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INTRODUZIONE AI PROMESSI SPOSI
Alessandro Manzoni inizia a scrivere I Promessi Sposi il 24 aprile 1821, mentre si trova con la famiglia nella bella villa di
Brusuglio, immersa nella camna, a pochi chilometri da Milano.
Sono tempi difficili: in città la polizia austriaca sta arrestando, uno a uno, i patrioti affiliati alla società segreta della Carboneria.
L'anno prima è stato arrestato Pietro Maroncelli e ora sono in corso i processi nei quali sono anche implicati i collaboratori del
Conciliatore, tra cui il direttore del giornale, Silvio Pellico (1789-l854).
Molti di loro sono amici e conoscenti di Manzoni che spera, nel suo rifugio, di non essere coinvolto né chiamato a subire
estenuanti interrogatori .
Ha con sé alcuni libri: le Storie milanesi di Giuseppe Ripamonti (1573-l643) e il saggio di Melchiorre Gioia
(1767-l829) Sul commercio di commestibili e caro prezzo del vitto, dove legge il passo di una grida (legge emanata dal
Governatore di Milano, chiamata così perché veniva gridata nelle strade da pubblici ufficiali, al fine di informare i cittadini,
spesso analfabeti) del Seicento, che commina pene severe a chi impedisca la celebrazione di un matrimonio.
Nell'arco di quaranta giorni Manzoni stende di getto l'Introduzione e i primi due moduli del romanzo che, in realtà, sta
enucleando nella mente da alcuni anni e che rappresenta una vera e propria sfida, per la sua novità formale e di contenuto.
Ricostruire il processo di ideazione, stesura e revisione di questo capolavoro significa aprire anche uno spaccato sulla vita
culturale dell'Ottocento e calarsi in quell'affascinante fase della cultura italiana che segue e sorregge le prime fasi del processo di
unificazione nazionale.
- L'Illuminismo lombardo
Il tardo Settecento è un momento particolarmente felice per la vita culturale di Milano: la Lombardia, infatti, è passata nel
1713, con il trattato di Utrecht, sotto il controllo dell'Austria, liberandosi dal malgoverno snolo. Sovrani aperti alle riforme,
come Maria Teresa e suo lio, Giuseppe II d'Asburgo, introducono innovazioni che danno, nel decennio 1770-80, i primi
risultati positivi. Ricordiamo in particolare l'istituzione del Catasto geometrico della proprietà fondiaria che pone la proprietà
terriera su basi sicure, regola il gettito fiscale, accorda facilitazioni agli agricoltori più intraprendenti, senza danneggiare
l'aristocrazia, che poggia la sua ricchezza sul razionale sfruttamento della fertile pianura Padana.
Gli intellettuali, per lo più di estrazione nobiliare o alto-borghese, sono chiamati a collaborare: ricevono incarichi di
responsabilità e a volte sono accreditati consulenti per migliorare la legislazione e controllare l'opportunità di scelte fondamentali,
in ambito monetario o nei rapporti commerciali.
Pietro Verri (1728-l797) è un esempio convincente di questa ura di intellettuale calato nella vita civile: chiamato a far
parte nel 1770 della Giunta per la riforma fiscale, ottiene l'abolizione degli appalti privati nella riscossione delle imposte.
Come presidente del Magistrato camerale (l'equivalente della direzione finanziaria), si sforza di riorganizzare meglio l'apparato
fiscale. Intanto si diffondono in Europa nuove idee che egli enuclea nelle Meditazioni sull'economia politica (1771).
Il movimento culturale dell'Illuminismo (così chiamato perché gli intellettuali confidano unicamente nel lume della
Ragione) nasce in Inghilterra e si sviluppa rapidamente in Francia, Italia e nel resto dell'Europa. Gli illuministi esaltano una cultura
operativa, che propugna lo sviluppo della scienza e delle tecniche. Ricordiamo che l'opera più significativa di questo movimento,
l'Enciclopedia (in 17 volumi pubblicati tra il 1751 e il 1772, più altri volumi successivi di tavole), riceve dai suoi ideatori e
organizzatori, Denis Diderot (1713-l784) e Jean Baptiste d'Alembert (1717-l783), un significativo sottotitolo: Dizionario
ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri, da parte di un'associazione di letterati. Ad essa collaborano, con articoli
e interventi sulle varie voci, i nomi più prestigiosi della Francia del tempo: Voltaire (1694-l778), Jean-Jacques Rousseau
(1712-l778), Charles de Secondat, barone di Montesquieu (1689-l755), Claude-Adrien Helvétius (1715-l771), Étienne de
Condillac (1715-80), Paul-Henry D'Holbach (1723-89), il naturalista George-Louis Buffon (1707-88), gli economisti Robert
Turgot (1727-81) e François Quesnay ( 1694-l774).
Si diffondono i giornali, sul modello dello Spectator (1711) dell'inglese John Addinson, strumento di informazione
destinato al largo pubblico, e dello spregiudicato 'Tatler' ('Il Chiacchierone') di Richard Steele.
A Milano questa cultura, proiettata verso il progresso, attenta ai problemi concreti dell'uomo, pronta a intervenire nella
gestione del pubblico interesse, trova attenti interlocutori. Nasce, così la Società dei Pugni e un periodico, 'Il Caffè', edito dal
giugno 1744 al maggio1766. Si distinguono, per impegno e numero di interventi, i fratelli Pietro e Alessandro Verri
(1741-l816), ma il collaboratore più prestigioso è Cesare Beccaria (1738-l794), l'autore di un vero best-seller, il trattato Dei
delitti e delle pene (1764) in cui dimostra l'inefficacia della pena di morte e delle torture nella prevenzione dei delitti.
- Il Romanticismo
Il Romanticismo entra in Italia attraverso la garbata mediazione di una grande 'operatrice culturale', madame de Stäel
(1766-l817). Il suo articolo, Sulla maniera e l'utilità delle traduzioni, esce nel gennaio del 1816 sulla Biblioteca italiana,
periodico milanese promosso e divulgato a cura del governo austriaco.
La scrittrice francese invita gli italiani ad aprire i propri orizzonti, a guardare anche alla produzione d'oltr'Alpe e, in
particolare, agli sviluppi della cultura in Inghilterra, Germania e Francia, dove ormai si sta diffondendo il Romanticismo. Subito
si infiamma il dibattito fra i critici della proposta della Stäel e i suoi sostenitori, come Pietro Borsieri (1786-l852), autore
dell'articolo Intorno all'ingiustizia di alcuni giudizi letterari italiani (1816) e Ludovico Di Breme (1780-l820) che scrive
Avventure letterarie di un giorno (1816), ma non mancano in primo piano gli amici del Manzoni, come Ermes Visconti e
Giovanni Berchet. Questi, nella Lettera semiseria di Giovanni Grisostomo (dicembre 1816), elabora il manifesto del
Romanticismo italiano. In tono elegante e vivace polemizza contro i classicisti, che ripetono sempre gli stessi moduli poetici,
imitando i modelli antichi, fanno della poesia mezzo di diletto, piuttosto che di educazione, ignorano il sentimento, si rivolgono a
una categoria ristretta di 'addetti ai lavori'.
Invece il Romanticismo propugna un'arte diretta a un ampio pubblico borghese, mira a riprodurre i problemi degli uomini,
calati nella realtà, si propone una funzione importante, perché vuole educare le menti e i cuori.
Anche Alessandro Manzoni vi aderisce con entusiasmo, ma non si pronuncia per iscritto. Conosciamo le sue idee sul
questo movimento dalla lettera Sul Romanticismo, inviata al marchese Cesare D'azeglio nel 1823 e pubblicata senza il suo
consenso nel 1846. Egli ritiene assurdo l'uso della mitologia, massicciamente presente nella poesia neoclassica, perché crea una
letteratura d'evasione, elaborata secondo l'imitazione acritica, pedissequa e anacronistica dei classici. Invece l'opera d'arte deve
essere educativa, cioè deve aiutare l'uomo a conoscere meglio se stesso e il mondo in cui vive. In questo testo Manzoni elabora
una formula che mette a fuoco la sua concezione poetica: l'opera letteraria ha «l'utile per iscopo, il vero per oggetto e
l'interessante per mezzo».
È questa un'affermazione non nuova nella forma, ma certamente nuova nella sostanza. L'utile coincide con la moralità in
senso cristiano ed è il fine stesso della poesia tesa alla formazione delle coscienze; l'interessante viene a coincidere con la scelta
stessa dell'argomento da trattare, che deve restare nell'ambito della meditazione sull'uomo, sulla sua vita e sul suo rapporto con
la Divina Provvidenza; mentre il vero coincide con la ricerca del vero storico.
In pratica considera il Romanticismo come un rinnovamento dei moduli espressivi e dei temi propri della letteratura,
poiché si indirizza a un pubblico vasto. In modo particolare sottolinea le peculiarità del Romanticismo lombardo, che, erede
dell'Illuminismo, non lo sconfessa ma ne approfondisce e sviluppa le tematiche. Aperta all'Europa, Milano, ex capitale della
napoleonica Repubblica Cisalpina, ospita intellettuali e periodici che non intendono sconfessare la Ragione, ma, semmai,
vogliono affiancarle il sentimento, per rendere più completa la visione dell'uomo. In nome della Ragione si cerca di svecchiare la
letteratura, liberandola da regole assurde, come le tre unità aristoteliche, che hanno condizionato la produzione teatrale italiana
sino al Settecento.
I classici sono letti con ammirazione e costante interesse, ma non più imitati, perché l'opera d'arte nasce strettamente
congiunta con lo spirito di un'epoca, che è irripetibile. Infine anche la Religione è vissuta in sintonia con il vaglio della Ragione.
L'esempio più evidente delle strette interrelazioni tra i due movimenti culturali, in Lombardia, è proprio Manzoni, un
grande romantico, nipote di un grande illuminista, Cesare Beccaria. Ma c'è di più: il Romanticismo lombardo porta avanti, senza
nasconderlo, un preciso intendimento patriottico-risorgimentale che emerge dalle ine del periodico Il Conciliatore.
È un foglio azzurro che viene pubblicato due volte la settimana a Milano, dal 3 settembre 1818 al 17 ottobre 1819: viene
sostenuto economicamente dal conte Luigi Porro Lambertenghi (1780-l860) e dal conte Federico Confalonieri (1785-l846),
che collaborano anche con interventi redazionali. Lo dirige il piemontese Silvio Pellico e scrivono articoli Giovanni Berchet,
Ludovico Di Breme, Pietro Borsieri, Ermes Visconti. Collaboratori occasionali sono grandi nomi dell'economia, come
Melchiorre Gioia, Gian Domenico Romagnosi (1761-l835) e Giuseppe Pecchio (1785-l835), storici come il ginevrino
Sismonde de Sismondi (1773-l842), scienziati come il medico-letterato Giovanni Rasori (1766-l837).
Manzoni ne rimane estraneo, troppo assorbito dalla sua attività creativa, che in quegli anni è davvero intensa. Segue, però,
con attenzione e partecipazione, condividendone il programma. Il titolo del periodico, Conciliatore, non è casuale: nasce
dall'intenzione di mettere in comune gli sforzi dei circoli intellettuali milanesi per dare alla letteratura forza ed efficacia, per
elaborare un valido progetto culturale, sociale e politico: inevitabile, quindi, proprio alla luce dell'evidente intento patriottico, che
intervenga l'occhio vigile della censura austriaca, la quale lascia ben poca vita al giornale. L'impegno sociale del Conciliatore,
che mira alla «pubblica utilità», istruendo i Milanesi sulle innovazioni che in Europa segnano il progresso in tutte le branche del
sapere (dalla pedagogia all'agricoltura, dalle istituzioni alla medicina, dalle scienze naturali alle loro applicazioni tecniche), lo
pongono sulla linea del Caffè, del quale, peraltro, i 'conciliatori' si considerano eredi e prosecutori.
Naturalmente il giornale si presenta come espressione di una cultura italiana. Per esempio, il problema della coltivazione
della vite in Toscana non risulta meno interessante di quello dei bachi da seta in Lombardia. C'è quanto basta per indurre
l'Austria a sopprimere il giornale e costringere al silenzio i collaboratori con l'intimidazione o la deportazione: tra questi
ricordiamo Silvio Pellico, il quale riporta le memorie della sua prigionia nel carcere asburgico dello Spielberg nel libretto Mie
prigioni (1832), che fece grande scalpore e rappresentò per l'Austria una notevole sconfitta.
Gli anni del 'periodo creativo' del Manzoni sono caratterizzati da grandi eventi storici che si ripercuotono sulla
Lombardia, lasciando tracce profonde. Il crollo di Napoleone, e la restaurazione sui troni degli antichi sovrani, 'spazzati via'
dalla conquista francese, porta la Lombardia nuovamente sotto la dominazione austriaca. Anche qui, come in altri Paesi europei,
si formano società segrete; in Lombardia sorge la Carboneria, che organizza moti insurrezionali, destinati a fallire prima ancora
di realizzarsi.
Manzoni abbraccia gli ideali patriottici e risorgimentali, auspicando l'indipendenza e l'unificazione delle regioni italiane:
esprime le sue idee soprattutto nelle quattro appassionate Odi civili.
Proprio il Cinque maggio, che non ha un carattere militante patriottico, perché non invita all'azione, rappresenta una
riflessione sul rapporto fra l'uomo e la storia. Manzoni introduce il concetto di provvida sventura, affermando che le sconfitte,
come l'esilio di Napoleone, avvicinano l'uomo alla fede e gli fanno conquistare qualcosa di molto più alto e prezioso, la salvezza
dell'anima.
Con la scrittura delle tragedie, Il conte di Carmagmola e l'Adelchi, si rafforzano proprio due concetti che diventeranno il
fondamento della poetica manzoniana: la provvida sventura e il vero storico.
Nella Lettre à monsieur Chauvet sur l'unité de temps et de lieu dans la tragédie, pubblicata nel 1823, il Manzoni
offre un vero saggio di metodologia. Egli sostiene che l'unità d'azione non corrisponde a un singolo avvenimento, ma a molti
avvenimenti, anche lontani nel tempo e nello spazio; essi, però, sono collegati da rapporti interni (come quello di causa ed
effetto). Collante che garantisce l'unità dell'azione è, per Manzoni, il vero storico ossia rispetto per i fatti e riproduzione fedele
delle caratteristiche dei personaggi, così come ci sono state tramandate dalla storia e puntualizzate in seguito a una severa
ricostruzione preliminare. Sentiamo l'eco dell'insegnamento dello Schlegel che costituisce il punto fondamentale della poetica
manzoniana: il rispetto della verità storica è garanzia della validità morale ed estetica dell'opera d'arte: l'unità d'azione, dunque,
nasce dalla capacità dello scrittore di cogliere i nessi tra gli eventi e rintracciarne il senso più alto. Si noterà anche che non è
estranea, soprattutto in quest'ultima implicazione, la visione religiosa dell'autore.
- L'ideazione
Siamo arrivati al punto da cui eravamo partiti. All'inizio abbiamo detto che Manzoni ìdea I Promessi Sposi leggendo una
grida del Seicento, riportata da Melchiorre Gioia. È la stessa trascritta nel terzo modulo del romanzo, circa le pene a cui va
incontro chi impedisca la celebrazione di un matrimonio.
«Sai che cos'è stato che mi diede l'idea di fare I Promessi Sposi? È stata quella grida che mi venne sotto gli occhi per
combinazione, e che faccio leggere, appunto, dal dottor Azzecca-garbugli a Renzo dove si trovano, tra l'altro, quelle penali
contro chi minaccia un parroco perché non faccia un matrimonio. E pensai, questo sarebbe un buon soggetto per farne un
romanzo (un matrimonio contrastato), e per finale grandioso la peste che aggiusta ogni cosa!», scriverà il Manzoni, anni dopo, al
liastro Stefano Stampa.
Sono anni di lavoro intenso. Così Pietro Citati lo immagina intento nel suo sforzo creativo: «Fu il periodo più felice della
sua vita: l'unico, forse, felice ch'egli conobbe Era incuriosito e divertito da quello che raccontava, e per la prima volta scoprì la
gioia di proporre avventure, di sciogliere intrighi, di giocare con i fatti persino la nevrosi e gli incubi sembrarono allentare per
qualche tempo la loro presa sopra di lui» (da Pietro Citati, La collina di Brusuglio, in Immagini di Alessandro Manzoni,
Milano, Mondadori, 1973, p. XXXIX).
Come arriva al romanzo? Quali sono le urgenze interiori che lo avvicinano a questo tipo di produzione, pressoché assente
in Italia, considerata anzi con una sorta di sufficienza dagli intellettuali, perché orientato verso un pubblico borghese di non
'addetti ai lavori'?
In realtà Manzoni capisce che né la lirica civile né il teatro soddisfano quel bisogno di comunicare 'ad ampio raggio' che
è una sua aspirazione profonda. Anzi, i personaggi del teatro si trasformano quasi in simboli, si innalzano in una sfera astratta che
coinvolge la meditazione esistenziale: Adelchi è un eroe, chiuso nel cerchio sublime del suo pessimismo. Quanti lettori possono
riconoscersi in lui, pur condividendone, i princìpi e le aspirazioni?
Il romanzo, invece, si presenta al largo pubblico con un linguaggio più semplice, una narrazione avvincente, personaggi
verosimili per le loro umanissime reazioni. Il genere del romanzo è l'immagine letteraria della classe borghese che rappresenta un
pubblico non d'élite e tuttavia desideroso di letture.
Grazie a Fauriel, durante il secondo soggiorno parigino, Manzoni ha conosciuto le opere dello scozzese Walter Scott: con
lui si parla di romanzo storico perché le vicende sentimentali dei protagonisti sono calate in periodi storicamente ben definiti e
per lo più nel Medioevo, ricostruito con una certa attendibilità. Ivanhoe è, all'interno della feconda vena narrativa dello Scott, il
romanzo più celebre, pubblicato nel 1820. Se vogliamo comprendere in quale misura il Manzoni ne rimane influenzato, ma
anche se ne distacca per costruire I Promessi Sposi all'insegna di una straordinaria originalità, bisognerà soffermarci un poco su
di esso.
La vicenda di Ivanhoe è ambientata nell'Inghilterra del XII secolo. I Normanni hanno imposto la loro supremazia sui Sassoni e re Riccardo
Cuor di Leone cerca di amalgamare i due popoli. Partito per una crociata, il sovrano ha affidato l'amministrazione del regno al fratello Giovanni,
incapace e sleale.
La narrazione comincia con la descrizione di un grande torneo, in cui si distingue un misterioso cavaliere, che poi si scoprirà essere
Wilfred d'Ivanhoe, lio di Cedric il Sassone, tornato dalla Terrasanta. Egli viene ripudiato dal padre, perché vorrebbe trovare un accordo con i
Normanni. Per questo non può sposare lady Rowena, pupilla di Cedric, deciso a maritarla soltanto a un Sassone fedele ai suoi principi. Nella
storia intervengono vari personaggi. L'ebreo Isacco di York e la lia Rebecca aiutano Ivanhoe quando si trova in difficoltà, mentre Robin Hood,
con i suoi uomini, fuorilegge abitanti la foresta di Sherwood, che rifiutano di are le tasse, non esitano a dare man forte al cavaliere, circondato
da nemici. Tra questi è accanito il templare Brian de Bois-Guilbert che, alla fine, viene ucciso in duello. La storia, naturalmente, è a lieto fine:
Ivanhoe e Rowena si sposano, il misterioso personaggio che ogni tanto e, denominato 'il cavaliere nero', non è altri che re Riccardo,
tornato a riportare il buon governo. La giustizia e l'amore trionfano.
Come si può notare, il romanzo è impostato sulla contrapposizione di buoni perseguitati e di cattivi persecutori, i quali
troveranno il giusto castigo. L'amore, a lungo mortificato e quasi annullato dalla prepotenza dei 'cattivi', alla fine si risolve in
nozze benedette.
Alessandro Manzoni comprende le enormi potenzialità letterarie contenute nel romanzo. In Italia questo esperimento non è
ancora compiuto. Circola solamente il romanzo epistolare di Ugo Foscolo Ultime lettere di Jacopo Ortis (1817), dal carattere
parzialmente autobiografico, dove al tema dell'amore si unisce quello della patria asservita allo straniero. Jacopo, deluso nelle
speranze di sposare l'amata e deluso perché con il trattato di Campoformio del 1797 la Repubblica di Venezia è caduta in mano
agli Austriaci, si uccide.
- L'Europa e il romanzo
Nell'Europa del primo Ottocento, invece, il romanzo si è affermato pienamente da circa un secolo. Compare in Francia
nel 1678 con la commovente vicenda della Princesse de Clèves narrata da madame de La Fayette: ambientato a metà del
Sedicesimo secolo, alla corte di Enrico II, è la storia di una passione tenuta a freno dal senso dell'onore e del dovere.
Avventura e ricerca filosofica sono abbinate nel romanzo di Voltaire Candide(1759) in cui un giovane, dopo mille peripezie,
sposa la sua amata, ormai vecchia e brutta, ma scopre anche il senso della vita.
Nei Promessi Sposi le partenze i viaggi, le separazioni, le ricerche, gli incontri fortuiti sono piuttosto frequenti e, alla base,
sta il meccanismo tipico dei romanzi d'avventura.
D'altra parte il filosofo francese Jean-Jacques Rousseau, nel romanzo La nouvelle Eloïse (1761), riprende il tema dell'amore
contrastato dal senso del dovere, costruendo un modello insuperabile di eroina romantica nella ura di Giulia, lia obbediente
e moglie fedele al quale, fatte le debite riserve, potremmo accostare quello di Lucia. Il tema del viaggio, del naufragio, delle
difficoltà a cui l'uomo, con la scienza, sa porre rimedio, tornano in Robinson Crusoe (1719) dell'inglese Daniel De Foe, mentre
il motivo dell'ingiustizia e della malvagità del nobile che si accanisce su un giovane povero emerge in Tom Jones (1749) di
Henry Fielding.
Inutile dire che tutti questi romanzi si risolvono con un lieto fine: l'intrigo viene smascherato e il perseguitato riceve la giusta
dose di ricompensa, proprio come nei Promessi Sposi, benché nel romanzo manzoniano esista una componente che manca in
tutti gli altri: la visione religiosa. Abbiamo dovuto anticipare questa osservazione per evitare false interpretazioni. Nel
Settecento, all'interno del filone 'gotico', compaiono romanzi 'neri', in cui gli eroi si muovono su sfondi tenebrosi di castelli
popolati da forze misteriose e sovrumane, ostacolati da malvagi che evocano potenze ultraterrene: è questo il contenuto del
Castello di Otranto (1764) dell'inglese Horace Walpole, in cui emerge la ura della fanciulla che, a causa della persecuzione
del nobile prevaricatore, non può sposare il giovane che ama. La monaca (1796) del francese Dénis Diderot, narra le peripezie
di una giovane che entra in convento, forzata dalla famiglia: non possiamo non pensare alla celebre vicenda manzoniana della
monaca di Monza, anche se la storia di questo personaggio è recuperata dalle cronache secentesche del Ripamonti. Il monaco
(1796 ), di Mattew Gregory Lewis, rappresenta il tipico esempio di romanzo gotico in cui orrore, erotismo, suspense e violenza
si mescolano, avvincendo il lettore. Non dimentichiamo che anche nei Promessi Sposi non mancano rapimenti e colpi di scena,
compaiono personaggi che potrebbero ben essere definiti 'oppressori'.
Il grande scrittore tedesco Wolfgang Goethe (1739-l842) suggerisce al Foscolo il tema dell'amore infelice nelle Ultime
lettere di Jacopo Ortis con il romanzo I dolori del giovane Werther (1774), che racconta la storia di un amore impossibile
per la bella Carlotta. Tuttavia nell'altro suo romanzo, Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister (1795) offre un valido
spunto anche per Manzoni. L'analisi goethiana della formazione del giovane, infatti, non è estranea all'ideazione del personaggio
di Renzo che, nel corso del romanzo, matura e arricchisce la sua esperienza, sino a consolidare una personalità sicura.
- Fermo e Lucia
La prima stesura dei Promessi Sposi è molto diversa dall'edizione definitiva, che vedrà la luce quasi vent'anni dopo, nel
1840. L'autore, nell'arco di due anni scrive il romanzo in quattro tomi, intitolandolo provvisoriamente Fermo e Lucia, dal nome
dei protagonisti.
La composizione inizia nel 1821 e termina nel 1823, con alcune interruzioni. Le sue fonti sono quelle già citate: oltre ai romanzi
che circolano in quegli anni e che vengono pubblicati intorno al 1820, come quello di Walter Scott, il Manzoni attinge alle
cronache e alle opere di storiografia del Seicento: ricordiamo: De peste Mediolani quae fuit anno MDCXXX (La peste che
scoppiò a Milano nel 1630), e Historiae Patriae (Le storie della patria, in 23 libri) di Giuseppe Ripamonti (1573-l643), il
Raguaglio di Alessandro Tadino (1580-l661), medico milanese che diagnosticò la peste e le sue cause, nonché le già citate
opere dell'economista Melchiorre Gioia, contemporaneo del Manzoni.
La novità che balza subito all'occhio è il fatto che sono protagonisti personaggi di origine umile e l'ambientazione è di tipo
rurale. Niente cavalieri né damigelle, tornei, imboscate e duelli all'ultimo sangue, ma solo situazioni che, trasposte in epoche
diverse, potrebbero vedere coinvolto chiunque. Certo non mancano vicende eccezionali, come la peste, la guerra, il rapimento
della protagonista, una clamorosa conversione: tuttavia Manzoni le presenta con estrema verosimiglianza. Infatti crede nella
necessità di rifondere, nel romanzo, il vero storico e l'invenzione poetica: lo scrittore pensa che la letteratura, per avere
carattere educativo, non può rinunciare a proporsi come momento di conoscenza e stimolo alla riflessione. Perciò deve
prospettare personaggi, vicende, situazioni, considerazioni, scene, dialoghi e soliloqui in cui il lettore si possa riconoscere.
Come mai la scelta degli umili come protagonisti? E perché proprio un romanzo storico? Sicuramente non è estranea la
concezione cristiana del Manzoni e la sua opinione che la storia sia fatta dalla gente comune, dalla massa popolare, piuttosto che
dalle élites al potere. Naturalmente si tratta di una narrazione, nella quale una vicenda d'amore è inserita in un contesto illustrato
con precisione e sul quale l'autore si documenta con cura puntigliosa. A questo punto torniamo ancora una volta al felice
binomio di verità e fantasia che dà al romanzo realismo e universalità.
Spieghiamoci meglio: l'ambientazione rigorosamente studiata e i tipi umani scelti dall'autore rimandano alla realtà. I
protagonisti non sono creature eccezionali, ma gente semplice come se ne trova ovunque e in ogni epoca. I personaggi 'storici',
ossia quelli ricavati dalle cronache, sono riprodotti senza che mai siano falsate (o 'romanzate') le fonti storiche, ma proprio
questi personaggi acquistano una suggestione straordinaria quando l'autore cerca di illuminare la loro psicologia e immagina ciò
che le cronache non possono dire, ossia il loro dramma interiore, il fastello di irrequietezze, di paure, di contraddizioni, le
riflessioni, i compromessi che li portano a scelte e decisioni sofferte. L'autore li ricostruisce dall'interno, inventa il processo
spirituale che li ha resi quelli che tramandano gli storici. Per questa operazione letteraria deve fare appello alla sua arte
poetica, alla sua sensibilità, e, perché no?, anche alla sua esperienza personale: chi potrebbe negare che, per ricostruire la
faticosa conversione dell'innominato, Manzoni non abbia ripensato alla 'sua' conversione?
Un'altra domanda: perché proprio il Seicento? Si può rispondere, ricordando il patriottismo profondo del Manzoni. Nel
secolo della dominazione snola sul Milanese, egli ravvisa molte analogie con il suo tempo, in cui la Lombardia è sottomessa
agli Austriaci e ancora compaiono prevaricazioni e violenze. Come a quei tempi gli umili erano in balìa delle forze politiche, così
ora i diritti dei cittadini sono violati e le loro giuste esigenze di libertà sono soffocate. La vicenda è ambientata nel territorio del
Ducato di Milano e dura per due anni, dal 1628 al 1630. Protagonisti sono due giovani borghigiani che non possono sposarsi
perché il signorotto della zona si è incapricciato della promessa sposa. Dopo lunghe peripezie (i fidanzati devono separarsi ma si
ritrovano, poi, in circostanze drammatiche) le nozze vengono celebrate.
Il romanzo non soddisfa affatto l'autore che lo dà in lettura agli amici Visconti e Fauriel. Quest'ultimo gli suggerisce alcuni
tagli sostanziali, per modificare una struttura poco equilibrata, in alcune parti prolissa e fuorviante.
A questo punto, però, l'autore comprende che non si tratta soltanto di scrivere una bella storia capitata in passato, di
comporre un romanzo che sappia divertire e intrattenere il lettore: sente dentro di sé l'urgenza di trasmettere un messaggio
universale e di dare alla sua opera quella funzione educativa, già obiettivo dei suoi capolavori precedenti. Occorre, quindi,
guadagnare in sobrietà e chiarezza, dando ai personaggi quel carattere particolare che consente di farsi portavoce di
un'esperienza di vita.
Nel 1825 i quattro volumi sono ridotti a tre, dall'intreccio più agile e organico. Nel 1827 ecco l'edizione (detta
'ventisettana') dei Promessi Sposi. Storia milanese del secolo XVII scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni: duemila
copie sono esaurite nell'arco di due mesi. Già il titolo è notevolmente suggestivo: l'autore, infatti, si presenta nelle vesti di
scopritore e rifacitore, nel milanese in uso ai suoi tempi, di un antico manoscritto secentesco, composto da un misterioso autore
Anonimo: non è un espediente molto originale, se pensiamo che già Ludovico Ariosto l'ha usato per l'Orlando furioso (1532) e
Miguel de Cervantes se ne è servito per il Don Chisciotte (1605-l6015).
- La storia
Vediamo ora, in sintesi, la storia che inizia la sera del 7 novembre 1628.
Don Abbondio, parroco di un paesino sulle colline presso Lecco, viene minacciato dai bravi di don Rodrigo, affinché non celebri il
matrimonio fra Renzo e Lucia. I malviventi, al servizio del signorotto, sanno incutere una gran paura al pavido curato che, con mille pretesti,
l'indomani convince lo sposo a rimandare la cerimonia. I due giovani cercano una soluzione: Renzo si reca a Lecco per chiedere aiuto
all'avvocato Azzecca-garbugli, Lucia confida nell'intervento di padre Cristoforo, un cappuccino che non esita ad affrontare don Rodrigo in
persona.
Ma questi è irremovibile; anzi, progetta il rapimento della ragazza. I fidanzati devono fuggire la notte del 10 novembre. Qui la narrazione si
biforca: la storia di Lucia porta il lettore in un convento di Monza. Qui la ragazza trova protezione presso una potente monaca, di cui l'autore ci
racconta la storia. Successivamente Lucia viene rapita dal convento, con la connivenza della suora, e portata in un castello sul confine con il
territorio veneziano; è in quest'occasione che fa un voto alla Madonna: rinunciare a Renzo in cambio della salvezza e della libertà. Lì il rapitore,
l'innominato, un potente malfattore che ha voluto assecondare don Rodrigo, commosso dalla ragazza, decide di cambiare vita: già da tempo si
sentiva stanco di commettere delitti e violenze. Alla 'conversione' lo aiutano anche le buone parole dell'arcivescovo di Milano Federigo
Borromeo. Lucia, liberata, trova ospitalità presso la nobile famiglia milanese di don Ferrante e donna Prassede.
Frattanto Renzo giunge a Milano e si fa coinvolgere nei tumulti scoppiati in seguito alla scarsità di pane. A stento sfugge alla polizia, che
lo crede un sobillatore, e raggiunge il cugino Bortolo a Bergamo, dove lavora in un filatoio, sotto falso nome. Trascorre così un anno. Nel 1630 le
truppe imperiali dei lanzichenecchi scendono in Italia, attraversano il ducato di Milano, per andare ad occupare Mantova: infatti è in corso la
guerra dei trent'anni, che coinvolge molti Stati europei. Francia e Sna sono in lotta per il controllo del ducato di Mantova e del Monferrato.
Le truppe diffondono la peste che falcia migliaia di vite umane e mette in ginocchio la ricca e prosperosa Milano. Renzo si ammala, ma guarisce e
decide di tornare in cerca di Lucia. La trova al lazzeretto, un centro di raccolta degli appestati di Milano: anche lei ha preso la peste ma l'ha
superata ed ora è convalescente e assiste una ricca vedova di Milano.
Nel lazzeretto si trova anche don Rodrigo è malato, ma la sua situazione non lascia sperare, ed è stato oltretutto reso folle dalla malattia e
dal tradimento del suo fedele Griso. Non lasciano sperare neanche le condizioni di Fra' Cristoforo che con totale abnegazione assiste i malati: a
lui si rivolge Renzo per la questione del voto, che viene cancellato perché non valido in quanto fatto in condizione di pericolo. Ottenuta la nuova
promessa di Lucia, Renzo torna al paesello per preparare le nozze: un violento acquazzone fa terminare il contagio. I due giovani si riuniscono al
paesello e, finalmente, don Abbondio celebra le nozze. Risolti tutti i problemi, compresa la pendenza con la giustizia relativo al tumulto di San
Martino, la famigliola si trasferisce a Bergamo, dove Renzo impianta un filatoio con il cugino. La storia finisce serenamente.
Che cosa è cambiato dal Fermo e Lucia ai Promessi Sposi? Qualcosa di molto sostanziale. Non solo, infatti, i
personaggi modificano il loro nome (Fermo Spolino diventa Renzo Tramaglino, filatore di seta, come ricorda il cognome; Lucia
Zarella si chiama Lucia Mondella; fra Galdino, il cappuccino che protegge i fidanzati, assume il nome di padre Cristoforo; il
Conte del Sagrato riceve la misteriosa denominazione dell'innominato, Marianna De Leyva diventa l 'anonima monaca di
Monza), ma sono introdotti tagli decisi alla narrazione. Le vicende dei due personaggi storici per eccellenza (perché sono il
frutto di una pignola consultazione delle cronache del tempo), ossia l'innominato e la monaca di Monza, sono sfumate e
ridotte. Di queste ure il lettore non conosce tutti gli antefatti, ma soltanto le notizie fondamentali: in compenso è approfondito
lo scandaglio psicologico, a tutto vantaggio della poeticità e suggestione della loro personalità. Infatti la storia della fanciulla
monacata per forza nel Fermo e Lucia è così vasta da costituire davvero 'un romanzo nel romanzo', che spiazza il lettore e gli
fa dimenticare il filo centrale della narrazione. Inoltre, subito dopo l'interminabile odissea della monaca, ecco apparire il
tenebroso Conte del Sagrato, anche lui con una lunghissima biografia alle spalle, vero excursus in cui il lettore si immerge nel
mondo violento dei sicari secenteschi. Però ne deriva un grosso inconveniente: quando, dopo ine e ine, rie il
povero Fermo, che poi è il protagonista, sembra quasi un intruso piovuto non si sa da dove. A ciò si aggiunge, come osservano
gli amici di Manzoni, che emerge un eccessivo compiacimento per gli aspetti truculenti, torbidi, violenti dei personaggi. Per
esempio l'autore illustra con esagerato realismo l'agguato del Conte a un nemico sul sagrato della chiesa, oppure si dilunga nel
descrivere l'assassinio di cui la monaca si rende complice tra le mura del convento.
Tacendo i torbidi retroscena della monaca e lasciando intuire solamente il passato dell'innominato, il romanzo acquista
maggiore eleganza e omogeneità stilistica, mentre i personaggi risultano più misteriosi, interiormente ricchi, sfaccettati, verosimili
e forti di una incredibile capacità di ricreare la suspense.
Solo don Rodrigo rimane immutato, anzi, risulta peggiore. Sembra che Manzoni voglia davvero fare di lui l'incarnazione
del male di tutto un secolo. Nel Fermo e Lucia, infatti, egli è scosso da una vera passione per la ragazza e vive una tremenda
crisi di gelosia nei confronti di Fermo. La sua persecuzione, in fondo, nasce da un sentimento che potrebbe, se non giustificarla,
renderla umanamente comprensibile. Nella redazione successiva, invece, gli ostacoli che frappone alle nozze nascono da una
futile scommessa stipulata con il cugino Attilio, superficiale e prepotente come lui.
Alcune scene ad effetto, come la morte di don Rodrigo, che impazzisce per il contagio della peste e si getta in una
furibonda cavalcata nel lazzaretto, vengono riequilibrate, smorzate nella suspense, a tutto vantaggio dell'armonia della
narrazione.
Anche dal punto di vista strutturale I Promessi Sposi risultano in parte modificati, con lo spostamento di alcuni blocchi
narrativi: i due episodi della monaca di Monza e dell'innominato vengono distanziati con l'inserimento delle avventure di Renzo
nei tumulti di Milano.
Nell'edizione del Ventisette il Manzoni attua anche tagli decisi nelle parti più specificatamente metodologiche e
storiografiche: abolisce la dissertazione sul problema della lingua del romanzo e toglie tutta la documentazione dei processi
agli untori (presunti responsabili della diffusione della peste a Milano) che ha rinvenuto negli atti riportati dalle cronache milanesi.
Questa documentazione, peraltro di grande interesse, verrà enucleata e rielaborata nella Storia della colonna infame,
pubblicata nel 1842 in appendice all'ultima e definitiva edizione del romanzo.
Non mancano, infine, le aggiunte: poche, ma utili per infondere al romanzo quel tono di realismo, arricchito da un
umorismo sottile che tempera la drammaticità di alcuni episodi. Per esempio l'autore inventa il soliloquio di Renzo che, in fuga
verso Bergamo, sta cercando un facile guado dell'Adda. È un capolavoro di introspezione psicologica: chi non ha mai parlato da
solo, in maniera concitata e aggressiva, quando ha rimuginato fra sé un torto subito?
Uno dei primi entusiasti recensori del romanzo è Wolfgang Goethe, ma seguono rapidamente giudizi molto positivi di
scrittori francesi come Stendhal (1783-l842), Alphonse de Lamartine e di autori che languiscono nelle carceri austriache, come
Silvio Pellico («quanto consola il vedere in Manzoni il cristiano senza pusillanimità, senza servilità, senza transazioni co' pregiudizi
dell'ignoranza», scrive dallo Spielberg nel 1829).
Gli anni compresi tra il 1827 e il 1840 sono dedicati a una attenta revisione linguistica dell'opera. L'autore è da tempo
interessato alla questione della lingua , che in Italia è dibattuta sin dal XIII secolo: se ne occupa Dante Alighieri (1265-l321) nel
De vulgari eloquentia, se ne occupano importanti trattatisti del Cinquecento. Infatti gli Italiani, divisi politicamente, si sentono
uniti nella cultura e nell'Ottocento aspirano a una lingua letteraria che sia nazionale. La tradizione addita nel fiorentino l'idioma più
raffinato della penisola.
Perciò il Manzoni, che vuole fare del suo romanzo un'opera italiana, e non lombarda, mobilita la famiglia, per trasferirsi a
Firenze qualche tempo. Ha bisogno di 'orecchiare' il toscano parlato dalle classi colte, per frequenti e determinanti correzioni al
linguaggio della narrazione.
- L'edizione del 1840 e il linguaggio
Tredici persone, tra cui cinque domestici, stipate in due carrozze, nel luglio 1827 intraprendono il viaggio per quella che il
Manzoni chiama una 'risciacquatura in acqua d'Arno'.
Nel capoluogo toscano Manzoni riceve un'accoglienza festosa, mentre lo stesso granduca Leopoldo II lo convoca a corte.
Gli intellettuali che si raccolgono nel Gabinetto scientifico-letterario di Giampiero Viesseux vedono nel Manzoni il
rappresentante più accreditato del Romanticismo nostrano.
Il suo romanzo non è l'unico nel panorama italiano, poiché negli anni di pubblicazione dei Promessi Sposi sono dati alle
stampe altri romanzi storici, scritti sul modello delle opere di Walter Scott: proprio a Firenze escono, di Francesco Domenico
Guerrazzi (1804-l873), La battaglia di Benevento, L'assedio di Firenze e Beatrice Cenci. Ricordiamo anche Marco
Visconti, di Tommaso Grossi (1790-l853), Ettore Fieramosca, di Cesare D'Azeglio, Margherita Pusterla di Cesare Cantù
(1804-l895).
Eppure nessuno si sognerebbe di negare il primato ai Promessi Sposi.
A Firenze Alessandro Manzoni si lega d'amicizia con Giuseppe Giusti e Gino Capponi, mentre conosce, senza trarne
grande piacere, Giacomo Leopardi (1798-l837) e Giambattista Niccolini (1782-l861). Conosce anche una fiorentina
'verace', Emilia Luti, che lo segue a Milano, come istitutrice della nipotina Alessandra D'Azeglio, diventa la sua più fedele
collaboratrice nel faticoso lavoro di revisione linguistica che porterà all'edizione del 1840. Quando uscirà l'edizione illustrata dei
Promessi Sposi, il Manzoni gliene regalerà una copia con questa dedica: «Madamigella Emilia Luti gradisca questi cenci da lei
risciacquati in Arno, che Le offre, con affettuosa riconoscenza, l'autore» (da Citati, Immagini di Alessandro Manzoni, .
Fermo restando che nella Quarantana rimane inalterata la trama e non sono affatto modificati i personaggi, vediamo di
mettere a punto in che cosa consiste questa revisione linguistica.
Nel Fermo e Lucia il Manzoni ha usato una lingua derivata dalla sua abitudine a scrivere in poesie e in parte anche tradotta dal
francese. Ne è derivato (sono parole sue!) un «composto indigesto di frasi un po' lombarde, un po' toscane, un po' francesi, un
po' anche latine» cui, nella Ventisettana, viene sostituito il toscano letterario, con l'aiuto del Vocabolario milanese-italiano di
Francesco Cherubini, il Dizionario francese-italiano e il Vocabolario della Crusca, nell'edizione 1729-38. È un toscano
libresco che non soddisfa l'autore, il quale crede nel romanzo come genere letterario che si orienta a un lettore dinamico, calato
nella sua epoca, operativo, incisivo nella società e non certo 'topo di biblioteca'. Il viaggio a Firenze e la collaborazione della
Luti hanno proprio lo scopo di 'insegnare' al Manzoni l'uso del fiorentino 'borghese', parlato dalle persone colte, con le sue
sfumature ironiche, la sua spigliatezza, la sua armonia e musicalità. L'autore vuole superare il divario tra lingua parlata e lingua
scritta. Non è un capriccio, ma sente che è in gioco un elemento importante circa il futuro del popolo italiano: «per nostra
sventura» aveva scritto anni prima al suo amico Fauriel (in una lettera del 9 febbraio1806) «lo stato dell'Italia divisa in
frammenti, la pigrizia e l'ignoranza quasi generale hanno porto tanta distanza tra la lingua parlata e la scritta che questa può dirsi
quasi morta». Si tratta di portare a dignità letteraria la lingua d'uso.
Il suo obiettivo, si è detto, è di raggiungere un pubblico vasto, di non elevata cultura ma sinceramente interessato. D'altra
parte è proprio per questo pubblico che ha scritto il romanzo, genere letterario tenuto in scarsa considerazione dagli intellettuali
italiani che, prima dei Promessi Sposi, ancora lo ritengono proprio di persone poco acculturate.
L'opera del Manzoni mostra l'assurdità di questo pregiudizio, ma l'autore deve compiere il grosso sforzo di aprire una
strada, anche sul piano del linguaggio, poiché deve inventarlo.
Dopo tredici anni di rimaneggiamenti, finalmente l'editore Redaelli di Milano può far uscire I Promessi Sposi a dispense, nella
sua redazione definitiva. La pubblicazione si conclude nel 1842, riscuotendo un grande successo grazie, ovviamente, anche alla
forma linguistica, in cui Manzoni riesce a superare la discrepanza tra lingua scritta e lingua parlata e appronta lo strumento
espressivo tanto atteso dai Romantici per una letteratura nazional-popolare.
Non di rado l'autore dialoga con il pubblico, chiamandolo «i miei venticinque lettori» o interrogandolo giovialmente su
qualche problema, presentato in modo ironico. È un modo di costruire un rapporto immediato, che contribuisce a sottolineare
l'intento educativo del romanzo, finalmente riconosciuto nella sua dignità di genere letterario a tutti gli effetti.
I critici sottolineano la vivacità dei dialoghi, la pluralità dei registri, che passano dal tono amichevole e colloquiale a quello
solenne e persino oratorio (per esempio del cardinal Borromeo).
Manzoni sa introdurre una garbata ironia laddove la tensione emotiva si fa troppo opprimente, ma sa anche assumere la
severità dello storico che riferisce avvenimenti con l'indicazione delle fonti. Non meno importante è la capacità mimetica
dell'autore che sa mettere in bocca ai personaggi esattamente le parole e il tono giusto, quasi suggerendo al lettore anche
l'intuizione del gesto che lo accomna. Quando il conte, zio di don Rodrigo, un 'pezzo grosso' del Consiglio segreto, accoglie
nel suo studio il padre provinciale, responsabile dei cappuccini del ducato, per decidere la sorte di padre Cristoforo, il Manzoni
dice che «il magnifico signore fece sedere il padre molto reverendo» (cap. XVIII) e l'ampollosità della frase sottolinea la
cerimoniosità dei due interlocutori.
Quando don Ferrante, nobile e ricco intellettuale milanese che ospita Lucia, viene presentato al lettore, l'autore sottolinea,
circa i rapporti con la moglie impicciona : «Che, in tutte le cose, la signora moglie fosse la padrona, alla buon'ora; ma lui servo,
no» (cap. XXVII), sottolineando, con la vivacità della negazione, la dimensione patetica in cui si inserisce il personaggio.
E così, tanto per sottolineare un toscanismo, è da notare questa espressione: alla domanda di Lucia se rivelerà a padre
Cristoforo il progetto di forzare don Abbondio con il matrimonio 'a sorpresa', «- Le zucche! -» (cap. VII), risponde Renzo,
frase che equivale a un 'Fossi matto!', ma ha sicuramente un'incisività, una pregnanza e un'arguzia molto maggiori.
La lingua manzoniana sa adattarsi alla psicologia dei personaggi: sa farsi allusiva laddove due 'politiconi' organizzano una
piccola congiura; sa diventare appassionata ma non priva di humour quando narra le peripezie di Renzo in fuga; sa assumere il
tono severo di chi, senza giudicare, non condivide scelte educative improntate all'orgoglio e all'egoismo; sa rispettare talune
caratteristiche del personaggio, come la reticenza di Lucia a corrispondere verbalmente al fidanzato; sa evocare l'allucinazione
dell'incubo, nel sogno di don Rodrigo appestato, sa trasmettere il sollievo di chi ha finalmente ritrovato chi cercava; sa riportare
con lucidità cronache del passato; sa descrivere, con pochi tratti sobri e aggettivi 'mirati', paesaggi che sono lo specchio dello
stato d'animo dei personaggi.
È necessario sottolineare l'importante scelta artistica che sta alla base di questa 'nuova' lingua manzoniana. Prima dei
Promessi Sposi il linguaggio veniva modulato secondo l'imitazione dei classici, sulla base della loro autorità. Il romanzo,
invece, propone nella redazione definitiva una lingua viva che ha, però, dignità letteraria. Il criterio che il Manzoni segue per
coniare questa lingua è quello, per usare le sue parole, dello «scrivere come il parlare», per la realizzazione di una prosa duttile,
comunicativa, attuale e italiana. Sì, perché nelle intenzioni più riposte del 'patriota' Manzoni c'è anche questa esigenza, che
costituisce un significativo contributo nel processo di unificazione nazionale. Se con la 'Ventisettana' lo scrittore presenta un
romanzo indirizzato al pubblico milanese, con la 'Quarantana' realizza l'ambizioso progetto di parlare a un pubblico italiano.
- La struttura
Potremmo definire 'a cannocchiale' la struttura dei Promessi Sposi, per l'ampliamento della prospettive che, dai primi
moduli chiusi nell'ambito ristretto del paese dei protagonisti, coinvolge spazi sempre più ampi e fatti storici di portata europea.
I primi otto moduli (I-VIII) costituiscono la sezione borghigiana, perché luogo dell'azione è il borgo dove vivono Renzo
e Lucia. Qui la storia prende inizio con la mancata celebrazione delle nozze, qui risiedono i personaggi d'invenzione, che sono
presenti per tutto lo svolgimento della storia: i promessi sposi, la madre della ragazza, Agnese, il parroco del paese, don
Abbondio e, naturalmente, il persecutore don Rodrigo, che vive in un palazzotto poco distante.
Cronologicamente la sezione borghigiana presenta una narrazione molto lenta e un numero assai elevato di fatti,
concentrati in quattro giorni, dal 7 al 10 novembre 1628.
La seconda sezione e la terza sezione del romanzo comprendono rispettivamente i moduli IX-XVII e XVIII-XXVI. Le
storie dei fidanzati divergono: Lucia viene a contatto con i personaggi 'storici' (la monaca di Monza, l'innominato, il cardinal
Borromeo, dopo la sua liberazione). La ragazza svolge, del tutto inconsapevolmente, il ruolo di strumento della Provvidenza,
perché ha una parte significativa nella conversione dell'innominato. Le scene che la vedono protagonista si svolgono in spazi
chiusi (il convento, il castello, la casa del sarto dove viene ospitata dopo la liberazione). Il tempo in cui vive le sue avventure è
decisamente indeterminato.
Renzo, invece, si muove in spazi aperti: Milano, la camna lombarda, l'Adda, il territorio di Bergamo. Egli rimane
coinvolto nei tumulti contro il carovita nel capoluogo lombardo, dove, nell'arco di due giorni (11 e 12 novembre) partecipa alla
rivolta, si ubriaca, litiga con un ospite, si fa credere un rivoltoso, cade nella trappola di una spia, si fa arrestare, ma riesce a
scappare. Il 13 novembre eccolo libero in territorio bergamasco, alla volta del cugino Bortolo, presso cui si ferma una quantità
di tempo non specificata.
La quarta e quinta sezione sono costituite rispettivamente dai moduli XXVII-XXXII e XXXIII-XXXVIII. ½ sono
descritte, seguendo le cronache del tempo, senza risparmiare dettagli e particolari, la carestia nel Milanese, la guerra per il
possesso di Mantova (episodio 'italiano' della guerra dei trent'anni che insanguina l'Europa) e la peste che i soldati imperiali (i
famigerati lanzichenecchi) diffondono nel ducato e nelle zone circostanti.
Renzo guarisce dalla malattia e torna a Milano in cerca di Lucia. Dopo che l'ha trovata , si reca al paese. I loro destini si
ricongiungono e finalmente ecco celebrate le nozze. I personaggi essenziali alla storia ci sono tutti: i fidanzati, in primo luogo, la
madre Agnese e poi don Abbondio.
Il respiro narrativo si fa ampio e e anche una lunga ellissi (infatti non viene raccontato nulla di ciò che accade ai
nostri eroi nell'anno 1629) che fa scorrere velocemente il racconto. Però le parti in cui vengono illustrate le cause dei tre flagelli
sono molto dense e asciutte, veri resoconti storiografici che appesantiscono il ritmo e hanno indotto il critico e filosofo
Benedetto Croce (1866-l952) a considerarle ine assolutamente prive di poesia, se non addirittura superflue (il critico
Benedetto Croce, nel saggio Alessandro Manzoni. Saggi e discussioni, Bari, Laterza, 1952, nega decisamente il carattere
poetico del romanzo, sostenendo che troppo rigido e intransigente è il moralismo manzoniano, mentre lo stile indulge all'oratoria
e le parti storiche risultano pesanti).
Potremmo aggiungere che la struttura a cannocchiale implica anche una struttura 'ad anello', poiché la storia parte dal
borgo, si snoda lungo una serie di direttrici spaziali che coinvolgono l'intero ducato di Milano, ma ritorna al borgo, dove le
nozze vengono finalmente celebrate, con due anni di ritardo sul programma iniziale.
Proviamo a visualizzare il percorso:
nozze mancate
al BORGO
Renzo: Milano
e poi Bergamo
Guerra - Carestia
Peste
ritorno al BORGO
I-VIII
IX-XVII
XVIII-XXXVI
XXXVII-XXXVIII
Lucia a Monza
Lucia al castello
dell'innominato
Lucia a Milano
e al lazzaretto
nozze al BORGO
Come si può notare l'intreccio, (ossia la disposizione degli avvenimenti scelta dall'autore) è piuttosto complesso, perché
tiene conto della necessità di elaborare flash-back che illustrino al lettore alcuni antefatti. Perciò non sempre coincide con la
naturale sequenza dei fatti, che si chiama fabula. Lo vediamo, ad esempio, nei punti in cui l'autore racconta la vita di alcuni
personaggi. Nel IV modulo viene illustrata la giovinezza di padre Cristoforo e un tragico episodio, fondamentali per
comprenderne il carattere e le scelte importanti che stanno alla base del suo atteggiamento in difesa degli umili. Allo stesso
modo due moduli (il X e l'XI) raccontano la lunga serie di maneggi che riescono a costringere Gertrude alla clausura nel
convento di Monza; la storia dell'innominato viene sintetizzata (cap. XIX) per meglio illustrare la portata della sua
'conversione', mentre la vita del cardinal Borromeo viene proposta (cap. XXII) quasi come il modello di comportamento
cristiano. Si aggiungono le digressioni circa le condizioni del Milanese nel Seicento, la situazione sociale, le classi e il sistema di
governo. Ancora la narrazione viene interrotta per spiegare la causa dei tumulti per il caro-pane, la causa della calata dei
lanzichenecchi, il diffondersi della peste tra l'ignoranza, l'incompetenza e la superstizione sia della popolazione che degli addetti
alla tutela della salute pubblica.
Nei confronti della vicenda l'autore si propone come narratore onnisciente, ossia al di sopra della storia, già al corrente
di 'come andrà a finire' e quindi in grado di formulare giudizi, sdrammatizzare con toni pacati, intervenire ironizzando sulle
reazioni emotive dei personaggi. La sua è una focalizzazione zero, in quanto, essendo al di fuori degli avvenimenti, e
osservandoli criticamente, come un regista che dirige l'allestimento di una scena, non assume il punto di vista di alcun
personaggio, ma valuta con imparzialità.
Talvolta l'autore interviene direttamente, apostrofando il pubblico: «Pensino ora i miei venticinque lettori» (cap. I)
oppure esprimendo un chiaro giudizio morale: «Il principe (non ci regge il cuore di dargli in questo momento il titolo di padre)»
(cap. X); o ancora come quando introduce l'ironia (che corrisponde a un giudizio, pur sfumato e temperato) per sottolineare la
denuncia di Agnese all'arcivescovo delle scuse addotte da don Abbondio per rimandare le nozze: «non lasciò fuori il pretesto
de' superiori che lui aveva messo in campo (ah, Agnese!)» ( cap. XXIV).
Quella dell'autore però, non è l'unica voce narrante del romanzo: non dimentichiamo la finzione del manoscritto. Infatti
Manzoni immagina di trascrivere un libro elaborato da un Anonimo e, all'occasione, si trincera dietro le responsabilità di quello.
Per esempio, quando non vuole rivelare il nome dell'innominato (che, in tal modo, risulta più misterioso e suggestivo),
dice, riferendosi anche alla località in cui sorge il castello: «Tale è la descrizione che l'anonimo fa del luogo: del nome, nulla; anzi,
per non metterci sulla strada di scoprirlo, non dice niente del viaggio di don Rodrigo». Infatti il signorotto sta recandosi
dall'innominato per chiedergli di rapire Lucia dal convento di Monza.
Capita, però, che l'autore si cali nei personaggi, assumendone il punto di vista: non è la posizione prevalente, ma ogni
tanto succede che il narratore adotti una focalizzazione interna. Lo notiamo nei monologhi di Renzo in fuga: «Io fare il diavolo!
Io ammazzare tutti i signori! Un fascio di lettere , io!» (cap. XVII).
- Il sistema dei personaggi
I rapporti fra i personaggi si uniformano a quello che è lo schema consolidato nel romanzo storico e nel romanzo d'avventura:
accanto all'eroe (Renzo) e l'antagonista (don Rodrigo) e l'oggetto del desiderio (Lucia) che li contrappone. Ecco, poi,
una folta schiera di sostenitori, dell'una o dell'altra parte, i 'buoni' e i 'cattivi'. Tuttavia, il discorso si complica perché la notevole
capacità di penetrazione psicologica del Manzoni impedisce ai personaggi di assumere connotazioni nette, definite, unilaterali:
nessuno (salvo, forse, don Rodrigo e il suo luogotenente, il bravo Griso) è 'completamente cattivo', mentre nemmeno un
sant'uomo come il cardinal Federigo risulta perfetto: anche lui, infatti, ha qualche difettuccio e commette errori. Così troviamo
dei 'cattivi' che si trasformano, come l'innominato che assume, agli occhi della popolazione, l'aspetto d'un santo energico,
grande nel bene come lo è stato nel male.
Analogamente la condotta di eroi positivi come Renzo non va immune da errori e da ambiguità (si ubriaca, parla a
vànvera), mentre nel passato di un campione della carità e del perdono come padre Cristoforo campeggia un omicidio.
Inoltre non è semplice stabilire 'da che parte stanno' alcuni aiutanti, perché la loro personalità si evolve nel corso della
storia. Tornando all'innominato, notiamo che inizialmente è aiutante di don Rodrigo (rapisce Lucia per lui!), ma poi, ravvedutosi,
non vede l'ora di liberare la ragazza!
E la monaca di Monza? Comincia schierandosi a difesa della sicurezza di Lucia e poi, per cause di forza maggiore, si fa
complice del suo rapimento! Quanto a don Abbondio, nonostante i suoi sforzi di essere neutrale, di fatto sostiene gli squallidi
propositi di don Rodrigo.
Osserva questo schema:
EROE: Renzo
ANTAGONISTA: don Rodrigo
OGGETTO DEL DESIDERIO: Lucia
Aiutanti dell'Eroe
Aiutanti dell'Antagonista
Padre Cristoforo, Agnese
Perpetua, Bortolo, don Ferrante
donna Prassede, il sarto e sua
moglie, Federigo Borromeo,
l'innominato, ecc.
Griso, conte Attilio, Nibbio
l'innominato conte zio,
monaca di Monza , ecc
Potremmo comunque raggruppare i personaggi secondo le schema vittima-oppressore, anche questo molto usato nel
romanzo del Settecento e dell'Ottocento: le azioni sono collegate secondo la logica che regge tutto l'intreccio dei Promessi
Sposi: Renzo e Lucia sono le vittime, mentre Don Rodrigo l'oppressore. I suoi 'alleati' (innominato, cugino Attilio, conte zio)
con i bravi e tutti i 'parassiti' (Azzecca-garbugli, podestà di Lecco) che siedono alla sua tavola, sono gli aiutanti
dell'oppressore.
Invece ure come padre Cristoforo, il cardinal Borromeo, Agnese e persino l'energica Perpetua, governante di don
Abbondio, o gli amici al paese, come Tonio e il fratello 'tocco' Gervaso, possono annoverarsi fra gli aiutanti delle vittime.
Renzo e Lucia, infine, hanno anche dalla loro alcuni personaggi che li ospitano, danno protezione, lavoro, sicurezza, come il
cugino Bortolo che abita a Bergamo e la coppia di nobili milanesi (don Ferrante e donna Prassede, anche se molto a modo
loro) che accoglie Lucia dopo la sua liberazione.
Possiamo visualizzare quanto si è detto in questo schema:
VITTIME
Renzo
Lucia
OPPRESSORI
Don Rodrigo
Innominato
AIUTANTI
DELL'OPPRESSORE
Griso
Don Abbondio
Nibbio
Monaca di Monza
AIUTANTI
DELLE VITTIME
Padre Cristoforo
Tonio e Gervaso
Cardinal Borromeo
Agnese
OSPITI
DELLE VITTIME
Bortolo
Don Ferrante
Donna Prassede
I personaggi, poi, possono essere ulteriormente suddivisi in due categorie: statici e dinamici, da intendere non solo nel
senso che nel corso della storia non mutano e restano fedeli a se stessi nel corso del tempo, ma anche della staticità o dinamicità
rispetto allo spazio, se cioè restano fermi in un determinato luogo o sono portati dalle vicende a decidere autonomamente di
spostarsi (in questo senso Lucia è statica perché 'viene spostata' contro la sua volontà e diviene dinamica solo alla fine quando
decide insieme al marito di abbandonare il paesello per andare a Bergamo, ma anche qui con una buona dose di staticità,
perché in fondo segue il marito).
Sono personaggi statici, (o piatti) quelli che non modificano la propria personalità nel corso della narrazione, come don
Abbondio, definito 'eroe della paura' e considerato da Luigi Pirandello (in Saggi, Milano, Mondadori, 1939, pp. 153 e segg.)
veramente 'umoristico'. Egli, infatti, proprio perché si comporta in una maniera diversa da come si dovrebbe comportare un
normale parroco, non solamente diverte il lettore, che sorride alle sue eccessive paure, alla sua pavidità di coniglio, al suo
egocentrismo, alle sue ansie per la propria tranquillità, alle meschinità messe in atto per non compiere scomodi doveri, ma anche
riflette sulle proprie piccinerie: in fondo don Abbondio è il personaggio nel quale meglio si riflettono i difetti degli uomini e,
soprattutto, le paure e gli egoismi dei mediocri.
Lucia è un altro personaggio che rimane fedele a se stessa. Il Manzoni ne fa, riguardo a talune vicende, una specie di
strumento della Provvidenza Divina. La sua presenza al castello dell'innominato, alcune parole che dice impulsivamente, circa il
perdono di Dio, che viene concesso anche solo per un'opera di misericordia, hanno un effetto dirompente sul truce signore, in
crisi di identità e, ancora inconsciamente, desideroso di mutar vita, stanco di commettere violenze contro innocenti. Lucia, con la
sua umiltà, sembra veicolo della luce della Grazia Divina, ma non tutti i personaggi sanno accoglierla. Anche la monaca di
Monza, infatti, si affeziona alla ragazza e si consola al pensiero di poterle fare del bene, lei che conduce, benché religiosa,
un'esistenza colpevole. Tuttavia non ha il coraggio di andare fino in fondo nel suo sforzo di rinnovamento e, a differenza
dell'innominato, non riesce a far tesoro del buon influsso che emana la presenza della fanciulla.
Anche don Rodrigo è un personaggio statico: lo troviamo sempre nel suo palazzotto, dal quale dirige le operazioni per far
modulare Lucia; a un certo punto, vista la sua impotenza, è costretto a spostarsi nel castellaccio dell'innominato per chiedere
aiuto, e alla fine viene letteralmente trascinato al lazzaretto, dove finisce la sua miserabile esistenza: in questo senso lo possiamo
definire come il simbolo dell'eterna staticità del male nella sua essenza.
Ai personaggi statici (o piatti), si contrappongono i personaggi a tutto tondo, (o dinamici), ossia quelli che si evolvono e
cambiano nel corso della narrazione, come l'innominato oppure Renzo. Il dinamismo di Renzo non riguarda soltanto la sua
trasformazione da giovane ingenuo in accorto imprenditore, attraverso le numerose peripezie a Milano, durante i tumulti e poi
all'epoca della peste. Renzo è dinamico anche perché le circostanze lo portano a percorrere, a piedi, chilometri e chilometri.
Attraverso la sua persona, l'azione narrativa stessa acquista dinamismo e si sposta da un luogo all'altro del Milanese: è
legittimo definire una vera odissea, quella del giovane che, convinto di lasciare il paesino per trovare ospitalità a Milano per
qualche tempo, si trova al centro di fatti più grandi di lui. Inseguito dagli sbirri, che lo credono una spia responsabile dei tumulti,
fugge in direzione di Bergamo. Non è un percorso facile, il suo! Ricercato dalla polizia, deve 'dribblare' astutamente la curiosità
di osti e avventori nelle taverne dove si ferma a riposare, deve trovare un riparo per la notte e guadare l'Adda. Poi, quando
l'anno successivo torna al paese in cerca di Lucia, viene a sapere che si trova a Milano, ospite di una nobile famiglia. Eccolo
ancora nel capoluogo lombardo, scambiato prima per un untore e poi per un monatto, e in questa veste raggiunge Lucia che è
ricoverata al lazzaretto: anche in questo luogo di dolore non mancano avventure. Ritrovata la fidanzata, comincia un andirivieni
tra il paese, Bergamo (dove torna per allestire la casa) e Pasturo, dove Agnese si è rifugiata per evitare il contagio.
Quanto camminare! Ma non è soltanto un espediente per dare movimento all'azione. I viaggi di Renzo hanno un significato
più profondo, perché questo personaggio è davvero una guida, per il lettore. In sua comnia subisce l'ingiustizia di don
Rodrigo e del dottor Azzecca-garbugli, si cala nei tumulti di Milano e vi partecipa come testimone oculare, con lui si commuove
e inorridisce di fronte alla condizione degli appestati, e gioisce della forza della pioggia purificatrice, come se vivesse in prima
persona gli avvenimenti, osservando i fatti attraverso gli occhi del giovane. Lo notiamo da molte osservazioni di Renzo:
«Spiccava tra questi, ed era lui stesso uno spettacolo, un vecchio mal vissuto, che, spalancando due occhi affossati e infocati,
contraendo le grinze a un sogghigno di compiacenza diabolica agitava in aria un martello, una corda, quattro gran chiodi, con
che diceva di voler attaccare il vicario a un battente della sua porta, ammazzato che fosse» (cap. XIII). La rappresentazione non
è soltanto viva e interessante, ma trasmette anche l'indignazione del giovane, che emerge dal giudizio contenuto nelle espressioni
«mal vissuto» e «compiacenza diabolica». Inoltre la commozione del giovane, di fronte alle sofferenze dei malati, contagia il
lettore e gli fornisce le coordinate per 'muoversi' anch'egli, in quella tragedia, con un preciso stato d'animo.
Un'ultima osservazione circa i personaggi storici. Sono ure fortemente suggestive: l'innominato è modulato
sull'immagine di Bernardino Visconti, feudatario di Ghiara d'Adda, di cui parlano le cronache milanesi del Seicento. Si sa che,
per merito di Federigo Borromeo, cambiò vita e, dopo aver congedato i suoi bravi, visse onestamente gli ultimi anni della sua
esistenza.
La monaca di Monza era Marianna De Leyva, lia di don Martino, costretta alla monacazione con il nome di suor
Virginia. Anch'ella si pentì, come narrano gli storici e, dopo aver subito un processo a causa delle sue malefatte (tresche
amorose e un omicidio), venne murata viva e morì in odore di santità. Questi due personaggi sono 'rivisitati' liricamente dal
Manzoni. Ciò che di loro tramandano le cronache viene illuminato poeticamente e viene messo in luce quanto la storia non può
dire: le segrete speranze, i timori, le pressioni psicologiche, il disagio esistenziale, il bisogno di amore, di bontà, di chiarezza nella
vita, di dialogo aperto con i propri simili, lo sforzo di non lasciarsi sopraffare dalla prepotenza altrui.
Anche il gran cancelliere Antonio Ferrer, protagonista di una delle più vivaci sequenze durante i tumulti di Milano, viene
presentato con le sue caratteristiche storiche ma anche nelle sue connotazioni psicologiche. Operando con la fantasia l'autore
immagina il suo atteggiamento umile e cortese di fronte alla folla in rivolta e gli pone in bocca frasi in due lingue: in snolo dice
ciò che pensa veramente, in italiano pronuncia frasi di circostanza per ammansire i Milanesi inferociti: «è vero, è un birbante, uno
scellerato» dice alla gente, ma subito, chinato sul vicario di provvisione che sta portando in salvo, mormora in snolo:
«Perdone, usted» (cap. XIII).
Le cronache non riportano questo particolare che colora di tinte fortemente ironiche tutta la vicenda: l'autore ha fatto
appello alla sua immaginazione, a quella che chiama invenzione e che serve a compenetrare il vero storico per dare ai
personaggi l'umanità che non rimane impressa nelle ine delle fonti.
Il critico ottocentesco Francesco De Sanctis (1817-l883), in particolare nel saggio I Promessi Sposi, pubblicato nella
rivista Nuova Antologia dell'ottobre 1873, ha notato un particolare curioso: il protagonista del romanzo è tutto il secolo, il
Seicento, illustrato nel suo carattere di epoca piena di contraddizione, dove i nobili ostentano sfarzo, ma anche sudiciume, dove
i sentimenti più umani e profondi cedono all'orgoglio, dove possono avvenire le più incredibili prevaricazioni, nonostante le leggi
parlino chiaro, dove un giovane onesto che vuole difendere un suo diritto, viene cacciato dall'avvocato abituato a difendere
soltanto malfattori (questo accade a Renzo in visita all'avvocato Azzecca-garbugli nel modulo III). Il Seicento viene 'illustrato'
attraverso alcune descrizioni che hanno il fascino delle stampe d'epoca. Manzoni è maestro nel ritrarre gli usi dei nobili, riuniti
per assistere a una cerimonia e intanto sfoggiare i loro abiti sontuosi, le scene di duello per le strade, i banchetti e le
conversazioni, i discorsi dove non si dice ma si sottintende un accordo che, per allusioni, viene siglato (lo puoi notare nel
modulo XVIII, dove si narra l'incontro fra il conte zio e il padre provinciale).
La riflessione sul Seicento, però, non è solamente dettata dall'interesse di Manzoni per la storia. Manzoni vuole aiutare i
suoi contemporanei a prendere coscienza degli squilibri politico-sociali, delle gigantesche ingiustizie e dell'inefficienza
burocratico-amministrativa che ha frenato in passato, ma frena anche al presente, il processo di crescita economica della
Lombardia insieme all'unificazione nazionale degli stati italiani. È un invito agli intellettuali del primo Ottocento a riflettere sulla
necessità di un ricambio di classe al potere: la borghesia sembra la più idonea a superare la crisi, a promuovere una nuova
realtà, nella quale i diritti civili siano rispettati e le energie popolari possano proficuamente esplicarsi, senza soprusi, violenze,
privilegi mortificanti, intrallazzi.
- Il paesaggio
L'uso del paesaggio nei Promessi Sposi è un elemento tecnico molto importante che porta alla soluzione di un problema
fondamentale: come far capire al lettore in profondità l'anima dei personaggi dando nel contempo una collocazione spaziale in
campo aperto alla vicenda (il campo aperto si contrappone al campo chiuso rappresentato da una casa o addirittura una
stanza), ed è descritto sempre con molta sobrietà. Rappresenta spesso il commento alle vicende e lo specchio dello stato
d'animo dei personaggi. La celebre descrizione di Quel ramo del lago di Como offre al lettore le coordinate spaziali della
vicenda e la inquadra in un alone di poesia. I segni della carestia, che ha aggredito anche gli abitanti delle camne, sono
evidenziati all'inizio del modulo IV con la rappresentazione dei contadini che seminano con parsimonia e preoccupazione, con la
ragazzetta che conduce una mucca magra e le sottrae erbe commestibili, da portare alla famiglia.
L'Addio ai monti, a conclusione del modulo VIII sottolinea la struggente nostalgia di Lucia che si allontana da luoghi cari,
prendendone congedo con strazio, mentre il cielo luminoso, che accoglie Renzo dopo aver guadato l'Adda all'alba e aver
conquistato la libertà (cap. XVII), sembra la promessa di un futuro sereno. La valle cupa e le montagne brulle su cui incombe il
castello dell'innominato sono un'introduzione alla comprensione della sua violenza, mentre il cielo che lo sovrasta pare fungere
da interlocutore, quasi da coscienza per il tiranno (cap. XX). E quando egli, dopo la notte drammatica in cui le parole di Lucia
gli hanno suggerito una possibile soluzione al disagio della sua vita, si affaccia alla finestra, vede la valle chiara allietata dallo
scampanio e il cielo grigiastro percorso da nuvole leggere: paiono simboleggiare il suo passato che si va sfaldando, per lasciar
spazio alla luce della Provvidenza Divina (cap. XX).
Molte sono le indicazioni di paesaggio che sembrano conurare aspetti della vita degli uomini. Quando Renzo torna al
suo paese, devastato dalla peste e dalla calata dei lanzichenecchi, trova la sua vigna distrutta e infestata dalle erbacce: segno
tangibile del disordine morale dei tempi (cap. XXXIII). Invece il paesaggio greve, oppresso dall'afa nella Milano distrutta dalla
peste e l'acquazzone gioioso che toglie il contagio (cap. XXXVI), non soltanto sottolineano un'atmosfera, ma traducono in
termini concreti un diffuso stato d'animo: al languore e alla spossatezza della disperazione si sostituisce una gioiosa speranza,
quasi un senso di purificazione e di rinnovamento.
In alcuni casi, più che di paesaggio si può parlare di ambientazione. Lo notiamo nelle scene di villaggio, nella descrizione
dell'interno delle case, in quel «brulichio» che riempie le strade al crepuscolo e dà la misura della vita, la sera in cui Renzo
organizza il matrimonio a sorpresa (cap. VII). Anche il palazzotto di don Rodrigo, cui si arriva per una stradetta che attraversa il
villaggio dei bravi, pare visualizzare il male come frutto di mediocrità, egoismo, opacità intellettuale, piattezza morale e staticità
spirituale. A guardia della massiccia costruzione stanno due bravi e due carcasse di corvi, mentre le finestre sbarrate, l'urlo dei
mastini all'interno e il vociare dei convitati al banchetto del padrone non sono meno volgari dell'aspetto degli abitanti del
villaggio: « omacci tarchiati e arcigni vecchi che, perdute le zanne, parevan sempre pronti a digrignar le gengive; donne con
certe facce maschie, e con certe braccia nerborute» (cap. V). Non è propriamente una descrizione di paesaggio, ma rimanda
a un ambiente con una precisa connotazione spirituale e, dunque, è coerente col modo in cui il Manzoni intende il paesaggio,
come riflesso e elemento per capire le alterne vicende umane.
- Le tematiche della visione religiosa della vita
Numerose sono le tematiche del romanzo: spicca, in primo piano, il tema del rapporto fra libertà e condizionamento,
in cui si innestano i motivi dell'amore, della prevaricazione, della paura, che concorrono a sviluppare quello unificante del
matrimonio mancato. La libertà è il valore su cui si incardina la morale cristiana, ma viene cancellata da disvalori, primo fra
tutti il conformismo (come quello di don Abbondio e di Gertrude, per i quali si parla giustamente di 'cadute senza riscatto', e
soprattutto di donna Prassede, alla quale Manzoni riserva alla fine una stoccata cattiva: 'Di donna Prassede, detto che è morta,
è detto tutto').
Importante è anche il tema del contrasto fra ideale e reale, ossia fra come dovrebbe essere la società e come, invece,
di fatto è. Ecco, allora, ire i motivi del privilegio che tocca solo a una piccola categoria di persone, dell'ingiustizia che
colpisce tutti coloro che patiscono l'oppressione dei privilegi altrui, della violenza nell'ambito sociale, politico e anche familiare,
della mancanza di moralità che nasce dal mancato rispetto delle più elementari norme evangeliche.
A questo punto il pessimismo di Manzoni, insieme a un certo senso latente e sommesso di condanna si allenta nel tono
bonario dell'ironia, soprattutto nei punti in cui smaschera le piccole astuzie degli umili (che non sortiscono effetto, come il
matrimonio a sorpresa) oppure si colora di amarezza quando denuncia le ipocrisie dei politici come il conte zio o Ferrer e
diviene denuncia aspra quando constata come anche i valori più sacri, quali la paternità, siano inquinati dall'orgoglio, che porta
alla menzogna, alla coercizione (si pensi al padre di Gertrude), allo stravolgimento dei valori della famiglia e della società.
Il tema più significativo, però, quello su cui poggia il messaggio manzoniano, si riferisce alla visione religiosa della vita,
in cui domina il leit-motiv del romanzo, ossia l'opera della Provvidenza di Dio nella storia e nelle umane vicende.
Il pessimismo manzoniano emerge nella constatazione della presenza del male, dell'irrazionalità dell'agire umano, della
forza dirompente degli egoismi in contrasto. Pure la Grazia di Dio non abbandona gli uomini che lo cercano e confidano in Lui.
Per chi ha fede nella Provvidenza il succedersi dei fatti acquista un senso, una logica. Naturalmente Dio non è colui che punisce i
malvagi e premia i buoni, come un giustiziere. Il Suo giudizio e la Sua opera riescono per la maggior parte delle volte insondabili
agli uomini che devono accettare i fatti con umiltà e fiducia.
Sbaglia don Abbondio quando, esultante, definisce la Provvidenza come una «scopa» (cap. XXXVIII) che finalmente ha
fatto piazza pulita di don Rodrigo e dei suoi scagnozzi. È più corretta la riflessione di padre Cristoforo che, di fronte a don
Rodrigo agonizzante e sofferente al lazzaretto, afferma: «Può essere gastigo, può essere misericordia» (cap. XXXV). La peste,
infatti, non deve essere semplicisticamente ridotta a una punizione dei malvagi e la morte di don Rodrigo, tra gli spasimi della
malattia, può essere intesa come l'ultima possibilità offerta a lui dalla Misericordia divina perché si ravveda e salvi la sua anima.
In questo senso, anche se termina con la celebrazione delle nozze, il romanzo di Manzoni non presenta l'idilliaco 'lieto
fine' dei romanzi storici tradizionali. Infatti, a ben vedere, la conclusione della storia si pone al modulo XXXVI, quando padre
Cristoforo scioglie Lucia dal voto che ha fatto la notte trascorsa nel castello dell'innominato, secondo il quale rinuncia alle nozze.
In tal modo la ragazza può seguire la voce del cuore e anche Renzo vede finalmente rimosso l'ultimo ostacolo. I due si
congedano da padre Cristoforo, commossi dalle sue ultime parole, che suonano alle loro orecchie come un testamento spirituale
e che invitano a perdonare «sempre, sempre! tutto, tutto!».
Gli ultimi due moduli, con i preparativi del matrimonio, la celebrazione e la sintetica narrazione degli anni di vita coniugale,
sono un completamento della storia: il momento essenziale, invece, è rappresentato dal ritrovarsi dei due giovani con sentimenti
immutati e una capacità rafforzata di accettare la volontà di Dio nella loro vita.
Il 'lieto fine' dei Promessi Sposi, semmai, non consiste nel rito delle nozze, ma in quella sorta del 'decalogo' con cui
Renzo, ormai marito, padre e imprenditore di successo (ha impiantato, come abbiamo detto, un redditizio filatoio a Bergamo)
attua un bilancio di quei due anni travagliati e avventurosi. Constata che si è fatto una dura esperienza di vita che lo mette in
grado di dare buoni consigli ai li, quando cresceranno. Invece Lucia osserva che, per quanto la riguarda, non si è mai messa
nei guai, ma «son loro che son venuti a cercar me».
Allora, insieme, gli sposi giungono alla conclusione che, di fronte alle tribolazioni, bisogna confidare in Dio e sperare che le
sofferenze migliorino la vita. È un finale senza idillio, come osservano i critici, ma coerente con la tensione religiosa che percorre
tutta la narrazione.
Il tema religioso, insieme con la scelta di porre gli umili («genti meccaniche e di piccolo affare», li definisce l'Anonimo) a
protagonisti della storia, rappresenta sicuramente l'elemento di grande novità del romanzo. Non solo balzano alla ribalta due
contadini, ma anche le ure importanti (un arcivescovo, un potente feudatario, politici ed esponenti delle gerarchie
ecclesiastiche, un avvocato, un podestà, un nobilotto con parenti importanti) sono valutati sulla base della posizione che
assumono nei confronti di quelli. Infine flagelli e pubbliche calamità (come peste, rivolte, guerra e carestia), assumono rilievo
perché creano il contesto in cui si pongono le avventure dei protagonisti. È una scelta rivoluzionaria e un coraggioso
rovesciamento di valori letterari, che il Manzoni attua, convinto e sorretto dal messaggio evangelico. Questo, d'altra parte,
appare diluito tra le ine come il tessuto connettivo della narrazione; affiora spesso ma con discrezione e a volte si incarna in
personaggi 'minori' di notevole interesse. Valga, tra tutti, quella modesta ma splendida ura che è il servitore di don Rodrigo:
e nel V modulo ad accogliere padre Cristoforo in visita al palazzotto di don Rodrigo. L'aiuto che egli dà al frate è
fondamentale anche per lo svolgimento della storia, perché lo informa del progetto di rapire Lucia, in seguito al quale il
cappuccino organizza la fuga dei giovani dal paese e innesca il meccanismo che dà luogo alle vicende della seconda sezione.
Non a caso padre Cristoforo lo definisce «un filo» della Provvidenza.
- La fortuna letteraria del Manzoni
La fortuna del Manzoni nelle ine di critica letteraria comincia già all'epoca della sua giovinezza, quando Vincenzo
Monti e Ugo Foscolo apprezzano il poeta in erba. I Promessi Sposi riscuotono un grande successo e nell'arco di un anno sono
stampate tredici edizioni, alcune delle quali in tedesco, francese, inglese.
Il critico che contribuisce a far conoscere veramente l'opera del Manzoni in Italia è Francesco De Sanctis che dedica
all'autore un intero corso nel 1877. Detrattore del Manzoni è il poeta Giosue Carducci, che lo taccia di conformismo borghese,
mentre il filosofo e critico Benedetto Croce afferma che il romanzo manzoniano non contiene poesia, ma è opera oratoria,
Antonio Gramsci (1891-l937) accusa Manzoni di paternalismo nel suo atteggiamento verso gli umili, nel saggio Letteratura e
vita nazionale (1950), conglobato nei Quaderni dal carcere (1972).
I prosecutori della ricerca di De Sanctis e di Croce sono, a tutt'oggi, gli interpreti più acuti dell'opera manzoniana. Attilio
Momigliano, Luigi Russo e molti altri, cercano di evidenziare, accanto ai vari temi e al significato dei personaggi, l'unità poetica e
il messaggio fondamentalmente umano dell'opera manzoniana. Michele Barbi progetta nel 1939 un'edizione nazionale delle
opere del Manzoni e, negli anni Cinquanta, attua un'edizione critica delle tre redazioni del romanzo, per consentire ai critici utili
esami ativi.
Gli studiosi più recenti (G. Petrocchi, L. Firpo, L. Caretti, G. Vigorelli, D. De Robertis, V. Spinazzola, D. Isella, E.
Raimondi, M. Vitale, M. Corti, U. Eco) si sforzano di illustrare anche i rapporti fra Manzoni e la cultura italiana ed europea del
suo tempo, valutando in quale misura essi siano filtrati attraverso l'opera letteraria.
Natalia Ginzburg, ne La famiglia Manzoni (1983), ha ricostruito, attraverso gli epistolari, il complesso e variegato
'ambiente' manzoniano, costituito dai familiari, dagli amici e dai collaboratori.
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