letteratura |
Manzoni presenta il terzo flagello dopo la carestia e la guerra: la peste. Il suo intento è quello di "far conoscere un tratto di storia patria più famoso che conosciuto", proponendosi come storico: presta infatti grande attenzione alle fonti; aveva però parlato della guerra e della carestia come fatti pubblici che avrebbero meglio chiarito quelli privati.
Manzoni cita l'opera del Ripamonti, il "De peste", come la migliore per qualità, scelta dei fatti e soprattutto modo di osservarli, ma ha esaminato tutte le relazioni stampate (il "Ragguaglio" del Tadino, "La vita di Federigo Borromeo" del Rivola, "La pestilenza seguita in Milano l'anno 1630" del Lampugnano e altre) e più d'una inedita, specie il "De pestilentia" del cardinale Borromeo; inoltre gride, atti del processo degli untori e altri documenti ufficiali.
Vedendo in questi scritti e altre relazioni contemporanee molto disordine nell'esposizione dei fatti, alcune gravi omissioni e contraddizioni, un certo dilettantismo nel continuo andare e venire come alla ventura senza un disegno generale, Manzoni si propone di esaminare e confrontare molto documenti ufficiali, riordinandoli con l'intento di ricavare una storia sincera e continuata, non senza interesse e affetto per la propria città.
Manzoni partecipa ai fatti con commenti ed emozioni, ravvivando il racconto con quadri ora commoventi, ora raccapriccianti. Queste le sequenze dell'avvento della peste in Milano:
20 ottobre 1629: il protofisico Settala, che 53 anni prima è stato testimone di un analogo contagio (la peste di San Carlo), riferisce al tribunale della sanità che ci sarebbe stato un caso di pesta a Chiuso, ma non viene preso nessun provvedimento.
La peste si diffonde a Lecco, Bellano ed in tutto il ducato, ma le indagini non sono né diligenti né serie e ci sono diagnosi errate (rr. 70-75): si dice che la moria è dovuta a disagi e emanazioni delle paludi. Il "contagio" viene eliminato con metodi empirici.
30 ottobre 1629: i morti crescono, però le autorità, ricevute le notizie, richiedono certificati sanitari delle persone dei luoghi infestati; ma la grida viene pubblicata con un mese di ritardo!
14 novembre 1629: Tadino e Settala vanno dal governatore Spinola, che, troppo occupato, non prende provvedimenti.
A Milano pochi si rendono conto della gravità dei fatti, comunque né il Senato né i Decurioni. Chi parla di contagio era deriso e vilipeso, le gride non sono efficaci, e, quando si comincia a farle osservare (specie quelle sulle misure igieniche), è troppo tardi. Secondo Tadino e Ripamonti, la peste è stata introdotta da un soldato italiano che combatteva per la Sna (Pietro Antonio Lovato o Pier Paolo Locati), che aveva comprato o rubato panni a soldati alemanni. Anche i familiari presso cui alloggiava morirono. I medici continuano a negare la peste, malgrado i bubboni.
Il popolo odia chi crede al contagio, non vuole lasciar bruciare gli oggetti contaminati o farsi ricoverare nel lazzaretto. Tardino e Settala sono assaliti da parolacce e sassi, ma Tardino, per non danneggiare il commercio, non dà credenze ai pericoli di peste; Settala, avendo diagnosticato la peste, è minacciato di morte.
Bubboni, febbri, deliri imperversano; si crede, quindi, nell'esistenza di febbri maligne, poi pestilenziali (eufemismi), infine si capisce che c'è la peste vera e propria. Il lazzaretto diviene il ricovero degli ammalati di peste.
In poco tempo, muore gran parte della popolazione, senza distinzione di classe o di ceto, non si può quindi più negare l'esistenza della peste. I governanti, non volendo ammettere il torto di non aver preso provvedimenti in anticipo, inventano la storia degli untori, ati dai Francesi per sgominare gli Snoli anche in territorio italiano. La fantasia popolare si scatena, ed alcuni infelici, scambiati per untori, fanno una fine triste.
Molto, saputo che alcuni guarivano, non credono lo stesso all'esistenza del morbo: allora per la festa di Pentecoste si fa sfilare un carro di cadaveri ignudi.
22 maggio 1630: il Consiglio dei Decurioni ricorre a Spinola per un aiuto e per informare il re, ma si hanno solo vaghe espressioni di cordoglio e si nota disinteresse: la guerra è considerata più importante.
11 giugno 1630: il cardinale cede alle insistenze della popolazione e si fa una processione propiziatoria solenne, col solo risultato di aumentare il contagio.
A luglio ci sono 500 morti al giorno, la popolazione cala del 20%. Si aumentano i funzionari: i monatti per raccogliere i morti, assistere gli infermi, bruciare gli oggetti infetti (inoltre rubano); gli apparitori per precedere i carri e dire alla gente di allontanarsi utilizzando un campanello; i commissari per sovrintendere. Siccome non c'è abbastanza spazio per le sepolture, vengono chiamato 200 contadini dalla camna per scavare tre fosse comuni. Inizia la caccia agli untori.
Manzoni dà la colpa della peste all'incuria degli Snoli e alle autorità mediche. Egli considera il morbo un "caso eccezionale" che pone una comunità di uomini in una situazione fuori dalla norma e ne fa emergere fatalmente i vizi e le virtù, non più occultate od occultabili dalla quotidianità. Esso è un grande bagno purificatore da cui la realtà della vita scaturirà diversa. Inoltre, Manzoni condanna il progressivo accecamento della ragione, dovuto a superstizione ed ignoranza del popolo. Infine, giunge alla conclusione che la storia è "un mistero di contraddizioni, in cui l'ingegno si perde, se non lo si considera come uno stato di prova e di preparazione ad altra esistenza".
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