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Federigo Tozzi - LO SCHERZO DELL'ARANCIA, STORIA DI UN AMORE, IMPIEGATO DELLE FERROVIE, IMPROVVISI SCATTI D'IRA, QUEL LITIGIO CON MORETTI, SUCCESSO E

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Federigo  Tozzi -


(Siena 1883 - Roma 1920)

scrittore italiano.



Dopo le elementari al seminario, frequentò per tre anni le scuole tecniche e contemporaneamete, leggendo autori antichi e moderni presso la biblioteca comunale, sviluppò una cultura umanistica frammentaria e autodidattica, ma anche vivace e aperta alle suggestioni più disparate, come la psicologia di William James e i moderni studi sull'isteria.

Dopo l'esordio con i componimenti in versi della Città della Vergine e la curatela di antologie di antichi scrittori senesi, fondò nel 1913 con l'amico Domenico Giuliotti il quindicinale cattolico 'La Torre'; poi, volendo allontanarsi da Siena, andò a lavorare nelle ferrovie, a Pontedera e a Firenze, e da quest'esperienza nacque una sorta di diario, Ricordi di un impiegato, pubblicato postumo nel 1927. Lo richiamò a Siena la morte del padre, con il quale aveva sempre avuto rapporti conflittuali. Da quel ritorno traumatico venne l'ispirazione per le numerose novelle e gli importanti romanzi che avrebbe scritto (Con gli occhi chiusi, 1919; Tre croci, 1920; Il podere, 1921), oltre che per le prose liriche raccolte in Bestie (1917).



Si era intanto trasferito a Roma, con l'intenzione di guadagnarsi da vivere collaborando a giornali e riviste letterarie, mentre l'Italia entrava in guerra. Benché cominciasse ad affermarsi e fosse in contatto con i maggiori scrittori e intellettuali, da Alfredo Panzini a Luigi Pirandello, da Alfredo Oriani a Giuseppe Antonio Borgese, la sua opera venne a lungo sottovalutata. La fama lo raggiunse quando Borgese salutò come un capolavoro il suo ultimo libro, Tre croci, pubblicato poco prima che Tozzi, ammalatosi di polmonite, morisse. L'opera completa, che comprende anche sedici commedie, fu pubblicata postuma, tra il 1961 e il 1970, dal lio Glauco.

Ora dopo questa "definizione enciclopedica" (testo tratto dall'enciclopedia "Encarta") di Tozzi, credo che sia giusto riportare un articolo che contiene un'intervista fatta al lio di Federigo, Glauco, dove possiamo ammirare Tozzi in tutte le sue sfaccettature; troviamo un Tozzi "padre", un Tozzi "scrittore" ma soprattutto un Tozzi "Uomo".


«La mia anima è cresciuta nella silenziosa ombra di Siena, in disparte, senza amicizie, ingannata tutte le volte che ha chiesto d'esser conosciuta []». Sono parole di Federigo Tozzi, lo sfogo di uno scrittore che amava la propria città ma che, fra quelle mura, si sentiva prigioniero e incompreso. È un frammento della tormentata giovinezza di un narratore e di un poeta che, nei soli trentasette anni della sua vita, lavorando con la frenesia di chi ha l'oscuro presagio di una breve esistenza, scriveva opere fra le più belle del nostro Novecento. Eppure, ancora oggi, a sessantuno anni dalla sua ssa, Federigo Tozzi non è un autore veramente familiare al grande pubblico dei lettori. Nonostante che i suoi romanzi, da «Con gli occhi chiusi» a «Tre croci», da «Il podere» a «Gli egoisti», abbiano tutto per essere popolari, sembra che una strana maledizione si accanisca su di lui.

Sono riflessioni amare che nascono spontanee conversando con Glauco Tozzi, il lio dello scrittore. Qui, a Castagneto, nella casa che fu sua, alla periferia di Siena, immersa in quella camna da lui così amata. Qui, nelle stanze dove sono conservati i manoscritti di tanti libri. Sul piccolo tavolo, davanti a noi, il quarto e il quinto volume dell'opera omnia di Federigo Tozzi che la Vallecchi ha appena pubblicato («Cose e Persone. Inediti e altre prose»; «Le poesie»). Circa novecento ine di scritti molti dei quali inediti, fra cui i diari e i taccuini, le liriche, un poema in prosa, «Paolo». Tutto un materiale per conoscere meglio lo scrittore che nel 1983 verrà ricordato in occasione del centenario della nascita. E, proprio in quell'anniversario, sarà pubblicato il suo epistolario completo.


LO SCHERZO DELL'ARANCIA


«Per capire chi fosse veramente Federigo Tozzi bisogna tener presente che mio padre era in realtà molto diverso da come può apparire dalla lettura delle sue opere» dice Glauco Tozzi. «Era un tipo fondamentalmente allegro, gioviale, cordiale, esuberante. Amava prendere la vita dal lato più piacevole, ridere e scherzare. Ecco, gli piaceva molto fare degli scherzi. Piccole cose, giochi innocenti. Come quella volta che, dopo aver mangiato un'arancia, aveva preso la buccia e, usando alcuni stuzzicadenti, l'aveva ricostruita così bene da sembrare vera. E m'aveva mandato a offrirla a una giovane tedesca nostra vicina di casa. Lì per lì lei non si era accorta dello scherzo ma appena aveva stretto l'arancia e le si era rotta fra le mani, si era arrabbiata, aveva sbattuto la porta indispettita. Quando avevo raccontato a babbo cosa fosse successo, ricordo che lui si era divertito molto. Vede, Federigo Tozzi era un uomo fuori dal comune» prosegue. «Nel senso che si comportava diversamente dagli altri. Era profondamente libero. I formalismi, le convenienze erano tutte cose che rifiutava. Aveva una sua morale certamente più aperta, più anticonformista. Ma fra i valori in cui credeva un posto molto importante l'occupava la famiglia».
Federigo Tozzi era molto legato al lio e alla moglie. E questo attaccamento alla famiglia aveva una radice profonda. Fra le quattro pareti della propria casa cercava di ritrovare quello che a lui era mancato: una vera famiglia, appunto. Infatti, se sua madre non fosse morta nel 1895 quando Tozzi aveva soltanto dodici anni quella stagione della sua vita sarebbe stata probabilmente meno dolorosa. Ma il destino aveva voluto così. Aveva voluto che lei, Annunziata Automi, la «trovatella» che aveva sposato un contadino maremmano semianalfabeta, lo lasciasse solo, alle prese con quel padre rude e anche brutale.

Federigo Tozzi era molto amato dalla madre. Lui, un bambino certamente «difficile», era per lei il lio tanto desiderato, l'unico sopravvissuto dopo sei maschi e una femmina morti «appena tolti da balia». Per il padre, invece, Federigo Tozzi era «l'erede». Aveva voluto battezzarlo con il suo stesso nome, aveva pensato che un giorno potesse prendere il suo posto. Sì, perché quel «quintale e mezzo d'uomo con corte mani che, se le chiudeva, diventavano magli, aveva messo su una discreta fortuna. Lasciati i campi della Maremma, si era trasformato in oste e possedeva proprio nel centro di Siena, lungo il Corso, vicino all'Arco dei Rossi, il «Sasso rosso», una delle più frequentate trattorie della città che, insieme con i soldi, gli aveva regalato un soprannome: Ghigo del Sasso.

Il giovane Federigo non aveva proprio nulla in comune con il padre. Esile, mingherlino, era un ragazzino dalle orecchie a sventola, inquieto e sensibile. Ed era già sicuro di una cosa: la strada della sua vita non sarebbe passata per quella trattoria. In fondo, l'unica cosa che gli piaceva del padre era che avesse comprato il podere e la casa di Castagneto dove trascorreva le vacanze estive.

«Mangiavo il pane dei contadini, che di nascosto mi facevano bevere il loro vino anche a mezzi bicchieri per volta» scriverà Tozzi ricordando uno di quei periodi. «Io stavo quasi tutto il giorno insieme con i loro ragazzi, a cui insegnavo a rotolarsi giù dalle balze di tufo sodo, a fare gli archi con una frusta o con un laccio delle scarpe []. Qualche volta andavamo a pesticciare sui seminati, scappando a tempo con le scarpe che non si alzavano più da quanto fango c'era rimasto attaccato. Ma ero contento di non portare più il colletto e d'avere una giubba non meno rattoppata di quella dei miei amici []. E chi dirà la mia gioia quando, grattandomi i capelli con l'unghie, la mamma mi disse che m'avevano attaccato i pidocchi?».

A suo padre non piaceva no certamente queste «bravate». Come contadino arricchito, Ghigo del Sasso non gradiva che Federigo si mescolasse con i li dei propri contadini. Anche la madre non provava alcun entusiasmo a scoprirgli, per esempio, i pidocchi. Lo rimproverava, certo, ma lo proteggeva dalle ire paterne. E lo avrebbe difeso anche quando, al terzo anno del ginnasio, era stato espulso dal collegio di Provenzano perché non studiava e teneva una pessima condotta.


STORIA DI UN AMORE


«Alla mamma piaceva molto la cera. Glien'ho sentito parlare sovente la sera, dopo aver finito di mangiare» ha raccontato lo scrittore. «Una volta comprò, sotto prezzo, una grande quantità di candele; erano tante che n'empì un armadio []. Ma poi tutte quelle candele le fecero paura. E disse: 'Morirà qualcuno?'. Tre giorni dopo, improvvisamente, morì lei stessa. Allora tutta quella cera fu presa e consumata al suo cataletto[]. E anche stando con il torace appoggiato dove era la mamma morta, il bianco mi si confondeva con quella luce; ed era triste che la mia mamma non si alzasse; e fui per fare un gesto d'impazienza perché si togliesse di lì».

Dai dodici ai diciannove anni la vita di Federigo Tozzi era stata un inferno. Senza qualcuno che lo guidasse, fra continui litigi con il duro Ghigo del Sasso: «Le discussioni finivano sempre a pugni e a legnate, anzi, una volta, ci mancò poco ch'io non ferissi, con una coltellata, mio padre».
Non vive va neppure più nell'appartamento della sua famiglia ma in una cameretta vicina, in una delle stanze del piccolo albergo annesso alla trattoria. E non era certamente un'atmosfera che invitava a studiare. Tozzi dava così un calcio a tutte le occasioni per prendersi un diploma. «Siccome disegnava bene aveva cominciato a frequentare le Belle Arti ma aveva finito per farsi espellere anche da là» racconta Glauco Tozzi. «Allora aveva tentato con le Scuole Tecniche e, a metà del secondo anno, dopo un'altra sospensione, era scappato di casa. Ma la sua fuga non aveva avuto successo ed era tornato sui banchi, non più a Siena ma a Firenze. Però mio padre, anche questa volta, non aveva finito l'anno scolastico 'perché', scriveva, 'mi sentivo continuamente male. Male d'esser solo, e più volte pensai di suicidarmi'. Tornato nella sua città, aveva fatto un ultimo tentativo dando, da privatista, l'esame d'ammissione al terzo anno delle Tecniche. Ma gli era andato male. L'avevano bocciato in disegno e in italiano. Era il 1902, aveva 19 anni, decideva di abbandonare gli studi». Proprio lo stesso anno Federigo Tozzi aveva letto su un giornale senese un'inserzione inconsueta per quei tempi. Una ragazza, che si firmava Annalena, chiedeva di entrare in corrispondenza con qualche giovane. Sembrava quasi la richiesta d'aiuto di una persona che soffriva di solitudine. E lui che non si sentiva meno solo, aveva cominciato a scriverle. Senza rendersene conto, Federigo Tozzi aveva così compiuto una svolta fondamentale nella sua esistenza. In quelle lettere a una sconosciuta faceva pian piano il punto della sua confusa «vita sciocca e sudicia».

«La tua conoscenza mi dette un'energia inaspettata» le avrebbe scritto dopo qualche tempo. «Tu mi rivelasti l'anima. Prima che io scrivessi a te non pensavo e non sapevo scrivere[]».
Infatti, proprio in quelle lettere, Federigo Tozzi compiva le prime prove di scrittore. Là parlava della propria vita, di storie e di personaggi che avrebbero poi riempito le sue novelle e i suoi romanzi sempre ricchi di riferimenti autobiografici. Come quell'amore sbocciato nell'adolescenza che raccontava in una lettera del 30 marzo 1903: «[] Molti anni fa - possono essere otto o nove - avevo conosciuto Isola: era una mia contadina. Fra noi si era stabilita un'amicizia forte e passionale, e io ricordo che provavo quasi un'ebbrezza quando, vincendo la sua ritrosia ingenua, riuscivo a farmi dare del tu. Ricordo anche che sono stato quasi un mese intero senza frequentare la mia scuola perché lei mi aspettava nel fondo del campo e andavamo a braccetto lungo il torrente [..]. Le davo anche dei baci senza che me ne rendesse. Mio padre, quando si accorse della nostra relazione, la intese in senso peggiore, e cacciò Isola dal podere []». Questa ragazza sarebbe poi diventata Ghisola, la protagonista di «Con gli occhi chiusi», il primo romanzo di Tozzi.

«La donna che aveva cambiato la vita di mio padre si chiamava in realtà Emma Palagi» spiega Glauco Tozzi. «E quando Federigo Tozzi, dopo tante lettere, aveva potuto finalmente conoscerla gli era piaciuta subito. Si era innamorato di quella ragazza dai grandi occhi chiari, il volto grazioso, i lunghi capelli neri riuniti a crocchia sulla nuca. Ma anche per lei l'incontro con mio padre era stato decisivo. Le aveva permesso di uscire da un ambiente familiare soffocante. Primogenita di sette fra fratelli e sorelle, dopo la morte della madre era lei che doveva mandare avanti la sua casa, la sua famiglia, occuparsi del padre, Ferdinando Palagi, professore di chimica e fisica al liceo classico di Siena. Ed essendo una donna di grande cultura non aveva sognato per sé quel destino di casalinga».





IMPIEGATO DELLE FERROVIE


Verrebbe da pensare che senza Emma Palagi, i suoi consigli, gli stimoli della sua intelligenza, Federigo Tozzi non sarebbe mai diventato uno scrittore. Quello sarebbe rimasto un sogno disperato, un'intenzione sentita ma difficile da realizzare nel caos di una vita solitaria, fra i furori del padre e l'incomprensione di una città come Siena allora veramente chiusa, fra le sue antiche mura, incapace di accettare un personaggio «fuori dalle regole» come Federigo Tozzi. Lui aveva anche la colpa di non eccitarsi per il Palio, anzi ignorava una delle tradizioni più radicate nella sua terra. «La mia anima, per aver dovuto vivere a Siena, sarà triste per sempre: piange []» scriveva. «Città, dove la mia anima chiedeva l'elemosina, ma non alla gente! Città, il cui azzurro mi pareva sangue! []. Siena, da sotto il mio ciliegio pareva un arco che non si potesse aprire di più, e le sue case, giù per le strade a pendio, parevano frane che mi mettevano paura []».

Ancora una fuga, questa volta a Roma, con i soldi che gli ha prestato la fidanzata, per tentare di farsi assumere da un giornale. Ma non ci riesce. Poi, il concorso alle ferrovie, il primo esame della sua vita superato brillantemente, ed ecco che Federigo Tozzi diventa un impiegato alla stazione di Pontedera e, quindi, a quella di Firenze. I suoi venti anni passano così. Ma il 15 maggio 1908 gli muore il padre. Ghigo del Sasso ha cercato di diseredarlo ma il notaio è giunto troppo tardi al suo capezzale e così Federigo Tozzi ne eredita tutti i beni. Lascia l'impiego, cede la trattoria e pensa subito a sposare Emma. Il matrimonio viene celebrato dopo appena due settimane, il 30 maggio 1908. È l'inizio del periodo più tranquillo della vita di Federigo Tozzi, quello definito dal lio, che nasce nel 1909, il «sessennio di Castagneto». Le prime novelle, il primo romanzo, i primi versi, un'Antologia di scrittori senesi, il poemetto «La città della vergine» nascono in quei sei anni di Castagneto. Là Tozzi prende in mano le redini della propria vita. «Tutto il mio sforzo è questo: dimenticare il passato» scrive. »Quante cose perdute io rivedo sulla soglia del tempo trascorso? Quante primavere sono rimaste ancora acerbe? Ma che importa! Basta che per il taglio della mia falce l'erba sia da ogni lato. Basta che io m' inebri del tempo presente, come un'ape che vola attraverso il prato []».

«Scriveva di getto, con una facilità dimostrata dal fatto che nei suoi manoscritti le correzioni sono molto rare» dice Glauco Tozzi. »Per scrivere, usava spesso il lapis. Di quegli anni a Castagneto io ho naturalmente soltanto ricordi vaghi. Mi sono però rimaste impresse alcune immagini, alcune sensazioni significative. Come le sere trascorse nell'ampia cucina della casa, con il focolare basso e le due panche ai lati dove ci sedevamo per stare vicino al fuoco. Mio padre aveva una vera predilezione per il Boccaccio e per il Sacchetti e gli piaceva leggere i loro libri ad alta voce. Io lo ascoltavo come se raccontasse delle fiabe. Anni più avanti lo avrei udito recitare i versi della Divina Commedia: lui amava moltissimo anche Dante Alighieri».


IMPROVVISI SCATTI D'IRA


«Qualche volta, in quelle sere accanto al fuoco, babbo cercava d'insegnarmi a leggere» prosegue Glauco Tozzi. «Prendeva un pezzetto di legno ancora fumante e tracciava sulla parete alcune lettere dell'alfabeto invitandomi a ripeterle, a riconoscerle. Era allegro, rideva. Ma ricordo anche che in altri momenti, invece, mi faceva quasi paura. Il suo umore era molto variabile e aveva improvvisi scatti d'ira. Poi, fin da piccolo, avevo imparato una cosa: quando babbo scriveva dovevo stare zitto, non fare rumore. Guai se avessi fiatato! Ma che cosa scriveva? Mi chiedevo. E non so come giunsi alla prima mia informazione su di lui: scriveva poesie. Allora, verso i quattro anni, ero diventato lo spasso dei conoscenti. Infatti, quando loro mi chiedevano: 'Cosa fa il babbo?', io rispondevo subito, muovendo un dito nell'aria come fosse la penna sulla carta: 'Scrive le poesie!'».

A vederlo con quella faccia larga, la fronte spaziosa, gli occhi «color d'acciaio turchinicci» che puntava diritti sul viso della gente con un fare quasi provocatorio, vestito così come veniva senza cura, Federigo Tozzi somigliava più ai contadini del suo podere che a uno scrittore. «Alla spiaggia di Cornigliano Ligure, in pieno agosto, venne con una giubba grave, la sola che avesse, e con un cappellone di feltro a grandi tese» ha raccontato Giuseppe Antonio Borgese, il critico letterario e scrittore che lo conobbe nel 1910 e sarebbe stato il suo più convinto ammiratore. «Era impresentabile e tale per sempre rimase».

«Vede, mio padre era un uomo sano e robusto e non malaticcio come qualcuno ha erroneamente sostenuto» osserva Glauco Tozzi. «Il suo maggiore divertimento era la bicicletta. Ne aveva una con il manubrio da corsa con cui faceva lunghe gite. Non soltanto nei dintorni di Siena ma anche più lontano. In Umbria, per esempio. E una volta c'era andato addirittura fino a Roma. Spesso lo accomnava un altro senese, un impiegato delle poste».



QUEL LITIGIO CON MORETTI


«Ricordo che quando ci eravamo trasferiti nella capitale, a partire dal 1914, lui si era naturalmente portato dietro la bicicletta» prosegue Glauco Tozzi. «La teneva sdraiata in un angolo del suo studio nel modesto appartamento di via del Gesù dove abitavamo. Anzi là era forse l'oggetto più 'lussuoso' dell'arredamento. Infatti in quella stanza c'era soltanto un letto, un tavolino che gli faceva da scrivania e su cui teneva il dizionario d'italiano del Pedrocchi e un paio di casse di libri»

Anche a Roma lo scrittore continuava a fare le sue gite sulle due ruote.

«[] Dovete sapere che ho ricominciato ad andare in bicicletta, a trenta chilometri l'ora, come qualunque discreto corridore» annunciava in una nota autobiografica che gli aveva chiesto un giornale. «Perciò ho imparato quasi tutte le strade della camna romana, e mi piace farmi rosolare al sole. Quando sono in mezzo alla camna più deserta, mi fermo, e messomi a sedere sopra un sasso che sia abbastanza comodo, fumo, se ce l'ho, una sigaretta. Poi, soddisfatto di sole e di solitudine, me ne torno a casa. In questi giorni, m'è venuto a galla un altro desiderio, che non è d'ora: quello d'imparare la chitarra, per accomnarmi da me, cantando, e per quando ho i nervi. Ma scrivo anche []».

«Quelli che sarebbero stati gli ultimi sei anni della sua vita non furono facili per mio padre» spiega Glauco Tozzi. «Decidendo di trasferirsi a Roma, dopo aver venduto un podere e averne affittato un altro, si era illuso di poter vivere con i suoi guadagni di scrittore. Ma le cose non erano andate per il verso giusto e all'inizio ci si era messo di mezzo anche lo scoppio della prima guerra mondiale a complicargli tutto. Allora, mio padre si era ritrovato in uniforme a lavorare all'ufficio stampa della Croce Rossa con il grado di caporale. Però, nonostante tutto, continuava ad andare avanti per la propria strada, a scrivere e a cercare un editore per i suoi libri. Scriveva come un forsennato e certamente non si sforzava molto per farsi degli amici. Anzi, abituato com'era a dire tutto quello che pensava, senza un minimo di diplomazia, irritava la gente.

«Doveva aver fatto arrabbiare anche il poeta Marino Moretti, suo collega alla Croce Rossa, se lui gli scriveva questa lettera: 'Caro Tozzi, non è possibile dire a te due parole con calma. Preferisco scriverti, benché a me queste lettere sembrino ridicolissime. Dopo l'incidente increscioso di ieri debbo farti una proposta. Ti propongo, cioè, di limitare i nostri rapporti ai soli rapporti d'ufficio: naturalmente, non è detto per questo che noi non dobbiamo essere cordiali anche fuori di qui. Ma io intendo sopra tutto e tu sarai, spero, d'accordo con me, di eliminare la letteratura in ufficio e fuori e cioè: non prestarci libri, non fare discussioni letterarie, non scambiarci i nostri libri da leggere e tanto meno i nostri manoscritti. Perché la verità è questa, ed è inutile nasconderla: noi non ci stimiamo reciprocamente come artisti '».

In quello stesso periodo Tozzi aveva anche avuto una grossa «sbandata» sentimentale. «Vede, lui non era certamente un marito modello» racconta Glauco Tozzi. «Babbo infatti non era troppo fedele. Era fondamentalmente un sentimentale e quando incontrava una ragazza interessante andava a finire che se ne innamorava. Generalmente, però, si trattava d'infatuazioni passeggere che mamma cercava di sopportare con la forza della propria intelligenza. Ma con una ragazza la cosa era stata più seria. Si chiamava Margherita ed era, sembra, molto bella e anche piuttosto colta. Mio padre l'aveva conosciuta a Siena e aveva avuto una relazione con lei fino a quando eravamo partiti. Però, dopo qualche tempo, anche Margherita era venuta a vivere a Roma. Il suo arrivo fu una specie di bomba nella nostra famiglia. Babbo riprese a vederla e mia madre decise di andarsene via da casa con me. Era il 1916 e io avevo sette anni. Ricordo molto bene i mesi della separazione dei miei genitori» continua a raccontare Glauco Tozzi. «Li ricordo perché allora, io ero l'unico legame che esisteva ancora fra loro. E la cosa più curiosa di quel periodo era che mio padre continuava a chiedere consigli su quanto scriveva alla mamma. Lo sa come faceva, visto che tra loro non si parlavano? Scriveva lettere a me in cui mi diceva di chiederle questa o quella cosa».


SUCCESSO E POVERTA'


Finalmente, verso la fine della prima guerra mondiale, tutto sembrava prendere una strada meno complicata nella vita di Federigo Tozzi. La riconciliazione con la moglie; la pubblicazione da Treves, nel 1917, di «Bestie», un volume di prose poetiche; l'assunzione in un giornale, Il Messaggero della Domenica: il futuro dello scrittore era ora pieno di prospettive interessanti. Anche se il suo primo romanzo, «Con gli occhi chiusi», già scritto quando ancora viveva a Siena, tardava a uscire nonostante avesse trovato un editore. Era sempre Treves, appunto, uno dei maggiori del momento, lo stesso di Gabriele D'Annunzio. Ma proprio qui stava il problema. Infatti Federigo Tozzi aveva osato scrivere nel 1918 un articolo troppo critico sul «sommo poeta». La cosa non era stata certamente gradita all'editore e la pubblicazione del suo romanzo era stata stranamente ritardata. Un castigo?

«Caro Tozzi, per amor del cielo, non parliamo di castigo» rispondeva alle sue proteste, in una lettera del 14 agosto 1918, Beltrami, direttore della Treves. Ma, poi, ammetteva: «Le par proprio che sia indovinato il momento di venir fuori con una critica acerva dell'opera letteraria del D'Annunzio, mentre egli da quattro anni scrive col rischio della sua vita ine di poesia immortale?».. E concludeva: «Non è certo D'Annunzio che se ne adonterebbe, ma non voglio aver io l'aria di mancargli di riguardo. È una questione, le ripeto, di buon gusto».

Piccole meschinità editoriali, disavventure di uno scrittore che non rinunciava mai a essere un uomo libero. Tozzi aveva dovuto pazientare fino al marzo 1919 per vedere il suo romanzo nelle librerie. Ma ogni amarezza era stato subito cancellata dalle lettere di complimenti che aveva cominciato a ricevere. «È un libro magnificamente e semplicemente suggestivo di umanità» gli scriveva Dario Niccodemi. «Il vostro romanzo è un capolavoro!» esultava Ada Negri. «Ci ho vissuto una notte e un giorno, in delizia []. Che vita, che freschezza! []. In esso ho conosciuto Siena». «Che visione hai del tuo mondo e che lingua padreternale» esclamava Salvator Gotta. E Margherita Sarfatti, in un lungo scritto, gli diceva tra l'altro: «[] Le sono grata, soprattutto, come lettrice, di questo stile chiaro, sobrio, senza ridondanze, non gonfio, non pretenzioso, che si sforza, anzi, di farsi limpido e trasparente come una veste che ben aderisce alle cose: dietro ogni parola, c'è un caso, e non un suono soltanto».

«Anche se cominciava ad avere successo, mio padre era però sempre angustiato dalla mancanza di denaro» racconta Glauco Tozzi. «Quello che guadagnava era molto poco, l'inflazione aveva eroso la rendita del podere affittato prima di lasciare Siena: insomma, lui faceva 'salti mortali' per tirare avanti la famiglia. Ricordo che, per risparmiare, aveva rinunciato anche a bere il vino e aveva dovuto dimenticare di essere un buongustaio. Eravamo così poveri che certe volte mia madre quando d'estate mi portava a Siena nella casa di Castagneto, non aveva neppure i soldi per i francobolli delle lettere che voleva scrivere a babbo rimasto a Roma a lavorare. Però, pur in mezzo a tante difficoltà, mio padre non perdeva il buonumore. In quei tempi si era fatto anche degli amici. Aveva conosciuto Luigi Pirandello e Grazia Deledda. E con loro, che lo stimavano molto si vedeva spesso. Con la Deledda, soprattutto, che veniva tante volte a trovarci a casa. Ma, fra gli amici di babbo, quelli più divertenti e più affezionati erano Orio Vergani e Alberto Pincherle, allora giovanissimi» continua Glauco Tozzi. «E l'ultimo ricordo felice che ho di mio padre è proprio legato a un pomeriggio sereno trascorso insieme con loro. Lo rivedo come fosse oggi. Babbo è nel suo studio e discute con Vergani e Pincherle su un ipotetico soggetto cinematografico che parla del rapimento di un bambino. E, all'improvviso decidono di provare la scena culminante del film: quella del ratto, naturalmente. Infatti ecco che Vergani mi prende, io fingo di divincolarmi ma lui mi lega e imbavaglia poi sale su una sedia e, con me in braccio, scavalca la scrivania che, nella sua fantasia, è un muro. Babbo e Pincherle si divertono un mondo».


UNA DIAGNOSI SBAGLIATA


Poi, soltanto poche settimane dopo, il 7 marzo 1920, Federigo Tozzi si ammalava improvvisamente. «Dev'essere influenza» aveva detto subito il medico alla moglie e al lio tanto più preoccupati perché fino ad allora lo scrittore aveva sempre goduto di una salute di ferro. Ma si era sbagliato. La malattia era più seria: si trattava di polmonite. E quando se n'era accorto ormai non c'era più nulla da fare. Così Federigo Tozzi moriva il 20 marzo 1920, a trentasette anni. Proprio in quei giorni, Treves aveva pubblicato il suo secondo romanzo, «Tre croci». Lo scrittore, morente, aveva appena fatto in tempo a vedere una copia di quel libro che di lì a poco tutti avrebbero definito un capolavoro. Sulla piccola scrivania del suo studio in via del Gesù giacevano i manoscritti di altri tre romanzi, di molte liriche, di tante prose poetiche. In una di queste, dedicata al lio, si poteva leggere: »È una giornata serena che anch'io divento di buon umore: e mi piace, Glauco, che tu sia così gaio. Tu ridi, aspettando che la minestra sia pronta: e mi guardi sbocconcellundo il pane tagliato per te []. Ma io sento che basterebbe un nulla per turbare questa pace, e per ciò sono anche nervoso. E tu mi dici che stasera piglierai due cicale almeno».



Come abbiamo potuto vedere da questa intervista Tozzi ha avuto un rapporto "tutto suo" con il Novecento. Per molto tempo è stato nella penombra non solo nel panorama letterario italiano, ma addirittura in quello senese (sua città natale); egli ha stentato ad accreditarsi presso i lettori e gli scrittori essendo un autore "difficile". Ad accrescere questa sua complessità, sia di linguaggio che di comprensione, si aggiunge il fatto che Tozzi è uno scrittore religioso o, a differenza degli altri, basa la sua scrittura su un'"ansia religiosa". La sua religiosità si interseca con la modernità, infatti egli spesso alterna la sua conoscenza biblica con una continua ricerca scientifica. La sua complessità va, inoltre, ricercata anche nelle sue origini, Tozzi è toscano e la sua lingua è molto difficile e problematica; essere toscani ha i suoi pregi ed i suoi difetti. Tozzi ha uno spirito pessimista (come d'altronde Leopardi) ed è uno scrittore "duro" quasi "brusco, anche la sua immagine di uomo è molto dura e ciò lo si intravede nei suoi personaggi che sono tutti molto vicini alle "bestie". La "complessità" Tozziana continua anche nel campo puramente sintattico e letterale. Oltre ad usare uno stile ricco di punteggiatura (che rende i suoi scritti "frammentati", ma allo stesso tempo molto incisivi), Tozzi "NARRA". Narra perché non sa "spiegare"; più che narrare Tozzi descrive ciò che accade e lo "rappresenta". La sua poetica è ricca di "atti misteriosi" che spesso non si possono spiegare. Molto importante è l'esempio riportato dallo stesso Tozzi: "Questi atti possono essere paragonati a ciò che compie un uomo che camminando si ferma, raccoglie un sasso, e poi riprende il proprio cammino". E' un'azione del tutto non spiegabile, riconducibile solo alla più remota psiche del soggetto che compie l'azione; e molto probabilmente lo stesso non si troverebbe una spiegazione. Come detto in precedenza La complessità dello scrivere di Tozzi va ricondotta anche alla zona in cui lo scrittore è nato e vissuto. La Toscana è una zona ricca d'arte, elegante ed armoniosa; qui ci sono stati grandi artisti, tra i più grandi ricordiamo Giotto e Botticelli. Questa è sempre stata una zona importante, tuttavia sempre divisa: "Guelfi e Ghibellini","Bianchi e Neri" . ..queste divisioni oggi si trovano solo nel palio di Siena. Ed osservando bene troviamo una Toscana "povera" dove l'antagonismo è ridotto a scopi meramente personali, come soldi, case ed altro. Qui troviamo un uso della lingua espressionistico e ricco di aggettivi difficili e complessi. Tutto ciò preannuncia la scrittura del nuovo secolo. Il romanzo "Tre Croci", ad esempio, è ambientato in una cittadina senese. La vita dei tre fratelli è triste e vi è una grettezza espressionistica e materiale con tanta violenza gratuita, sembra quasi di essere in un girone infernale dantesco. Nel racconto possiamo riscontrare in ogni momento una violenza di fondo che non trova difficoltà a salire a galla, tutti i personaggi hanno dei difetti sia in volto, o sul corpo, sia nel comportamento; tutto ciò serve solo a "tararli" ed ad "imbrutirli". Vi è, inoltre, una situazione di bruttezza che marchia tutti e tutti. Il lessico usato per "dipingere" tutto ciò è tra il toscano ed il senese, tra arcaico e moderno, tra linguaggio alto e basso. Tozzi usa termini duri e vecchi che sono molto difficili da capire. Le sue espressioni sono "fonicamente" diverse dal loro corrispettivo in italiano. Il lessico è robusto ed animalesco, c'è inoltre un egualitarismo e nessuna posizione di parte, tutti i personaggi sono sullo stesso piano nei confronti della loro vita. Altro elemento che può aiutare a capire "l'atteggiamento"che ha Tozzi nei confronti dei suoi scritti e della sua vita, è il periodo che va dal 1910 al 1915. In questi anni Tozzi assiste e "subisce" a fermenti ed a turbamenti che lo cambieranno e che lo formeranno.

Siamo alle soglie del Decadentismo in Europa ed in Italia abbiamo il Positivismo ed il naturalismo. Come detto prima, l'area più ricca ed importante è quella fiorentina. Tozzi imposta la sua carriera su modelli nuovi da noi difficilmente e lentamente accettati perché, appunto, completamente innovativi e con toni nuovi. Il nostro scrittore vive una vita senza affetti e piena di lacrime e dolori. Tutto ciò lo influenzò in maniera tale che a 20 anni si iscrisse al partito dei lavoratori socialisti. Con il romanzo "Bestie" Tozzi "logicizza" l'assurdo. Racconta di episodi brevi crudi e cattivi che lui stesso dice che debbano sparire. Il suo "bestiario" è la chiave interpretativa del suo mondo in disfacimento. In questo mondo agli inizi del '900, il padre e la famiglia sono i temi di molti scrittori. Il padre di Tozzi, tuttavia,disprezzava la cultura e non gli comprava i libri per lo studio e la lettura e quei pochi che aveva li nascondeva tra i vestiti. Suo padre era dispotico e non gli permetteva di fare nulla. Tozzi non aveva una grande vita sociale sia con la fidanzata e sia con gli amici.

«Vorrei leggere come un ragazzo, vorrei capire come un ragazzo». In questo modo si conclude "Bestie". Questo desiderio di ritorno all'infanzia serve a scacciare il dolore del mondo che Tozzi vede presente sempre ed in ogni luogo; tuttavia tutto ciò non solo non viene compreso, ma viene ricompensato con ritorsioni e vendette. Da questa condizione di smarrimento occorre uscire e bisogna opporre alla paura del reale la coscienza della realtà e, quindi, la responsabilità di saper vivere con una rinnovata e forte tensione morale.




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