letteratura |
Commento alla Satira I,
L. Ariosto
Come su una busta, troviamo mittente ("io") e destinatari ("voi, Alessandro [ . ], mio Bagno"); come in una lettera, l'autore richiede subito notizie, in particolare circa quello che su di lui mormora la gente. "Pazzo", si risponde, perché si è fatto allontanare dal Cardinale Ippolito d'Este; aggiunge e sottolinea, però, con sottile disprezzo, come egli abbia avuto coraggio di vuotare il sacco, mentre qualcun altro aveva preferito tacere pur di restare tra gli agi e le coccole della vita di corte. «Ma, vedete, nonostante io non abbia più quasi nulla, ho ritrovato la libertà», sembra dirci in seguito lo scrittore, concludendo con un consiglio per i destinatari: seguitemi, fate come io ho scelto di fare.
È su queste note che ha inizio uno dei più noti lavori letterari di Ludovico Ariosto, Le Satire, una colorita raccolta di sette lettere aperte che, in poesia, raccontano ironicamente le amarezze della sua vita. Infatti, le Satire furono scritte contemporaneamente alla seconda edizione dell'Orlando Furioso (richiamato nel momento in cui si fa riferimento al personaggio Ruggiero), e in comune con il poema hanno, indubbiamente, il tema della polemica contro la corte e i suoi vizi, visti dall'Ariosto con profondo rancore. Ma, a proposito dell'Orlando Furioso, evidentemente basato sulla tradizione canterina, sono senz'altro da ricordare le altri fonti letterarie a cui l'Ariosto attinge: primo fra tutti Orazio, dalle cui Epistole il cinquecentesco autore trae ispirazione a tal punto che le Satire (il titolo, così come lo stile, sono a loro volta copiati da un'altra opera oraziana, le Satire) sono impostate come lettere. L'altro modello a cui il letterato si rifece fu, per quanto concerne la metrica, il maggiore poema di Dante Alighieri, La Divina Commedia, scritta interamente nelle stesse terzine riprese poi dall'Ariosto. I temi, però, sono profondamente diversi da quelli di qualsiasi autore latino o trecentesco, perché mutato è il clima sociale e politico in cui l'Ariosto si trova a vivere e a comporre.
Libertà e indipendenza, rifiuto dell'ipocrita formalità di corte, polemica contro i presuntuosi letterati che stavano presso la Casa D'Este: tutti questi motivi spinsero l'Ariosto ad un allontanamento dai viaggi con il Cardinale Ippolito; che l'Ariosto volesse soltanto stare in pace per poter comporre, questo fatto non era stato capito, secondo lui. E i temi sopra citati si rispecchiano appieno nelle Satire, che con coerenza li espongono, facendo largo uso di ure retoriche. Prima tra tutte l'ironia, che regge tutto il discorso, riprodotta anche in termini forti (come, ad esempio, quelli del v. 57); ma anche accorgimenti come quello di narrare (vv. 247-261) una favola (l'espediente di inserire un apologo verrà usato dall'Ariosto anche in seguito, come nella terza satira, per ben due volte) concorrono a rendere la lettera vivace e accattivante, senza che cada mai nella banalità. Ma le ure retoriche abbondano, talvolta palesi come la significativa metafora della schiavitù compresa tra i vv. 241 e 246 (i termini che richiamano costantemente una certa area semantica vengono spesso usati dall'autore: è il caso dei termini che richiamano il cavallo nella terza satira), altre volte più sottili, ma comunque molto efficaci. È quest'ultimo il caso degli enjambement: importante è quello tra il v. 119 e il v. 120, perché sottolinea il termine "libertà", accomnato da due aggettivi, che vengono separati, uno possessivo e l'altro che denota la stessa libertà come "cara". Il testo è anche ricco di ripetizioni ("tua mercè, tua mercè", al v. 88, ne è solo un esempio) e di parallelismi, come quello che fa terminare i due versi 21 e 22 con i termini antitetici "fraude" e "vere". Questa è dunque una lettera scritta e riscritta dall'autore, che pure vorrebbe farla apparire come disinvolto prodotto di un momento. E sarà così per tutti i componimenti delle Satire, a qualsiasi persona essi siano indirizzati. Per esempio, nella terza satira l'Ariosto si rivolge ad Annibale, suo cugino; tra l'altro, la terza satira trova nella prima una fortissima corrispondenza, in quanto entrambe mirano a sminuire i prestigi della corte, ponendoli in relazione con il disinteresse che l'autore prova per essi: egli non mirava, infatti, per nulla, ai crediti formali che il palazzo del principe attribuiva ai suoi nobili.
Con questo, però, non si vuole assolutamente sostenere che l'Ariosto accusasse in tutto e per tutto la corte, in particolare quella della casa d'Este: al contrario, egli la riteneva piuttosto un sostegno per la sua carriera di letterato, perché essa gli consentiva di dedicarsi pienamente alle lettere. E l'elogio della Casa estense è un tema che ritorna più volte nell'opera ariostesca: una delle tre linee portanti dell'Orlando Furioso sarà proprio l'encomio del Cardinal Ippolito e della sua famiglia. Anche nelle Satire questo è un ritornello ripreso più volte, anche se con toni più focosi; nella prima satira, riferendosi a "Ruggier", l'autore gli si rivolge infatti protestando per l'ingratitudine che la Casa d'Este gli porta, e gli domanda: «Ruggiero, cosa faccio io qui, nella corte della Casa d'Este, se non mi rendi per nulla gradito alla tua discendenza, e se non mi serve a nulla aver raccontato, nell'Orlando Furioso, le tue gesta e il tuo merito?»
Privacy
|
© ePerTutti.com : tutti i diritti riservati
:::::
Condizioni Generali - Invia - Contatta