: 'Mio re, - gli disse - tu stai facendo preparativi per
combattere contro uomini che portano brache di cuoio e di cuoio anche il resto
dei loro vestiti, che si cibano non di ciò che vogliono ma di ciò
che hanno, perché la loro terra è avara; inoltre non toccano vino, ma
bevono solo acqua, non hanno fichi da mangiare e nient'altro di buono. Insomma
se li batti cosa potrai ricavare da loro, visto che non possiedono nulla? Se
invece rimani sconfitto, pensa a quanti beni perdi! Se faranno tanto di gustare
le nostre risorse, se le terranno strette e noi non potremo mai più
liberarci dei Persiani. Per me io ringrazio gli dèi che non mettono in
mente ai Persiani di muovere guerra ai Lidi'. Pur con questi argomenti non
riusciva a persuadere Creso. In effetti i Persiani prima di sottomettere la
Lidia non possedevano nulla di delicato e di buono. Gli abitanti della
Cappadocia dai Greci sono chiamati Siri. Questi Siri prima del dominio persiano
erano stati sudditi dei Medi; allora lo erano di Ciro. Il confine tra il regno
dei Medi e quello dei Lidi correva lungo il fiume Alis, il quale scende dal
monte Armeno attraverso la Cilicia e poi, proseguendo nel suo corso, ha sulla
riva destra i Matieni e sulla sinistra i Frigi; più avanti risale verso
nord e separa i Siri della Cappadocia, sulla destra, dai Paflagoni, sulla
sinistra. In tal modo il fiume Alis delimita quasi tutta l'Asia inferiore, a
partire dal mare che fronteggia l'isola di Cipro fino al Ponto Eusino; questa
zona è un po' come una strozzatura dell'intero continente: un corriere
equigiato alla leggera impiega cinque giorni a percorrerla. Creso decise di
aggredire la Cappadocia per varie ragioni, un po' per desiderio di nuove terre
da annettere ai propri possedimenti, ma soprattutto perché aveva fiducia
nell'oracolo e voleva vendicare Astiage contro Ciro. Bisogna sapere che Ciro
lio di Cambise aveva rovesciato dal trono e teneva imprigionato Astiage,
lio di Ciassare e cognato di Creso nonché re dei Medi; cognato di Creso lo
era divenuto come sto per raccontare. In seguito a una sedizione una
tribù di nomadi Sciti era penetrata nel territorio dei Medi; a
quell'epoca re dei Medi era il nipote di Deioce e lio di Fraorte Ciassare il
quale in un primo momento aveva trattato con riguardo questi Sciti,
considerandoli supplici; li teneva in tanta considerazione che affidò
loro alcuni giovani perché ne imparassero la lingua e la tecnica di tiro con
l'arco. Passò del tempo; gli Sciti andavano regolarmente a caccia, e ne
tornavano regolarmente con qualche preda, ma una volta accadde che non
riuscirono a prendere nulla; vedendoli tornare a mani vuote Ciassare, che era,
e lo dimostrò, eccessivamente collerico, si rivolse loro piuttosto
duramente, finendo per offenderli. Vistisi oltraggiati in quel modo da Ciassare
e convinti di non esserselo meritato, gli Sciti decisero di tagliare a pezzi
uno dei giovani affidati alle loro cure, di cucinarne le carni come di solito
preparavano la selvaggina e di servirle a Ciassare come se fosse cacciagione;
dopo di che sarebbero riparati in tutta fretta a Sardi presso il re Aliatte
lio di Sadiatte. E così avvenne: Ciassare e i suoi comni di tavola
mangiarono quelle carni e gli Sciti, autori del misfatto, si fecero supplici di
Aliatte. Dopo qualche tempo, dato che Aliatte si rifiutava di soddisfare le
richieste di Ciassare di consegnare gli Sciti, fra Lidi e Medi scoppiò
una guerra, lunga cinque anni, nei quali varie volte i Medi sconfissero i Lidi
e varie volte i Lidi sconfissero i Medi; in quella guerra ebbe luogo anche una
battaglia notturna. Mantennero un sostanziale equilibrio fino alla fine del
conflitto, al sesto anno di lotta, quando, durante una battaglia,
nell'infuriare degli scontri, improvvisamente il giorno si fece notte. Questa
trasformazione del giorno era stata preannunciata agli Ioni da Talete di
Mileto, che aveva previsto come scadenza proprio l'anno in cui il fenomeno si
verificò. Lidi e Medi, quando videro le tenebre sostituirsi alla luce,
smisero di combattere e si affrettarono entrambi a stipulare un trattato di
pace. I mediatori dell'accordo furono Siennesi di Cilicia e Labineto di
Babilonia. Costoro sollecitarono anche un giuramento solenne e combinarono un
matrimonio incrociato: stabilirono che Aliatte concedesse sua lia Arieni al
lio di Ciassare Astiage, perché se non ci sono solidi legami di parentela i
trattati, di solito, non durano. Presso questi popoli il rituale del giuramento
è identico a quello greco: in più si praticano una incisione
sulla pelle del braccio e si succhiano a vicenda un po' di sangue. Ciro, per
una ragione che esporrò più avanti, aveva spodestato e teneva
prigioniero Astiage, che era suo nonno materno: è quanto Creso gli
rimproverava allorché mandò a interrogare l'oracolo sulla
possibilità di attaccare la Persia; ottenuto l'ambiguo responso, si
illuse di avere l'oracolo dalla propria parte e si mosse contro il territorio
persiano. Quando giunse sulla riva del fiume Alis, io credo che fece passare
dall'altra parte le sue truppe servendosi dei ponti allora esistenti; ma una
versione dei fatti molto diffusa fra i Greci vuole attribuire il merito
dell'attraversamento a Talete di Mileto. Si dice infatti che Talete si trovasse
lì nell'esercito nel momento in cui Creso era in grave difficoltà
non sapendo come traghettare i suoi soldati (perché a quell'epoca non sarebbero
esistiti ponti sull'Alis); allora pare che Talete sia riuscito a far scorrere
anche sul lato destro dell'esercito quel fiume che prima avevano solo sulla
sinistra, e ci riuscì nella maniera seguente. Ordinò di scavare
un profondissimo canale semicircolare che iniziava a monte dell'accampamento;
lo scopo era quello di incanalare le acque e di farle scorrere alle spalle
dell'esercito accampato, per poi farle rifluire nel vecchio letto una volta
superato l'accampamento; così il fiume fu diviso in due rami che
divennero immediatamente guadabili. C'è persino chi sostiene che
l'antico letto fu del tutto prosciugato, un'ipotesi per me del tutto
inaccettabile: come avrebbero potuto in tal caso attraversare il canale al
ritorno? 76 ·Creso dunque attraversò il fiume con le sue truppe e si
spinse in quella parte della Cappadocia che viene chiamata Pteria; la Pteria
è la regione che si estende grosso modo a sud della città di
Sinope sul Ponto Eusino ed è la zona più fortificata del paese;
qui si accampò cominciando a devastare i possedimenti dei Siri.
Espugnò la città di Pteria e ne ridusse in schiavitù gli
abitanti, occupò tutte le località circostanti e si accanì
a saccheggiare quella regione, che non aveva nessuna colpa verso di lui. Ciro
si diresse contro Creso dopo aver radunato l'esercito e prese con sé tutte le
popolazioni che lo separavano dall'invasore. Prima di muovere le sue truppe
aveva inviato araldi alle città della Ionia nel tentativo di sollevarle
contro Creso; ma gli Ioni non si erano lasciati convincere. Ciro raggiunse
Creso e pose il proprio accampamento di fronte al suo: qui, nella regione di
Pteria misurarono le rispettive forze. Ci fu una terribile battaglia, con
numerosi caduti da entrambe le parti, che si interruppe al sopraggiungere della
notte senza che uno dei due eserciti fosse riuscito a prevalere. Tanto fu
l'impegno profuso da tutti i combattenti. Creso, insoddisfatto della
consistenza numerica del proprio esercito (le truppe che avevano combattuto
erano assai inferiori a quelle di Ciro), a causa di tale sua insoddisfazione e
visto che il giorno dopo Ciro non arrischiava un altro assalto, tornò
precipitosamente a Sardi con l'intenzione di chiamare in suo aiuto gli Egiziani
(aveva stretto una alleanza pure con il re egiziano Amasi ancora prima che con
gli Spartani); di far accorrere anche i Babilonesi (anche con loro aveva
stipulato un trattato di alleanza militare; a quell'epoca il re di Babilonia
era Labineto); di notificare agli Spartani la scadenza entro la quale
presentarsi; contava di riunire gli alleati e radunare il proprio esercito, di
lasciar passare l'inverno e di marciare contro i Persiani all'inizio della primavera.
Con questo piano in mente, appena giunse a Sardi inviò araldi ai diversi
alleati per avvisarli che il raduno era fissato a Sardi di lì a quattro
mesi. L'esercito di cui già disponeva e che si era battuto contro i
Persiani, ed era composto di mercenari, lo congedò tutto e lasciò
che si sciogliesse: non avrebbe mai immaginato che Ciro, dopo aver sostenuto
una battaglia dall'esito così equilibrato, si sarebbe spinto fino a
Sardi. Mentre Creso meditava questo suo piano, i sobborghi di Sardi furono invasi
dai serpenti; e, al loro apparire, i cavalli, abbandonati i pascoli consueti,
accorsero a divorarli. Creso vedendo ciò pensò che si trattasse,
come in effetti era, di un presagio; subito inviò degli incaricati ai
Telmessi, i famosi indovini. Gli inviati di Creso giunsero a destinazione e
appresero il significato del prodigio ma non riuscirono a informarne il re:
prima che potessero imbarcarsi per ritornare a Sardi, Creso era stato fatto
prigioniero. I Telmessi avevano sentenziato che Creso doveva attendersi
l'invasione del proprio paese da parte di un esercito straniero il quale
avrebbe assoggettato la popolazione locale: spiegavano che il serpente era il
lio della terra e che il cavallo rappresentava il nemico straniero. I
Telmessi diedero questa risposta quando Creso era già stato catturato ma
quando ancora non potevano essere al corrente di ciò che era accaduto a
lui personalmente e alla città di Sardi. Non appena Creso si fu messo
sulla via del ritorno, dopo la battaglia svoltasi nella Pteria, Ciro
intuì che Creso, dopo essersi ritirato, avrebbe sciolto l'esercito;
riflettendo trovò che la cosa fondamentale a quel punto era avanzare su
Sardi con la massima celerità possibile, prima che le forze dei Lidi si
radunassero una seconda volta. Prese questa decisione e agì con
rapidità: spinse le sue truppe in Lidia e in pratica fu lui stesso ad
annunciare a Creso il proprio arrivo. Allora Creso, benché messo in grave
difficoltà dal corso degli eventi, così diversi da come se li era
prospettati, tuttavia guidò i suoi Lidi alla battaglia. A quell'epoca
non esisteva in Asia un popolo più valoroso e più forte dei Lidi:
combattevano da cavallo, armati di lunghe lance ed erano tutti eccellenti
cavalieri. Si fronteggiarono nella pianura antistante la città di Sardi,
una pianura ampia e sgombra: attraverso di essa scorrono l'Illo e altri
torrenti immettendosi nel fiume principale, l'Ermo, che nasce da un monte sacro
alla Gran Madre di Dindimo e sfocia poi in mare presso la città di
Focea. Ciro, quando vide i Lidi schierati per la battaglia, ebbe paura della
loro cavalleria e dietro suggerimento del Medo Aro operò come segue:
radunò tutti i cammelli al seguito del suo esercito per il trasporto di
vettovagliamenti e salmerie, li sbarazzò del carico e li fece montare da
soldati equigiati da cavalieri; al termine di tali preparativi,
ordinò a questi soldati di marciare in testa all'esercito contro la
cavalleria di Creso; ordinò poi alla fanteria di avanzare dietro ai
cammelli e infine alle spalle dei fanti schierò l'intera sua cavalleria.
Quando tutti furono al loro posto, diede l'ordine di massacrare senza
pietà ogni Lidio che trovassero sulla loro strada, ma di non uccidere
Creso, anche se avesse tentato di resistere alla cattura. Queste furono le sue
disposizioni: i cammelli li schierò di fronte alla cavalleria nemica
perché i cavalli hanno un grande terrore dei cammelli, non riescono a
sopportarne la vista e neppure a sentirne l'odore. Appunto per ciò aveva
escogitato questo astuto espediente, per impedire a Creso di utilizzare la
cavalleria, con la quale invece il re lidio contava di coprirsi di gloria. In
effetti quando avvenne lo scontro, non appena ebbero fiutato e visto i
cammelli, i cavalli retrocedettero, e Creso vide andare in fumo così
tutte le sue speranze. I Lidi tuttavia non si persero di coraggio per questo,
anzi, come si resero conto di ciò che stava accadendo, balzarono di
sella e si gettarono come fanti contro i Persiani. Alla fine, dopo molte
perdite da entrambe le parti, i Lidi presero la fuga: si asserragliarono dentro
le mura della città, dove furono assediati dai Persiani. I Persiani
dunque posero il loro assedio; e Creso, credendo che tale situazione si sarebbe
protratta a lungo, cominciò a fare uscire dei messaggeri dalla cinta delle
mura inviandoli ai propri alleati. I messaggeri precedenti portavano la
richiesta di concentrare gli aiuti a Sardi entro un termine di quattro mesi,
questi invece furono mandati a sollecitare soccorsi con la massima urgenza,
visto che Creso si trovava già assediato. Fra le varie città
alleate a cui mandò i suoi messaggi, c'era ovviamente anche Sparta.
Proprio in quel periodo gli Spartani avevano una contesa aperta con Argo a
proposito di una regione chiamata Tirea: gli Spartani avevano sottratto la Tirea
al dominio di Argo e la tenevano in loro potere. Il fatto è che tutta la
regione a ovest di Argo fino al capo Malea, tanto la parte continentale quanto
Citera e le altre isole, era in mano degli Argivi. Gli Argivi accorsero a
difesa del territorio che veniva loro sottratto: allora concordarono, dopo
varie trattative, di far combattere trecento soldati per parte e di assegnare
la regione ai vincitori. Il grosso dei due eserciti doveva ritirarsi nelle
rispettive sedi e non assistere al combattimento per evitare che una delle due
parti, vedendo i propri campioni in difficoltà, accorresse in loro
aiuto. Stretto questo patto, si ritirarono; i due gruppi di soldati scelti
rimasero sul campo e diedero inizio allo scontro. Si batterono con pari
successo, finché, di seicento che erano, rimasero in tre: per gli Argivi
Alcenore e Cromio, per gli Spartani Otriade. Al calar della notte
sopravvivevano solo questi tre. I due Argivi, ritenendosi vincitori, tornarono
di corsa ad Argo, invece lo Spartano Otriade spogliò delle armi i cadaveri
argivi, le trasportò nel proprio campo e continuò ad occupare il
suo posto di combattimento. Il giorno dopo vennero i due eserciti per
informarsi sull'esito della lotta e a quel punto entrambi si dichiararono
vincitori: gli Argivi sostenendo di essere rimasti in numero superiore, gli
Spartani facendo notare che gli avversari erano fuggiti mentre il loro campione
era rimasto sul campo e aveva spogliato i cadaveri nemici; insomma, litigando
vennero alle mani e ingaggiarono una vera e propria battaglia che fu vinta
dagli Spartani dopo grandi perdite da entrambe le parti. A partire da quel
momento gli Argivi, che per un ben saldo costume portavano i capelli molto
lunghi, si rasarono il capo e stabilirono per legge, con minaccia di
maledizione, che nessun Argivo si lasciasse mai più crescere i capelli e
che le donne non portassero mai più ornamenti d'oro, fino a quando non
avessero riconquistato Tirea. Invece gli Spartani introdussero una norma del
tutto contraria: essi, che non avevano mai portato i capelli lunghi, da quel
momento se li lasciarono crescere. E si racconta che Otriade, l'unico
superstite dei trecento, vergognandosi di ritornare a Sparta mentre tutti i
suoi comni erano morti, si sia tolto la vita ancora lì, nella Tirea.
Questa era la situazione degli Spartani quando giunse l'araldo di Sardi a
richiedere soccorsi per Creso assediato. Nonostante tutto essi, come ebbero
udito l'araldo, si mossero per organizzare i soccorsi. Quando ormai avevano
terminato i preparativi e le navi erano pronte a salpare, giunse un secondo
messaggio ad annunciare che le fortificazioni dei Lidi erano state espugnate e
che Creso era stato fatto prigioniero. Gli Spartani, profondamente addolorati
per l'accaduto, desistettero dalla spedizione. Ecco come i Persiani espugnarono
Sardi: Creso subiva ormai l'assedio da quattordici giorni, quando Ciro
mandò dei cavalieri attraverso le file del proprio esercito a diffondere
un annuncio: prometteva un grosso premio a chi avesse scavalcato per primo le
mura nemiche. In seguito, dopo tanti inutili tentativi, quando tutti gli altri
ormai avevano rinunciato, ci provò un Mardo, di nome Ireade, scalando
quella parte dell'acropoli dove non era stata posta alcuna sentinella proprio
perché non si temeva che da lì potesse venire conquistata; infatti su
quel lato la rocca scende giù a picco e si presenta inespugnabile.
Quello era anche l'unico lato intorno al quale l'antico re di Sardi Melete non
aveva fatto passare il leone natogli dalla sua concubina, allorquando i
Telmessi avevano sentenziato che Sardi non sarebbe mai caduta se il leone
avesse compiuto il giro delle mura; Melete lo aveva condotto intorno alle
fortificazioni in ogni punto in cui l'acropoli si prestava a un assalto, ma
aveva escluso proprio quello in quanto scosceso e quindi, come credeva,
inespugnabile: si tratta del lato della città che guarda verso il Tmolo.
Ebbene il Mardo Ireade il giorno prima aveva scorto un Lidio scendere da questa
parte dell'acropoli per recuperare un elmo rotolato dall'alto; notato il fatto,
non se l'era scordato. Allora diede personalmente la scalata e altri Persiani
lo seguirono; quando furono saliti in tanti, Sardi fu presa e l'intera
città messa a sacco. Ed ecco cosa accadde a Creso personalmente: come ho
già una volta ricordato aveva un lio che era ben dotato per il resto,
ma muto. Al tempo delle sue passate fortune Creso aveva fatto di tutto per lui
e fra gli altri tentativi escogitati aveva anche mandato a interrogare in
proposito l'oracolo di Delfi. E la Pizia così gli aveva risposto: Tu,
che sei di stirpe lidia e re di molti popoli, stoltissimo Creso, non augurarti
di udire in casa tua la desideratissima voce di tuo lio. Sarebbe molto
meglio che ciò non accadesse. Parlerà per la prima volta in un
giorno di sventura. Effettivamente quando le mura furono espugnate, un Persiano
che non lo aveva riconosciuto stava aggredendo Creso per ucciderlo; Creso dal
canto suo, pur vedendosi assalito, non se ne curò: nella sciagura che
ormai gli era toccata non gli importava di morire sotto i colpi. Ma suo lio,
il muto, quando vide che il Persiano lo stava aggredendo, per la paura e per il
dolore sciolse la voce e gridò: 'Uomo, non uccidere Creso!'.
Questa fu la prima volta; poi conservò la favella per tutta la vita. I
Persiani occuparono Sardi e fecero prigioniero Creso al quattordicesimo anno
del suo regno e al quattordicesimo giorno di assedio: Creso, come aveva
previsto l'oracolo, pose fine a un grande regno, il proprio. Quando i Persiani
lo catturarono, lo condussero davanti a Ciro; Ciro ordinò di erigere una
grande pira e vi fece salire Creso legato in catene e con lui quattordici
giovani Lidi; la sua intenzione era di consacrare queste primizie a qualche dio
o forse voleva sciogliere un voto; o forse addirittura, avendo sentito parlare
della devozione di Creso, lo destinò al rogo curioso di vedere se
qualche dio lo avrebbe salvato dal bruciare vivo. Così agiva Ciro; ma a
Creso, ormai in piedi sopra la pira, nonostante la drammaticità del
momento, venne in mente il detto di Solone: 'Nessuno che sia vivo è
felice'; e gli parvero parole ispirate da un dio. Con questo pensiero,
sospirando e gemendo, dopo un lungo silenzio, pronunciò tre volte il
nome di Solone. Ciro lo udì e ordinò agli interpreti di chiedere
a Creso chi stesse invocando; essi gli si avvicinarono e lo interrogarono.
Creso dapprima evitò di rispondere alle domande, poi, cedendo alle
insistenze rispose: 'Uno che avrei dato molto denaro perché fosse venuto a
parlare con tutti i re'. Ma poiché queste parole suonavano incomprensibili,
gli chiesero ulteriori spiegazioni. Visto che continuavano a infastidirlo con
le loro insistenze, raccontò come una volta si fosse recato da lui
Solone di Atene e dopo aver visto le sue ricchezze le avesse disprezzate; ne
riferì anche le affermazioni e narrò come poi tutto si fosse
svolto secondo le parole che Solone aveva rivolto non soltanto a lui, Creso, ma
a tutto il genere umano e specialmente a quanti a loro proprio giudizio si
ritengono felici. Mentre Creso raccontava questi fatti, la pira, a cui era
stato appiccato il fuoco, bruciava ormai tutto intorno. Ciro udì dagli
interpreti il racconto di Creso e cambiò parere: pensò che lui,
semplice essere umano, stava mandando al rogo, ancora vivo, un altro essere
umano, che non gli era stato inferiore per fortune terrene; inoltre gli venne
timore di una vendetta divina, al pensiero che nella condizione dell'uomo non
vi è nulla di stabile e sicuro, e ordinò di spegnere al
più presto il fuoco ormai divampante e di far scendere Creso e i suoi
comni. Ma nonostante tutti i tentativi non riuscivano ad avere ragione delle
fiamme. I Lidi raccontano che a questo punto Creso, resosi conto del
cambiamento avvenuto in Ciro e vedendo che tutti si sforzavano di domare il
fuoco e non ci riuscivano, invocò ad alta voce Apollo, supplicandolo di
stargli accanto e di salvarlo dalla sventura in cui si trovava, se mai una
delle sue offerte gli era riuscita gradita. Invocava il dio fra le lacrime
quando all'improvviso il cielo, prima sereno e privo di vento, si
annuvolò, scoppiò un temporale e cadde un violentissimo
acquazzone che spense completamente le fiamme. Allora Ciro, resosi conto che
Creso era un uomo giusto e caro agli dei, lo fece scendere dal rogo e gli
chiese: 'Creso, quale uomo ti convinse a marciare contro le mie terre, a
essermi nemico invece che amico?' E Creso rispose: 'Sovrano, ho agito
così per la tua felicità e per la mia rovina: di tutto questo il
colpevole fu il dio dei Greci, che mi esortò alla guerra. Perché nessuno
è così folle da preferire la guerra alla pace: in pace i li
seppelliscono i padri, in guerra sono i padri a seppellire i li. Ma piaceva
forse a un dio che le cose andassero come sono andate'. Così Creso
rispose. Ciro lo liberò dalle catene e lo fece sedere al suo fianco
trattandolo con molti riguardi: Ciro lo guardava con una sorta di ammirazione e
così quelli del suo seguito. Dal canto suo Creso rifletteva in silenzio,
ma a un certo punto si sollevò e, vedendo che i Persiani stavano
devastando la città dei Lidi, disse: 'Signore, nella situazione in
cui mi trovo posso dirti quello che penso o devo tacere?' Ciro lo
invitò a dire senza timori ciò che voleva e allora Creso gli
domandò: 'Che cosa sta facendo tutta questa gente con tanto
ardore?' Ciro rispose: 'Saccheggia la tua città, si spartisce
le tue ricchezze'. Ma Creso ribatté: 'No, non sta saccheggiando la
mia città né le mie ricchezze, perché queste cose non appartengono
più a me; quelli si stanno portando via la roba tua'. Ciro fu molto
colpito dalle parole di Creso; allontanò i presenti e gli chiese come
interpretasse quanto stava succedendo; e Creso rispose: 'Visto che gli dei
mi hanno dato a te come schiavo, mi pare giusto, se vedo più in
là di te, informartene. I Persiani, oltre a essere tracotanti per
natura, sono poveri; se tu dunque permetti loro di rapinare e ammassare grandi
ricchezze, attenditi pure che uno di loro, quello divenuto più ricco, si
ribelli contro di te. Ecco dunque, se convieni con me su quello che ti dico,
come dovresti agire: disponi a guardia di tutte le porte della città degli
uomini fidati i quali, sequestrando il bottino a chi esce, dichiarino che
è assolutamente indispensabile offrirne a Zeus la decima parte.
Così non se la prenderanno con te se gli sottrai con la forza la preda
di guerra e anzi, riconoscendo che ti comporti giustamente, vi rinunceranno
volentieri'. Ciro fu quanto mai lieto di udire questo consiglio, che gli
parve ottimo; lo approvò senz'altro e quando ebbe dato alle sue guardie
le istruzioni suggerite da Creso, si rivolse ancora a lui e gli disse:
'Creso, visto che sei disposto ad agire e a parlare con la nobiltà
di un re, chiedimi pure un dono, quello che vuoi, subito'. Creso
replicò: 'Signore, mi farai un grandissimo favore se mi permetti di
mandare queste catene al dio dei Greci, il dio da me più onorato, e di
chiedergli se è sua abitudine ingannare chi si comporta bene verso di
lui'. Ciro gli domandò il motivo di questa preghiera, che
rimproveri avesse da muovere al dio, e Creso gli raccontò ogni cosa,
risalendo al suo antico progetto e alle risposte degli oracoli: narrò in
particolare delle proprie offerte votive e di come avesse mosso guerra ai
Persiani spintovi dall'oracolo. Concluse il discorso pregando nuovamente che
gli fosse concesso di rivolgere al dio il suo biasimo. Ciro scoppiò a
ridere e disse: 'Non solo questo tu otterrai da me, ma qualunque altra
cosa di cui tu senta la necessità, in qualunque occasione'. Udito
ciò, Creso mandò a Delfi dei Lidi con l'ordine di posare le
catene sulla soglia del tempio e di chiedere al dio se non si vergognasse di
aver spinto Creso con i suoi responsi a muovere guerra ai Persiani con la
promessa che avrebbe abbattuto l'impero di Ciro; dovevano poi mostrare le
catene e dichiarare che erano le primizie ricavate da tale impero; e inoltre
dovevano chiedere se è abitudine degli dei Greci essere ingrati. Ai Lidi
che, giunti a Delfi, la interrogavano secondo le istruzioni ricevute, si dice
che la Pizia abbia risposto così: 'Neppure un dio può
sfuggire al destino stabilito. Creso ha scontato la colpa del suo quinto ascendente,
che era una semplice guardia del corpo degli Eraclidi e che, rendendosi
complice della macchinazione di una donna, uccise il proprio padrone e si
appropriò della sua autorità, senza averne alcun diritto. Il
Lossia ha fatto il possibile perché la caduta di Sardi avvenisse sotto i li
di Creso e non durante il suo regno, ma non è stato in grado di stornare
le Moire; quanto esse gli hanno concesso, il Lossia lo ha compiuto come un dono
per Creso: per tre anni ha differito la presa di Sardi; lo sappia, Creso, di
essere stato imprigionato con tre anni di ritardo sul tempo stabilito; e
un'altra volta lo ha soccorso quando già si trovava sul rogo. Quanto
all'oracolo, Creso muove rimproveri ingiusti. Perché il Lossia gli aveva
predetto che, se avesse marciato contro i Persiani, avrebbe distrutto un grande
dominio. Di fronte a questo responso se voleva prendere una decisione saggia
doveva mandare a chiedere ancora se il dio intendeva il dominio suo o quello di
Ciro. Non ha afferrato le parole del dio né chiesto ulteriori spiegazioni;
dunque, consideri se stesso responsabile di quanto è accaduto. E infine
consultando l'oracolo non comprese neppure le parole del dio sul mulo: questo
mulo era proprio Ciro. Ciro è nato, infatti, da due persone di diversa
nazionalità, di più nobile origine la madre, di condizioni
più modeste il padre; lei della Media e lia di Astiage, re dei Medi,
lui Persiano, suddito dei Medi: benché le fosse in tutto inferiore,
sposò la sua padrona'. Questa fu la risposta della Pizia ai Lidi;
essi la riportarono a Sardi e la riferirono a Creso, il quale, quando l'ebbe
appresa, riconobbe che la colpa era sua e non del dio. Questa è la
storia del regno di Creso e del primo assoggettamento della Ionia. Esistono in
Grecia anche molti altri doni di Creso, non solo quelli già elencati: a
Tebe, in Beozia, un tripode d'oro, dedicato ad Apollo Ismenio, a Efeso le
vacche d'oro e la maggior parte delle colonne, a Delfi, nel tempio di Atena
Pronaa, un grande scudo d'oro. Questi doni si conservano ancora ai miei tempi,
altri sono andati perduti. E sono venuto a sapere che gli oggetti dedicati da
Creso nel santuario dei Branchidi di Mileto sono pari, per quantità e
qualità, a quelli di Delfi. Le offerte a Delfi e al tempio di Anfiarao
erano costituite da oggetti suoi personali, derivanti dal patrimonio paterno;
tutte le altre provenivano dal patrimonio di un nemico, il quale, prima che
Creso salisse al potere, gli si era opposto caldeggiando l'ascesa al trono di
Pantaleonte. Pantaleonte era lio di Aliatte e fratello di Creso, ma non per
parte di madre: Creso era lio di Aliatte e di una donna caria, Pantaleonte
di una donna ionica. Creso, quando ottenne il potere per conferimento paterno,
uccise il suo oppositore facendolo torturare a morte; i suoi beni poi in base a
un voto precedente li dedicò nel modo che si è detto nei templi
sopra indicati. E con questo sia chiuso il discorso sulle offerte votive di
Creso. A differenza di altri paesi, la Lidia non offre molte meraviglie da
descrivere, ad eccezione delle liuzze d'oro che vengono trasportate
giù dal monte Tmolo. Possiede un'unica costruzione veramente gigantesca,
la più grande del mondo dopo i monumenti dell'Egitto e della Babilonia:
vi si trova la tomba di Aliatte, padre di Creso, il cui basamento è costituito
da enormi blocchi di pietra; il resto è un gran tumulo di terra.
Contribuirono a erigerla i mercanti della città, gli artigiani e le
ragazze con i proventi della prostituzione. Sulla sommità del sepolcro
ancora ai miei tempi correvano cinque pilastrini sui quali erano state incise
iscrizioni per ricordare il lavoro dovuto a ciascuna categoria: da una adeguata
valutazione risultava chiaro che il contributo delle ragazze era il maggiore.
Bisogna sapere che tutte le lie del popolo dei Lidi esercitano la
prostituzione, mettendo così insieme la propria dote, e lo fanno fino al
momento di sposarsi: e sono loro stesse a procurarsi il marito. Il perimetro
del sepolcro misura sei stadi e due pletri, mentre la sua larghezza è di
tredici pletri. Immediatamente accanto all'edificio si stende un vasto lago
detto Lago di Gige, che i Lidi sostengono essere perenne. E questo è
quanto. Le usanze dei Lidi sono molto simili a quelle dei Greci, se si eccettua
il fatto che prostituiscono le lie. Per quanto ne sappiamo furono i primi
uomini a fare uso di monete d'oro e d'argento coniate e i primi anche a
esercitare il commercio al minuto. Secondo i Lidi anche i giochi praticati oggi
dai Greci e dai Lidi sarebbero una loro invenzione: sostengono di averli
escogitati all'epoca in cui colonizzarono la Tirrenia; ma ecco in proposito la
loro versione. Sotto il regno di Atis lio di Mane si era abbattuta su tutta
la Lidia una terribile carestia: per un po' i Lidi avevano resistito, ma poi,
visto che la carestia non aveva fine, cercarono di ingannare la fame inventando
una serie di espedienti. E appunto allora sarebbero stati ideati i dadi, gli
astragali, la palla e tutti gli altri tipi di gioco, tranne i
'sassolini'; solo l'invenzione dei 'sassolini' non si
attribuiscono i Lidi. Ed ecco come fronteggiavano la fame con le loro scoperte:
un giorno lo trascorrevano interamente a giocare per non sentire il desiderio
di mangiare, il successivo lasciavano perdere i divertimenti e si cibavano.
Tirarono avanti con questo sistema di vita per ben diciotto anni. Ma poiché la
carestia non terminava e anzi la situazione si faceva sempre più grave,
allora il re dei Lidi divise in due parti l'intera popolazione e affidò
al sorteggio di decidere quale dovesse restare e quale dovesse emigrare dal
paese; alla parte cui sarebbe toccato restare assegnò se stesso come re
e a quella che sarebbe partita suo lio, che si chiamava Tirreno. I Lidi
designati dalla sorte a emigrare scesero fino a Smirne, costruirono una flotta
e su di essa caricarono quanto possedevano di valore: salparono poi alla
ricerca di una terra che procurasse loro i mezzi per vivere; oltrepassarono
numerosi paesi finché giunsero fra gli Umbri: qui fondarono delle città
e qui abitano a tuttoggi. E cambiarono anche il loro nome assumendo quello del
lio del re, che li aveva guidati: da allora, dal suo nome si chiamarono
Tirreni. I Lidi rimasti in patria caddero poi sotto il dominio dei Persiani. A
questo punto la narrazione esige che si indaghi sulla ura di Ciro, il re che
rovesciò il dominio di Creso, e sui Persiani, per spiegare in che modo
arrivarono alla conquista dell'Asia intera. Fonderò il mio resoconto
sulla base di quanto raccontano alcuni Persiani, quelli che non intendono
magnificare la storia di Ciro, ma semplicemente attenersi alla realtà
dei fatti; volendo sarei in grado di riferire altre tre versioni su Ciro. Ormai
da 520 anni gli Assiri dominavano sulla parte settentrionale dell'Asia, quando
i Medi, per primi, cominciarono a ribellarsi; e in qualche modo essi,
battendosi contro gli Assiri per l'indipendenza, si mostrarono ben valorosi:
riuscirono a scrollarsi di dosso la schiavitù e a ottenere la
libertà. Dopo di che altre popolazioni seguirono l'esempio dei Medi. Ma
quando tutti i popoli del continente furono indipendenti, caddero nuovamente
sotto un unico dominio. Ed ecco come. Viveva tra i Medi un uomo molto saggio,
che si chiamava Deioce e che era lio di Fraorte. Questo Deioce fu preso dal
desiderio del potere assoluto e agì come segue. I Medi risiedevano in
villaggi sparsi; nel proprio villaggio Deioce si segnalò, più di
quanto già non fosse stimato, praticando la giustizia con sempre
maggiore impegno; e agiva così mentre in tutta la Media quasi non
esisteva il rispetto delle leggi e benché sapesse che l'ingiusto è
ostile a chi è giusto. I Medi di quel villaggio in considerazione della
sua condotta lo scelsero come loro giudice. Lui per la verità era probo
e giusto perché aspirava al potere. In questo modo ottenne una notevole stima da
parte dei suoi concittadini, cosicché, quando negli altri villaggi si sparse la
voce che Deioce era l'unico retto nell'amministrare la giustizia, tutti quanti,
prima abituati ad avere a che fare con sentenze inique, appena intesero di
Deioce, furono ben lieti di accorrere da lui per dirimere le loro questioni;
alla fine non si rivolgevano più a nessun altro. La folla cresceva col
passare dei giorni perché si sapeva che i processi avevano l'esito dovuto;
Deioce, resosi conto di tenere ormai in pugno l'intera situazione,
rifiutò di sedersi sullo scranno dove sino ad allora si era installato
per dirimere le cause; e dichiarò che non avrebbe più emesso
sentenze: non era vantaggioso per i suoi affari occuparsi delle questioni
altrui e fare il giudice per tutta la giornata. Così, quando ruberie e
illegalità nei vari villaggi furono ancora più frequenti di
prima, i Medi si riunirono in assemblea e discussero fra di loro, parlando
della situazione presente (a parlare, io credo, furono soprattutto gli amici di
Deioce): 'Nelle condizioni attuali il nostro paese non è abitabile.
Nominiamo re uno di noi; il paese sarà regolato da buone leggi e noi
potremo dedicarci ai nostri affari senza i rischi dovuti al disordine
pubblico'. E con questi ragionamenti si convinsero a darsi un re. Quando
si trattò di proporre candidati per il trono, Deioce subito venne
candidato e decantato da tutti, finché decisero di eleggerlo. Deioce pretese
che gli edificassero un palazzo degno della sua condizione di re e che gli
conferissero un potere effettivo assegnandogli una scorta. E i Medi obbedirono:
gli costruirono una reggia grande e solida nel punto del paese da lui indicato
e gli consentirono di scegliersi fra tutti i Medi un corpo di guardia. Una
volta assunto il potere Deioce costrinse i Medi a costruire una città e
a occuparsi soprattutto di quella trascurando gli altri villaggi. Anche allora
i Medi obbedirono e innalzarono una grande e ben munita fortezza, che oggi si
chiama Ecbatana, costituita da una serie di mura concentriche. Essa è
studiata in modo tale che ogni giro di mura superi il precedente solo per
l'altezza dei bastioni. In certo qual modo anche la natura del luogo, che
è collinoso, contribuì a una simile realizzazione, ma molto di
più agirono le precise intenzioni dei costruttori. In tutto le mura di
cinta sono sette: l'ultima racchiude la reggia e i tesori; la più ampia
si estende all'incirca quanto il perimetro di Atene. I bastioni del primo giro
sono bianchi, quelli del secondo neri; sono rosso porpora al terzo, azzurri al
quarto e rosso arancio al quinto; i bastioni delle prime cinque cerchie sono
stati tinti con sostanze coloranti, invece le ultime due hanno bastioni
rivestiti rispettivamente di argento e d'oro. Queste opere murarie Deioce le
faceva costruire per sé e intorno alla propria reggia; al resto del popolo
ordinò di abitare all'esterno delle mura. Ultimati i lavori, Deioce
stabilì, e fu il primo a farlo, il seguente regolamento: a nessuno era
consentito presentarsi direttamente al re, ogni comunicazione doveva avvenire
tramite araldi, il re non poteva essere visto da nessuno; inoltre era vietato a
tutti, come atto indecoroso, anche ridere e sputare in sua presenza. Cercava di
rendere solenne tutto ciò che lo circondava, affinché i suoi antichi
comni, cresciuti con lui e non certo a lui inferiori per capacità
personali o per nobiltà di nascita, non finissero, vedendolo, per
irritarsi contro di lui e non gli cospirassero contro; anzi non vedendolo lo
avrebbero sempre considerato diverso da loro. Dopo aver introdotto queste norme
di comportamento ed essersi rafforzato con l'esercizio del potere, fu poi un
inflessibile guardiano della giustizia. Gli facevano pervenire per iscritto i
termini di una questione, all'interno della reggia, e Deioce da lì
giudicava le cause che gli venivano sottoposte ed emetteva le sue sentenze.
Così si regolava per i processi, ma prese anche altri provvedimenti: se
veniva a sapere che qualcuno aveva violato le leggi, lo convocava e gli
infliggeva una pena commisurata alla colpa commessa; a tale scopo aveva osservatori
e informatori sparsi in tutta la regione da lui governata. Deioce
unificò e governò soltanto il popolo dei Medi, il quale si
compone di varie tribù: Busi, Paretaceni, Strucati, Arizanti, Budi,
Magi. Queste sono le tribù dei Medi. lio di Deioce era Fraorte, il
quale alla morte del padre (avvenuta dopo un regno durato 53 anni)
ereditò il potere. Quando lo ebbe nelle sue mani non si
accontentò di regnare soltanto sui Medi, anzi compì una
spedizione militare contro i Persiani che furono i primi a subire il suo
attacco e i primi a diventare sudditi dei Medi. In seguito, disponendo di
queste due popolazioni, forti entrambe, intraprese la conquista dell'Asia
intera, avanzando da una nazione all'altra, fino a che entrò in guerra
con gli Assiri, o meglio con quelle genti assire che abitavano Ninive e che una
volta avevano avuto il dominio su tutti: a quell'epoca invece erano isolate in
seguito alla defezione dei loro alleati, ma godevano pur sempre di una ottima
situazione interna. Nel corso di quella spedizione Fraorte perì, dopo 22
anni di regno, e con lui fu distrutta la maggior parte dell'esercito.
|[continua]| |[LIBRO I, 3]| Deceduto Fraorte gli successe Ciassare, lio suo
e nipote di Deioce. Si racconta che Ciassare fosse ancor più valoroso, e
molto, dei suoi antenati. Fu anche il primo a dividere in corpi le truppe
dell'Asia e a schierare separatamente i soldati armati di lancia, quelli armati
di arco e i cavalieri; prima di lui stavano tutti mescolati in grande
confusione. Era lui quello che combatteva contro i Lidi quando durante la
battaglia il giorno si oscurò per farsi notte e fu lui a unificare sotto
il proprio scettro tutta l'Asia al di là del fiume Alis. Raccolse tutte
le forze di cui era a capo e marciò contro Ninive con l'intenzione di
vendicare il padre e di distruggere la città. Aveva sconfitto in
battaglia gli Assiri e stava assediando Ninive quando sopraggiunse un grosso
esercito di Sciti, guidato dal re degli Sciti Madie, lio di Protothie; essi
erano penetrati in Asia dopo aver scacciato dall'Europa i Cimmeri e si erano
spinti fino alla regione dei Medi proprio inseguendo i Cimmeri in fuga. Un
corriere equigiato alla leggera impiega trenta giorni di cammino per
arrivare dalla palude Meotide al fiume Fasi e alla Colchide; poi dalla Colchide
non occorre molto tempo per trasferirsi nella terra dei Medi: solo una
popolazione si frappone fra i due territori, i Saspiri, superati i quali si
è subito nella Media. Comunque gli Sciti non penetrarono da quella
parte, ma seguirono un percorso più settentrionale e assai più
lungo, tenendosi sulla sinistra della catena del Caucaso. I Medi si scontrarono
con gli Sciti, ma furono sconfitti in battaglia e persero la loro egemonia: gli
Sciti occuparono tutta l'Asia. Da lì si diressero verso l'Egitto, ma
quando giunsero nella Siria Palestina il re d'Egitto Psammetico andò
loro incontro e con donativi e suppliche li distolse dall'avanzare più
oltre. Essi poi, durante la loro ritirata, toccarono la città di
Ascalona, in Siria, e mentre la maggior parte di loro proseguì senza
causare danni, alcuni, rimasti indietro, saccheggiarono il tempio di Afrodite
Urania. Questo santuario, a quanto risulta dalle informazioni che ho ricevuto,
è il più antico di tutti quelli dedicati ad Afrodite; anche il
tempio di Cipro trasse origine da lì, come raccontano gli abitanti
stessi dell'isola, e quello di Citera l'hanno costruito dei Fenici che erano
per l'appunto nativi della Palestina. Sugli Sciti che saccheggiarono il tempio
di Ascalona e sui loro discendenti la dea scatenò la 'malattia
femminile': sono gli Sciti stessi a dare questa spiegazione per la loro
malattia, e del resto chi si reca in Scizia può constatare in che stato
si trovino coloro che gli Sciti chiamano 'Enarei'. Gli Sciti furono
padroni dell'Asia per 28 anni e ridussero tutto in uno stato disastroso con le
loro violenze e la loro incuria. Da un lato esigevano dai singoli i tributi che
avevano ad essi imposto, dall'altro, indipendentemente dai tributi,
percorrevano il paese saccheggiando tutto quello che trovavano. Ciassare e i
Medi riuscirono a eliminarne un gran numero ospitandoli e facendoli ubriacare;
in tal modo i Medi riottennero il loro predominio, assoggettarono le stesse
popolazioni di prima ed espugnarono Ninive (in che modo lo spiegherò in
un'altra parte del mio racconto), sottomettendo tutta l'Assiria a eccezione del
territorio di Babilonia. Più tardi Ciassare morì, dopo quaranta
anni di regno, compresi quelli del predominio scita. Nel regno gli succedette
il lio Astiage. Astiage ebbe una lia che chiamò Mandane; e una
volta sognò che Mandane orinava con tanta abbondanza da sommergere la
sua città e inondare l'Asia intera. Sottopose questa visione
all'attenzione di quei Magi che interpretano i sogni e si spaventò molto
quando essi gli spiegarono ogni particolare. Più avanti, quando Mandane
fu in età da marito, non volle concederla in moglie a nessun pretendente
medo, per degno che fosse: per la paura, sempre viva in lui, di quel sogno, la
diede a un Persiano, che si chiamava Cambise: lo trovava di buona casata, di
carattere tranquillo e lo giudicava molto al di sotto di un Medo di normale
condizione. Durante il primo anno di matrimonio di Cambise e Mandane, Astiage
ebbe una seconda visione: sognò che dal sesso della lia nasceva una
vite e che la vite copriva l'Asia intera. Dopo questa visione e consultati gli
interpreti, fece venire dalla Persia sua lia, che era vicina al momento del
parto, e quando arrivò la mise sotto sorveglianza, intenzionato a
eliminare il bambino che lei avrebbe partorito. Perché i Magi interpreti dei
sogni gli avevano spiegato, in base alla visione, che il lio di Mandane
avrebbe regnato al posto suo. Perciò Astiage prese tutte le precauzioni
e quando Ciro nacque chiamò Aro, un parente, il più fedele dei
Medi e suo uomo di fiducia in ogni circostanza, e gli disse: 'Aro, bada
di eseguire con grande attenzione l'incarico che ora ti affido e di non
ingannarmi; se abbracci la causa di altri col tempo te ne dovrai pentire.
Prendi il bambino partorito da Mandane, portalo a casa tua e uccidilo; poi fa
sparire il cadavere come preferisci'. E Aro rispose: 'Mio re, tu
non vedesti mai nulla in me, io credo, che non ti fosse gradito e anche in
avvenire starò bene attento a non commettere mai alcuna mancanza nei
tuoi confronti. E se ora vuoi che questo sia fatto, è mio dovere per
quanto dipende da me, servirti pienamente'. Dopo questa risposta gli fu
consegnato il bambino, già avvolto nei panni funebri; Aro si
avviò verso casa piangendo. Quando vi giunse riferì a sua moglie
tutte le parole di Astiage, ed essa gli chiese: 'E tu ora che cosa hai
intenzione di fare?' Le rispose: 'Non certo di obbedire agli ordini
di Astiage, neppure se sragionerà o se impazzirà peggio di quanto
già ora deliri: non mi associerò al suo disegno e non
eseguirò per lui un simile delitto. Non ucciderò il bambino per
molte ragioni, perché è mio parente e perché Astiage è vecchio e
non ha li maschi; se dopo la morte di questo bambino il potere
passerà a Mandane, di cui ora lui fa uccidere il lio servendosi di
me, cos'altro dovrò aspettarmi se non il più grave dei pericoli?
Per la mia incolumità è necessario che questo bambino muoia, ma a
ucciderlo dovrà essere uno di Astiage e non uno dei miei'. Disse
così e immediatamente inviò un messo a un mandriano di Astiage
che a quanto sapeva si trovava nei pascoli più adatti al suo disegno, su
montagne popolate da numerose bestie feroci: si chiamava Mitradate e viveva con
una donna, sua comna di schiavitù, che si chiamava Spaco e il cui nome
in greco suonerebbe Cino, dato che i Medi chiamano 'spaco' appunto il
cane. Le falde dei monti su cui questo mandriano pascolava il suo bestiame si
trovano a nord di Ecbatana in direzione del Ponto Eusino; infatti la Media in
questa direzione, verso i Saspiri, è assai montuosa, elevata e coperta
di boscaglie, mentre il resto del paese è tutto pianeggiante. Il bovaro,
dunque, convocato, si presentò con sollecitudine e Aro gli disse:
'Astiage ti ordina di prendere questo bambino e di andarlo a esporre sul
più solitario dei monti affinché muoia al più presto. E mi ha
ordinato di avvisarti che se non lo uccidi e in qualche maniera lo risparmi ti
farà morire tra i più terribili supplizi. Io ho il compito di
controllare che il bambino venga esposto'. Udito ciò il mandriano
prese il bambino, se ne tornò indietro per la stessa strada e giunse al
suo casolare. Per l'appunto anche sua moglie era in attesa di partorire un
lio da un giorno all'altro e, forse per opera di un dio, lo diede alla luce
durante il viaggio in città del marito. Erano preoccupati entrambi,
l'uno per l'altro, lui in apprensione per il parto della moglie, e lei perché
non era cosa abituale che Aro mandasse a chiamare suo marito. Quando lui
ritornò, fu la moglie, come se avesse disperato di rivederlo, a
chiedergli per prima per quale ragione Aro lo avesse chiamato con tanta
fretta. E lui rispose: 'Moglie mia, sono andato in città e ho visto
e udito cose che vorrei non aver visto e che non fossero mai accadute ai nostri
padroni: tutta la casa di Aro era in preda al pianto e io vi entrai
sconvolto. Appena dentro ti vedo un neonato, lì in terra, che si agita e
piange con indosso un vestitino ricamato e ornamenti d'oro. Aro come mi vede
mi ordina di prendere il bambino, di portarlo via con me e di andarlo poi a
esporre sulle montagne più infestate dalle fiere, dicendo che questi
sono ordini di Astiage e aggiungendo molte minacce nel caso io non li esegua. E
io l'ho preso con me credendo che fosse lio di qualche servo. Non potevo
immaginare da chi era nato. Ma mi sembravano un po' strani quegli ornamenti
d'oro e quei tessuti preziosi e il pianto generale che regnava nella casa di
Aro. Più avanti lungo la strada vengo a sapere tutta la verità
dal servo incaricato di accomnarmi fuori le mura e di consegnarmi il
neonato: è il bambino di Mandane, la lia di Astiage, e di Cambise,
lio di Ciro, e Astiage ordina di ucciderlo! Ora eccolo qua'. Il
mandriano diceva queste parole e intanto svolgeva il fagotto per mostrare il
bambino. Quando lei vide il neonato così sano e bello, scoppiò a
piangere e afferrando le ginocchia del marito lo scongiurava di non esporlo, in
nessuna maniera. Ma lui sosteneva di non poter fare altrimenti; sarebbero
venuti degli spioni di Aro a controllare, e lui sarebbe stato condannato a
una morte orribile se non avesse eseguito gli ordini. Non riuscendo a
persuadere il marito la donna tentò una seconda strada e gli disse:
'Visto che non riesco a persuaderti a non esporlo, tu almeno fai come ti
dico io, se proprio è assolutamente inevitabile che la si veda esposta,
questa creatura: devi sapere che anch'io ho partorito, ma ho dato alla luce un
bambino morto; prendilo ed esponilo e noi invece alleviamoci il nipotino di
Astiage come se fosse nostro. In questo modo non si accorgeranno della tua
colpa verso i padroni e noi non avremo preso una brutta decisione: il nostro
bambino morto avrà una sepoltura da re e l'altro non perderà la
vita'. Al mandriano parve assai saggia in quella circostanza la proposta
della moglie e immediatamente la mise in opera. Affidò alla moglie il
bambino che aveva portato con sé per ucciderlo, quindi prese il cadaverino del
proprio lio e lo pose nel cesto dentro cui aveva trasportato l'altro; lo
vestì con gli arredi regali, lo portò sul più solitario dei
monti e ve lo lasciò. Due giorni dopo l'esposizione del bambino, il
mandriano tornò in città dopo aver lasciato lassù di
guardia uno dei suoi aiutanti; si recò in casa di Aro e si
dichiarò pronto a mostrare il corpo senza vita del neonato. Aro mandò
le più fedeli delle sue guardie del corpo a constatare per lui il fatto:
ma quello che seppellirono fu il lioletto del mandriano. E così
mentre l'uno fu seppellito, la moglie del pastore tenne con sé l'altro, che
più tardi fu chiamato Ciro e lo allevò, dandogli un altro nome e
non quello di Ciro. Quando il ragazzo aveva dieci anni si verificò un
episodio che rivelò la sua identità: giocava nel villaggio dove
erano anche gli stazzi del bestiame, giocava per strada con dei coetanei; e
giocando i bambini lo avevano eletto loro re, lui che per tutti era 'il
lio del mandriano'. E lui distribuiva le mansioni: voi dovete
costruirmi un palazzo, voi essere le mie guardie; tu sarai 'l'occhio del
re', a te tocca l'incarico di portare i messaggi: insomma a ognuno
assegnava il suo compito. Ma uno dei bambini che giocavano con lui era il
lio di Artembare, uomo di grande prestigio fra i Medi, e non volle obbedire
agli ordini di Ciro; allora Ciro comandò agli altri ragazzi di
arrestarlo e, quando essi ebbero obbedito, punì assai duramente il
ribelle facendolo fustigare. Appena lasciato libero, il ragazzo, ancora
più infuriato al pensiero di aver subito un trattamento indegno della
sua condizione, si recò in città a lamentarsi col padre
dell'affronto ricevuto da Ciro, naturalmente non parlando di Ciro (non poteva
essere questo il nome) ma del 'lio del mandriano' di Astiage.
Artembare, adirato com'era, si recò da Astiage conducendo con sé il
lioletto e si lamentò di aver subito dei mostruosi oltraggi:
'Signore, - disse - ecco la violenza insolente che abbiamo patito da parte
di un tuo servo, dal lio di un bovaro'; e mostrava la schiena del
lio. Astiage udì e vide; e desiderando vendicare il bambino per
riguardo ad Artembare, fece chiamare il mandriano e il suo ragazzo. Quando
furono entrambi presenti, Astiage, guardando in faccia Ciro, disse:
'Dunque tu, che sei lio di un pover'uomo, hai osato trattare
così ignominiosamente il lio di un uomo che è il primo nella
mia corte?' E il ragazzo rispose: 'Signore, quello che gli ho fatto
è stato secondo giustizia: i ragazzi del villaggio, lui compreso, mentre
giocavamo mi elessero loro re ritenendomi il più adatto a questo titolo.
Ora, tutti gli altri bambini eseguivano i miei ordini, lui invece non li voleva
ascoltare e non ne teneva il minimo conto, fino a quando ha avuto la giusta
punizione. Se dunque, per questo, mi merito un castigo, sono qui a tua
disposizione'. Mentre il bambino dava questa risposta poco per volta
Astiage lo riconosceva: gli pareva che i lineamenti del viso fossero molto
simili ai propri, troppo libero il tono della risposta; e anche l'epoca
dell'esposizione corrispondeva all'età del ragazzo. Impressionato da
questi particolari, per un po' rimase senza parola; poi, ripresosi a stento,
aprì bocca per congedare Artembare e per poter interrogare da solo a
solo il mandriano: 'Artembare - disse - agirò in maniera che tu e
tuo lio non possiate lamentarvi'. Mandò via Artembare e diede
ordine ai servi di condurre Ciro in un'altra stanza. Quando il mandriano rimase
solo, Astiage gli chiese dove avesse trovato quel bambino e chi glielo avesse
consegnato. Rispose che era lio suo e che la donna che lo aveva dato alla
luce viveva ancora con lui. Ma Astiage ribatté che non era una buona idea quella
di candidarsi ad atroci supplizi, e intanto faceva cenno alle guardie di
arrestarlo; mentre veniva condotto alla tortura confessò ogni cosa. A
cominciare dall'inizio raccontò tutto per filo e per segno e giunse
infine a pregare e a implorare il perdono. Dopo che il mandriano gli ebbe
rivelato la verità, Astiage non si curò più di lui: ormai
era enormemente adirato con Aro e ordinò alle sue guardie di andarlo
a chiamare. Quando Aro fu al suo cospetto, Astiage gli chiese: 'Aro,
che sorte hai riservato al bambino che ti consegnai, e che era nato da mia
lia?' E Aro, vedendo lì nella sala il mandriano, non
tentò più la via della menzogna, per non correre il rischio di
venire smentito e disse: 'Mio re, appena ebbi in mano il bambino studiai
come regolarmi secondo la tua volontà e nello stesso tempo non risultare
colpevole verso di te, non essere un omicida agli occhi di tua lia e ai
tuoi. Decisi di agire così: chiamai il mandriano qui presente e gli
consegnai il neonato, dicendogli che eri tu a ordinare di ucciderlo; e con
queste parole io non mentivo perché proprio tu avevi dato quelle disposizioni.
Glielo consegnai precisando che doveva esporlo su di un monte deserto e restare
lì di guardia fino a quando fosse morto, e aggiunsi le più varie
minacce nel caso che non eseguisse gli ordini. Quest'uomo eseguì quanto
gli era stato comandato e il bambino morì, allora io mandai i più
fedeli dei miei eunuchi e attraverso di loro constatai l'accaduto e feci
seppellire il neonato. Ecco come andarono le cose, mio signore, e questa
è la sorte che toccò al bambino'. Aro quindi disse tutta
la verità e Astiage, nascondendo la rabbia che lo divorava per quanto
era successo, per prima cosa ripeté ad Aro la versione dei fatti come l'aveva
appresa dal mandriano; poi alla fine del racconto disse che il bambino era vivo
e che era bene che tutto fosse finito così. 'Ero molto addolorato -
disse - al pensiero di ciò che avevo fatto a questo bambino e mi pesava
il rancore di mia lia. Ora visto che tutto è andato per il meglio,
manda qui tuo lio presso il ragazzo appena arrivato e poi, visto che ho
intenzione di offrire un sacrificio di ringraziamento per l'avvenuta salvezza
agli dei cui spetta questo onore, vieni a cena da me'. Udito ciò
Aro si prosternò e si avviò verso casa contento che la sua
colpa avesse avuto un esito positivo e di essere stato invitato a cena con
tanti buoni auspici. Appena entrò in casa si affrettò a inviare a
corte il proprio unico lio, che aveva circa tredici anni, ordinandogli di andare
da Astiage e di fare tutto quello che lui comandasse. Poi, tutto lieto,
andò a raccontare alla moglie quanto era accaduto. Ma Astiage, quando il
lio di Aro fu da lui, lo uccise, lo squartò in tanti pezzi e ne
fece cucinare le carni una parte lessate e una parte arrosto e le tenne pronte.
Venne l'ora della cena: si presentarono tutti i convitati fra i quali Aro.
Davanti agli altri e allo stesso Astiage furono imbandite mense ricolme di
carne di montone, invece ad Aro furono servite tutte le carni del lio,
tranne la testa e le mani e i piedi, che stavano a parte celate in un canestro.
Quando Aro si sentì sazio di cibo, Astiage gli domandò se le
portate erano state di suo gusto e Aro rispose che gli erano piaciute molto;
allora dei servi, precedentemente istruiti, gli misero davanti la testa, le
mani e i piedi del ragazzo ancora coperte e standogli di fronte lo invitarono a
scoperchiare il piatto e a servirsi liberamente. Aro obbedì,
scoperchiò il piatto, vide i resti del lio: li vide, ma rimase
impassibile e riuscì a dominarsi. Astiage gli chiese se riconosceva
l'animale delle cui carni si era cibato e lui rispose che lo riconosceva e che
per lui andava bene ogni cosa che il re facesse. Dopo aver così
risposto, raccolse i resti delle carni e se ne tornò a casa. E
lì, credo, li ricompose e seppellì. E questa fu la punizione che
Astiage inflisse ad Aro. Nei confronti di Ciro, rifletté un po' e poi
mandò a chiamare gli stessi Magi che a suo tempo gli avevano
interpretato il sogno; quando furono davanti a lui, Astiage chiese loro di
ripetergli la spiegazione della visione, ed essi ribadirono che il bambino era
destinato a regnare se fosse rimasto in vita e non fosse morto prima. Il re
ribatté: 'Il bambino c'è ed è vivo e mentre viveva in
camna i bambini del suo villaggio lo hanno eletto re: lui si è
comportato esattamente come un vero sovrano: ha creato guardie del corpo,
custodi delle porte, messaggeri e tutto il resto, e ha regnato. E ora tutto
questo, secondo voi, a che cosa porta?' I Magi risposero: 'Se il
ragazzo è vivo e ha regnato senza un disegno predisposto, allora per
quanto lo riguarda puoi stare tranquillo e rallegrarti: non regnerà una
seconda volta. Infatti è già successo che alcuni dei nostri
vaticinii si siano risolti in poca cosa e che il contenuto dei sogni abbia
perso ogni sua consistenza'. E Astiage concluse: 'Anch'io, Magi, sono
quasi del tutto convinto che il sogno si è già realizzato: questo
bambino ha già ricevuto il titolo di re, e dunque non rappresenta
più per me un pericolo. Tuttavia esaminate per bene la questione e
aiutatemi a prendere una decisione che garantisca la massima sicurezza per la
mia casa e per voi stessi'. Al che i Magi risposero: 'Sovrano, anche
per noi è molto importante che il potere rimanga ben saldo nelle tue
mani, perché se passa a questo ragazzo, che è Persiano, cade nelle mani
di un'altra nazione e noi che, siamo Medi, diventeremo schiavi e non godremo
del minimo prestigio presso i Persiani, essendo stranieri. Se invece rimani re
tu, che sei nostro concittadino, abbiamo anche noi la nostra parte di potere e
riceviamo da te grandi onori. Perciò è assolutamente nostro
interesse vegliare su di te e sul tuo regno; e ora, se vedessimo qualche motivo
per avere paura, te ne avviseremmo senz'altro. Ma ora, poiché il sogno si
è risolto in una cosa da nulla, da parte nostra abbiamo fiducia e ti
consigliamo di fare altrettanto. Questo ragazzo mandalo lontano dai tuoi occhi,
fra i Persiani, dai suoi genitori'. Astiage fu lieto di udire questo
consiglio, fece chiamare Ciro e gli disse: 'Ragazzo, io sono stato
ingiusto con te a causa di un sogno risultato vano, e tu sei vivo perché
così ha voluto il tuo destino. Ora sii contento di andare fra i
Persiani; io ti farò scortare fino là. Là troverai un padre
e una madre ben diversi da Mitradate, il bovaro, e da sua moglie'.
Così disse e congedò Ciro. Ad accogliere Ciro di ritorno nella
casa di Cambise c'erano i suoi genitori i quali, quando seppero chi era, lo
salutarono con grande affetto, perché lo credevano morto subito a suo tempo; e
continuavano a chiedergli come fosse riuscito a salvarsi. E lui raccontò
che fino a poco prima era vissuto nell'errore ignorando ogni cosa e che solo
lungo il viaggio era venuto a conoscenza di tutte le sue vicissitudini; si era
sempre creduto lio di un mandriano di Astiage, invece, dopo la partenza da
Ecbatana, aveva appreso tutta la verità dai suoi accomnatori.
Raccontò di essere stato allevato dalla moglie del mandriano e non
smetteva di profondersi in lodi nei suoi confronti: e in tutti i suoi discorsi
non parlava che di Cino. I genitori tennero a mente questo nome e, per dare
agli occhi dei Persiani una coloritura miracolosa alla avvenuta salvezza del
fanciullo, misero in giro la voce che Ciro, esposto, era stato allevato da una
cagna. Di qui ebbe origine questa leggenda. Poi Ciro si fece adulto ed era il
più coraggioso fra i suoi coetanei e il più benvoluto. Aro
faceva di tutto per ingraziarselo mandandogli doni, desideroso com'era di
vendicarsi di Astiage: non vedeva come da solo, essendo un comune cittadino,
avrebbe potuto vendicarsi, ma vedeva Ciro crescere e cercava di farselo
alleato, paragonando i gravi torti da entrambi subiti. Già prima si era
dato da fare in questo senso: sfruttando il comportamento odioso di Astiage nei
confronti dei Medi, Aro, avvicinando ciascuno dei maggiorenti medi, tentava
di convincerli che occorreva deporre Astiage e offrire il regno a Ciro.
Compiute queste manovre, quando si sentì pronto, Aro volle esporre il
suo piano a Ciro, il quale però viveva in Persia; le strade erano sotto
controllo e perciò, in mancanza di altre soluzioni, ricorse a un
espediente. Si servì di una lepre alla quale aprì il ventre senza
rovinarne il pelo, ma lasciandolo intatto; nel ventre nascose un messaggio in
cui descriveva il suo piano; ricucì il ventre della lepre che
consegnò, insieme con una rete, come se fosse un cacciatore, al
più fidato dei suoi servitori; lo inviò in Persia con l'ordine di
consegnare la lepre a Ciro personalmente e di invitarlo a sventrare la bestia
di sua mano e quando nessuno fosse presente. Così dunque fu fatto e
Ciro, avuta la lepre, la squarciò; vi trovò dentro la lettera, la
prese e la lesse. Il contenuto del messaggio suonava così: 'lio
di Cambise, gli dei ti guardano con favore, altrimenti non saresti mai giunto a
tanta fortuna; e allora vendicati di Astiage, il tuo assassino: se fosse dipeso
dai suoi desideri tu saresti morto, se sei vivo lo devi agli dei e a me. Credo
che tu sia a conoscenza ormai da un pezzo di quello che hanno fatto a te e di
quello che ho subito io da parte di Astiage, per non averti ucciso ma
consegnato al mandriano. Tu dunque, se mi darai ascolto, potrai regnare su
tutta la terra su cui ora regna Astiage. Convinci i Persiani a ribellarsi e
marcia contro la Media. E se io sarò nominato da Astiage generale in
capo contro di te, tutto ciò che vorrai è già tuo. E
così sarà pure se viene designato un altro dei Medi più
illustri. Essi saranno i primi a ribellarsi ad Astiage e a passare dalla tua
parte e faranno di tutto per abbatterlo. Considera che tutto qui è
pronto e agisci, ma agisci in fretta'. Apprese queste notizie, Ciro
pensò al modo più accorto per convincere i Persiani alla rivolta
e riflettendo trovò il più opportuno e lo mise in opera: scrisse
quanto serviva al suo scopo in una lettera e convocò una assemblea dei
Persiani. Quindi aprì la lettera e scorrendola dichiarò che
Astiage lo nominava capo dei Persiani: 'Ora, Persiani, - disse - vi invito
a presentarvi qui ciascuno con una falce'. Proprio questo fu l'ordine di
Ciro. Le tribù persiane sono numerose; Ciro convocò e indusse a
ribellarsi ai Medi solo quelle a cui fanno capo poi tutti i Persiani:
Pasargadi, Marafi e Maspi. Fra questi i più nobili sono i Pasargadi, ai
quali appartiene anche la famiglia degli Achemenidi, da dove provengono i re
discendenti di Perseo. Altri Persiani sono i Pantialei, i Derusiei, i Germani;
si tratta di tribù tutte dedite all'agricoltura, le rimanenti invece
sono nomadi: i Dai, i Mardi, i Dropici, i Sagarti. Quando furono tutti presenti
con in mano la falce, allora Ciro ordinò loro di andare a falciare prima
di sera un terreno che si trovava lì in Persia, tutto coperto di sterpi
ed esteso per un quadrato di 18 o 20 stadi di lato. I Persiani compirono la
fatica ordinata e Ciro diede loro una seconda disposizione: dovevano
presentarsi la mattina seguente dopo aver fatto il bagno. Nel frattempo Ciro
radunò tutte le greggi di capre e di pecore e tutte le mandrie di suo
padre, le fece macellare e cucinare, pronto ad ospitare la massa di Persiani, e
vi aggiunse vino e cibarie, tra i più squisiti. La mattina dopo Ciro
sistemò su di un prato i Persiani venuti e offrì loro un grande
banchetto. Quando ebbero finito di mangiare Ciro domandò se preferivano
il trattamento attuale o quello del giorno prima. Ed essi risposero che c'era
una gran bella differenza: il giorno prima gli erano toccati solo guai, al
presente invece solo cose belle. Ciro colse al volo queste parole e,
manifestando la sua intenzione, disse: 'Persiani, dipende proprio da voi:
se volete darmi ascolto vi attendono questi e molti altri piaceri e non
conoscerete più fatiche da schiavi; se invece non volete obbedirmi vi
attendono innumerevoli fatiche pari a quella di ieri. Seguite me, dunque, e
sarete liberi. Io credo di essere nato col divino soccorso della sorte per
condurre con le mie mani questa impresa e ritengo che voi siate uomini per
nulla inferiori ai Medi, né in guerra né in nessun altro campo. Questa è
la realtà dei fatti e ora voi ribellatevi contro Astiage al più
presto'. I Persiani, avendo trovato un capo, furono ben lieti di lottare
per la libertà: già da tempo non tolleravano più di essere
comandati dai Medi. Astiage, come seppe dei preparativi di Ciro, mandò un
messaggero a convocarlo, ma Ciro ordinò al messaggero di riferire ad
Astiage che sarebbe arrivato da lui prima di quando Astiage stesso avrebbe
desiderato. Udita tale risposta, Astiage mise in armi tutti i Medi e
nominò loro comandante Aro, dimenticando, quasi fosse accecato da un
dio, tutto il male che gli aveva fatto. Quando i Medi scesero in campo e si
scontrarono con i Persiani, alcuni di loro combatterono, quanti non erano a
parte della congiura, altri passarono dalla parte dei Persiani, i più
scelsero la strada della viltà e si dispersero. Non appena Astiage venne
a sapere che l'esercito medo si era vergognosamente dissolto, esclamò
con tono di minaccia per Ciro: 'Nonostante tutto Ciro non potrà
rallegrarsene!' Disse così e per prima cosa fece impalare quei Magi
interpreti di sogni che gli avevano consigliato di risparmiare Ciro, poi
armò tutti i Medi rimasti in città, giovani e vecchi. Li
guidò fuori delle mura e con loro attaccò i Persiani, ma fu
sconfitto: Astiage stesso fu catturato e perse i Medi che aveva fatto scendere
in campo. Allora Aro piazzatosi di fronte ad Astiage, ormai prigioniero, lo
derideva e lo beffeggiava, con parole che potessero ferirgli il cuore: in
particolare, in cambio del banchetto che gli aveva offerto con le carni del
lio, gli chiedeva come trovasse la schiavitù dopo essere stato re.
Astiage guardandolo in faccia gli domandò se considerava opera sua
l'impresa di Ciro; al che Aro rispose che era stato lui a scrivere a Ciro, e
che quindi riteneva a ragione opera sua quell'impresa. Allora Astiage gli dimostrò
a rigor di logica che era l'uomo più imbecille e più colpevole
del mondo: il più imbecille perché potendo diventare re lui stesso, se
tutto davvero era accaduto grazie a lui, aveva rimesso il potere nelle mani di
un altro; e il più colpevole perché a causa di una cena aveva reso
schiavi i Medi: se proprio doveva affidare a qualcun altro il regno e non
tenerlo nelle proprie mani sarebbe stato più giusto trasmetterlo a un
Medo e non a un Persiano; ora invece i Medi senza averne alcuna colpa da padroni
erano diventati schiavi, mentre i Persiani, che prima erano schiavi dei Medi,
erano diventati ora i loro padroni. Astiage dunque fu spodestato dal trono dopo
35 anni di regno e i Medi, a causa della sua crudeltà, piegarono il capo
davanti ai Persiani; essi avevano mantenuto per 128 anni la sovranità
sui territori asiatici dell'alto corso dell'Alis meno il periodo del predominio
scita. Molto più tardi si pentirono del loro antico comportamento e
insorsero contro Dario; ma dopo essersi ribellati, conobbero la sconfitta sul
campo e vennero nuovamente assoggettati. I Persiani e Ciro, sollevatisi contro
i Medi al tempo di Astiage, furono da allora i padroni dell'Asia. Ciro non si
accanì ulteriormente contro Astiage e lo tenne presso di sé fino a
quando morì. Così Ciro nacque e fu allevato e così ottenne
il regno: in seguito, come ho già raccontato, sottomise Creso, che aveva
dato lui l'avvio alle ingiustizie; e quando lo ebbe sottomesso estese la
propria egemonia su tutta l'Asia. Io so per averlo constatato di persona che
presso i Persiani sono in vigore le seguenti usanze: non è loro
consuetudine erigere statue degli dei o templi o altari e anzi accusano di
stoltezza quanti lo fanno; a mio parere ciò si spiega perché non hanno
mai pensato, come i Greci, che gli dei abbiano ura umana. Essi di solito
offrono sacrifici a Zeus salendo sulle montagne più alte; e chiamano
Zeus l'intera volta del cielo. Sacrificano al sole, alla luna, alla terra, al
fuoco, all'acqua e ai venti. Queste sono le sole divinità cui dedicano offerte
fin dalle origini; più tardi hanno appreso dagli Assiri e dagli Arabi a
compiere sacrifici anche a Urania. Gli Assiri chiamano questa dea Afrodite
Militta, gli Arabi la chiamano Alilàt e i Persiani Mitra. Ed ecco come
si svolge presso i Persiani il rito di sacrificio agli dei or ora ricordati:
quando devono fare la loro offerta non costruiscono altari e non accendono il
fuoco; non praticano la libagione, non usano flauti, né bende sacre né grani
d'orzo salati. Chi voglia compiere sacrifici a uno di quegli dei conduce la
vittima in un luogo puro, si lega intorno alla tiara una coroncina, di mirto
per lo più, e invoca il dio. Non è lecito pregando chiedere
vantaggi per sé personalmente: chi invoca del bene lo fa per tutti i Persiani e
per il re; lui stesso ovviamente risulta compreso fra tutti i Persiani. Quando
poi ha tagliato a pezzetti le carni della vittima e le ha bollite, le depone
tutte su un tappeto d'erba la più tenera possibile (per lo più
trifoglio) da lui precedentemente preparato; dopo che le ha ben sistemate, un
Mago lì presente canta una teogonia, come essi stessi definiscono la
formula dell'invocazione; si noti che essi non compiono mai un sacrificio se
non è presente un Mago. Il sacrificante si trattiene un po' di tempo: quindi
si riporta via le carni che usa poi come meglio gli aggrada. Fra tutti i giorni
dell'anno è loro costume onorare particolarmente quello del compleanno:
in questa circostanza ritengono giusto mangiare con più abbondanza che
negli altri giorni: i più benestanti si fanno servire un vitello, un
cavallo, un cammello e un asino cotti al forno tutti interi: i poveri, invece,
si cucinano animali domestici di taglia minore. In generale non hanno molti
piatti principali, ma usano molto i contorni, distribuiti per tutto il pasto;
per questo i Persiani dicono che i Greci hanno ancora appetito quando smettono
di mangiare, perché non si fanno servire dopo il pranzo nessuna leccornia:
altrimenti, aggiungono, non smetterebbero di mangiare. Per il vino i Persiani
hanno una vera passione. A loro è vietato vomitare e orinare di fronte
ad altri; e rispettano accuratamente questa norma, ma hanno l'abitudine di
discutere le questioni più serie in stato di ubriachezza; le decisioni
eventualmente prese vengono riproposte il giorno seguente, da sobri, dal
padrone della casa in cui si trovano a discutere: se le approvano anche da
sobri le confermano altrimenti le lasciano cadere. Se la prima decisione
avviene quando sono lucidi, la ridiscutono da ubriachi. Quando due Persiani si
incontrano per strada allora si può stabilire se sono di pari
condizione: infatti in questo caso invece di salutarsi, si baciano sulla bocca;
se però uno dei due è di condizione appena inferiore, si baciano
sulle guance; se il divario di rango è notevole allora l'inferiore si
getta ai piedi dell'altro e si prosterna. Dopo se stessi, fra tutti stimano in
primo luogo i popoli insediati più vicini a loro, poi quelli subito
oltre e così via, proporzionando la stima alla distanza: si considerano
da ogni punto di vista gli uomini migliori, mentre gli altri, pensano, si
attengono alla virtù in misura inversamente proporzionale: e
perciò quelli che abitano più lontano da loro sarebbero i
peggiori. All'epoca della sovranità dei Medi esisteva un criterio
gerarchico fra le varie popolazioni: i Medi dominavano su tutti i popoli e in
particolare sui più vicini; questi a loro volta sui propri confinanti e
così via; è lo stesso criterio in base al quale i Persiani
attribuiscono la loro stima: ogni popolazione prevaleva sull'altra dominandola
ed esercitando su di essa un diritto di tutela. Quello persiano è il
popolo più di ogni altro disposto ad accogliere usanze straniere: tanto
è vero che indossano vestiti medi, trovandoli più belli dei
propri, e in guerra portano corazze egiziane. Quando vengono a sapere di
qualche usanza piacevole, da qualunque parte provenga, subito la adottano: per
esempio hanno imparato dai Greci a praticare l'amore con gli adolescenti. Ogni
Persiano può sposare legalmente molte donne e ancora più numerose
sono le concubine che si procura. Dimostra una autentica virtù virile
chi, oltre ad essere un buon combattente, mette al mondo molti li.
Annualmente il re invia un premio a chi ne ha messi al mondo di più; si
ritiene che il numero sia forza. Ai loro bambini, da quando hanno cinque anni
fino ai venti, insegnano tre sole cose: cavalcare, tirare con l'arco e dire la
verità. Prima dei cinque anni il bambino non si presenta mai al cospetto
del padre ma vive assieme alle donne. Fanno questo perché, se il bambino muore
nel periodo dell'allevamento, il padre non ne debba soffrire. Io approvo questa
usanza e ne approvo anche un'altra: per una sola colpa neppure il re può
mettere a morte qualcuno; e nessun altro Persiano può recare un danno
irreparabile a uno dei suoi schiavi per una sola colpa; solo quando si è
ben riflettuto e si è stabilito che i torti sono più numerosi e
più rilevanti dei servigi, allora si lascia libero campo alla collera.
Sostengono che nessuno ancora ha ucciso il proprio padre o la propria madre:
esaminando tutti i casi di questo tipo già verificatisi, si giungerebbe
inevitabilmente a concludere che gli assassini erano li supposti o
adulterini; essi ritengono inverosimile che un autentico genitore possa morire
per mano del proprio lio. Presso i Persiani delle cose che non è
lecito fare non è lecito neppure parlare. La cosa più vergognosa
è considerata la menzogna; secondariamente avere debiti, e ciò
per molte e svariate ragioni ma soprattutto perché chi ha un debito, dicono,
necessariamente si troverà anche a mentire. Il cittadino colpito dalla
lebbra o dal morbo bianco si tiene lontano dalla città ed evita il
contatto con gli altri Persiani. Secondo loro soffre di queste malattie chi ha
commesso una colpa nei confronti del Sole. Scacciano dal paese ogni straniero
affetto da tali piaghe e molti pure le colombe bianche, adducendo la medesima
ragione. Evitano di orinare e di sputare in un fiume e neppure vi si sciacquano
le mani o permettono che un altro lo faccia; per i fiumi hanno un enorme
rispetto religioso. Ed ecco un'altra particolarità, sfuggita agli stessi
Persiani ma non a noi: i loro nomi, che sono adeguati alle qualità
fisiche e a una idea di magnificenza, finiscono tutti con la stessa lettera,
quella chiamata 'san' dai Dori e 'sigma' dagli Ioni. Se si
indaga in questo senso, si trova che i nomi dei Persiani terminano tutti nella
stessa maniera, senza eccezioni. Tutte queste notizie posso fornirle con
assoluta sicurezza, perché mi derivano da personale esperienza. Invece quanto
si dice circa il trattamento dei cadaveri è avvolto in un alone di
mistero e non è certo: pare che il cadavere di un Persiano non venga
seppellito prima di essere stato straziato da un cane o da un uccello; so con
certezza che almeno i Magi si comportano così, perché lo fanno
apertamente. Comunque i Persiani cospargono di cera il cadavere e lo inumano. I
Magi sono molto diversi dagli altri uomini e in particolare dai sacerdoti
egiziani; questi infatti ritengono empietà uccidere degli esseri
viventi, tranne quelli destinati al sacrificio rituale, invece i Magi uccidono
con le loro mani qualsiasi animale tranne il cane e l'uomo e lo fanno con
grande impegno eliminando indistintamente formiche e serpenti e altri animali
terrestri o volatili. Ma lasciamo pure questa usanza come stava quando ebbe
origine e riprendiamo il filo del nostro racconto. Gli Ioni e gli Eoli, non
appena i Lidi furono sottomessi dai Persiani, mandarono a Sardi dei messaggeri,
presso Ciro: desideravano essere sudditi di Ciro alle stesse condizioni di cui godevano
sotto Creso. Ciro ascoltò le loro proposte; poi cominciò a
raccontare un aneddoto: narrò di un suonatore di flauto che aveva visto
in mare dei pesci e che suonava il suo flauto convinto di attirarli verso la
terra ferma: deluso nelle sue speranze prese una rete, la lanciò,
trascinò a riva una grande quantità di pesci; e guardandoli
guizzare disse loro: 'Smettetela di danzare: quando io suonavo il flauto
non siete mica voluti uscir fuori a ballare!' Ciro raccontò questo
aneddoto agli Ioni e agli Eoli perché gli Ioni, tempo prima, invitati da Ciro a
ribellarsi contro Creso, non lo avevano ascoltato, mentre allora, a cose fatte,
erano pronti a seguirlo. Chiaramente Ciro rispose in questo modo perché serbava
rancore. Quando gli Ioni udirono la risposta riferita nelle varie città,
tutti fortificarono le proprie mura e si riunirono a Panionio; tutti tranne i
Milesi, i soli con cui Ciro aveva stipulato un accordo alle stesse condizioni
di Creso. Gli altri decisero di comune accordo di mandare messaggeri a Sparta
con una richiesta di soccorso. Questi Ioni, quelli a cui appartiene il
Panionio, di tutti gli uomini a nostra conoscenza sono quelli che hanno
edificato le loro città nei luoghi migliori del mondo per bellezza di
cielo e condizioni climatiche; a nord e a sud della Ionia , come a oriente e a
occidente, la situazione è assai differente: più a nord
c'è la morsa del freddo e della pioggia, più a sud del caldo e
della siccità. Questi Ioni non parlano la stessa lingua, bensì
quattro varietà di dialetto. Mileto è la città più
meridionale, poi vengono Miunte e Priene: tutte si trovano nella Caria e
adoperano lo stesso dialetto. In Lidia si trovano Efeso, Colofone, Lebedo, Teo,
Clazomene e Focea, che non si servono dello stesso dialetto delle città
sopra nominate, ma che usano fra loro la stessa parlata. Restano ancora tre
città ioniche, di cui due situate su isole, Samo e Chio, e la terza,
Eritre, sul continente. A Chio e a Eritre parlano lo stesso dialetto, i Sami
invece ne usano uno proprio. Ed ecco quindi i quattro diversi caratteri
linguistici. Fra gli Ioni i Milesi non avevano motivo di preoccupazione grazie
all'accordo stipulato con Ciro e quelli delle isole stavano tranquilli perché i
Fenici non erano sudditi dei Persiani e perché i Persiani non erano marinai.
Gli Ioni d'Asia si separarono dagli altri Ioni per una semplice ragione; se
già tutta la gente greca era in una condizione di debolezza, gli Ioni
costituivano, fra tutti, il gruppo più debole e il meno importante: e
infatti, se si esclude Atene, non c'era nessuna città degna di nota.
Perciò gli altri di quel ceppo e gli Ateniesi non gradivano
l'appellativo di Ioni e cercavano di evitarlo; e mi pare che ancora adesso
molti di loro si vergognino di tale denominazione. Invece queste dodici città
ne erano orgogliose e si costruirono un santuario riservato a loro che
chiamarono Pan-Ionio; e decisero di non consentire l'accesso al tempio a
nessuna altra gente ionica (del resto mai nessuno chiese di accedervi, ad
eccezione degli abitanti di Smirne). Allo stesso modo i Dori dell'attuale
territorio della Pentapoli, lo stesso che una volta si chiamava Esapoli, si
guardano bene dall'accettare nel loro santuario Triopico gli altri Dori
confinanti, anzi da sempre escludono da ogni partecipazione al tempio anche
quelli di loro che ne abbiano violato le regole. Ai giochi in onore di Apollo
Triopio avevano posto anticamente come premio per i vincitori dei tripodi di
bronzo, che però non potevano essere portati via da chi se li fosse
guadagnati, ma dovevano essere dedicati al dio, lì sul posto. Una volta
accadde che un uomo di Alicarnasso, di nome Agasicle, dopo aver vinto non
rispettò la norma: si portò via il tripode e lo fissò al
muro di casa sua. Per questa ragione le cinque città, cioè Lindo,
Ialiso, Camiro, Cos, e Cnido, vietarono l'accesso al tempio a tutti gli
abitanti di Alicarnasso, sesta città dell'Esapoli. Tale fu il castigo
che imposero loro. A mio parere gli Ioni formarono dodici città e non
vollero aggiungerne altre perché anche prima, quando vivevano nel Peloponneso,
erano divisi in dodici regioni, esattamente come adesso il territorio degli
Achei, che a suo tempo scacciarono gli Ioni, è suddiviso in dodici
parti: Pellene è la prima, a partire da Sicione, poi Egira ed Ege, in
cui scorre il Crati, dal flusso perenne e dal quale ha preso nome l'omonimo
fiume italiano, poi Bura ed Elice, in cui ripararono gli Ioni sconfitti in
battaglia dagli Achei; poi ancora Egio, Ripe, Patre, Fare, Oleno, in cui scorre
il grande fiume Piro, nonché Dime e Tritea, l'unica città situata
nell'interno. Questi sono i dodici distretti degli Achei, che una volta
appartenevano agli Ioni. Ed ecco perché anche gli Ioni d'Asia costruirono
dodici città: è una grande sciocchezza definire costoro
più Ioni degli altri Ioni o di nascita più elevata: una parte non
piccola di loro sono Abanti, provenienti dall'Eubea, che non hanno niente a che
vedere con gli Ioni, neppure per il nome; e inoltre a loro si sono mescolati
dei Mini di Orcomeno, dei Cadmei, dei Driopi, dei Focesi dissidenti; e Molossi,
Pelasgi d'Arcadia, Dori di Epidauro e molte altre popolazioni. Quelli partiti
dal Pritaneo di Atene, che ritenevano di essere i più nobili fra gli
Ioni, non portarono con sé le donne nella nuova colonia, ma si procurarono
mogli in Caria, uccidendone i padri. A causa di questo delitto tali donne si
imposero come regola con tanto di giuramento, e la trasmisero alle lie, di
non mangiare mai in comnia dei mariti e di non chiamarli mai per nome; e
ciò perché avevano ucciso i loro padri e mariti e li e, dopo, se le
erano sposate. Questo è quanto avvenne a Mileto. Come re una parte degli
Ioni d'Asia si scelse i Lici discendenti di Glauco lio di Ippoloco, una
parte i Cauconi di Pilo discendenti di Codro lio di Melanto, e altri si
scelsero re di entrambe le stirpi. E visto che sono tanto affezionati al loro
nome, più di tutti gli altri Ioni, consideriamoli dunque gli Ioni puri.
In realtà sono Ioni tutti quelli che vengono da Atene e che celebrano la
festa delle Apaturie; la celebrano tutti tranne gli abitanti di Efeso e di
Colofone, gli unici a non celebrarla col pretesto di un omicidio. Il Panionio
è un luogo sacro di Micale, rivolto verso nord e dedicato per comune
accordo dagli Ioni a Posidone Eliconio. Micale è un promontorio del continente
che si stende verso occidente in direzione dell'isola di Samo, sul quale gli
Ioni delle varie città si radunavano per celebrare la loro festa,
chiamata Panionie. Non solo le feste degli Ioni, ma proprio tutte le feste
della Grecia intera hanno un nome terminante con la medesima lettera, come
succede per i nomi dei Persiani. Queste sono le città ioniche; le
eoliche sono Cuma, detta anche Friconide, Larissa, Neontichos, Temno, Cilla,
Nozio, Egiroessa, Pitane, Egee, Mirina, Grinia: ecco le undici antiche città
eoliche; un'altra loro città, Smirne, fu staccata ad opera degli Ioni;
infatti erano dodici anche gli insediamenti eolici sul continente. Gli Eoli si
trovarono a colonizzare una regione ancora più fertile di quella degli
Ioni, ma che quanto a clima non regge il paragone. Gli Eoli persero Smirne
così. Avevano accolto a Smirne dei cittadini di Colofone sconfitti in
una lotta intestina e perciò messi al bando dalla patria. Più
tardi i profughi di Colofone aspettarono che gli abitanti di Smirne celebrassero
fuori delle mura una festa in onore di Dioniso e, chiudendone le porte, si
impadronirono della città. Poiché tutti gli Eoli erano accorsi a
difendere gli interessi degli abitanti di Smirne, vennero a un accordo: gli
Eoli avrebbero abbandonato la città se gli Ioni avessero restituito
almeno le loro masserizie. Così fu fatto: le altre undici città
si divisero gli ex abitanti di Smirne, conferendo loro la piena cittadinanza.
Queste insomma sono le città eoliche continentali, eccetto quelle
situate sull'Ida, che vanno considerate a parte. Di quante si trovano nelle
isole cinque si dividono il territorio di Lesbo (la sesta città abitata
di Lesbo, Arisba, la ridussero in schiavitù i Metimni, benché fossero
del medesimo sangue); a Tenedo vi è una sola città, una sola
anche nelle cosiddette Cento Isole. Gli abitanti di Lesbo e di Tenedo non
avevano nulla da temere, esattamente come le popolazioni ioniche delle isole.
Alle altre città eoliche piacque di seguire la sorte degli Ioni,
dovunque questi le avessero condotte. I messi degli Ioni e degli Eoli quando
giunsero a Sparta (tutto fu fatto in gran fretta) scelsero a parlare per tutti
il rappresentante di Focea, il cui nome era Pitermo. Costui indossò una
veste di porpora affinché gli Spartiati, informati del particolare, accorressero
in numero maggiore; davanti a loro parlò a lungo, chiedendo aiuto per
gli Ioni. Ma gli Spartani non gli diedero retta e decisero di non inviare
soccorsi agli Ioni. I messaggeri degli Ioni si ritirarono. Gli Spartani, dopo
averli allontanati, inviarono tuttavia degli uomini, su di una pentecontere,
immagino come osservatori delle vicende di Ciro e della Ionia. Arrivati a
Focea, da lì questi uomini inviarono a Sardi il più stimato di
loro, che si chiamava Lacrine, perché riferisse a Ciro un messaggio degli
Spartani: Ciro non doveva toccare nessuna città della Grecia, perché
essi non l'avrebbero tollerato. Si dice che quando l'araldo ebbe riferito il
suo messaggio Ciro chiese ai Greci che erano presenti che uomini fossero e
quanti questi Spartani per mandargli un simile avvertimento; ottenuta risposta,
si rivolse all'ambasciatore degli Spartiati: 'Io non ho mai avuto paura di
gente che nella propria città, al centro, ha riservato uno spazio, in
cui riunirsi per ingannarsi a vicenda con dei giuramenti. Questa gente, se
resto vivo e in buona salute, non avrà da ciarlare delle disgrazie degli
Ioni, ma delle proprie'. Ciro pronunciò queste parole sprezzanti
nei confronti di tutti i Greci perché essi compiono i loro acquisti e le loro
vendite sulla piazza principale adibita a mercato; invece i Persiani non hanno
l'abitudine di servirsi di piazze per il mercato, anzi non hanno mercati del
tutto. In seguito Ciro affidò Sardi al Persiano Tabalo, e al Lido Pattia
il compito di trasportare l'oro di Creso e dei Lidi; poi partì alla
volta di Ecbatana, portando con sé Creso e quasi senza più tener conto,
inizialmente, dell'esistenza degli Ioni. Aveva problemi con Babilonia, i
Battri, i Saci e gli Egiziani: contro costoro decise di guidare personalmente
l'esercito, contro gli Ioni invece di inviare un altro generale. Appena Ciro si
fu allontanato da Sardi, Pattia sollevò i Lidi contro Tabalo e contro di
lui: scese verso il mare e, visto che disponeva di tutto l'oro di Sardi,
assoldò mercenari e convinse le popolazioni della costa a schierarsi con
lui. Poi mosse il suo esercito contro Sardi e strinse d'assedio Tabalo che si
asserragliò sull'acropoli. Ciro apprese questi fatti mentre era in
viaggio e disse a Creso: 'Creso, come andranno a finire tutte queste faccende?
I Lidi a quanto pare non smetteranno di procurarmi e di procurarsi dei
problemi. Mi chiedo se non sarebbe molto meglio ridurli definitivamente in
schiavitù: io ho l'impressione di essermi comportato come uno che abbia
ucciso il padre e risparmiato i li. Perché ho catturato e mi porto via te,
che sei più che un padre per i Lidi, e la città l'ho rimessa
nelle loro stesse mani; e poi mi meraviglio se mi si ribellano'. Ciro
diceva quanto pensava e Creso, temendo che volesse distruggere Sardi, gli
rispose: 'Sire, il tuo discorso è logico, però non
abbandonarti assolutamente all'ira, non distruggere una antica città che
non ha alcuna colpa delle vicende passate e presenti; tutto quanto è
accaduto in passato fu opera mia e con la mia persona ne sconto la pena.
Ciò che accade ora è colpa di Pattia, a cui tu hai affidato
Sardi, e sia lui, allora, a arne le conseguenze. Perdona i Lidi e fai in
modo che non possano più ribellarsi e costituire un pericolo per te.
Mandagli l'ordine di non tenere armi da guerra, imponigli di indossare tuniche
sotto le vesti normali e di calzare coturni; invitali a insegnare ai loro li
a suonare la cetra e gli altri strumenti musicali e a fare i mercanti. In
questo modo, Signore, tu li vedrai presto trasformati da uomini in donne e non
dovrai più temere una loro ribellione'. Creso suggeriva queste
misure perché le trovava per i Lidi preferibili al rischio di essere venduti
come schiavi; sapeva bene che senza proporre un valido rimedio non avrebbe
dissuaso Ciro dalla sua idea; e aveva paura che i Lidi, quand'anche l'avessero
scampata per il momento, prima o poi segnassero la propria condanna
ribellandosi ai Persiani. Ciro soddisfatto dei suggerimenti lasciò
cadere la sua ira e disse a Creso che lo aveva convinto. Convocò il Medo
Mazare e lo incaricò di ordinare ai Lidi quanto gli aveva indicato
Creso: e in più gli ingiunse di ridurre in schiavitù quanti altri
avevano marciato su Sardi con i Lidi e di condurre davanti a lui Pattia, a ogni
costo, e vivo. Ciro diede queste disposizioni mentre era in viaggio; quindi
ripartì verso le sedi persiane; Pattia, informato che non lontano c'era
un esercito in marcia contro di lui, atterrito, corse a rifugiarsi a Cuma.
Mazare il Medo spinse contro Sardi tutta la parte dell'esercito di Ciro di cui
disponeva e, non trovandovi più gli uomini di Pattia, per prima cosa
costrinse i Lidi a eseguire gli ordini di Ciro; e fu proprio in seguito a
queste imposizioni che i Lidi cambiarono completamente il loro sistema di vita.
Poi Mazare inviò messaggeri a Cuma con l'ordine di consegnare Pattia; i
cittadini di Cuma stabilirono di rimettersi, per consiglio, al dio dei
Branchidi; là esisteva da lungo tempo un oracolo al quale tutti gli Ioni
e gli Eoli erano soliti ricorrere: questo luogo si trova nel territorio di Mileto
sopra il porto di Panormo. Gli abitanti di Cuma mandarono i loro incaricati
presso i Branchidi e chiesero come avrebbero dovuto regolarsi nei confronti di
Pattia per fare cosa gradita agli dei; questo chiedevano, e il responso fu di
consegnare Pattia ai Persiani. Quando la risposta del dio fu riferita ai
Cumani, essi si apprestarono alla estradizione. Già il popolo si era
deciso in tal senso, quando uno dei più ragguardevoli cittadini,
Aristodico lio di Eraclide, non credendo al responso e convinto che gli
incaricati non dicessero la verità, trattenne i Cumani dal farlo fino a
quando altri messi, tra cui lo stesso Aristodico, non fossero andati una
seconda volta a consultare il dio sulla sorte di Pattia. Quando poi questa
delegazione giunse presso i Branchidi, fu Aristarco fra tutti a interrogare
l'oracolo, dicendo: 'Signore, presso di noi venne il lido Pattia, come
supplice, fuggendo la morte violenta che gli riservavano i Persiani; ora essi
lo reclamano ordinando ai Cumani di consegnarlo. E noi, pur temendo la potenza
persiana, non abbiamo osato consegnarlo fino a quando non fosse fermamente
chiaro il tuo responso su ciò che dobbiamo fare'. Questa fu la sua
domanda; e il dio diede nuovamente la stessa risposta, esortandoli a consegnare
Pattia ai Persiani. Di fronte a queste parole Aristodico agì come aveva
premeditato: girando intorno al tempio, scacciò i passeri e tutte le
altre specie di uccelli che vi avevano nidificato. E mentre lui faceva
così dai penetrali del tempio, si dice, si levò una voce all'indirizzo
di Aristodico: 'Come osi fare questo, - diceva - maledetto sacrilego?
Scacci i miei supplici dal mio tempio?' Aristodico, per nulla turbato,
rispose: 'Signore, e così tu assicuri il tuo aiuto ai supplici
tuoi, e poi ordini ai Cumani di consegnare il loro?' E l'oracolo ribatté:
'Sì lo ordino, perché voi, comportandovi da empi, possiate andare
in rovina più presto: così non verrete più qui in futuro a
chiedere all'oracolo se sia il caso di consegnare dei supplici'. Questa
risposta fu riportata ai Cumani; quando la conobbero, essi decisero di mandare
Pattia a Mitilene, non volendo né riconsegnarlo, e quindi rovinarsi, né tenerlo
presso di loro, e quindi subire un assedio. Mazare mandò dei messaggi
agli abitanti di Mitilene, i quali si dichiararono pronti a consegnare Pattia
in cambio di un adeguato riscatto; non so precisarne con esattezza
l'entità, perché poi la cosa andò in fumo. Infatti, appena i
Cumani appresero le intenzioni dei Mitilenesi, mandarono subito una
imbarcazione a Lesbo e trasferirono Pattia a Chio. Là a consegnarlo
furono gli abitanti dell'isola che lo strapparono via dal tempio di Atena
protettrice della città: ottennero in compenso il territorio di Atarneo,
che si trova nella Misia, di fronte a Lesbo. I Persiani, dopo aver ricevuto
Pattia, lo tenevano sotto sorveglianza con il proposito di consegnarlo a Ciro.
Per un periodo di tempo non breve nessun cittadino di Chio offrì ad
alcun dio grani d'orzo di Atarneo né preparò focacce col frumento
proveniente da là: tutti i prodotti di quella regione erano esclusi da
qualsiasi sacro rito. E così i Chii consegnarono Pattia; Mazare
più tardi marciò contro le popolazioni che avevano partecipato
all'assedio di Tabalo: ridusse in schiavitù la cittadinanza di Priene e
percorse l'intera pianura del Meandro abbandonandola ai saccheggi del suo
esercito, e lo stesso fece con Magnesia. Subito dopo cadde ammalato e
morì. Gli succedette alla guida dell'esercito Aro, anche lui Medo,
quello stesso Aro che il re dei Medi Astiage aveva invitato all'orribile banchetto
e che poi aveva aiutato Ciro a impadronirsi del regno. Costui, nominato da Ciro
comandante dell'esercito, quando arrivò nella Ionia, cominciò a
espugnare le città servendosi di terrapieni: ogni volta, infatti,
costringeva i nemici dentro le loro mura, faceva ammassare enormi quantitativi
di terra contro gli spalti e poi li assaltava. La prima città della
Ionia di cui si impadronì fu Focea. Questi Focei furono i primi Greci a
compiere lunghe navigazioni: furono loro a scoprire l'Adriatico, la Tirrenia,
l'Iberia e la regione di Tartesso: non navigavano con grandi navi da carico ma
con delle penteconteri. Giunti a Tartesso strinsero amicizia con il re locale,
che si chiamava Argantonio e che fu signore di Tartesso per ottanta anni,
vivendo in tutto per 120 anni. I Focesi divennero così amici suoi che
egli li invitò prima ad abbandonare la Ionia e a stabilirsi nel suo
paese, ovunque volessero; in seguito, non essendo riuscito a convincerli e
avendo saputo com'era cresciuta la potenza dei Medi, regalò denaro ai
Focesi perché potessero munire di fortificazioni la loro città; e il
regalo fu molto generoso, tanto è vero che il perimetro delle mura di
Focea si sviluppa per non pochi stadi; ed esse sono tutte costituite da grandi
blocchi di pietra ben connessi tra loro. Fu così che i Focei costruirono
le loro mura; Aro fece avanzare il suo esercito e pose l'assedio; ma gli
sarebbe bastato, proclamò, che i Focei abbattessero anche uno soltanto
dei bastioni del muro e consacrassero anche una sola casa. I Focei, non
tollerando la schiavitù, dissero che volevano discutere tra loro per un
giorno; poi avrebbero dato la risposta; per l'intanto invitarono Aro a
ritirare l'esercito da sotto le mura per il periodo di tempo in cui
deliberavano. Aro rispose di sapere bene quanto stavano per fare: tuttavia
avrebbe permesso loro di consultarsi. E dunque mentre Aro portava il suo
esercito lontano dalle mura, i Focesi misero in mare delle penteconteri, vi
imbarcarono le donne, i bambini e tutte le loro masserizie e vi aggiunsero le
statue e le offerte votive che poterono trarre dai templi: a eccezione degli
oggetti in bronzo e in pietra e dei dipinti caricarono tutto il resto, si
imbarcarono sulle navi e fecero rotta alla volta di Chio. I Persiani occuparono
una Focea completamente deserta. I Focei pensavano di acquistare le isole
chiamate Enusse ma i Chii non gliele vollero vendere per paura che diventassero
un emporio e che la loro isola venisse tagliata fuori dai commerci; di
conseguenza si diressero a Cirno. Nell'isola di Cirno venti anni prima in base
ad un oracolo avevano fondato una città chiamata Alalia. A quell'epoca
ormai Argantonio era morto. Nel dirigersi verso Cirno, in un primo momento,
fecero una puntata fino a Focea dove uccisero la guarnigione persiana a cui
Aro aveva affidato il presidio della città; poi, compiuta questa
impresa, pronunciarono durissime maledizioni contro chi di loro avesse
abbandonato la spedizione. Inoltre gettarono in mare un blocco rovente di ferro
e giurarono che non avrebbero fatto ritorno a Focea prima che questo blocco di
ferro fosse riemerso a galla. Ma mentre puntavano su Cirno più di
metà di loro fu presa dalla nostalgia e dal rimpianto della città
e delle abitudini del loro paese; e così violarono i giuramenti e
tornarono indietro voltando la prua verso Focea. Quelli che rispettarono il
giuramento proseguirono il viaggio prendendo il largo dalle isole Enusse.
Giunti a Cirno, per cinque anni coabitarono con le genti che vi erano arrivate
prima di loro e vi edificarono dei templi. Ma visto che derubavano e
depredavano tutte le popolazioni limitrofe, Tirreni e Cartaginesi di comune
accordo mossero contro di loro, entrambi con una flotta di sessanta navi. Anche
i Focesi equigiarono delle imbarcazioni, in numero di sessanta, e
affrontarono la flotta avversaria nelle acque del mare chiamato di Sardegna. Si
scontrarono in una battaglia navale e ai Focesi toccò una vittoria
cadmea; infatti delle loro navi quaranta furono affondate e le restanti venti
risultarono inutilizzabili, avendo i rostri torti all'indietro. Allora
navigarono fino ad Alalia, imbarcarono le donne, i bambini e tutto ciò
che le navi potevano trasportare e abbandonarono Cirno dirigendosi verso
Reggio. |[continua]| |[LIBRO I, 4]| I Cartaginesi e i Tirreni si spartirono gli
uomini delle navi affondate: gli abitanti di Agilla, ai quali toccò il
gruppo più numeroso, li condussero fuori città e li lapidarono.
Più tardi ad Agilla ogni essere che passava accanto al luogo in cui
giacevano i Focei lapidati diventava deforme, storpio o paralitico, fossero
pecore o bestie da soma o uomini, senza distinzione. Allora gli Agillei,
desiderosi di rimediare alla propria colpa, si rivolsero all'oracolo di Delfi.
E la Pizia impose loro un obbligo che adempiono ancora oggi: infatti offrono
imponenti sacrifici e bandiscono giochi ginnici ed equestri in onore dei morti.
Ed ecco cosa toccò a questi Focei; quelli invece fuggiti verso Reggio,
muovendo di là si impadronirono di una città nella terra di
Enotria, città oggi chiamata Iela; essi la colonizzarono dopo aver
appreso da un uomo di Posidonia che la Pizia ordinando loro di 'edificare
a Cirno' non intendeva riferirsi all'isola, bensì all'eroe.
Così dunque andarono le cose riguardo la città ionica di Focea.
Vicende molto simili toccarono anche agli abitanti di Teo. Infatti, quando
Aro espugnò le mura di Teo col sistema del terrapieno, si imbarcarono
tutti sulle loro navi e si allontanarono facendo rotta verso la Tracia; qui
colonizzarono la città di Abdera. Prima di loro Abdera era stata
colonizzata da Timesio di Clazomene, ma senza trarne vantaggi perché i Traci lo
avevano cacciato: ora è onorato come eroe dai cittadini di Teo
stanziatisi ad Abdera. Focei e Tei furono i soli fra gli Ioni ad abbandonare la
loro patria non potendo tollerare la schiavitù; gli altri Ioni, eccetto
gli abitanti di Mileto, combatterono contro Aro, come gli Ioni poi emigrati,
e dimostrarono il loro valore battendosi ciascuno per la propria patria; ma,
sconfitti e catturati, restarono ciascuno nel proprio paese obbedendo agli
ordini che ricevevano. Invece i Milesi, come ho già ricordato, avevano
stretto un patto giurato con Ciro e vissero in pace. Così, per la
seconda volta, la Ionia fu asservita. Non appena Aro si fu impadronito della
Ionia continentale, gli Ioni delle isole, terrorizzati da quegli avvenimenti,
si consegnarono nelle mani di Ciro. Nonostante le loro avversità gli
Ioni si radunavano ugualmente al Panionio e io so che una volta Biante di
Priene espose a tutti un vantaggiosissimo progetto, che avrebbe consentito
loro, se lo avessero seguito, di raggiungere il più alto grado di
benessere fra i Greci: li esortava a salpare, tutti uniti in un'unica flotta,
via dalla Ionia, a raggiungere la Sardegna e a fondarvi un'unica città
di tutti gli Ioni; in questo modo, liberati dalla schiavitù, avrebbero
vissuto felicemente, insediati nella più grande di tutte le isole e
dominando su altre popolazioni. Invece, se fossero rimasti nella Ionia, non
vedeva più - diceva - speranza di libertà. Questa fu l'idea di Biante
di Priene anche se esposta agli Ioni ormai dopo la loro disfatta. Ma prima
della disfatta, sarebbe risultata utile anche l'idea di Talete di Mileto, la
cui famiglia era di antica origine fenicia: aveva suggerito di istituire un
Consiglio della Ionia, di dargli sede a Teo (visto che Teo si trova nel centro
della Ionia), e che le altre città, pur restando abitate, venissero
considerate alla stregua di demi. Tali progetti Biante e Talete esposero agli
Ioni. Aro dopo aver sottomesso la Ionia compì una spedizione contro
la Caria, la Caunia e la Licia, conducendo con sé anche Ioni ed Eoli. Di questi
popoli i Cari erano giunti in continente provenienti dalle isole: anticamente
erano stati sudditi di Minosse e col nome di Lelegi avevano abitato le isole: non
erano costretti a are alcun tributo, per quanto indietro nel tempo io possa
risalire con le mie informazioni; però, ogni volta che Minosse lo
richiedeva, gli fornivano gli equigi per le navi. E dal momento che Minosse
aveva sottomesso una regione assai ampia e aveva fortuna in guerra, il popolo
dei Cari era quello tenuto, allora, in maggior prestigio fra tutti. Ai Cari
vanno attribuite tre invenzioni di cui poi si servirono i Greci: per primi
insegnarono a fissare dei pennacchi sugli elmi, scolpirono ure sui loro
scudi e applicarono all'interno di questi delle imbracciature. Fino ad allora i
soldati che abitualmente si armavano di scudo lo reggevano senza imbracciature,
muovendolo per mezzo di cinghie di cuoio portate intorno al collo e alla spalla
sinistra. In seguito, molto tempo dopo, i Cari furono scacciati dalle isole ad
opera dei Dori e degli Ioni e così giunsero nel continente. Questo
è quanto dei Cari raccontano i Cretesi; ma dal canto loro i Cari non
sono d'accordo in proposito: essi ritengono di essere originari del continente
e di avere avuto sempre il medesimo nome di adesso. Esibiscono come prova
l'antico tempio di Zeus Cario a Milasa che appartiene anche ai Misi e ai Lidi,
in quanto parenti dei Cari; perché Lido e Miso, dicono, erano fratelli di Caro.
Misi e Lidi accedono a questo santuario mentre tutte le popolazioni d'altra
origine etnica, pur avendo adottato la lingua dei Cari, ne sono escluse. A me
pare che autoctone siano le popolazioni della Caunia, le quali invece
sostengono di provenire da Creta. I Cauni assunsero la lingua dei Cari (o i
Cari quella dei Cauni, non saprei dirlo con esattezza), ma le loro usanze sono
assai diverse da quelle degli altri popoli, Cari compresi. Il loro massimo
divertimento consiste nell'andare a bere in comnia: lo fanno a gruppi
secondo l'età e l'amicizia, uomini, donne, bambini. Poiché avevano
edificato santuari di divinità straniere, più tardi, quando
cambiarono parere e decisero di venerare soltanto gli dei dei loro padri, tutti
i Cauni adulti si armarono e si diressero in corteo sino ai confini di Calinda,
percuotendo l'aria con le lance e dicendo che stavano scacciando gli dei
stranieri. Queste sono le loro usanze; quanto ai Lici, essi sono nativi di
Creta; anticamente l'intera isola di Creta era occupata da popolazioni barbare.
A Creta scoppiò una contesa per il regno fra Sarpedonte e Minosse, li
di Europa; qundo riuscì a prevalere nella lotta per il potere Minosse
scacciò Sarpedonte e i suoi partigiani. Allontanati dal loro paese essi
giunsero in Asia nella regione Miliade: infatti la regione ora abitata dai Lici
anticamente era la Miliade, e i suoi abitanti a quell'epoca si chiamavano
Solimi. Fino a quando Sarpedonte fu il loro re essi conservarono l'antico nome
di Termili, col quale tuttora i Lici vengono chiamati dalle popolazioni
confinanti. Ma quando da Atene giunse fra i Termili, presso Sarpedonte, Lico
lio di Pandione, scacciato anche lui dal fratello Egeo, col tempo, dal nome
di Lico, essi furono detti Lici. Hanno usanze in parte cretesi in parte carie;
ce n'è una sola tipicamente loro e che non ha assolutamente uguali
presso altri popoli: derivano il nome dalla madre e non dal padre: quando uno
chiede a un altro come si chiami, quello si qualifica col matronimico e precisa
la sua genealogia secondo la linea materna. E se una donna con piena
cittadinanza s'unisce a uno schiavo, i suoi li sono considerati di alto
lignaggio. Se invece è un uomo ad avere una moglie straniera o una
concubina, fosse pure il più illustre dei cittadini, i suoi li non
godono del minimo diritto. I Cari furono asserviti da Aro senza aver
compiuto alcuna impresa significativa, né i Cari, dico, né tutti quei Greci che
abitano nel loro paese. In effetti anche altre popolazioni vi sono insediate,
per esempio i coloni spartani di Cnido: il loro paese, che si chiama Triopio,
si protende tutto sul mare a partire dal Chersoneso Bibassio: l'intero
territorio, eccetto una piccola parte, è circondato dalle acque ed
è compreso tra il golfo Ceramico a nord e il mare di Sime e di Rodi a
sud: in quel tratto, che misura in larghezza circa cinque stadi, i cittadini di
Cnido volevano scavare un canale al tempo in cui Aro sottometteva la Ionia;
l'intenzione era di trasformare in isola il loro paese, tutto compreso al di qua
dell'istmo: infatti l'istmo che volevano tagliare segna proprio la linea di
confine tra la Cnidia e il continente. Gli Cnidi lavoravano con grande impiego
di braccia, ma visto che rompendo la roccia gli operai si ferivano più
del normale (e quindi forse per opera di un dio) in tutte le parti del corpo e
specialmente agli occhi, inviarono degli incaricati a Delfi per chiedere cosa
li avversava. E la Pizia, come essi raccontano, vaticinò come segue in
trimetri giambici: Non fortificate l'istmo e non scavate un canale. Zeus
avrebbe fatto un'isola se l'avesse voluto. Considerato il responso della Pizia,
gli Cnidi interruppero lo scavo e senza colpo ferire si consegnarono nelle mani
di Aro, che stava avanzando in forze contro di loro. Sopra Alicarnasso, nell'interno,
abitavano i Pedasei, alla cui sacerdotessa di Atena cresce una lunghissima
barba ogni volta che a loro o ai loro confinanti sta per accadere qualcosa di
spiacevole: tre volte questo fenomeno si è già verificato. Unici
in tutto il territorio della Caria essi si opposero ad Aro per qualche tempo
e lo misero in grave difficoltà fortificando il monte chiamato Lide. Col
tempo i Pedasei furono spazzati via. I Lici, quando Aro spinse il suo
esercito nella pianura di Xanto, gli uscirono incontro e pur combattendo in
netta inferiorità numerica compirono prodigi di valore; sconfitti, si
asserragliarono nella loro città, radunarono sull'acropoli le mogli, i
li, i loro beni, i servi e vi appiccarono il fuoco perché bruciasse tutta. Dopo
di che si vincolarono con un giuramento terribile, e uscirono dalla
città lanciandosi contro i nemici: gli Xanti morirono tutti con le armi
in pugno. La maggior parte degli attuali abitanti di Xanto che ora sostengono
di essere Lici sono in realtà forestieri, tranne ottanta famiglie;
queste ottanta famiglie in quella circostanza erano casualmente lontane dalla
città e poterono salvarsi. Fu così che Aro occupò
Xanto; e in maniera molto simile occupò anche Cauno, visto che anche i
Cauni seguirono per lo più l'esempio dei Lici. Le regioni costiere
dell'Asia le mise a ferro e fuoco Aro; le regioni più interne invece
fu Ciro in persona a devastarle, sottomettendo ogni popolazione, nessuna
esclusa. Noi ne trascureremo la maggior parte per ricordare soltanto quelle che
gli diedero più filo da torcere e che sono le più degne di
memoria. Ciro, una volta impadronitosi di tutto il continente, si rivolse
contro gli Assiri. Nell'Assiria ci sono certamente molte grandi città,
ma la più rinomata e insieme la più potente, quella dove era
stata stabilita la reggia dopo la caduta di Ninive, era Babilonia; Babilonia
è così fatta: giace in una grande pianura e ha forma
quadrangolare e ogni lato è lungo 120 stadi cosicché il perimetro della
città misura in tutto 480 stadi. E se tale è già
l'estensione di Babilonia, la sua bella struttura, poi, non ha rivali tra le
altre città a noi note. Tanto per cominciare la circonda un fossato
largo e profondo, colmo d'acqua, e il muro di cinta, poi, è spesso
cinquanta cubiti reali e alto duecento. Il cubito reale è tre dita
più lungo del cubito ordinario. A tutto ciò bisogna poi
aggiungere quale uso fu fatto della terra scavata dal fossato e in che modo fu
realizzato il muro. Con la terra estratta dallo scavo fabbricarono mattoni,
che, appena furono in numero sufficiente, fecero cuocere nelle fornaci; usando
bitume caldo come malta e inserendo dei graticci di canne ogni trenta file di
mattoni costruirono prima gli argini del fossato e poi il muro stesso, con la
medesima tecnica. Sulla sommità del muro, lungo gli spalti, alzarono
costruzioni a un solo piano, rivolte l'una verso l'altra; fra di esse
lasciarono uno spazio sufficiente al passaggio di un carro trainato da quattro
cavalli. Nel giro del muro sono inserite cento porte, interamente di bronzo, stipiti
e architravi compresi. A otto giorni di viaggio da Babilonia c'è
un'altra città, chiamata Is e attraversata da un fiume non grande, esso
pure chiamato Is, e affluente dell'Eufrate. L'Is insieme con le acque trascina
dei grumi di bitume; da lì fu portato a Babilonia il bitume per le mura.
E così fu fortificata Babilonia. La città è divisa in due
settori separati da un fiume, l'Eufrate; l'Eufrate discende dai monti Armeni,
ampio, profondo, rapido e va poi a sfociare nel mare Eritreo. Dalle due parti i
bracci del muro si spingono fino al fiume: a questa altezza si piegano a gomito
e procedono lungo la corrente formando su entrambe le rive dell'Eufrate argini
di mattoni cotti. La città in sé, ricca di case a tre o quattro piani,
è attraversata da strade rettilinee, tutte, comprese le trasversali che
portano al fiume; all'altezza di ciascuna strada nell'argine che costeggia il
fiume aprirono delle porticine, in numero pari alle viuzze. Anche queste porte
erano di bronzo e immettevano direttamente sul fiume. Questo muro è una
specie di corazza: al suo interno se ne trova un secondo, poco meno robusto del
precedente, ma alquanto più stretto. Al centro dei due settori della
città furono eretti due edifici fortificati: da una parte la reggia
munita di un ampio e robusto muro di cinta, dall'altra il santuario di Zeus
Belo con le porte di bronzo, di forma quadrata con ogni lato pari a due stadi,
esistente ancora ai miei tempi. Al centro del santuario si trova una solida
torre, lunga e larga uno stadio: sulla prima torre ne è stata alzata una
seconda, sulla seconda una terza e così via fino a un totale di otto
torri; per accedere alle torri è stata costruita una scala a chiocciola
che corre tutto intorno all'esterno dell'edificio. A metà della scala
c'è un pianerottolo con dei sedili per riposarsi, sui quali quanti
salgono possono sedersi a riprendere fiato. Sopra l'ultima torre si trova un
grande tempio; al suo interno è collocato un ampio letto ben fornito di
cuscini con accanto una tavola d'oro. Dentro non c'è assolutamente
alcuna statua; e nessun essere umano vi passa la notte se non una sola donna
babilonese che il dio abbia scelto fra tutte, come dicono i Caldei, cioè
i sacerdoti di questa divinità. Sempre costoro aggiungono, ma io non ci
credo, che il dio in persona viene nel tempio a riposarsi su quel letto; tutto
accadrebbe esattamente come a Tebe d'Egitto, secondo quanto asseriscono gli
Egiziani (anche là infatti una donna dorme nel tempio di Zeus Tebano; e
anche di costei come della donna babilonese si dice che non ha rapporti con
alcun uomo) e così farebbe pure la profetessa del dio a Patara in Licia,
quando c'è: lì l'oracolo non è sempre attivo, ma quando
c'è allora di notte la sacerdotessa viene chiusa col dio nel tempio. Nel
grande santuario di Babilonia, in basso, si trova un altro tempio, in cui sono
collocate una grande statua di Zeus assiso, in oro, e accanto una grande tavola
d'oro; e d'oro sono altresì il basamento e il trono. A sentire i Caldei
per la loro fabbricazione sarebbero stati impiegati 800 talenti d'oro.
All'esterno di questo tempio c'è un altare d'oro: e c'è anche un
secondo altare, grande, sul quale vengono offerte in sacrificio le vittime
adulte: infatti sull'altare d'oro è consentito sacrificare
esclusivamente animali da latte; sempre sull'altare più grande i Caldei
bruciano ogni anno mille talenti d'incenso, quando celebrano la festa del dio.
Nell'area del santuario a quell'epoca si trovava anche una statua d'oro
massiccio alta dodici cubiti; io personalmente non l'ho vista, riferisco quanto
affermano i Caldei. Dario lio di Istaspe che pure l'avrebbe voluta, non si
sentì di portarsi via questa statua: fu suo lio Serse ad asportarla,
arrivando a uccidere il sacerdote che cercava di proibirgliene la rimozione. E
questo è l'arredamento del santuario; dentro poi vi sono anche molte
offerte di privati. Molti, credo, furono i sovrani di Babilonia (e di essi
farò menzione nei miei Racconti Assiri) che attesero alla edificazione
delle mura e del santuario, e fra essi anche due donne; una si chiamava
Semiramide e visse cinque generazioni prima della successiva: costei fece
erigere nella pianura argini che meritano di essere visti; prima regolarmente
il fiume allagava le camne. La seconda delle due regine si chiamava Nitocri:
dotata di maggior lungimiranza della sovrana che l'aveva preceduta sul trono,
lasciò sì i monumenti che descriverò più avanti, ma
in più, vedendo la potenza dei Medi ormai grande e inquieta, forte delle
città già annesse, tra cui anche Ninive, prendeva contro di loro
tutte le precauzioni in suo potere. Cominciò occupandosi dell'Eufrate,
il fiume che attraversa Babilonia; aveva andamento rettilineo, ma lei, facendo
scavare dei canali lungo tutto il suo corso, lo rese tanto tortuoso che ora
esso tocca addirittura tre volte un villaggio dell'Assiria. Questo villaggio si
chiama Ardericca: quanti viaggiano dal nostro mare verso Babilonia discendendo
l'Eufrate, costeggiano Ardericca per ben tre volte nell'arco di tre giorni.
Nitocri dunque attuò quest'opera grandiosa; inoltre fece costruire su
entrambe le sponde del fiume degli argini che lasciano stupefatti tanto sono
spessi e alti. Abbastanza a monte di Babilonia, poi, fece scavare l'invaso per
un lago, non molto discosto dal fiume, scendendo in profondità fino a
trovare l'acqua e ampliandolo in estensione per un perimetro di 420 stadi;
utilizzò il materiale estratto dallo scavo ammucchiandolo lungo le rive
del fiume. Quando il bacino fu pronto vi costruì intorno un parapetto
con pietre precedentemente trasportate sul luogo. Realizzò tutto questo,
la tortuosa canalizzazione del fiume e la trasformazione dell'invaso in palude,
affinché il fiume, deviato in molti meandri, scorresse più lentamente,
la navigazione verso Babilonia risultasse tortuosa e una volta finita la
navigazione si dovesse ancora percorrere il lungo perimetro della palude.
Eseguì tali lavori nella parte del paese dove c'erano le vie d'accesso e
le strade più brevi provenienti dalla Media, per impedire ai Medi di fre
quentare Babilonia e di ottenere informazioni sulla sua situazione. Con le
opere di scavo realizzò queste costruzioni; e ne ricavò un
vantaggio ulteriore. Dal momento che la città è divisa in due
settori separati dal fiume, all'epoca dei re precedenti chi voleva recarsi da un
settore all'altro della città era costretto ad attraversare il fiume con
una imbarcazione, una cosa, mi pare, assai fastidiosa. Nitocri vi pose rimedio
e approfittando dello scavo per il bacino poté trasmettere ai posteri un altro
grande ricordo del proprio operato: fece tagliare immense lastre di pietra che
furono pronte quando anche il bacino era stato ultimato; allora deviò
l'intera corrente del fiume nell'invaso preparato, e mentre questo si riempiva
e quindi l'antico letto si prosciugava, rivestì di mattoni cotti, con la
stessa tecnica usata per le mura, le sponde del fiume all'interno della
città e il fondo delle strade che dalle porticine conducono al fiume;
poi quasi esattamente nel centro della città con le pietre di riporto
dello scavo costruì un ponte, legando le pietre con barre di ferro e di
piombo. Di giorno vi faceva stendere sopra una passerella di tronchi di legno
squadrati, su cui i Babilonesi transitavano; di notte la passerella veniva
tolta, perché non andassero in giro a derubarsi da una parte all'altra. Quando
l'invaso colmato dalle acque del fiume era ormai diventato uno stagno e i
lavori intorno al ponte erano terminati, ricondusse l'Eufrate dalla palude nel
suo antico alveo; in questo modo lo scavo, divenuto palude, apparve in tutta la
sua utilità e intanto i cittadini ebbero un ponte. Questa stessa regina
escogitò anche un bell'inganno: ordinò che si allestisse la sua
tomba a mezz'aria, cioè sopra la porta più frequentata della
città; e su di essa fece incidere una iscrizione che diceva: 'Se
uno dei re di Babilonia miei successori, si troverà a corto di denaro,
apra la tomba e prenda tutte le ricchezze che vuole: la apra soltanto se ha
davvero bisogno di denaro, e per nessuna altra ragione, o non ne avrà
alcun vantaggio'. Questa tomba rimase intatta finché il regno non venne
nelle mani di Dario; a Dario sembrava assurdo non potersi servire di quella
porta e non toccare le ricchezze ivi giacenti quando persino l'iscrizione
invitava a prenderle. Non si serviva della porta perché se l'avesse
attraversata si sarebbe trovato il cadavere sopra la testa. Dario fece aprire
la tomba ma ricchezze non ne trovò, solo il cadavere e una scritta che
diceva: 'se tu non fossi insaziabile di denaro e ignobilmente avido, non
violeresti le tombe dei defunti'. Ecco, come si narra, che genere di donna
fu questa regina. Ciro combatté contro il lio di Nitocri, che portava lo
stesso nome di suo padre, Labineto, e regnava sull'Assiria. Il grande re
persiano compì la sua spedizione militare ben fornito di vettovaglie e
di bestiame persiano; tra l'altro aveva con sé persino acqua del Coaspe, il
fiume che scorre vicino a Susa: un re persiano beve solo acqua di questo fiume
e di nessun altro. Perciò molti carri a quattro ruote trainati da mule
seguono sempre il re, dovunque vada, carichi di acqua bollita del Coaspe
contenuta in recipienti d'argento. Ciro nella sua marcia verso Babilonia giunse
a un certo momento al fiume Ginde. Il Ginde ha le sue sorgenti sui monti dei
Matieni, attraversa il paese dei Dardani e poi va ad affluire in un altro fiume,
il Tigri, il quale a sua volta scorre presso la città di Opis e sfocia
nel Mare Eritreo. Dunque, mentre Ciro tentava di attraversare il Ginde, che
è navigabile, uno dei suoi sacri cavalli bianchi entrò
impetuosamente nel fiume tentando di guadarlo, ma la corrente lo travolse
sott'acqua e lo trascinò via. Ciro si infuriò nei confronti del
fiume, autore di un simile oltraggio, lo minacciò di renderlo tanto
debole che in seguito anche le donne avrebbero potuto guadarlo facilmente, senza
bagnarsi neppure le ginocchia. Pronunciata la minaccia trascurò la
spedizione contro Babilonia e divise il suo esercito in due parti: su ciascun
lato del Ginde disegnò con delle corde tese in linea retta il tracciato
di 180 canali rivolti in ogni direzione, distribuì i suoi uomini sulle
due rive del fiume e ordinò di cominciare lo scavo. Poiché la manodopera
era assai numerosa l'impresa fu condotta a termine, tuttavia passarono l'estate
intera a scavare in quella zona. Consumata la sua vendetta disperdendo il corso
del Ginde in 360 canali, Ciro al sorgere della primavera successiva si spinse
contro Babilonia. I Babilonesi lo attesero schierati fuori della città;
quando nella sua marcia fu vicino a Babilonia, lo assalirono, ma poi, sconfitti
nella battaglia, ripiegarono dentro la rocca. Poiché da tempo sapevano che Ciro
non era tipo da starsene tranquillo e anzi lo vedevano aggredire senza
distinzioni qualunque popolo, si erano premuniti raccogliendo viveri per molti
anni. Così non si preoccupavano minimamente dell'assedio, mentre Ciro
era in grave difficoltà: il tempo passava senza che la situazione
registrasse per lui alcun progresso. Infine, vuoi che qualcuno lo avesse
consigliato in tal senso, vedendolo in difficoltà, vuoi che lui stesso
si fosse reso conto del da farsi, prese una decisione: schierò il suo
esercito all'imboccatura del fiume, cioè nel punto in cui esso entra in
Babilonia e dispose altri uomini al capo opposto della città, dove il
fiume esce dal centro abitato e ordinò ai soldati di attendere che la
corrente fosse divenuta guadabile e poi di entrare in città per quella
via. Dopo aver schierato le sue truppe e impartiti i relativi ordini, condusse
via con sé gli uomini meno adatti al combattimento. Giunse fino al bacino
artificiale e lì ripeté l'operazione compiuta a suo tempo dalla regina
Nitocri per il fiume e lo stagno: per mezzo di un canale deviò il fiume
nella palude; in tal modo al ritirarsi delle acque il letto del fiume divenne
percorribile. Quando ciò accadde i Persiani che erano stati opportunamente
schierati lungo il corso dell'Eufrate poterono penetrare in città per
questa via: il livello del fiume si era abbassato al punto che l'acqua arrivava
appena a metà coscia. Se i Babilonesi avessero avuto notizia delle
manovre di Ciro o se ne fossero accorti, avrebbero consentito ai Persiani di
penetrare in città per poi massacrarli; infatti, sbarrando tutte le
porte che danno sul fiume e salendo sugli spalti che corrono lungo le rive, li
avrebbero presi come in una nassa. E invece i Persiani piombarono loro addosso
all'improvviso. A causa dell'estensione di Babilonia, come raccontano i suoi
stessi abitanti, quando già i quartieri periferici della città
erano stati espugnati, ancora i Babilonesi residenti nel centro non se ne erano
accorti; e anzi, dato che per combinazione era un giorno di festa, in quel
momento erano dediti a danze e divertimenti; fino a quando, naturalmente, non
si resero conto esattamente della situazione. In tal modo Babilonia fu
espugnata, allora, per la prima volta. Mostrerò con molti argomenti
quanto siano immense le risorse della Babilonia e già con una semplice
considerazione. Il grande re ha suddiviso l'intero territorio del suo dominio
in varie zone che provvedono a turno, indipendentemente dai tributi annuali, al
mantenimento suo e del suo esercito. Ebbene, per quattro mesi, sui dodici che
compongono un anno, è la Babilonia a provvedere, per gli altri otto
tutto il resto dell'Asia; ciò vuol dire che l'Assiria assomma la terza
parte delle risorse dell'Asia intera. E il governatorato di questa regione, o
satrapia, come lo chiamano i Persiani, è fra tutti di gran lunga il
più potente; tanto è vero che a Tritantecme lio di Artabazo,
che aveva ricevuto dal re questo territorio, affluiva una rendita quotidiana di
una artaba di argento (l'artaba è l'unità di misura persiana,
corrispondente a un medimno e tre chenici attici); e possedeva privatamente,
senza tener conto dei cavalli da guerra, 800 stalloni e 16.000 femmine per la
riproduzione, poiché ogni stallone montava venti cavalle. Inoltre allevava un
tale numero di cani d'India che quattro grandi villaggi della pianura erano
incaricati del loro mantenimento, e non avano altro tributo che questo. Tale
era l'appannaggio del governatore di Babilonia. Però la terra degli
Assiri riceve poca pioggia, appena sufficiente a far spuntare la radice del
frumento; è poi grazie alla irrigazione che le messi crescono e il grano
giunge a maturazione, non però come avviene in Egitto, dove il fiume
stesso straripa nelle camne, bensì grazie al lavoro manuale e all'uso
di mazzacavalli. In effetti la Babilonia, come l'Egitto, è interamente
attraversata da canali, il più grande dei quali, navigabile, si sviluppa
in direzione sud-est a partire dall'Eufrate immettendosi nell'altro fiume, il
Tigri; lungo il Tigri sorgeva la città di Ninive. Fra tutte le regioni a
nostra conoscenza questa è certamente la più indicata per la
produzione del frutto di Demetra, tanto è vero che non si tenta nemmeno
di far crescere altri tipi di piante, né fichi, né viti, né olivi; è talmente
adatta alla coltura dei cereali che in media frutta 200 se si semina 1 e quando
rende al massimo delle proprie possibilità frutta persino 300. In quella
terra le foglie del grano e dell'orzo raggiungono tranquillamente una larghezza
di quattro dita. Quanto all'altezza raggiunta dalle piante del miglio e del
sesamo, anche se la conosco eviterò di segnalarla: so bene che a chi non
è mai stato nella Babilonia sembrano del tutto incredibili anche i dati
che ho esposto sui cereali. Non usano olio di oliva ma estraggono olio dal
sesamo. In tutta la pianura crescono spontaneamente le palme, quasi tutte
fruttifere; da esse ricavano cibi solidi, vino e miele; curano queste palme
come si fa con i fichi, in particolare quelle che i Greci chiamarebbero 'maschio':
ne legano i frutti intorno alle palme da datteri affinché lo pseno penetrando
nei datteri li porti a maturazione e il frutto della palma non vada perduto;
infatti le palme 'maschio' portano nei loro datteri lo pseno
esattamente come i fichi selvatici. Ma ora parlerò di quella che a mio
parere costituisce la meraviglia più grande di Babilonia, dopo la
città naturalmente: possiedono imbarcazioni, di forma circolare e
interamente di cuoio, che arrivano fino a Babilonia scendendo lungo la corrente
del fiume. Nella regione d'Armenia, a nord dell'Assiria, essi fabbricano lo
scafo con vimini tagliati opportunamente e vi distendono intorno delle pelli
per ricoprirle, come un impiantito; non differenziano la poppa e non modellano
una prua più stretta: le fanno invece rotonde come uno scudo; poi
ricoprono di canne tutta l'imbarcazione, la riempiono di mercanzie e lasciano
che sia il fiume a portarla; per lo più imbarcano recipienti fenici
colmi di vino. Con due pertiche due uomini in piedi ne governano la direzione:
mentre uno tira verso di sé la pertica l'altro la spinge in fuori. Imbarcazioni
di questo tipo ne costruiscono di molto grandi e di piccole: le più
grandi hanno una stazza di 5000 talenti. Su ogni battello viaggia un asino
vivo, sulle barche più grandi ve n'è più d'uno; una volta
arrivati a Babilonia scendendo lungo la corrente e, smerciato il carico,
vendono lo scafo e tutte le canne al miglior offerente; le pelli invece le
caricano sull'asino e se ne ritornano in Armenia. Infatti in nessun modo
è possibile risalire il fiume in battello per via della corrente troppo
forte; e questo è anche il motivo per cui non costruiscono imbarcazioni
di legno bensì di pelli. Quando con i loro asini sono nuovamente tornati
in Armenia si costruiscono altre imbarcazioni nella stessa maniera. Tali sono i
loro mezzi per la navigazione fluviale. Come indumenti adoperano una tunica di
lino lunga fino ai piedi sulla quale indossano un'altra tunica di lana e una
mantellina bianca, gettata intorno alle spalle. Ai piedi portano calzature
locali simili ai sandali che si usano in Beozia. Portano capelli lunghi e se li
legano con nastri; si profumano tutto il corpo. Ciascuno di loro ha un anello
con sigillo e un bastone lavorato a mano; il pomo di ciascun bastone è
scolpito in forma di mela, di rosa, di giglio, di aquila o d'altro; non
è loro abitudine portare un bastone senza un contrassegno. Questo per
quanto riguarda l'abbigliamento. Veniamo adesso alle loro leggi. Ecco secondo
me la più saggia (in uso, a quanto apprendo, anche fra i Veneti di
Illiria). Una volta all'anno, in ogni villaggio si faceva così:
conducevano in un unico luogo, allo scopo di riunirle tutte, le ragazze che si
trovassero in età da marito e intorno ad esse si radunava una folla di
uomini. Poi un araldo le faceva alzare in piedi, una per una, e le vendeva:
cominciava dalla più bella, poi, quando questa aveva trovato un generoso
compratore, metteva all'asta la seconda per bellezza. La vendita si faceva a
scopo matrimoniale. I Babilonesi benestanti in età da prendere moglie
superandosi a vicenda con le offerte si acquistavano le più graziose;
invece gli aspiranti mariti del popolo, che non badavano all'estetica, si
prendevano le ragazze più brutte e una somma di denaro. Infatti quando
il banditore aveva terminato di vendere le più belle, faceva alzare la
più brutta oppure una storpia, se c'era, e la offriva a chi accettasse
di sposarla con il compenso più basso; finché la ragazza veniva
aggiudicata a chi s'accontentava della somma minore. Il denaro derivava dalla
vendita delle ragazze avvenenti: in questo modo erano le belle ad accasare le
brutte e le menomate. Nessuno aveva il diritto di dare la propria lia in
moglie a chi volesse lui e senza garanzie non era possibile portarsi via la
ragazza comprata; l'acquirente doveva prima fornire garanzie che avrebbe
sposato effettivamente la ragazza, poi poteva condurla con sé; se poi non
andavano d'accordo, il denaro doveva per legge essere restituito. Chiunque
volesse partecipare all'asta poteva farlo, anche venendo da un altro villaggio.
Questa era dunque la loro tradizione più bella; ora però non
è più in vigore e hanno studiato un nuovo sistema [per non
danneggiare le loro donne e per impedire che vengano condotte in un altro
paese]. Da quando la conquista di Babilonia ha ridotto male e rovinato i suoi
abitanti, tutti i popolani, che non hanno di che vivere, prostituiscono le
lie. Ed ecco l'usanza in vigore presso di loro seconda per saggezza: non
avendo medici portano sulla pubblica piazza i loro infermi. Chi si avvicina al
malato esprime un parere sulla sua malattia, se per caso ha avuto gli stessi
sintomi o se ha saputo di qualcuno che li abbia avuti. Dunque si accostano per
dar consigli e ciascuno esorta a fare ciò che lui stesso ha fatto o
visto fare a un altro per guarire da una analoga affezione. Non è
consentito passare oltre in silenzio senza chiedere all'infermo di quale
malattia soffra. Seppelliscono i morti nel miele; i lamenti funebri sono assai
simili a quelli in uso in Egitto. Ogni volta che un Babilonese ha fatto l'amore
con la propria moglie, brucia delle sostanze aromatiche e si siede accanto al
fumo; la stessa cosa, separatamente, fa anche la donna. All'alba entrambi
provvedono a lavarsi e non toccano nessun vaso se prima non si sono lavati.
Identica cosa fanno anche gli Arabi. Ed ecco la peggiore delle usanze
babilonesi. Ogni donna di quel paese deve sedere nel tempio di Afrodite una
volta nella sua vita e fare l'amore con uno straniero. Molte, sentendosi
superiori per la loro ricchezza, sdegnano di mescolarsi con le altre e si fanno
trasportare sopra un carro coperto fino al tempio e lì si fermano, con
un gran seguito di servitù. La maggior parte invece si comporta come
segue: nel recinto sacro di Afrodite siedono in molte con una corona di corda
intorno alla testa, alcune arrivano, altre se ne vanno; con delle funi tese fra
le donne si ottengono dei corridoi rivolti in tutte le direzioni: gli stranieri
passano attraverso di essi e fanno la loro scelta. Una donna che si sia
lì seduta non se ne torna a casa se prima uno straniero qualsiasi non le
ha gettato in grembo del denaro e non ha fatto l'amore con lei all'interno del
tempio; gettando il denaro deve pronunciare una formula: 'Invoco la dea
Militta'. Con il nome di Militta gli Assiri chiamano Afrodite. L'ammontare
pecuniario è quello che è e non sarà rifiutato: non
è lecito perché tale denaro diventa sacro. La donna segue il primo che
glielo getti e non respinge nessuno. Dopo aver fatto l'amore, e aver
soddisfatto così la dea, fa ritorno a casa e da questo momento non le si
potrà offrire tanto da poterla possedere. Le donne avvenenti e di alta
statura se ne vanno rapidamente, ma quelle brutte rimangono lì molto
tempo senza poter adempiere l'usanza; e alcune rimangono ad aspettare persino per
tre o quattro anni. Una usanza assai simile esiste anche in qualche parte
dell'isola di Cipro. E questi sono i costumi dei Babilonesi. Fra loro vi sono
tre tribù che si nutrono esclusivamente di pesce, opportunamente seccato
al sole dopo la pesca, preparandolo così: lo gettano in un mortaio, lo
sminuzzano con il pestello e lo passano al setaccio; poi lo mangiano
preparandolo come pastone o cuocendolo al forno, come fosse pane, secondo i
gusti. Quando Ciro ebbe sottomesso anche questo popolo, fu preso dal desiderio
di ridurre in suo potere i Massageti. I Massageti hanno fama di essere un
popolo grande e valoroso: le loro sedi si trovano a est, dove sorge il sole, al
di là del fiume Arasse, di fronte agli Issedoni; c'è chi sostiene
che questo popolo sia di razza scita. Quanto all'Arasse ora lo si dice
più grande ora più piccolo dell'Istro. Si racconta anche che in
mezzo al fiume ci sono numerose isole estese quasi quanto Lesbo: su di esse
vivrebbero uomini che d'estate si cibano di radici di ogni tipo estraendole
dalla terra e d'inverno di frutti staccati dagli alberi e messi in serbo nel
periodo della maturazione; e pare che essi abbiano trovato altre piante il cui
frutto possiede strane proprietà: quando si riuniscono in gruppi in uno
stesso luogo e accendono i falò, vi siedono attorno e gettano nel fuoco
questi frutti, aspirando i vapori che se ne sprigionano; con tali effluvi si
ubriacano esattamente come i Greci con il vino: e più frutti gettano nel
fuoco più si inebriano, fino al punto di alzarsi per danzare e di mettersi
a cantare. Tale sarebbe, a quanto si racconta, il loro modo di vivere. Il fiume
Arasse scorre dal paese dei Matieni, come pure il Ginde (quello disperso da
Ciro in 360 canali), e riversa poi le sue acque in quaranta ramificazioni, le
quali tutte, tranne una, sfociano in stagni e paludi; qui vivono, a quanto si
dice, uomini che si cibano di pesci crudi e che si vestono normalmente con
pelli di foca. L'unico ramo dell'Arasse a scorrere libero e aperto sfocia nel
Mar Caspio. Il Caspio è un mare a sé senza alcuna comunicazione con
l'altro mare'; effettivamente le acque percorse dalle navi greche, quelle
situate al di là delle colonne d'Ercole, dette Atlantico, e il Mare
Eritreo, formano un unico mare. Le acque del Caspio formano un secondo mare a
parte, lungo quindici giorni di navigazione a remi e largo otto, nel tratto di
maggiore larghezza. Sulla riva occidentale si stende il Caucaso, il complesso
montuoso più vasto e più elevato del mondo. Nella zona del
Caucaso abitano numerose popolazioni di tutte le razze, che vivono per lo
più di frutti selvatici. Da quelle parti, si dice, esisterebbero piante
dalle cui foglie triturate e mescolate con acqua ottengono una tintura per
disegnare ure sulle loro vesti; e queste ure non sbiadiscono affatto, si
consumano con il resto della stoffa come se vi fossero state intessute fin
dall'origine. Pare che fra queste genti gli accoppiamenti avvengano davanti a
tutti come fra gli animali. Dicevamo che il Caucaso delimita la parte
occidentale del mare Caspio; invece procedendo verso est, verso il sorgere del
sole, si estende una pianura immensa, a perdita d'occhio; una parte non piccola
di questa sconfinata pianura è abitata dai Massageti, contro i quali
appunto Ciro era ansioso di marciare. Molte e importanti ragioni lo spingevano
e lo sollecitavano in tal senso: prima di tutto la sua nascita, la convinzione
di essere qualcosa di più che un uomo, in secondo luogo la sua buona
sorte, quale si era rivelata nelle guerre precedenti: dovunque infatti avesse
diretto le sue truppe, nessuna popolazione era riuscita a trovare scampo. Sui
Massageti, da quando le era morto il marito, regnava una donna, di nome Tomiri.
Ciro le mandò un messaggio in cui la chiedeva in matrimonio dicendo di
volerla per moglie; ma Tomiri, comprendendo che lui non aspirava tanto alla sua
mano quanto al regno dei Massageti, rifiutò i suoi approcci. Allora
Ciro, visto che con l'astuzia non aveva ottenuto alcun risultato, si spinse
fino all'Arasse e dichiarò apertamente guerra ai Massageti; gettò
dei ponti fra le due rive del fiume per il passaggio dell'esercito e
costruì torri di difesa sulle imbarcazioni che attraversavano il fiume.
Mentre era impegnato in questi lavori, la regina Tomiri gli inviò un
araldo con il seguente messaggio: 'O re dei Medi, smettila con gli sforzi
che stai compiendo: tu non sai se l'impresa ti riuscirà felice. Desisti,
regna sui tuoi territori e lascia che noi regniamo sui nostri sudditi. Ma so
già che non vorrai accettare i miei suggerimenti e anzi tutto vorrai
fuorché startene in pace. Perciò, se davvero aspiri tanto a misurarti
con i Massageti, lascia perdere il ponte sul fiume, che ti costa tanta fatica;
passa pure nel nostro territorio, le nostre truppe si ritireranno a tre giorni
di cammino dal fiume. Se invece preferisci essere tu ad accogliere noi nel
vostro paese, allora fai tu le stesse cose'. Sentita questa proposta, Ciro
convocò i Persiani più autorevoli e quando li ebbe radunati
espose i termini della questione, chiedendo consiglio sul da farsi. E i pareri
di tutti concordemente lo esortarono a ricevere Tomiri e il suo esercito sul
suolo persiano. Ma Creso il Lido, presente alla discussione, criticò
questo parere ed espose la sua opinione, che era esattamente opposta:
'Signore, - disse - già altre volte ti ho promesso, poiché Zeus mi
ha dato nelle tue mani, che mi sarei impegnato a fondo per scongiurare
qualunque sciagura io vedessi incombere sulla tua casa. Le mie sventure
personali, così spiacevoli, mi hanno insegnato molto. Ora, se tu credi
di essere immortale e di comandare a un esercito immortale, non ha senso che io
ti esponga il mio parere; ma se riconosci di essere un uomo anche tu e di
comandare ad altri uomini, sappi prima di tutto che le vicende umane sono una
ruota, che gira e non permette che siano sempre gli stessi a godere di buona
fortuna. Circa la presente questione io la penso al contrario di costoro: se
decideremo di ricevere i nemici in territorio persiano tu corri un bel rischio:
se rimani sconfitto perdi tutto il tuo regno perché è chiaro che i Massageti,
vincendo, non torneranno più indietro ma avanzeranno contro i tuoi
domini. Invece se li batti, non vinci tanto quanto vinceresti se trovandoti
già in casa loro potessi inseguire i Massageti in fuga. La conseguenza
infatti sarebbe uguale ma contraria alla precedente: se scongi tu i nemici,
sarai tu a puntare dritto sul dominio di Tomiri. Inoltre, indipendentemente da
quanto ti ho già esposto, mi pare vergognoso e intollerabile che Ciro,
il lio di Cambise, ceda a una donna e si ritiri. Pertanto il mio parere
è di passare il fiume e avanzare di quanto i nemici arretreranno; e
là tentare di scongerli con la seguente tattica. A quanto mi risulta
i Massageti non hanno mai gustato i piaceri persiani e non hanno mai provato
grandi delizie. Per uomini così dunque facciamo a pezzi bestiame in
abbondanza, cuciniamolo e prepariamo un banchetto nel nostro campo: e
aggiungiamo generosamente grandi orci di vino puro e cibarie d'ogni sorta; dopo
di che si lascino sul posto i contingenti meno validi e gli altri si ritirino
nuovamente verso il fiume. E vedrai, se non mi inganno, che i Massageti a
vedere tutto quel ben di dio vi si getteranno sopra e a quel punto a noi non
resterà che compiere notevoli gesta'. Questi furono gli opposti
pareri; Ciro trascurò il primo e accettò il suggerimento di
Creso: avvisò la regina Tomiri di ritirare le sue truppe, perché sarebbe
stato lui ad attraversare il fiume. Ed essa si ritirò come aveva
promesso. Ciro affidò Creso nelle mani di suo lio Cambise, erede
designato del regno, con molte esortazioni a onorarlo e a trattarlo degnamente,
nel caso la spedizione contro i Massageti non avesse buon esito. Con queste
raccomandazioni li rimandò in Persia, poi passò il fiume con il
suo esercito. La notte successiva al passaggio dell'Arasse, mentre dormiva
nella terra dei Massageti, ebbe un sogno: nel sonno gli parve che il lio
maggiore di Istaspe avesse due ali sulle spalle: con una gettava ombra
sull'Asia, con l'altra sull'Europa. Il maggiore dei li di Istaspe, lio di
Arsame, della famiglia degli Achemenidi, era Dario, che allora aveva circa
vent'anni e per questo, non avendo l'età per combattere, era stato
lasciato in Persia. Ciro si svegliò, e rifletteva sul sogno; e poiché
gli sembrava una visione importante, mandò a chiamare Istaspe, lo prese
da parte e gli disse: 'Istaspe, tuo lio è stato sorpreso a
complottare contro di me e il mio potere. Come mai lo so con certezza, ora te
lo spiego. Gli dei hanno cura di me e mi preannunciano tutto ciò che mi
minaccia; ebbene la notte scorsa dormendo ho visto in sogno il maggiore dei
tuoi li avere sulle spalle due ali e con una gettare ombra sull'Asia, con
l'altra sull'Europa. Non c'è altra spiegazione per questo sogno, se non
che tuo lio sta tramando contro di me. Pertanto ti ordino di rientrare
immediatamente in Persia; e bada di sottoporre tuo lio al mio giudizio,
quando avrò assoggettata questa terra e sarò di ritorno in
Persia'. Ciro parlò così convinto che Dario stesse
cospirando contro di lui, mentre il dio voleva soltanto rivelargli che doveva
morire lì, in quel paese, e che il suo potere sarebbe finito nelle mani
di Dario. Istaspe gli rispose: 'O re, io mi auguro che non sia nato un
Persiano che complotta contro di te, ma se esiste, allora muoia al più presto!
Tu, da schiavi che eravamo, ci hai resi liberi, tu ci hai reso da servi
signori. Se un sogno ti annuncia che mio lio sta preparando una ribellione
contro di te, sarò io stesso a consegnarlo nelle tue mani, perché tu ne
faccia quello che vorrai'. Dopo questa risposta Istaspe
riattraversò l'Arasse e tornò in Persia per tenere suo lio
Dario a disposizione di Ciro. Ciro avanzò oltre il fiume per circa una
giornata di cammino e mise in pratica i suggerimenti di Creso. Poi
indietreggiò verso l'Arasse con le truppe più valide lasciando
sul posto i meno adatti a combattere. Allora un terzo dell'esercito massageta
sopraggiunse e sterminò, nonostante la loro resistenza, i soldati
lasciati sul posto da Ciro; ma, come videro le mense imbandite, appena spazzati
via i nemici, si sdraiarono a banchettare: infine, rimpinzati di cibo e di vino
si addormentarono. Sopraggiunsero i Persiani e uccisero molti di loro, e ancor
più ne presero prigionieri incluso il lio della regina Tomiri, che
comandava l'esercito dei Massageti e si chiamava Spargapise. Quando la regina
seppe quanto era accaduto all'esercito e a suo lio, mandò un araldo a
Ciro col seguente messaggio: 'Ciro, insaziabile di sangue, non esaltarti
per ciò che è avvenuto, se col frutto della vite, riempiendovi
del quale anche voi impazzite, fino al punto che il vino scendendo nel vostro
corpo vi fa salire alla bocca sconce parole, non esaltarti se con l'inganno di
questo veleno hai sconfitto mio lio, e non in battaglia misurando le vostre
forze. Io ora ti do un buon consiglio e tu seguilo: restituiscimi mio lio e
potrai andartene dal mio paese senza are per l'oltraggio inflitto a un terzo
del mio esercito; altrimenti, lo giuro sul sole, signore dei Massageti, benché
tu ne sia avido, ti sazierò di sangue!' Queste parole furono
riferite a Ciro, ma lui non le prese in considerazione. Il lio della regina
Tomiri, Spargapise, quando svanirono i fumi del vino e si rese conto della sua
sciagurata situazione, pregò Ciro di essere liberato dalle catene e
l'ottenne, ma come fu sciolto e padrone delle sue mani si suicidò.
Così morì Spargapise. E Tomiri, poiché Ciro non le aveva prestato
ascolto, raccolse tutte le sue truppe e lo attaccò. Io ritengo questa
battaglia la più dura di quante i barbari abbiano mai combattuto fra
loro. Ed ecco come si svolse secondo le mie informazioni. In un primo momento
si tennero a distanza e si lanciarono frecce, poi, terminate le frecce, si
gettarono gli uni contro gli altri brandendo lance e spade. Per lungo tempo si
protrasse lo scontro senza che una delle due parti accennasse a fuggire; infine
prevalsero i Massageti. La maggior parte dell'esercito persiano fu distrutto e
sul campo cadde Ciro stesso. Aveva regnato complessivamente per 29 anni. Tomiri
riempì un otre di sangue umano e fece cercare fra i cadaveri dei
Persiani il cadavere di Ciro; quando lo trovò immerse la sua testa
nell'otre e mentre così infieriva su di lui, disse: 'Tu hai ucciso
me, anche se sono viva e ti ho sconfitto, sopprimendo con l'inganno mio lio;
ora io ti sazierò di sangue, esattamente come ti avevo minacciato'.
Fra le tante versioni correnti sulla morte di Ciro questa che ho raccontato mi
pare la più degna di fede. I Massageti hanno un modo di vestire e un
regime di vita simili a quelli degli Sciti. Combattono a cavallo o a piedi
(sono esperti in entrambi i campi), sono arcieri e lancieri; abitualmente hanno
pure una scure bipenne. Per ogni cosa adoperano oro e bronzo: usano il bronzo
per le punte delle lance e delle frecce e per le bipenni, mentre si ornano
d'oro l'elmo, la cintura e le tracolle; allo stesso modo corazzano con il
bronzo il petto dei cavalli mentre ne rivestono di oro le briglie, il morso e
le borchie. Non si servono assolutamente di ferro e di argento perché nel loro
paese non se ne trova. Mentre abbondano l'oro e il bronzo. Ed ecco le loro
usanze: ciascuno sposa una donna ma le donne poi sono in comune per tutti. I
Greci sostengono che sono gli Sciti a comportarsi così, ma non è
vero: non sono gli Sciti bensì i Massageti; ogni Massageta che desideri
una donna appende una faretra al suo carro e fa tranquillamente l'amore con
lei. Essi non hanno prefissato un limite alla loro vita, però quando uno
è divenuto assai vecchio, tutti i suoi parenti si riuniscono, lo
uccidono insieme con altri animali domestici, ne fanno cuocere le carni e se lo
mangiano. E questa è considerata da loro la fine più bella; non
si cibano invece di chi muore per malattia, anzi lo seppelliscono, considerando
una disgrazia che non sia giunto all'età di essere sacrificato. Non
praticano l'agricoltura ma vivono di allevamento e di pesca, pesci ne trovano
tanti nel fiume Arasse. Sono bevitori di latte. Venerano il sole quale unico
dio e gli sacrificano cavalli in base alla seguente considerazione: al
più veloce di tutti gli dei offrono il più veloce degli esseri
mortali.