letteratura |
Carlo porta (Milano 1775-l821)
Carlo Porta appartiene alla borghesia illuminata milanese che aveva condiviso gli ideali rivoluzionari (della Rivoluzione Francese), illudendosi che la venuta in Italia di Napoleone significasse la realizzazione concreta di tali ideali democratici. In realtà, Porta si rese conto che i Francesi miravano soltanto a realizzare gli interessi del loro Paese, per cui egli prese le distanze da Napoleone, pur senza mai rinnegare, però, i valori di uguaglianza e libertà, in cui credeva profondamente. Quando poi sbocciò in Italia la polemica classico-romantica, Porta aderì istintivamente al Romanticismo di indirizzo realistico, che gli consentiva di mettere in primo piano la condizione e i bisogni della plebe milanese, verso la quale si indirizza la sua simpatia di letterato e di uomo. Porta non trascurò neppure la rappresentazione dei ceti privilegiati, ma nobili e prelati vengono per lo più rappresentati in una luce negativa, in quanto prigionieri dei loro privilegi, della loro arroganza, del loro egoismo. I ceti subalterni, dunque, sono l'oggetto privilegiato della poesia di Porta: si tratta di ure rappresentate nella loro quotidianità, alle prese con drammatici problemi esistenziali, persone che si esprimono in dialetto milanese (con la lingua, cioè, che è loro propria). Ecco la grande novità della poesia di Porta: dare dignità letteraria al dialetto, veicolo comunicativo che sino ad allora era stato oggetto dei pregiudizi dei classicisti e che, per tale motivo, era stato utilizzato soltanto per un tipo di letteratura di intrattenimento (in tal senso esisteva a Milano la tradizione delle "bosinade", poesia comica dialettale, sulla scia della quale era stata tradotta in dialetto milanese la "Gerusalemme Liberata" del Tasso). Pochi anni più tardi, nella Roma papalina, Gioachino Belli compirà in romanesco un'operazione analoga, scrivendo in dialetto centinaia di sonetti nei quali ritrae la plebe romana nella sua autenticità, anche se essa si esprime in modi spesso volgari e polemici.
La poesia di Porta può essere distinta in tre momenti, caratterizzati da diversi toni di scrittura.
Nel primo periodo, il gusto per il comico prevale sulla satira sociale: ci troviamo, allora, dinnanzi a donne bigotte che si consumano nelle preghiere, o a ure di religiosi poveri in canna (soprattutto dopo che Napoleone ha confiscato i benefici ecclesiastici) che vivono di espedienti. Assai simpatica, ad esempio, è la ura del frate protagonista del componimento "El viagg ed fraà condutt" ("Il viaggio di Frate Fogna"), il quale parte felice con la sua mula da Milano per andare a celebrare un matrimonio fuori città, dal quale spera di poter ricavare una lauta offerta, ma amando alzare il gomito, si ferma in una osteria a bere, e i suoi comni di bevuta gli girano la mula verso Milano; il poveretto, così, monta in groppa e si trova a Milano a porta Venezia. In questo periodo Porta traduce in dialetto anche l'episodio di Paolo e Francesca, tratto dall'Inferno.
Nel secondo periodo della poesia portiana, sul riso prevale la satira sociale, rivolta contro quella nobiltà e quell'alto clero che sono rimasti chiusi nell'egoismo dei loro privilegi e non sanno prestare orecchio ai lamenti di tanti infelici umiliati e offesi dalla vita. Nascono, da questo sentimento di ribellione morale, componimenti come "La preghiera" (da cui emergono l'ignoranza e la volgarità di una gran dama milanese, che si condensano nel suo linguaggio ibrido di italiano e di dialetto), "La nomina del cappellano" (in cui una nobildonna deve scegliere il cappellano di casa tra una folla di questuanti costituita da poveri preti unti e miserabili, ma in realtà la scelta è operata dalla Lilla, la cagnetta, che predilige un povero pretino: in realtà sente l'odore del salame, pasto del prete, infilato in una tasca), il "Miserere" (in cui un gruppo di canonici distratti recita i salmi per le esequie di una persona inframmezzandoli con osservazioni banali sussurrate fra di loro).
Ma è nella terza fase che la poesia di Porta raggiunge il suo apice, e la satira lascia il posto a una decisa polemica sociale, che nasce spontanea dai suoi versi, dei quali divengono protagonisti delle povere creature calpestate dalla vita. I tre componimenti più alti sono "Il lamento di Melchiorre lo sciancato" (che è stato abbandonato dalla sua innamorata fasulla, che gli lascia in braccio anche una bimba), "Le disgrazie di Giovannino Bongeri", e infine "La Ninetta del Verzee" (di cui è protagonista una povera ragazza che si innamora dell'uomo sbagliato, che dilapida tutti i suoi risparmi e poi la costringe a prostituirsi). In questi tre componimenti l'io narrante coincide col protagonista, eliminando, in tal modo, la mediazione dello scrittore colto; le sventure dei personaggi rivivono emotivamente nel momento del racconto e acquistano una grande forza agli occhi del lettore. Il linguaggio di Melchiorre o di Ninetta è intriso di espressioni plebee, cosa che fece gridare allo scandalo i benpensanti dell'epoca. Porta, tuttavia, collegandosi ad un'antica tradizione di giustificazione della propria opera (v. Marziale, "Lasciva est nobis ina, vita proba"), scrive, in una lettera indirizzata al lio Marco e premessa alle sue "Poesie", che egli non si dovrà vergognare del proprio padre, che ha sempre servito lo Stato né mai ha tradito il dovere dell'onestà.
Porta vuole dirci, indirettamente, che non è colpa dello specchio se la realtà riflessa è brutta. Egli, insomma, come il romano Belli, ci rappresenta i ceti subalterni nella loro verità, senza abbellimenti poetici e letterari.
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