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Autore: Seneca
Opera: De Clementia - IV
LATINO
1. Huic contrariam imperiti putant severitatem; sed nulla virtus
virtuti contraria est. Quid ergo opponitur clementiae? Crudelitas, quae nihil
aliud est quam atrocitas animi in exigendis poenis. 'Sed quidam non exigunt
poenas, crudeles tamen sunt, tamquam qui ignotos homines et obvios non in
compendium, sed occidendi causa occidunt nec interficere contenti saeviunt, ut
Busiris ille et Procrustes et piratae, qui captos verberant et in ignem vivos
imponunt.' 2. Haec crudelitas quidem; sed quia nec ultionem sequitur (non enim
laesa est) nec peccato alicui irascitur (nullum enim antecessit crimen), extra
finitionem nostram cadit; finitio enim continebat in poenis exigendis
intemperantiam animi. Possumus dicere non esse hanc crudelitatem, sed
feritatem, cui voluptati saevitia est; possumus insaniam vocare: nam varia sunt
genera eius et nullum certius, quam quod in caedes hominum et lancinationes
pervenit. 3. Illos ergo crudeles vocabo, qui puniendi causam habent, modum non
habent, sicut in Phalari, quem aiunt non quidem in homines innocentes, sed
super humanum ac probabilem modum saevisse. Possumus effugere cavillationem et
ita finire, ut sit crudelitas inclinatio animi ad asperiora. Hanc clementia repellit
longe iussam stare a se; cum severitate illi convenit.
4. Ad rem pertinet quaerere hoc loco, quid sit misericordia; plerique enim ut
virtutem eam laudant et bonum hominem vocant misericordem. Et haec vitium animi
est. Utraque circa severitatem circaque clementiam posita sunt, quae vitare
debemus; per speciem enim severitatis in crudelitatem incidimus, per speciem
clementiae in misericordiam. In hoc leviore periculo erratur, sed par error est
a vero recedentium.
Gli ignoranti reputano contraria alla clemenza la severità; ma nessuna virtù è contraria ad una virtù. Che cos'è, dunque, ciò che si oppone alla clemenza? La crudeltà, la quale non è altro che la ferocia dell'animo nell'imporre le pene. 'Ma certi', si dirà, 'non impongono pene, eppure sono crudeli, come quelli che uccidono uomini che non conoscono e che hanno incontrato per caso, non per trarne un guadagno, ma semplicemente per il gusto di ucciderli, e, non contenti di ammazzare, si accaniscono sulle loro vittime, come quel famoso Busiride, e Procruste, o i pirati, che frustano i prigionieri e li gettano vivi nel fuoco'. [2] Questa è certamente crudeltà; ma, poiché non persegue una vendetta (infatti, non ha ricevuto offesa), né se la prende con la colpa commessa da qualcuno (infatti, prima non c'è stato alcun delitto), essa non rientra nella nostra definizione: la nostra definizione, infatti, aveva come contenuto l'intemperanza dell'animo nell'imporre le pene. Possiamo dire che questa non è crudeltà, ma ferocia, che prova piacere nel far soffrire; possiamo chiamarla follia, poiché le sue specie sono varie, ma nessuna di esse è più chiara di quella che giunge a massacrare e straziare gli uomini. [3] Io, perciò, chiamerò crudeli coloro che hanno un motivo per punire, ma non hanno misura, come nel caso di Falaride, del quale si narra che infierisse non solo su uomini innocenti, ma oltrepassando ogni misura umana e ammissibile. Possiamo sfuggire alle sottigliezze, e definire la crudeltà come un'inclinazione dell'animo verso la massima durezza. È questa crudeltà che la clemenza respinge, comandandole di stare lontano da lei; con la severità, invece, va d'accordo.[4] Rientra nell'argomento a questo punto il domandarsi che cosa sia la compassione; i più, infatti, la lodano come virtù e chiamano buono l'uomo compassionevole. Eppure, anche questo è un vizio dell'animo. I due eccessi che dobbiamo evitare sono posti rispettivamente l'uno al confine della severità, l'altro della clemenza: infatti, con il pretesto della severità, cadiamo nella crudeltà, con il pretesto della clemenza, cadiamo nella compassione. In quest'ultimo caso si sbaglia con minor pericolo, ma l'errore è uguale in entrambi i casi, in quanto ci si allontana dal vero.
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